Emanuela Navone's Blog, page 25
June 29, 2019
Review Party: “La bambina senza cuore” di Emanuela Valentini
Whisperwood, 1890. Un lento corteo funebre accompagna una piccola bara al cimitero. Ma quando la neve inizia a scendere tutti fuggono via e la bara non viene nemmeno seppellita. Perché, a detta di tutti, la piccola defunta era figlia di una strega. Restano solo una donna e una bambina, a cantare per lei. Lola si risveglia nella buca di neve in cui è stata sepolta. Non ricorda nulla della sua morte né della sua vita. Sul suo petto una ferita aperta. Whisperwood, 1990. Una sera Nathan, dopo aver discusso per l’ennesima volta col padre, il sindaco Morris, decide di infrangere il coprifuoco e raggiunge il cimitero proibito. Qui si imbatte in Lola, la pallida bambina che abita nel sepolcreto in rovina insieme a Rufus, un gargoyle che si crede un cane, a Bianco, un imponente angelo di marmo, e a Poeta, l’anima di un uomo d’altri tempi, anch’egli senza memorie del suo passato. Lola è una bambina in carne e ossa, sospesa in un limbo tra la vita e la morte, il cui unico pensiero è scoprire chi sia e che fine abbia fatto la sua mamma. E finalmente, grazie all’aiuto di Nathan, ma anche a quello di Rosie Maud, una vecchietta triste e solitaria, potrà scoprire tutta la verità sul suo passato.
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Al sangue, al respiro. Quando si è vivi la morte non è che un incubo. Fa paura. Non si riesce a comprendere. Dopo morti è lo stesso, in fondo. Con la sola differenza che il pensiero della vita ha un sapore bellissimo.
È complesso riuscire a scrivere un romanzo gotico vincente senza cadere nella banalità di trame già sentite e di una scrittura poco originale.
In effetti è raro che trovi romanzi gotici nel vero senso del termine, mentre frequenti sono i pallidi tentativi di scrivere qualcosa di originale che invece rasentano la banalità.
È stato quindi un vero piacere scoprire questo romanzo e poterlo recensire. La trama, prima di tutto, e pure la copertina, a mio avviso calzata a pennello.
Il romanzo si svolge parallelamente tra il 1890 e il 1990 a Whisperwood, una cittadina circondata dai boschi. Il protagonista, Nathan, figlio del sindaco, è un ragazzo come tanti che, però, una notte farà una scoperta sorprendente: Lola. Una ragazzina che vive nel vecchio cimitero abbandonato sul lago. A stupore si aggiunge costernazione quando apprende che la giovane è non-viva. Non morta ma nemmeno viva: si trova in un limbo, sospesa tra l’al di qua e l’al di là. Ma non c’è solo quel mistero ad aleggiare su Whisperwood: di notte feroci animali attaccano e uccidono i malcapitati che si avventurano fuori casa, e lo stesso William Morris, padre di Nathan, sembra impelagato in una maledizione che dura secoli. E chi è davvero Rosie Maud, una vecchia in apparenza stramba che, da bambina, ha vegliato sulla bara di Lola?
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In quello stesso istante, Nathan seppe cosa fosse un eroe: non una figura epica che correva incontro al suo destino brandendo una spada invincibile, ma un uomo come mille altri, con un grande amore da proteggere.
Oltre all’originalità della trama, ciò che ho apprezzato di più di questo romanzo è stato lo stile molto lirico, poetico, pieno di immagini molto evocative che mi hanno permesso di immergermi appieno in un’atmosfera cupa e gotica.
L’utilizzo di paragoni, metafore e altre figure retoriche è un’arma a doppio taglio, poiché a volte si rischiano immagini pittoresche se non vere e proprie “macchiette” il cui risultato è l’esatto opposto di quello previsto.
Non è il caso di questo romanzo, e l’autrice è riuscita a esprimere attraverso la sua penna tutte le emozioni di ogni personaggio.
L’accenno fiabesco, con statue di pietra che prendono vita, animali di pezza diabolici e donne-corvo mi hanno ricordato molto i film di Tim Burton, mentre l’uso di immagini evocative, pur non dell’orrore, hanno vaghi accenni a Lovecraft.
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“Mi dispiace che tu sia morta. Ti ho vista nella bara. Io e la mamma ti abbiamo accompagnata fin laggiù. Purtroppo non sappiamo dove sia tua madre, in città non si è più vista” disse Maud. “Lola. Il mondo è sbagliato, per quelle come noi.”
“Perché?” chiese Lola. “Cosa siamo, noi?”
La storia è quasi come se fosse metafora dell’umanità egoista e della filosofia orientale che tutto ritorna: le nostre colpe, prima o poi, verranno pagate. Se non da noi, da chi verrà dopo.
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June 25, 2019
La scrittura di getto: perché spesso è utile
La scrittura di getto: perché spesso è utile
In tantissimi criticano la scrittura di getto, ossia l’assenza di una scaletta o di una trama impostata in precedenza.
La considerano deleteria e poco utile all’autore.
Io ero tra quelli, ma mi sono dovuta ricredere.
E ora ti dirò il perché.
[image error] Photo by Plush Design Studio on Unsplash
Sono i personaggi a muovere la storia
Il 29 luglio uscirà il mio racconto “Buia fu la notte” (qui trovi il link al preorder). Si tratta di una storia a tinte horror ma non troppo pesanti o splatter.
Perché ti sto dicendo questo?
Sì, ovvio, per farmi pubblicità, ma lo scopo principale è che ho scritto il racconto mossa solo dall’ispirazione.
Non c’è stata nessuna trama dietro, nessuna pianificazione. Avevo un’idea, e scrivendo questa idea si è evoluta.
E ti dirò di più: sono stati i personaggi a creare la storia, e grazie alle loro azioni la mia penna si muoveva agile sul foglio.
Sì, perché se ci pensi bene sono i personaggi che muovono una storia.
Puoi avere una trama pianificata dietro, con tanto di scaletta, ma ricorda comunque che ogni storia è guidata dai personaggi.
In parole più semplici, i personaggi devono modellarsi alla storia, questo sì, sennò rischieresti di avere un Mario o un Luigi messi lì per caso; ma la storia deve anche modellarsi ai personaggi.
Quello che vale è il contesto, come scrive Stephen King in “On writing”.
Se forzi troppo un personaggio, ossia lo obblighi a compiere azioni sono per rimanere fedele alla tua scaletta, questi risulterà artefatto, viziato, finto, che agisce non per sua volontà ma per volontà di una mano superiore.
Evento che capita purtroppo spesso quando siamo inquadrati in una scaletta precisa e non vogliamo sgarrare. E forziamo i nostri personaggi a compiere azioni che in realtà non farebbero.
Una storia, quindi, può nascere anche seguendo l’evolversi dei personaggi, domandandosi cosa farebbero in una determinata situazione e come reagirebbero a certi eventi. Assecondando i loro gesti, automaticamente la storia si dipana.
[image error] Photo by David Iskander on Unsplash
Togliere le briglie alla creatività
Il bello della scrittura di getto è che la creatività spadroneggia.
Sto scrivendo un fantasy in questo periodo, e, sebbene abbia un’idea della trama da A a B e a C, lascio che sia l’immaginazione a condurmi in quanto sta in mezzo.
E mentre scrivo una scena, automaticamente mi si aprono più strade per approdare alla successiva, e così via.
Questo succede quando lasci che sia la creatività a guidarti, e cosa c’è di più bello di quando, mentre scrivi, ti balzi in mente la scena successiva? Non una qualsiasi, ma quella giusta.
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C’è però un limite
Sì, purtroppo come per ogni cosa c’è un limite.
Puoi scrivere di getto qualsiasi cosa, anche un romanzo di seicento pagine, e bada bene che può succedere!, però devi sapere con precisione quando è il momento di fermarti e iniziare a pianificare.
Quando lavoravo al mio thriller “Io sono l’usignolo”, l’avevo ripreso in mano dopo anni, subito ho iniziato con qualche idea e mi sono lasciata condurre dall’immaginazione.
Purtroppo ben presto mi sono accorta di girare in tondo, e di aver scritto pagine e pagine di niente. Ho cestinato tutto e iniziato a stendere una scaletta.
Idem per un altro racconto, al momento “in sospeso”, in cui ho scritto di getto fino al punto in cui non sapevo più come andare avanti, trovandomi dinnanzi una situazione che richiedeva più che sola creatività.
Posso quindi dirti che scrivere di getto è bellissimo, ma non funziona sempre.
Dipende ad esempio dal tipo di romanzo o racconto, dal genere o anche dalla trama (se complessa o no).
Una storia con tanti personaggi ha bisogno di pianificazione, sennò rischi di perderne qualcuno per strada, o di averne troppi che compiono azioni del tutto slegate dal contesto e dall’idea principale del romanzo.
Alcuni generi, poi, prediligono la pianificazione, come i gialli, dove è sempre bene avere ogni punto chiaro in mente; o gli storici, laddove la ricerca è fondamentale.
Cerca sempre quindi di bilanciare creatività con pianificazione: entrambe queste “tecniche” sono utili e portano a storie ben scritte.
Scrivere di getto, quindi, non è così controindicato come tanti dicono: bisogna semplicemente trovare un punto di equilibrio tra la storia e la creatività che, quando la lasci libera, cercherà di trascinarti in ogni dove.
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June 23, 2019
Perché le case editrici non promuovono un autore
Perché le case editrici non promuovono un autore
Il problema fondamentale di ogni autore è la promozione.
Problema maggiore quando si è autopubblicati...
… ma anche quando si ha dietro una casa editrice.
[image error]Image by klimkin from Pixabay
Perché un editore non ti promuove?
Spero non ti sia capitato, ma se ti è capitato, allora benvenuto in un club molto ampio, chiamato degli Incompresi.
Ne fanno parte tutti gli autori che, seppur avendo dietro una casa editrice, non ricevono alcun sostegno nella promozione.
Attenzione! In questo articolo non parlo di case editrici a pagamento, perché è quasi sempre scontato che queste, oltre a non promuovere, a volte non pubblichino nemmeno.
Ogni autore che fa parte di questo triste club ha un’unica domanda: “Perché?”
Perché non mi promuove? Forse non crede in me? Ma allora perché ha pubblicato il mio libro? Ne va anche a lui se vendo!
In effetti è strano: se un editore decide di puntare su un autore, e quindi ci spende tempo dietro, tra correzione e pubblicazione, perché non promuoverlo? È controproducente anche per lui, visto che se l’autore vende, guadagnano entrambi.
Ci sono diverse situazioni, a dir la verità.
E proprio di queste ti parlerò in questo articolo.
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L’editore chissenefrega
Tanti editori, pur essendo rigorosamente free, se ne infischiano dell’autore.
Sembra strano e paradossale, ma fidati che ce ne sono, e nemmeno pochi.
Paradossale perché, come scrivevo prima, non ha senso investire in un autore e poi non promuoverlo: se non vende, non guadagna nessuno dei due.
L’editore chissenefrega, però, non è che investa molto nell’autore: a volte si limita a piazzare il libro online come una qualsiasi piattaforma print-on-demand, senza peraltro averlo corretto e rivisto.
Non so dirti perché faccia così, ma la spiegazione più semplice è che lasci che sia l’autore a promuoversi, così quest’ultimo si fa il mazzo e lui se ne sta in panciolle in casa.
A volte, infatti, pubblica autori già con un discreto seguito, anche se non famosissimi, così da non avere l'”onere” di sbattersi nella promozione.
[image error]Image by Thought Catalog from Pixabay
L’editore mignon
Queste sono case editrici davvero piccole, e proprio per questo spesso non hanno né i mezzi né la “forza”, ossia gli agganci giusti, di promuovere un autore.
Fare promozione costa: sia in termini di soldi (pagare un’inserzione, un ufficio stampa o anche solo qualcuno preposto a questo lavoro), sia in termini di tempo (contattare giornalisti, blogger, opinion leader, scrivere i comunicati stampa, gestire una fan page…).
Un editore piccolino difficilmente ha i soldi per stare dietro a tutto ciò, e talvolta in redazione ci sono sì e no due o tre persone, che come factotum si sbracciano da una parte all’altra.
Possibile allora che qualcosa vada storto, o che un lavoro non venga fatto come dovrebbe (che sia la revisione o la pubblicazione, ma anche la promozione).
Spesso questi editori mignon puntano, tra i vari autori, su uno o due più “meritevoli” (uso le virgolette perché è un termine che non userei troppo in editoria), lasciando gli altri in balia di se stessi.
[image error] Photo by chuttersnap on Unsplash
L’editore big
Ebbene sì: ti stupirà quanto sto per dirti, ma anche un grande editore a volte non promuove i propri autori.
O, perlomeno, non tutti.
Non mi piace fare nomi, però so di autori pubblicati da case editrici abbastanza importanti, che però sono stati completamente lasciati a se stessi.
Non c’è quindi tanta differenza essere pubblicati da un editore machissenefrega, un mignon o un big: talvolta succede che nessuno di questi tre promuova l’autore.
Ti puoi domandare, però, perché un editore big, che dovrebbe avere forza e mezzi per promuovere ogni autore, non lo faccia.
In queste case editrici di certo non ci sono solo tre persone che fanno un po’ di tutto, ma uffici preposti ognuno a una mansione: editing, valutazione manoscritti, pubblicazione, parte logistica e parte burocratica, e anche promozione.
Quindi è logico ipotizzare che ci sia qualcuno che promuova, non dico un singolo autore, ma almeno due o tre, così che ogni libro venga pubblicizzato adeguatamente.
Purtroppo anche in questo caso capita che un editore big punti solamente su autori “meritevoli” o già conosciuti.
Quindi non è detto che se una casa editrice importante decida di pubblicare il tuo libro lo promuoverà anche bene: puoi avere sì il prestigio di un nome conosciuto, ma per quanto riguarda la promozione resti sempre al palo.
[image error] Photo by Dona on Unsplash
Che fare, quindi?
Purtroppo spesso capita di scoprire sulla propria pelle la poca serietà di un editore o la scarsa importanza in editoria, che presuppone anche minore forza promozionale.
Se però sei ancora alla ricerca di editore, il consiglio che posso darti è di informarti bene prima, così da non avere brutte esperienze dopo.
Stilla una lista di casa editrici che avrai sicuramente scelto e informati su tutti i punti importanti: editing, distribuzione, promozione e contratto.
Per ognuno di questi punti prendi più informazioni possibili, anche ascoltando le esperienze di chi ha già pubblicato con questi editori.
Il sito Writer’s Dream è molto utile: nel forum ci sono tantissime case editrici con le esperienze e i consigli di chi ha pubblicato con loro.
Se un editore importante ti piace, ma trovi tutte esperienze negative, forse è meglio guardare altrove. Mentre può capitare che editori piccoli, e che nessuno fila, magari siano ben strutturati e che seguano il tuo libro dall’inizio alla fine.
Certo, ogni esperienza è soggettiva, e magari uno parla male di un editore perché ha un’antipatia personale, chissà?, però ascoltare chi ha già pubblicato è sempre molto utile.
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June 18, 2019
Aggettivi e avverbi: sì o no? Una riflessione
Aggettivi e avverbi: sì o no? Una riflessione
Su avverbi e aggettivi ne sentiamo di tutti i colori.
Addirittura c’è chi compie delle vere e proprie crociate per sterminarli.
Altri non ne potrebbero fare a meno.
Sì o no, quindi? Sono troppo pesanti? Servono? Inutili?
Ecco una mia riflessione a proposito.
[image error]Foto di Fathromi Ramdlon da Pixabay
Aggettivi e avverbi
Nell’ormai classico “On writing”, Stephen King afferma più volte di disprezzare gli avverbi, anche se ammette di farne talvolta uso (o abuso, secondo lui).
Discorso simile può essere fatto per gli aggettivi: in alcuni corsi di scrittura insegnano a evitarli peggio che la peste, perché sinonimo di una scrittura raccontata anziché mostrata.
In effetti, il comune sentore è che un largo uso di aggettivi e avverbi sia sinonimo di una scrittura sciatta e svogliata, dettata anche da una scarsa fantasia da parte dell’autore, che invece di impegnarsi a mostrare perché Mario è arrabbiato, si limita a scrivere “parlò rabbiosamente”, o “Mario è arrabbiato”.
Ma come sempre io devo cercare il pelo nell’uomo, e ogni tanto dire qualcosa di diverso dalla massa; così oggi mi sono presa qualche minuto per riflettere sull’effettiva importanza di aggettivi e avverbi.
A ben pensarci, talvolta servono. Da qui non scappiamo. E se fanno della scrittura qualcosa di troppo raccontato e non mostrato, questo non è per forza di cose un male.
Vediamo il perché.
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Un esempio di raccontato… azzeccato
Amante del romanzo gotico e dell’orrore, non potevo non leggere Lovecraft, e ti dirò di più: è ormai, da anni, sul podio dei miei autori preferiti.
Lovecraft scriveva quando ancora la scrittura era più di stampo raccontato che mostrato, prediligendo talvolta tortuosi salamelecchi e descrizioni arzigogolate a una scena secca e pulita. Se dovesse scrivere ai nostri tempi, dove la velocità comanda e il mostrato “vende” meglio, non so come farebbe; magari ci proverebbe, magari si dedicherebbe all’orto, chissà.
La questione importante è che se i racconti di Lovecraft fossero stati scritti con una tecnica più mostrata, non avrebbero a mio avviso avuto l’impatto… be’, che hanno avuto.
Ma prendiamo un esempio. È tratto dal racconto “L’estraneo”, per me uno dei più belli di Lovecraft.
Non so dove sono nato: so soltanto che il castello era infinitamente antico e infinitamente orribile, pieno di corridoi oscuri e di alti soffitti ove l’occhio null’altro incontrava che ombre e ragnatele. Le pietre dei corridoi in sfacelo parevano sempre odiosamente viscide, e ovunque stagnava un lezzo spregevole, come di cadaveri ammucchiati nell’avvicendarsi delle morte generazioni.
Adesso armiamoci di penna rossa e togliamo, in modo indiscriminato, ogni avverbio e aggettivo.
Non so dove sono nato: so soltanto che il castello era antico e orribile, pieno di corridoi e di soffitti ove l’occhio null’altro incontrava che ombre e ragnatele. Le pietre dei corridoi parevano sempre viscide, e ovunque stagnava un lezzo , come di cadaveri ammucchiati nell’avvicendarsi delle generazioni.
Tutto un altro effetto, vero?
Non so te, ma ogni avverbio e ogni aggettivo tolti sviliscono il testo, anziché renderlo più fluido. Be’, scorrevole lo sarà sicuramente di più, ma a me quell’avverbio ripetuto, infinitamente, mi dà proprio l’idea di qualcosa di antico e orribile all’esasperazione; quelle pietre non sono viscide ma sono odiosamente viscide, quindi che provocano ancora più repulsione; il lezzo non è solo una puzza, ma è anche spregevole, come se avesse vita propria; i corridoi sono oscuri e in sfacelo, e i soffitti alti… in questi ultimi tre esempi gli aggettivi sono necessari: un corridoio oscuro e in sfacelo non è la stessa cosa di un corridoio ben tenuto, e un soffitto alto non è la stessa cosa di uno basso.
In questo passaggio, eliminare arbitrariamente avverbi e aggettivi ridurrebbe l’impatto che l’autore ha voluto dare al castello: qualcosa di repellente, antico e malsano.
Altro esempio, sempre dal medesimo racconto. È l’incipit.
Infelice chi dell’infanzia ha soltanto memorie di paura e tristezza. Sventurato chi, volgendosi indietro, non vede che ore solitarie trascorse in sale vaste e malinconiche, tappezzate di lugubri tendaggi e file esasperanti di libri antichi, o in desolate veglie in boschi crepuscolari fitti di immensi alberi grotteschi coperti da erbe, che agitano silenziosi in alto i rami contorti.
Anche in questo caso, prova a eliminare i numerosi aggettivi: la lettura è più veloce, ma perde quel pathos e quell’ambientazione lugubre e sulle soglie dell’abisso tipica di ogni storia di Lovecraft.
Le sale sono vaste e malinconiche, i tendaggi lugubri, i libri antichi e disposti in file esasperanti… e i boschi sono crepuscolari con alberi fitti, immensi e grotteschi, i cui rami contorti si agitano silenziosi in alto.
Queste descrizioni esprimono tutta l’angoscia che prova l’io narrante, e forse anche l’autore, e riescono a trasmetterla anche al lettore.
Ancora una volta, la scena sarebbe diversa se togliessimo gli aggettivi, diventerebbe come… sterile.
[image error]Foto di 5598375 da Pixabay
Saper dosare
Ho davvero usato un esempio minimo e magari anche banale, ma mi è servito per farti capire come talvolta un uso vasto di aggettivi e avverbi non danneggia la tua scrittura; anzi, la migliora.
Bisogna, comunque, saper dosare: ogni aggettivo e avverbio deve servire a uno scopo, come succede nei racconti di Lovecraft, e non messo lì tanto per allungare la frase… o davvero perché sei uno scrittore svogliato.
Non penso Lovecraft lo fosse; anzi, proprio no, ma deve aver ritenuto che le descrizioni ricche di aggettivi e avverbi fossero le sole calzanti per la sua scrittura. E in effetti se riscrivessimo i passaggi di poco sopra con un maggiore mostrato rischieremmo di stravolgerne il significato.
L’uso di aggettivi e avverbi dipende anche tanto dal tipo di scrittura, di storia e dalla narrazione.
Se ad esempio stai scrivendo un romanzo avventuroso, pieno di scene d’azione, è meglio un mostrato perché aggettivi e avverbi rallenterebbero la scrittura.
Se ti stai cimentando in un fantasy, un uso più frequente di aggettivi e avverbi potrebbe aiutarti nella descrizione dei tuoi luoghi immaginati.
Per spezzare comunque una lancia a favore dei crociati contro aggettivi e avverbi, posso dirti che no, non metterli nei dialoghi (disse amaramente, urlò furioso, sussurrò affranto, chiese apertamente): qui davvero danno fastidio e indicano una scrittura sciatta e pigra.
In tutti gli altri casi, se ritieni che un avverbio o un aggettivo sia quello giusto e che in altre maniere non potresti esprimere quello che hai dentro… ebbene, mettilo.
Meglio un periodo ricco di avverbi che lo ingentiliscono che qualcosa di contorto che non sei riuscito a spiegare bene perché volevi a tutti i costi evitarli.
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June 17, 2019
ANTEPRIMA: “L’estate interrotta” di Cosimo Mirigliano
In anteprima assoluta un estratto del nuovo romanzo di Cosimo Mirigliano, “L’estate interrotta”, in uscita il 21 giugno.
“Una lacrima si poggiò sulla guancia di Carlotta, come quando una goccia di rugiada scivola da un petalo di rosa fin sulla foglia sottostante. Sembrava la stessa che la prima notte aveva dato inizio a tutta quella storia.”
Un cenno fortuito, un’occhiata furtiva, un luccicone fulgido può essere un indizio univoco per l’avvio di un rapporto di ostilità, amore, amicizia. Un viaggio, invece, può essere arginato o portare a una sequenza di fatti: Gabriel, Carlotta e Samuel attraverseranno l’aeroporto di Orio al Serio, in fila indiana, per conquistare l’avventura che cambierà definitivamente il corso dei loro vent’anni. Fronteggeranno quello che solo una città come Londra potrà elargire o tendenzialmente estromettere. Una voglia smodata di mettersi alla prova garantirà loro un’esperienza che nessuno aveva messo in conto prima di calpestare il suolo inglese; e solo quando vivranno la medesima quotidianità capiranno dove e come hanno preso un abbaglio. Equivoci e inesattezze che ognuno di noi potrebbe commettere. Il romanzo vuole narrare le loro vicissitudini, mettendoli a confronto e in tre dissimili relazioni: Gabriel e Carlotta fidanzati dal primo anno di liceo, Carlotta e Samuel compagni di scuola, sempre dal primo anno di liceo, Samuel e Gabriel migliori amici sin dalle elementari. Siamo sicuri che tutti e tre esprimeranno nell’altro la sincerità di un rapporto oramai consolidato? O Londra li cambierà così tanto che nemmeno a loro stessi lo confesseranno? Diretto come una palla di cannone, fumante come una freccia ad arco, raggiungeremo l’epilogo chiedendoci come mai sia andata a finire proprio così.
Luglio 2016
«Mamma, posso portare con me le monetine?»
«Amore, a Londra non va bene l’euro, lì c’è solo la moneta locale, che è la sterlina. Puoi portarle, ma non ci puoi comprare niente.»
«Grazie, mami, allora le lascio qua.»
Carlotta recupera il piccolo Samuel e la borsa sul tavolo; una volta chiusa la porta d’ingresso raggiunge Gabriel, che si trova già alla guida dell’auto.
Prima di prendere l’autostrada in direzione di Milano, i tre passano dal lungomare di Napoli per dare l’ennesimo saluto alla città. I nonni del piccolo li stanno aspettando nel capoluogo lombardo per quella che sarà una sosta di due giorni, per poi proseguire verso la capitale inglese.
Dieci anni prima, Carlotta e Gabriel sono stati in Inghilterra, ma in aereo. Quando hanno deciso di rifare quel viaggio in macchina è stato solo perché volevano arrivarci con calma, assorbendo chilometro dopo chilometro l’idea di ritornare in quella città.
Dopo la sosta a Milano, si immettono nuovamente in macchina e proseguono costanti alla velocità massima consentita dal codice stradale.
Dopo tutti quei lunghi anni, Carlotta e Gabriel stanno per tornare a Londra, mentre per il piccolo Samuel sarà la prima volta. Una decisione, quella di andare nuovamente nella capitale inglese, costata loro anni e anni di dispute e incertezze. Anni in cui Carlotta ha cercato di esortare Gabriel a farlo, e in cui ripetutamente lui si è ricusato. Fino a circa cinque anni prima. Solo che, il giorno della partenza, è stata lei a cambiare idea.
«Gabri, la scelta di partire nel cuore della notte è stata una grande mossa. Guarda, per strada non c’è praticamente nessuno. Poi ti immagini viaggiare di giorno con questo caldo?»
«Sì, amore, lo so. Il tuo Gabri ha sempre delle buone idee. A proposito, hai controllato la camera prima di uscire? Non vorrei mai che succedesse come quella volta che siamo andati alla Reggia di Caserta. Che testa che hai.»
«Dai, scemo, smettila di prendere in giro la mia sbadataggine! Ti ricordi invece com’ero al liceo? Non mi sfuggiva niente.»
«Sì, ricordo bene tutto.»
Dopo cinque ore circa, fanno una piccola tappa per il rifornimento e il piccolo Samuel ne approfitta per andare a fare pipì. Si sente un ometto, oramai, ragion per cui appena il padre si propone di accompagnarlo lui si rifiuta categoricamente. Intanto Carlotta entra nel bar e recupera delle bottiglie di acqua fresca e un paio di brik di succhi di frutta per il piccolo. Una volta fatto il pieno, riprendono i loro posti e continuano spediti il viaggio.
Dopo un centinaio di chilometri cala il silenzio, quando alla radio viene trasmessa una hit del 2006, “You’re Beautiful”, di James Blunt. All’epoca era la canzone prediletta da Carlotta, ma in Gabriel provoca molesti turbamenti.
«Papi, cos’hai? Quando la mamma ascolta questa canzone hai sempre quel musone da papà triste.»
«Ehi, piccolo, non ti sfugge nulla, eh? Non è niente. È solo che questa canzone mi ricorda una persona che non c’è più.»
«Che vuol dire, che non c’è più? Che è andato via da Napoli?»
«Più o meno. Ma un giorno papà o mamma ti spiegheranno meglio dov’è andata questa persona.»
Il piccolo Samuel, per via della monotonia del percorso, inizia a trastullarsi con un gioco che gli è stato regalato dal nonno, ma appena il sole inizia a picchiare sul suo finestrino si abbandona a un sonno profondo.
I genitori continuano il viaggio con una rara commozione: Carlotta contempla il paesaggio con la consapevolezza che sta per ritrovare se stessa; Gabriel, invece, attende il momento in cui il passato gli ripiomberà addosso.
«Amore, sei sicura di quello che stiamo facendo? Perché lo dobbiamo fare? Siamo già abbastanza felici così.»
«Gabri, ne abbiamo parlato centinaia di volte. Sai come la penso, no? Questo non c’entra con noi due. Ti amo e questo dovrebbe bastarti. Si tratta del piccolo Samuel. È una promessa che feci a me stessa tanto tempo fa.»
«Sì, hai ragione, scusami. È solo che non vorrei vederti star male nuovamente.»
«Non succederà, tranquillo. Con questa cosa oramai ci convivo, e ho imparato molto bene a gestirla.»
Finalmente, intorno alle cinque del pomeriggio del giorno dopo, i primi grattacieli sbucano da dietro alcuni edifici in stile vittoriano. Da quello che possono constatare con i loro occhi, la capitale inglese si è conformata del tutto ai modelli urbani delle altre capitali mondiali, ma l’entità dell’espressione anglosassone si è trattenuta in ogni fabbricato.
Il piccolo Samuel, con la manina appoggiata sul vetro, guarda tutto con estrema curiosità. Scorrono davanti a lui decine di autobus rosso fuoco e migliaia di persone. Il tutto con una tale velocità da ricordargli uno dei suoi innumerevoli videogiochi.
Dopo qualche minuto, la madre apre lo sportello per farlo scendere dalla macchina. Con attenzione esagerata lo tira a sé, appena vede un autobus venire nella loro direzione.
«Sami, ti ho sempre detto di non staccarti da me quando siamo per strada.»
«Mamma, aspetta un attimo, mi si è impigliata la cintura dei pantaloni allo sportello.»
Una volta preso in braccio il piccolo Samuel, Gabriel recupera la mano di Carlotta e attraversa la strada.
Qualche minuto di attesa, dopodiché entrano in un grande giardino. Tutta la zona prende il nome da questo parco – Finsbury Park – e si trova nei pressi dell’omonima stazione della metropolitana.
Appena raggiunto un punto ben preciso, Gabriel si stacca da loro e si allontana, mentre Carlotta recupera il piccolo e prosegue per una stradina sterrata e isolata per poi sedersi su una panchina solitaria dove si mette il figlio sulle ginocchia.
«Mami, perché papà è andato via? E perché noi ci siamo seduti su questa panchina lontana dalle altre persone?»
«Perché aveva bisogno di fare una commissione e noi abbiamo bisogno di non essere disturbati.»
«Ma ci raggiunge presto, vero? Non voglio stare senza di lui.»
«Sami, papà ci raggiungerà molto presto, non aver paura. Sei stanco? Appoggiati a me e rilassati. Adesso la mamma ti deve raccontare una storia. Ti deve parlare di questo luogo e del motivo per cui siamo qui.»
Luglio 2006
Samuel decise di arrivare un po’ prima all’appuntamento e di aspettare gli altri seduto su uno stallo a ridosso della fermata dello shuttle bus. Nonostante progettasse quel viaggio da anni, lasciare la sua casa e di conseguenza le sue abitudini era stata un’esperienza sconvolgente oltre tutte le aspettative.
Qualche ora prima, mentre preparava le borse, scrutava con la coda dell’occhio il viavai dei genitori e di Virginia, la sorella più piccola, di soli otto anni: la mia brontolona, così la chiamava Samuel. Dentro di sé stava provando strane emozioni discordanti: disorientato dal silenzio della madre e del padre e rasserenato dai continui interventi della sorellina.
Una volta preparato il tutto, prima di chiudersi la porta alle spalle, aveva dato un ultimo sguardo all’interno della sua stanza, come se dovesse rubare un ultimo scatto panoramico: tutto era lì, chiuso in quel contenitore di calce e cemento. Tutte quelle suppellettili lo avrebbero aspettato al loro posto e ognuno di esse, raccogliendo polvere, avrebbe disegnato ovunque delle sagome.
Aveva fatto in tempo a scendere le scale che si era trovato davanti le facce macilente dei genitori, irrigidite dall’angustia. Virginia, invece, gli aveva agguantato la mano e lo aveva guidato fuori, lasciandolo andare oltre il cancello sulla strada dritta e in discesa. Lo aveva esaminato mentre si dissolveva, prima le gambe, poi la schiena, infine la testa.
«Samuel, ci sei? Ti sto chiamando da quando mio padre mi ha lasciata alla stazione.»
«Ciao, Carlotta. Scusami, ma stavo facendo un riepilogo mentale delle cose che devo portarmi a Londra.»
«Dai, non fa niente. Hai sentito Gabriel?»
«Gabriel? Perché lo avrei dovuto sentire io?»
«Boh, che ne so, era per chiedere. Ma sei sempre il solito scorbutico?»
«Dai, Carlotta, lo sai qual è il punto, no? Questo viaggio lo avevo organizzato per me e Gabriel. Non è mica colpa mia se poi le tue amiche ti hanno dato buca e ti sei accollata a noi.»
«Okay, come vuoi, ti chiedo solo di non farmelo pesare. Appena arriva Gabriel cerchiamo di trattarci in modo più gentile, te lo chiedo come favore personale.»
«Non c’è problema, tu però non ci stare addosso.»
Una manciata di secondi più tardi, Gabriel sbucò da dietro un muro, come un campione di nuoto quando esce dall’acqua.
«Ciao, ragazzi, siete pronti per questa nuova avventura? Io non ho dormito per l’eccitazione.»
Dopo aver risposto all’unanimità che non vedevano l’ora di fare quel viaggio assieme, si caricarono addosso i bagagli e si precipitarono al bus, che aveva aperto le porte già da qualche minuto.
«Tre biglietti andata e ritorno?»
«Solo andata, per favore.»
Samuel rispose in quel modo, ma fondamentalmente non era preparato per una domanda del genere. Sapeva che sarebbe rientrato a Milano, ma non quando. E l’incognita valeva anche per i suoi compagni.
Il bus si era già riempito, cosicché Gabriel e Carlotta presero un posto doppio tra i primi disponibili, mentre Samuel si accontentò di un sedile poco distante da loro, accanto a uno straniero così alto che i piedi si potevano intravedere dal sedile davanti. Il tipo aveva voglia di chiacchierare, ma lui bloccò sul nascere la conversazione mettendosi le cuffie alle orecchie.
Samuel rifletté su quanto potesse essere strana la vita e su come mettesse in relazione persone apparentemente diverse da tutti i punti di vista. Gabriel era il suo migliore amico, quello con cui era cresciuto e con il quale aveva condiviso la stragrande maggioranza del suo tempo libero. Nati nello stesso anno, per strani motivi non erano riusciti mai a frequentare la medesima classe. Alle elementari erano stati divisi al secondo giorno di scuola: la classe era talmente numerosa che avevano dovuto spezzarla creando altre due prime. E loro erano stati separati per via dell’iniziale del cognome. Alle medie, invece, lo avevano deciso le rispettive madri, perché una non gradiva l’insegnante di matematica mentre l’altra ne era entusiasta. Arrivati alle superiori, avevano deciso di non ascoltare nessuno e di scegliere lo stesso liceo linguistico. Tuttavia, l’estate appena precedente all’inizio dell’anno scolastico, Gabriel e Samuel avevano avuto un’inconsueta briga per colpa di una festa di compleanno. E questo episodio li aveva portati a frequentare la stessa scuola, ma il primo nella sezione sperimentale, l’altro in quella normale. E fu così che, anno dopo anno, scuola dopo scuola, si erano infine ritrovati entrambi su quell’autobus. Quello era il loro primo viaggio insieme, la prima esperienza da condividere.
Dal suo sedile, mentre si abbandonava al suono delle cuffie, Samuel scrutava gli altri due. E a ogni risata di Carlotta il suo viso si contorceva in una strana smorfia.
«Ma come si fa a essere così scemi…?»
«Scusa, mi hai detto qualcosa?» gli chiese lo straniero seduto accanto.
«Scusa tu, stavo solo cantando ad alta voce.»
Invece Samuel stava riflettendo sull’alta percentuale di avversione che gli arrecava l’esistenza di Carlotta, seduta accanto al suo migliore amico in un evento importante quale il viaggio a Londra. La ragazza ne era cosciente, sapeva che si trattava del loro premio per la maturità, ma aveva deciso lo stesso di interporsi.
Era stato lui stesso, anni addietro, a presentare Carlotta a Gabriel, proprio il primo giorno di liceo. Quando Samuel l’aveva vista seduta al primo banco, aveva pensato da subito che gli sarebbe piaciuta e che sicuramente sarebbero diventati ottimi amici. Ma mai, proprio mai, avrebbe immaginato che il tempo avrebbe tanto allontanato Carlotta da lui quanto avvicinata a Gabriel.
E mentre i suoi pensieri ballerini andavano da un episodio all’altro, Samuel si addormentò. Qualche minuto più tardi, venne però svegliato dal vicino con una gomitata nel fianco che lo fece balzare su come una molla.
«Amico, sveglia, siamo arrivati all’aeroporto con dieci minuti di anticipo.»
«Amico caro, adesso credo di averlo capito anche io. Per poco non mi facevi prendere il volo direttamente da qui…»
L’aeroporto internazionale di Orio al Serio era davanti ai loro sguardi entusiasti. Quel grosso elemento orizzontale con le vetrate verticali sembrava quasi non volerli accogliere. Il riflesso sulla superficie segnava un confine nitido tra il presente e il futuro che li attendeva.
Presero tutto quello che avevano con loro e si diressero verso uno spazio appartato dove potersi sistemare e organizzare. Ovviamente, un posto tranquillo in un luogo come un aeroporto è praticamente impossibile da trovare, cosicché si sedettero sulle poltrone di un fast-food. La prima ad andare in bagno fu Carlotta, a rotazione Gabriel e per finire Samuel, che tornò con un panino e una bibita.
«La ragazza alla cassa mi ha detto che se fossi stato accompagnato da una fidanzata, avrei avuto un pasto gratuito. Quindi, ragazzi, è il vostro turno: uno di voi due può mangiare gratis.»
Gabriel e Carlotta si issarono dalle rispettive poltrone e, dopo essersi presi per mano, scimmiottarono Samuel nella scelta del sandwich.
Ogni tanto la voce all’altoparlante forniva avvisi che a loro destavano poco interesse, ma quando comunicò un ritardo sul loro volo, l’attenzione venne completamente dissuasa da quello che stavano facendo. Gabriel e Samuel rimasero seduti a controllare i bagagli, mentre Carlotta si recava al punto informazioni della loro compagnia aerea per avere qualche delucidazione in più.
Samuel ne approfittò per chiarire la situazione che si era creata per colpa della presenza di Carlotta, e Gabriel cercò di rassicurarlo.
«Gabri, lo sai che non mi piace mettermi tra te e la tua ragazza, ma per piacere, evitami nervosismi inutili per via del suo carattere. È risaputo da tutti che non ci sopportiamo, e il solo pensiero di trascorrere molto tempo in sua compagnia mi mette di cattivo umore.»
«Te l’ho anche ripetuto ieri al telefono. Devi stare più tranquillo e fare finta che non esista. Per tutto ciò di cui lei ha bisogno me la vedo io.»
Intanto Carlotta era in fila e si mangiucchiava pensosamente il pollice della mano destra. Mancavano tre persone, dopodiché sarebbe toccato a lei chiedere tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Nonostante l’aria condizionata, che in teoria doveva essere accesa, faceva un caldo irragionevole, e i trentaquattro gradi esterni sembravano penetrati all’interno come attirati dal viavai dei passeggeri. Qualcuno aveva tolto il giacchetto estivo, qualcun altro rimaneva in canottiera; altri, invece, si sdraiavano direttamente per terra per provare sollievo al contatto con il perlato di Sicilia quasi bianco. Lei osservava quell’andirivieni come se avesse un otto millimetri e stesse montando le immagini di un film. Si tolse la maglia rossa che teneva attaccata alla vita e tirò su i capelli per non farli appoggiare sul collo oramai madido di sudore. E quando arrivò il suo turno, decise di affrontare il colloquio con la hostess chiedendole dapprincipio il motivo di tale caldo all’interno dell’aeroporto.
La portentosa bionda e incappellata, che secondo la targhetta si chiamava Jennifer, rispose che il caldo non era solo uno dei motivi per cui i voli erano stati cancellati per tutte le destinazioni.
«Lei mi sta dicendo che tutti questi passeggeri, compresa la sottoscritta, il mio ragazzo e il suo amico, dovranno stare in questa specie di pompa di calore fino a che non verrà comunicato altro?»
«Come le ho già spiegato, signorina, il blocco dei voli non è solo dovuto alla rottura degli impianti di refrigerazione presente in aeroporto, ma anche a un guasto alla rete di comunicazione. Non riusciamo a trasmettere con le altre torri di controllo, per cui è impossibile farvi partire. Si metta seduta, a breve comunicheremo il da farsi.»
Carlotta recuperò la maglia rossa caduta in terra e si incamminò verso i compagni di viaggio.
Da lontano, Samuel la stava scrutando. Aveva notato in lei un piglio diverso, quello che di solito aveva a scuola quando veniva colta impreparata all’interrogazione di matematica. Con quello stesso lazzo, la ragazza si avvicinò ai due e raccontò cosa le era stato riferito pochi minuti prima. I tre decisero così di rimettersi seduti, e per ammazzare il tempo guardarono alcune foto sui rispettivi cellulari. Samuel no. Lui stava chiacchierando via messaggio con il suo futuro padrone di casa, direttamente dalla capitale inglese. Gli stava spiegando l’accaduto e dicendo che forse quella sera non sarebbero potuti partire. In quel preciso momento contemplò l’aspetto sereno di Gabriel e disse a se stesso che avrebbe dovuto trovare una maniera per farsi passare l’antipatia nei confronti di Carlotta; non tanto per lei, quanto per l’amico, perché teneva troppo al rapporto con lui.
Il tempo continuava a scorrere lento, monotono, e a turno i tre si dirigevano verso il centro accoglienza per capire esattamente quello che stava succedendo. Gabriel era tornato da una telefonata con la madre in cui la stessa aveva riferito di non aver sentito nessuna notizia, né in TV né in radio. Nemmeno da internet trapelava qualcosa.
La loro ansia per via della mancanza di notizie era inversamente proporzionale al menefreghismo di tutte le migliaia di passeggeri presenti all’interno dell’aeroporto. Le persone sembravano narcotizzate, pochi chiedevano chiarimenti e molti continuavano a fare le solite fesserie che si fanno quando si è in attesa di una partenza.
Fu così che Samuel rimase fermo al tavolo mentre gli altri due decisero di fare due passi per sgranchirsi le gambe e cercare di intercettare qualche nuovo ragguaglio.
«Ci vediamo dopo qui» disse. «Vi aspetto e intanto faccio delle ricerche e cerco di sentire se a casa hanno qualche notizia.»
«Va bene, ma non esitare a chiamarci se dovessi sapere altro.»
Si lasciarono Samuel alle spalle e si diressero verso una scala mobile che li avrebbe condotti al piano di sopra. Quell’incessante stato di scuotimento li aveva resi un po’ distanti fra loro. Senza nemmeno rendersene conto, fecero le scale guardando verso i lati opposti, come due individui che casualmente si trovassero sulla stessa pedata. Gabriel teneva la mano in tasca, stringendo il cellulare, e Carlotta si massaggiava la tempia con vigore.
Samuel, che era ancora con lo sguardo fisso sulla cartina di Londra, non aveva notato che da lontano una coppia sui quarant’anni lo aveva notato e si stava, con prudenza, avvicinando a lui.
«Scusa, vai a Londra?»
«Sì, perché?»
Vittoria e Andrea si sedettero e, dopo le presentazioni, dissero a Samuel che stavano aspettando il volo per Parigi, ma che anche loro erano rimasti bloccati senza sapere per quale motivo.
Rimasero lì fino a che non tornarono anche Gabriel e Carlotta, anche loro privi di alcuna notizia certa, a parte qualche diceria sentita tra le persone in attesa. Congiuntamente decisero di fare gruppo, cosicché si spostarono in un angolo dell’aeroporto dove c’era una caffetteria più silenziosa.
L’imbarazzo iniziale era dato dalle occhiate ambigue di Andrea e lo sguardo timido di Carlotta, il tutto unito alla complicità tra Samuel e Gabriel. Vittoria, invece, era troppo indaffarata a esaminare chiunque passasse da lì.
Dopo qualche minuto di stallo, la voce all’altoparlante ruppe il marasma e disse che per problemi ancora sconosciuti tutti i voli sarebbero rimasti bloccati almeno fino alla mattina successiva. Per chiunque avesse bisogno di chiarimenti, avevano messo a disposizione un numero verde, al fine di evitare file chilometriche agli sportelli. Addirittura, per alleviare il disagio, avevano previsto per ciascun passeggero un bonus da dieci euro da spendere come meglio si credeva.
Anche Andrea ruppe il silenzio con un pugno sul tavolo e un’imprecazione a voce alta. Le facce dei tre ragazzi rimasero rigide e preoccupate, perché non avevano la benché minima idea di come sistemarsi per la notte. L’unica soluzione sarebbe stata fermarsi a dormire in aeroporto, come avrebbe fatto la maggior parte degli astanti.
Fu così che Vittoria propose di ospitarli a casa loro.
«Dai, ragazzi, non vi dovete sentire in imbarazzo. Io e Andrea abbiamo una casa carina, comoda e poco lontano. Domani mattina, poi, torneremo tutti assieme qui. Alla fine, se facciamo gruppo è più divertente, visto che ci troviamo tutti nello stesso guaio.»
«Gabriel e Carlotta, voi cosa ne dite?» domandò Samuel. «Io sarei propenso ad accettare la loro gentilezza, ma se non ve la sentite restiamo qui.»
Alla fine decisero di accettare l’invito. La serata era ancora lunga e al giorno dopo mancavano molte ore da ammazzare. Ripresero per l’ennesima volta i bagagli e seguirono in fila indiana i loro ospitanti, che li precedevano come gli allenatori di una squadra di calcio.
Prima che si chiudesse la porta scorrevole dell’aeroporto, però, Carlotta, che era l’ultima della coda, aveva catturato una strana occhiata tra Andrea e un uomo alto e magro che veniva giù dalle stesse scale dalle quali erano scesi loro poco prima. Pizzicò la maglia di Gabriel per farglielo notare, ma l’uomo era già sparito, quasi volatilizzato nella tromba delle scale.
Carlotta cercò disperatamente di attirare l’attenzione del fidanzato o di Samuel senza destare sospetto, ma non ci riuscì. Ognuno di loro era indaffarato a comunicare il ritardo: uno chiamava i genitori e il padrone di casa a Londra, l’altro il padre.
Una volta saliti in macchina, si resero conto di essere su una monovolume costosa e notarono anche che i due proprietari non avevano quasi bagagli con sé. Carlotta, che sedeva al centro dei sedili posteriori, diede un calcio al piede prima a Gabriel e poi a Samuel. Entrambi la guardarono incuriositi, senza capire quello che volesse comunicare loro.
Il viaggio fino alla casa della coppia continuò normalmente, tra conversazioni educate. Andrea guidava con una certa fretta, e intanto spostava il discorso sulla grande fortuna che aveva avuto ereditando una gran quantità di soldi dai genitori.
Ma quant’è cafone questo Andrea a millantare la sua buona sorte, pensò Carlotta.
Vittoria, invece, continuava a stare al cellulare e inviava e riceveva messaggi con una certa frenesia.
Da quando quei due si erano avvicinati, tutto era diventato illogico e troppo rapido. In un batter d’occhio i tre ragazzi erano passati dalle poltrone del fast-food ai sedili di quella lussuosa macchina. La più sospettosa rimaneva sempre lei, Carlotta, mentre gli altri due sembravano alienati dalla situazione.
La strada, da quello che si riusciva a intravedere nel buio, appariva sconnessa, quasi fosse un percorso di campagna, tutt’intorno praticamente il nulla.
«Ma vivete qui da tanto?» domandò Carlotta.
«Sì, vivo qui praticamente da quando sono nato» rispose Andrea. «Qualche anno fa i miei genitori hanno deciso di trasferirsi al sud, al mare, cosicché la casa con il terreno annesso è rimasta a me. Fortunatamente sono figlio unico, per cui non ho dovuto combattere con nessuno. Ti sembra una bella zona?»
«A dire il vero, con il buio pesto non riesco a individuare niente.»
«Sì, lo so, ma dopo un po’ non ci fai più caso.»
«Com’è il rapporto con i vicini, come quello che si ha in un condominio?»
«Diciamo che non è esattamente così. Qui ognuno si impiccia degli affari degli altri, ma non è il nostro caso. Io e Vittoria viviamo in completa solitudine. I vicini più prossimi sono a venti minuti di macchina, quasi un’ora a piedi. Insomma, quello che ci serve per vivere la vita come vogliamo, senza intromissioni altrui.»
«Ah, okay, capito. Se ci riuscite fate bene.»
Carlotta era interdetta, ma quello che la preoccupava maggiormente era l’atteggiamento dei due amici. Ignari di tutto, il che faceva passare lei per pazza da legare.
Il viaggio si concluse qualche attimo più tardi, quando Andrea pigiò sul freno e tirò via la chiave.
Intorno a loro il posto sembrava davvero spettrale, e anche il tragitto che fecero dall’auto alla porta di casa sembrò avvolto dal mistero. Andrea e Vittoria avanti indicavano, mentre loro tre li seguivano.
«Lasciate tutto in macchina, uscirò io più tardi a recuperare le vostre cose. Al massimo prendete quello che vi serve per la notte» disse Andrea.
Con un “va bene” unanime, si diressero verso la casa. Per quel poco che si riusciva a vedere, sembrava di stare davanti a una abitazione in perfetto stile americano, simile a quelle che si vedono nei film. Una grande veranda in legno delimitava la casa, anch’essa dello stesso materiale.
Un volta arrivati alla porta d’ingresso, un sensore accese tutte le luci, sia quelle esterne sia quella nell’anticamera.
Andrea li invitò a entrare. «Prego. Non fate complimenti.»
«Grazie, Andrea, lo facciamo con piacere» disse Gabriel.
A differenza dell’impressione che dava da fuori, l’abitazione era in stile moderno, minimalista e dai colori decisamente sobri. Davanti a loro, un corridoio lungo e largo portava ad altre stanze disposte su entrambi i lati; mentre all’ingresso si estendeva un enorme salone, che da quello che si poteva vedere occupava quasi metà della casa. In fondo, da un lato, c’era una cucina con isola, e dall’altro erano collocati dei grossi divani in pelle nera con un televisore al plasma agganciato alla parete.
Una volta dentro tutti si sedettero e Carlotta chiese il permesso di utilizzare il bagno. La casa era piuttosto tranquilla e non sembrava destare nessun sospetto. Addirittura, i padroni avevano cambiato atteggiamento, cosicché la ragazza iniziò a tranquillizzarsi. Si sedette sulla tazza e cercò di prendere fiato, scacciando i pensieri negativi che l’avevano angosciata per tutta la serata, da quando quei due si erano attaccati a loro come le cozze. Si diede una sciacquata alla faccia, controllò il segnale del cellulare, dopodiché uscì dal bagno e tornò dal resto della compagnia. Ma, mentre attraversava il corridoio, ebbe la sensazione di sentire una voce maschile diversa da quella degli altri.
Quando arrivò in cucina, il mezzo pugno di acqua bevuta poco prima ritornò su dallo stomaco, tanto da farla tossire. Gli altri si girarono verso di lei di scatto, come se non l’avessero sentita arrivare, e Andrea fece gli onori di casa.
«Scusa, Carlotta, mi sono dimenticato di dirti che questa sera si sarebbe fermato a dormire qui da noi anche mio cugino Carmelo. Avvicinati, così te lo presento.»
Lei si fece avanti. «Piacere, Carmelo.»
«Il piacere è mio.»
Carlotta prese posto tra Gabriel e Vittoria, mentre Samuel era rimasto accanto a Carmelo, il quale la osservava con circospezione. Da sotto il tavolo, lei cercò di trovare sostegno nella mano del fidanzato, ma lui non le rivolse attenzione perché preso dai discorsi intavolati prima che lei li raggiungesse dal bagno. Con lo sguardo provò anche ad attirare l’interesse di Samuel, che però era intento a osservare alcuni tatuaggi che il suo vicino aveva sul dorso delle mani. Su uno era raffigurato il corpo di una donna completamente nuda e girata di spalle; sull’altro, invece, aveva un teschio con un pugnale fra i denti. Se doveva essere rappresentativo della persona che lo indossava, costui poteva tranquillamente sembrare un tipo appena uscito di galera.
Tuttavia la serata continuò con loro che facevano conoscenza, anche se spesso l’attenzione di Carmelo ricadeva su Carlotta, la quale ricambiava arrossendo nervosamente senza un vero motivo, come se sospettasse qualcosa ma non volesse darlo a vedere. Vittoria aveva riposto il cellulare appena avevano messo piede in casa; lei la stava tenendo d’occhio per stare più serena. E infatti quella si era rivelata una buona idea: la donna sicuramente stava comunicando con Carmelo, ma il motivo sembrava interessare solo Carlotta. Samuel e Gabriel sembravano veramente due fantocci, non la consideravano e non le rivolgevano la parola praticamente da quando erano scesi dall’auto. Quello che la innervosiva di più era Gabriel, con il quale aveva cercato in tutti i modi di attirare la sua attenzione.
A un certo punto successe qualcosa: finalmente Carlotta trovò nella stretta di Gabriel una certa complicità, la stessa di quando era invitata a cena dalla madre del fidanzato che per rassicurarla e farla sentire meno impacciata con i quasi suoceri le dava una stretta particolare, tutta loro. Fece la stessa cosa quella sera durante l’incontro a sei intorno all’isola della cucina. Carlotta sentì il cuore battere come un tamburo, ma un attimo dopo si acquietò e lasciò passare l’ansia attraverso la mano di Gabriel.
Passarono così diverse ore e solo dopo che Vittoria iniziò a sbadigliare ostentando sonno, Andrea propose di mostrare loro la camera dove avrebbero dormito.
«I cellulari, se volete, potete anche lasciarli in cucina a caricare. La camera degli ospiti non viene mai utilizzata, per cui è sprovvista di prese. C’è solo un interruttore per la luce a soffitto. Quella stanza è stata costruita dopo il resto dell’abitazione perché una volta veniva utilizzata come rimessa.»
«Ma ci sono almeno delle finestre?» domandò Carlotta. «Soffro di claustrofobia.»
«Quelle sì. Non vogliamo mica mettervi in gabbia.»
E, con una fragorosa risata, Andrea li accompagnò verso la misteriosa stanza senza prese elettriche. Prima di chiudere loro la porta praticamente in faccia, consigliò di andare a letto presto per evitare di svegliarsi tardi la mattina dopo.
Rimasti finalmente da soli, i tre poterono discutere di quello che era successo nelle ultime interminabili ore.
«Ma voi due siete proprio dei cretini o facevate finta?» protestò Carlotta. «Mi avete messo più ansia voi di loro. Cosa sta succedendo qui?»
«Senti, Carlotta» cominciò Samuel. «Quando sei andata in bagno, sono riuscito a inviare un messaggio a Gabriel dicendogli che qualcosa non mi convinceva in quei due tipi, ma che comunque avremmo dovuto fare finta di niente finché non fossimo rimasti da soli.»
Lei sgranò gli occhi. «Oddio, i cellulari sono di là! Gabriel, hai cancellato il messaggio?»
«Sì, lo abbiamo fatto entrambi.»
«Meglio così! Ma adesso cosa facciamo? E cosa c’entra Carmelo? Avete visto che strani tatuaggi aveva sulle mani?»
«Calmati, Carlotta, e parla piano» le ordinò Samuel. «Adesso io e Gabriel cerchiamo una soluzione.»
I tre stettero in silenzio abbastanza a lungo, arrivando alla conclusione che di soluzioni non se ne trovavano. Loro tre chiusi in quella stanza, i cellulari lasciati in cucina e i bagagli dimenticati volutamente in macchina: tutto faceva pensare a una premeditazione, quasi un complotto, piuttosto che coincidenze.
Carlotta era l’unica fra i tre a sembrare agitata. Andava su e giù per la stanza senza darsi pace.
«Mi sento smaniosa, mi sembra quasi di morire qui dentro!»
Cercava di prendere aria dalla finestra, ma il fatto che ci fossero le grate la faceva sentire ancora di più in gabbia.
Gabriel cercò di rabbonirla, ma neanche lui aveva abbastanza fiducia per trasmetterla agli altri. Samuel, intanto, si era messo a pancia in su, e con gli occhi sbarrati rivolti al soffitto rifletteva sulla circostanza.
«Ragazzi, non c’è niente da fare per questa sera. Cerchiamo di riposare e domani, con la mente più lucida, decidiamo cosa fare. Alla fine, non conosciamo il loro piano, sempre che ne abbiano uno. Seconda cosa, non conosciamo bene la casa, tanto meno quello che c’è fuori, e con il buio ogni azione sarebbe infattibile.»
«Ehi, mi sa che Samuel ha ragione» lo appoggiò Gabriel. Poi si rivolse a Carlotta: «Per adesso cerca di stare tranquilla e riposati. Domani mattina, alla luce del sole, decideremo meglio. Controlleremo prima cosa c’è fuori da questa casa, dopodiché affronteremo la situazione.»
Carlotta si accucciò accanto al fidanzato nel letto doppio e Samuel, sul suo, si abbandonò a un sonno profondo.
Per diverse ore non successe niente. Tutti dormivano, anche se Carlotta continuava a essere agitata.
Samuel venne svegliato dallo scompiglio fatto dalla ragazza e dopo qualche secondo, senza avvisare gli altri due, decise di uscire dalla stanza per dare un’occhiata. Appena fuori, gli venne l’istinto di girarsi verso una porta semichiusa e scorse Andrea e Vittoria mezzi nudi, anche loro addormentati profondamente.
«Ma dove cavolo è quell’omone di Carmelo?»
Continuò a perlustrare le stanze, ma appena sentì un rumore provenire dalla sala si infilò di getto nel bagno alla sua destra. Alcuni passi si avvicinavano, cauti. Samuel rimase seduto sul bordo della Jacuzzi.
Una volta arrivati dietro la porta, i passi si arrestarono di colpo. In quel momento una goccia di sudore gli scese dalla fronte al naso per finire sulle labbra, dove sentì il tipico sapore salato.
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L'articolo ANTEPRIMA: “L’estate interrotta” di Cosimo Mirigliano proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.
June 15, 2019
Vuoi entrare nel mondo dell’editoria? Lascia perdere!
Vuoi entrare nel mondo dell’editoria? Lascia perdere!
Guarda, sarò schietta in questo articolo, che non vuole essere una critica quanto una cinica riflessione sul mondo in cui vivo e lavoro già da svariati anni.
Se il tuo sogno è quello di entrare nel mondo dell’editoria, sia come scrittore sia come professionista, o altro, è bene che qualcuno ti dia una strigliata e ti faccia capire bene cosa incontrerai.
Quindi se vuoi sapere tutto, ma proprio tutto quello cui andrai incontro, leggi questo articolo; e se ci credi davvero, alla fine scoprirai che non tutto il fango puzza.
[image error] Photo by Aziz Acharki on Unsplash
Un mondo di squali
Se c’è una cosa che detesto, è quando leggo: “Ho abbandonato tutto per dedicarmi alla scrittura.”
Ma dai! Ma queste persone ancora non capiscono che in Italia non si può vivere solo di scrittura? E che fanno? Lasciano un lavoro certo per lanciarsi nel vuoto?
Di scrittura non si vive, a meno di non rientrare in quell’1% di scrittori famosissimi (o fortunati) che possono dire di avercela fatta.
Al più si può vivere anche di scrittura, unendola però ad altri lavori, sempre nel campo dell’editoria, come professionisti del settore, editori, eccetera.
E questa è la prima cruda verità che mi sento di dirti.
Attenzione a proseguire con la lettura perché ne arriveranno altre.
Seconda cosa “brutta”.
Anche se decidi di non vivere solo di scrittura ma di affiancarla con altri lavori, sappi che da solo è dura. A volte impossibile.
Non voglio tirare fuori numeri e statistiche perché non mi sono mai piaciuti, ma quanti professionisti dell’editoria ci sono? Quante case editrici nascono ogni due-tre mesi? O associazioni culturali?
E come pensi di poter emergere da solo in questo mare di squali?
Invidio (sì, l’ho detto!) chi ha qualcuno dietro a sorreggergli le spalle qualora dovesse inciampare, e che lo aiuta a emergere. E mi rammarico quando vedo scrittori promettenti cadere nel Limbo dei Dimenticati perché non hanno nessuno dietro, mentre scrittorucoli non ben definiti sono primi in classifica solamente perché più fortunati con le conoscenze.
Ebbene sì: come in tanti altri lavori, anche in editoria se hai gli agganci giusti fai passi da gigante. In caso contrario è difficile anche solo chiedere una semplice segnalazione al tuo libro (tutto provato sulla mia pelle, non dico cavolate).
Basta solo vedere le risposte quando chiedi se qualcuno è interessato a segnalare o altro il tuo libro o la tua pagina: se nessuno ti conosce, o, nel caso dei libri, sei autopubblicato emergente o edito da case editrici piccole, ti filano veramente in pochi.
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E il ginepraio di questa foresta?
L’editoria è una foresta così fitta e densa che, una volta entrato, difficilmente riesci a uscirne. O a uscirne vivo.
A meno che non ti adatti, ovvio.
Sì, perché se sei disposto ad apprezzare gli altrui glutei e a calpestare la tua dignità, allora forse c’è la remota possibilità che tu riesca a tirartene fuori.
Sennò ti troverai davanti gente che ti sorride di fronte e ti spala sterco dietro, persone che non aspettano altro che un tuo cenno per diffamarti e avvilire le tue velleità di scrittore, editore, professionista e così via, strade tortuose per farti conoscere e via dicendo…
Sei ancora certo del tuo sogno?
Sì?
Bene, allora non sono la sola a crederci ancora 
June 8, 2019
Come vendersi bene: pillole di marketing librario
Come vendersi bene: pillole di marketing librario
Ormai sappiamo che non basta scrivere un libro e pubblicarlo per vendere: dobbiamo darci da fare affinché il lettore lo compri.
Soprattutto se siamo scrittori indie o se la nostra casa editrice fa poco o è piccola (e non un ufficio stampa esteso, o non lo ha proprio).
Tuttavia c’è modo e modo di vendersi, e lo vedremo in questo articolo.
[image error]Fonte: www.aer.io
Una premessa (da leggere)
Sono certa che bazzicando per il web avrai letto qua e là articoli su come vendere al meglio, sia online sia fisicamente. Tanti di questi articoli affermano di voler essere la guida definitiva o di offrirti i trucchi tali che, dal giorno dopo, diventerai un venditore provetto.
Ecco: qui non troverai niente di tutto ciò.
Non voglio dirti che dopo aver letto questo articolo potrai vendere con più facilità, o regalarti la regola d’oro per diventare un best seller (e ossia uno che vende al meglio).
Non ce l’ho, mi dispiace.
Però posso parlarti di alcune mie esperienze (dirette, ossia da venditrice, e indirette, ossia di altri scrittori), e da lì farti capire come sia meglio muoversi.
Detto ciò, andiamo al sodo. E se mi conosci sai già che sarò diretta.
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Timido o sfacciato?
Se sei una persona timida, come ahimè lo sono io, è difficile convincere una persona a comprare il tuo libro anziché quello degli altri.
Timidezza che si evince sia online, nel modo in cui presenti il tuo libro (ad esempio attraverso la sinossi), sia offline, nel modo in cui ti approcci alle persone.
Ormai sto facendo fiere da quasi un anno e ti posso dire che le persone difficilmente si fermano davanti al tuo libro, se tu non le invogli.
Ma devi anche farlo bene.
Un aneddoto: qualche anno fa ero in visita come turista al Salone di Torino e mi sono avvicinata a una bancarella. Mentre guardavo i libri, un’autrice mi ha avvicinato chiedendomi se fossi interessata ad ascoltare di cosa parlasse il suo. Ho risposto di sì perché sono educata, ma sarei scappata a gambe levate: era evidente che questa signora fosse timida, perché oltre che a raccontarmi sommariamente di cosa parlava il suo testo, non ha saputo trasmettermi nulla, e l’ha fatto con una tale tristezza nella voce che mi ha fatto passare la voglia, anche se fossi stata interessata, di acquistare il libro.
Il modo in cui ti poni, quindi, fa già capire al lettore che tipo sei e, soprattutto, se credi in quello che vuoi vendere.
Se mostri di non crederci nemmeno tu, pensi che il lettore lo farà al posto tuo?
Ma anche essere eccessivamente petulanti ha i suoi lati negativi.
Altro aneddoto, sempre Salone del Libro. Mi avviavo felice verso uno stand che visito sempre a Torino, ma lì sono rimasta bloccata da un autore che mi ha letteralmente sbarrato la strada mettendomi in mano il suo libro e invogliandomi, nemmeno troppo velatamente, a comprarlo. Sempre educata, ho risposto che ci avrei pensato e me la sono svignata. Morale mia: non ho nemmeno potuto vedere gli altri libri per la paura che quello scrittore mi si appiccicasse di nuovo addosso.
Un comportamento da evitare altro che come la peste: così la gente non la invogli, la spaventi!
Online è la stessa cosa: se presenti il tuo libro usando parole vaghe, timide, senza forza emotiva, non invogli le persone a comprarlo; ma non le invogli nemmeno se sei troppo aggressivo, quasi feroce, e usi una terminologia da venditore furbetto (sarò io a darti la risposta definitiva a…) che si capisce da qui a un chilometro.
Occorre trovare la via di mezzo, ma, ahimè, come ti dicevo prima, questo articolo non ha pillole segrete da regalarti, quindi non posso dirti qual è il metodo migliore per vendere.
Posso però darti qualche consiglio su come porti al meglio per quello che sei.
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Tu sei tu!
È impossibile che una persona timida o poco predisposta a vendere diventi dall’oggi al domani una venditrice di successo, com’è impossibile che uno sfacciato si renda conto di esagerare.
In entrambi i casi, però, occorre pensare a chi abbiamo davanti e a cosa sentiamo dentro di noi.
Immagino che tu abbia scritto un libro e provato emozioni, sensazioni e così via… ecco, queste emozioni e sensazioni trasmettile al futuro lettore, alla persona davanti a te a davanti allo schermo. Difficile, ma si può fare: basta lasciar correre quello che si ha dentro.
Bellissimo è stato quando, l’altro giorno, in risposta a una mail di presentazione dei nuovi titoli di Policromia, una blogger mi ha scritto: parli di questi romanzi con un’emozione davvero intensa. Vuol dire che ho saputo esprimere quello che avevo dentro.
E devi anche essere onesto: va bene attirare il lettore con qualche frase a effetto (“Questo libro mi han detto tutti che si fatica a non terminare, che ti prende dalle prime pagine, vuoi dare un’occhiata?” — esempio generico e molto banale), ma non bisogna mai mentire. Mai.
Se sai che nella tua storia sono presenti scene di sesso esplicito, non raccontare che è un romance soft — altro esempio banale, ma per capirci.
Il punto più complicato è sempre attirare l’attenzione, ma in questo purtroppo non c’è la formula definiva, perché c’è chi, con un semplice segnalibro ricevuto, si ferma, legge il libro e magari lo compra; e chi alla vista di una mano che sporge un segnalibro scappa a gambe levate.
Il modo migliore è porsi gentile, affabile e dire alla gente né più né meno quello che sei.
Lo so, non ti ho cambiato la giornata, né te la cambierò in futuro, ma mi è piaciuto condividere con te questo aspetto, chiamiamolo comportamentale, che reputo sia la base per vendere seriamente.
Certo, un libro interessa per elementi come titolo, copertina, sinossi, ma conta tanto anche il modo in cui ti poni — che per forza di cose influenza questi aspetti.
L'articolo Come vendersi bene: pillole di marketing librario proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.
June 4, 2019
Autori VS editor
Autori VS editor
Ormai sono svariati anni che lavoro come freelance nell’editoria e, sebbene non possa dire di conoscere tutto, sto iniziando a farmi un’idea dei vari autori che gironzolano per il mondo di Editòria.
È divertente ogni tanto, allora, parlarne, per divertirsi un po’ e, chissà, magari conoscersi meglio.
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Autori VS editor: una partita a scacchi
Il rapporto tra scrittore e editor è una partita a scacchi, soprattutto agli inizi, quando uno non conosce l’altro.
Iniziamo manovre di avvicinamento volte a conoscerci, ma il più delle volte (e per fortuna!) la partita si conclude in perfetta parità: autore e editor si alzano, si stringono la mano e se ne vanno con la consapevolezza e il piacere di un bel confronto, e che entrambi hanno appreso qualcosa dall’altro. Talvolta ritornano per un’altra partita.
In alcuni casi è una vera guerra, nello stile di Risiko: mosse, contromosse, arretramenti e avanzamenti, e alla fine… scacco matto!
Penso siano le situazioni più difficili, per un editor, e nel mio caso, almeno per ora, le ho vissute poche volte… poche ma buone, come si dice.
Ma, dal punto di vista dell’editor, come sono questi autori che si succedono nella sedia davanti a lui per iniziare una partita di scacchi?
Ne ho scovati tre.
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L’autore gne-gne
Costui ha una personalità forte e spicca quasi sempre per egocentrismo e una dannata voglia di avere l’ultima parola e di avere ragione (gne-gne).
Uno degli autori più difficili con cui l’editor si deve confrontare.
Ogni correzione è vagliata con lente d’ingrandimento, raramente accettata e spesso criticata.
Hai fatto così ma io intendevo colà e in tal modo si perde di significato non ha più senso mi hai stravolto la storia e ho ragione io. Gne-gne.
L’editor accomodante arretra, anche se è nel giusto, e per quieto vivere sottosta alle ragioni (vere e sbagliate che siano) dell’autore. Oppure se ne lava bellamente le mani: chissene, io ci ho provato, se poi non ti va bene ti saluto e affari tuoi. O ancora ingaggia una guerra di trincea seguita da lanci di bombe a mano e contro-lanci, fino a che uno (non necessariamente l’autore) non cede e alza bandiera bianca.
L’autore gne-gne raramente accetterà il lavoro dell’editor e anzi: sarà lui a voler insegnare qualcosa dall’alto del suo essere scrittore.
Una figura, lasciamelo dire, antipatica e con cui eviteresti di lavorare.
Spesso, purtroppo, l’editor ne è obbligato, ad esempio se lavora per una casa editrice e quello che capita capita, mentre se è freelance ha più margine di libertà — ma non troppa: in fondo i soldi so’ soldi.
Talvolta mi chiedo perché questi autori cerchino un editor, se poi non va bene nulla, ma vedremo nell’articolo su editor VS autori che c’è una ragione.
Di certo con questi personaggi ti fai le ossa 
May 30, 2019
“Dorian e la leggenda di Atlantide” di Demetrio Verbaro – recensione
Atene 399 a.C.
Il filosofo Socrate è stato condannato a morte. Il suo ultimo desiderio, esaudito, è quello di trascorrere la notte prima dell’esecuzione insieme all’amico e discepolo Platone. Prima di morire vuole confessargli un segreto che ha tenuto nascosto per tutta la vita, custodendolo gelosamente. “Quale segreto, maestro?”
“La leggenda di Atlantide!” L’indomani Socrate morì con l’anima purificata, sereno.
Ma perché era così importante tramandare quella storia?
Cosa era successo di così terribile e sconvolgente in quell’isola prima che s’inabissasse per sempre sul fondo dell’oceano?
“Dorian e la leggenda di Atlantide” è un romanzo particolare, in bilico tra mitologia, storia per adolescenti e fantasy.
Ammetto che quando si parla di civiltà scomparse e di mitologia greca ho sempre le orecchie dritte, perché sono tematiche che mi hanno da sempre suggestionata, e proprio per questo ho scelto di leggere il romanzo di Verbaro.
Tuttavia, se da un lato questa storia mi è piaciuta e sono andata velocemente alla fine, dall’altra mi ha lasciato… un senso di incompiutezza.
Non esistono scelte sbagliate o giuste, esistono soltanto scelte facili dettate dalla paura oppure scelte difficili dettate dal coraggio e io non voglio vivere una vita basata sulla paura.
La storia si dipana in due archi temporali: da un lato abbiamo la storyline principale, ossia la decisione di Platone di raccontare all’allievo Socrate la vera storia di Atlantide, e dall’altro questa storia, raccontata dal punto di vista dell’effettivo protagonista, ossia Dorian, un ragazzo che viene adottato da una famiglia di pescatori della parte umile di Atlantide ma che ha sulle spalle un destino importante.
Dorian è l’eroe che compirà un lungo viaggio per salvare l’amata Dafne, ma anche per riscoprire se stesso e il vero ruolo che avrà nell’isola di Atlantide, un viaggio che è la classica quest fantasy, con battaglie e animali magici.
Un vero e proprio fantasy classico che i lettori di questo genere apprezzeranno, soprattutto grazie a una scrittura semplice e veloce e a uno stile pulito e non troppo pomposo.
L’unico neo che mi sento di commentare è il finale: è aperto ma lascia un segno profondo di incompiuto, come se l’autore avesse deciso dall’oggi al domani di interrompere la storia.
Ed è un peccato perché il resto del romanzo mi ha davvero catturata, come anche l’ambientazione (bellissima la mappa di Atlantide a inizio libro!) e i vari personaggi.
A parte questo, consiglio “Dorian e la leggenda di Atlantide” soprattutto agli amanti del fantasy epico, ma potrebbe piacere anche agli altri, proprio per via dell’elemento mitologico che lo circonda.
L'articolo “Dorian e la leggenda di Atlantide” di Demetrio Verbaro – recensione proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.
May 27, 2019
“La guerra degli scrittori” di Kempes Astolfi: recensione
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Ethan e Ryan, il futuro di un ragazzino complicato riflesso nel passato di un uomo alla ricerca di redenzione. Sullo sfondo di una Ellicott City del 1988, piccola realtà di provincia degli Stati Uniti, l’assistente sociale Connie Henderson crea un ponte di collegamento tra il ragazzo e il presunto nonno. L’intreccio di intense storie conduce presto in un racconto nel racconto, proiettando lo scenario nel 1975. Inizia così la narrazione della più grande sfida letteraria di tutti i tempi, “La Guerra degli Scrittori”, una gara a colpi di creatività che porterà i protagonisti a trascendere i loro limiti fino all’estremo e oltre. Oltre l’Infinito: un Infinito Doppio.
Ti racconterò una storia bellissima, una storia che ti cambierà la vita. Vuoi ascoltarla?
Questa è la premessa del nuovo romanzo di Kempes Astolfi, e devo ammettere che agli inizi ero un poco scettica.
Con una premessa di tale portata, l’autore ha corso un enorme rischio. Sì, perché se l’avesse disattesa, avrebbe in un qualche modo offeso il lettore, tradito da qualcosa che non è stato portato a termine.
In realtà, e per fortuna, non solo Astolfi ha mantenuto la promessa insita nella domanda, ma è riuscito a costruire un intero mondo dietro il suo romanzo, che fatichi a lasciar andare una volta arrivato alla fine.
Il romanzo si struttura su più piani, e già qui si capisce la sua complessità. All’inizio è difficile seguire ogni vicenda, che si svolge in anni differenti e di tanto in tanto inserendo dei flash forward, e più di una volta mi sono chiesta quale fosse il nesso che legava i vari personaggi.
Se hai però la pazienza di andare avanti, e sono certa che l’avrai (anche perché arrivi a un certo punto in cui non puoi più smettere, fidati!), il puzzle via via si compone, e ogni tassello va al suo posto.
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A prima vista la storia pare semplice: un anziano decide di raccontare a uno scalmanato ragazzino “una storia straordinaria”, la storia di due scrittori egocentrici e presuntuosi che si sfideranno in una guerra, la guerra degli scrittori, appunto, per decretare chi dei due sia il migliore.
Detta così, sembra una storia come altre, ma c’è molto (ma molto!) di più: ogni scena, ogni avvenimento, qualsiasi cosa è interconnessa, ma solo alla fine capiremo l’abilità di Astolfi che, come un burattinaio, muove a suo piacimento i fili di ogni personaggio, tenendo il lettore con il fiato sospeso fino alla fine.
Fine che non ti aspetti, ovviamente, ma il bello di un libro è proprio questo: riesce a sorprenderti e, quando succede, sai che rimarrà sullo scaffale degli Indimenticati.
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Permettimi di spendere solo poche righe su una scrittura davvero molto poetica e ricca di frasi a effetto e citazioni letterarie.
Sono certa che anche tu, come me, morirai dalla voglia di evidenziare tantissime frasi e poi appuntarle da qualche parte, perché in ogni pagina c’è un insegnamento, da cui trapela la passione per la scrittura dell’autore.
E anche per la musica.
Ebbene sì: il romanzo è una compilation di canzoni, vecchie e nuove, che, con vere e proprie citazioni, accompagna il lettore. Ma c’è di più: in “La guerra degli scrittori” troviamo anche degli inediti, che se ti va puoi ascoltare a questo link.
Canzoni scritte apposta per il romanzo, e anche qui sta l’originalità del libro.
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Insomma, se vuoi entrare in un mondo nuovo, diverso, e leggere qualcosa di originale e che ti terrà incollato alle pagine fino alle fine, non posso che consigliarti questo romanzo di Astolfi.
Un libro, una colonna sonora, uno scorcio di vite diverse ma collegate le une alle altre.
L'articolo “La guerra degli scrittori” di Kempes Astolfi: recensione proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.


