Emanuela Navone's Blog, page 22

November 30, 2019

Un editor si fa editare?

Un editor si fa editare?






Una delle domande che mi pongono più spesso riguarda una questione oserei dire quasi mistica: un editor si fa editare?





In effetti, c’è l’idea che sia una sorta di dio della scrittura e che quindi non abbia bisogno né di farsi editare ciò che ha scritto né di farlo lui stesso.





In realtà, quando scrive, l’editor è una persona qualsiasi. In altre parole sveste i panni dell’editor e indossa quelli del semplice scrittore. E non solo! Chiede spesso la mano a un esterno. Quindi sì… l’editor si edita. E si fa editare.





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Un editor si fa editare



Per prima cosa cerchiamo di capire perché un editor abbia bisogno di farsi editare. Potrebbe in effetti sembrare strano: un editor, che dovrebbe conoscere a menadito tutte le regole di grammatica e la struttura di un romanzo, non dovrebbe aver bisogno di qualcuno che glielo corregga.





Sembra paradossale!





Come dicevo prima, però, quando scrive, che sia un romanzo, un articolo o anche un racconto, l’editor non è più un editor bensì uno scrittore come tutti gli altri. Quindi, come tutti gli altri, ha bisogno di qualcuno che lo aiuti.





Ho scritto svariati racconti, un romanzo e un manuale sull’editing. Se mi segui da un po’, conoscerai già quello di cui ti sto parlando. Ebbene: per tutti questi testi mi sono fatta aiutare nella rilettura.





Vediamo quali sono le tre ragioni per cui un editor dovrebbe farsi editare.





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La storia è nostra… forse troppo



Quando scriviamo, che siamo Manzoni o uno sconosciuto, quello che buttiamo su carta è frutto del nostro sangue, qualcosa a cui teniamo tantissimo e, anche se è un paragone piuttosto stra-abusato, qualcosa che consideriamo come nostro figlio. E quindi non riusciremo mai a vederlo con un occhio esterno, scovando imprecisioni, incongruenze o paradossi…





Quello che abbiamo scritto lo consideriamo del tutto perfetto.





In più, nella nostra testa, abbiamo chiari passaggi, dialoghi. Però un lettore non è la nostra testa.





Ti faccio un esempio per spiegarti meglio. Qualche anno fa scrissi Reach. In un passaggio fondamentale della storia, il protagonista sentiva nella sua testa una voce che lo spronava ad agire in una certa maniera, fondamentale per l’intreccio. Tuttavia scrivendo ho messo che egli riceveva una chiamata da qualcuno, qualcuno che però era morto, e quindi per logica non poteva chiamarlo! In altre parole, nella mia testa avevo l’idea, ma scrivendo è uscito tutt’altro.





Le letture a cura di un’altra persona mi hanno aiutato tantissimo.





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Questi benedetti refusi…



Il secondo motivo per cui un editor potrebbe aver bisogno di farsi editare riguarda gli antipatici refusi.





Capita tutti di commettere errori, che scriviamo un articolo di blog, un romanzo, un racconto. E i refusi sono qualcosa da cui non possiamo sfuggire.





Rileggendo un testo che abbiamo scritto noi, a meno che non facciamo passare un bel po’ di tempo, faticheremo a scovare questi dannati refusi.





Soprattutto se abbiamo necessità di pubblicare subito questo testo, è imperativo che qualcuno ce lo legga ed eventualmente corregga.





Un aiuto esterno è quindi fondamentale.





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Siamo esseri umani, non dèi!



Il terzo motivo per cui è necessario che un editor si faccia editare è molto semplice: un editor non è un mago della scrittura, come dicevo prima, è una persona come le altre. E soprattutto conosce l’importanza dell’editing.





Perciò non spaventarti se anche un editor ha a sua volta un editor alle spalle.





Quindi un editor è poco professionale? E non c’è da fidarsi?





No.





Non mi stancherò mai di dirlo, ma un editor è uno scrittore come tutti gli altri, conosce l’importanza dell’editing, e sa quando c’è bisogno di una correzione.





Anche se questa correzione riguarda qualcosa che ha scritto lui stesso.





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Published on November 30, 2019 23:00

October 22, 2019

Che cos’è la linguistica?

Che cos’è la linguistica?






Scrivere è bello, ma molti vogliono saperne di più: che cos’è una lingua? Come si evolve? Come funziona?





Una scienza che studia tutto ciò è la linguistica.





Termine che forse potrebbe spaventare i più, ma ti assicuro che è molto interessante.





Oggi vediamo di che cosa si tratta.









** Tutto quanto segue è frutto dei miei appunti del corso di Linguistica presso l’università di Genova **





[image error]Foto di StockSnap da Pixabay



Che cosa studia la linguistica?



Innanzitutto, la linguistica studia il linguaggio verbale umano, ossia quello trasmesso attraverso la parola e specifico della specie umana. Tale è una predisposizione biologica dell’uomo, innata: la possiede, cioè, dalla nascita.





Non ce ne accorgiamo, ma ogni giorno associamo contenuti, concetti, significati a espressioni fisiche percepibili: ad esempio attribuiamo al contenuto “microfono” un oggetto, e soprattutto una serie lettere che rimandano a quel suono. Usiamo in altre parole sia il canale uditivo sia quello visivo.





Il fine ultimo è di esprimere un messaggio attraverso un sistema di comunicazione condiviso (come l’italiano parlato): il nostro interlocutore capirà di cosa stiamo parlando.





La linguistica studia anche le lingue storico-naturali. Ogni lingua si è evoluta autonomamente poiché parlata da una comunità in un contesto storico e geografico (ad esempio: italiano, cinese, catalano, occitano, genovese, latino, sanscrito).





Alcune lingue di cui magari sentiamo parlare oppure conosciamo perché parte di una nostra passione, non sono storico-naturali: è il caso dell’esperanto, una lingua artificiale, dell’elfico (lingua creata da Tolkien) o del dothraki (lingua presente ne “Il trono di spade”).





A ben pensarci ogni romanzo fantasy che curi la sua ambientazione ha sempre una lingua di riferimento, vuoi architettata ad arte, come l’elfico, vuoi più generica; però è presente in quasi tutti i fantasy, soprattutto di genere epico.





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Lingua e linguaggio



Lingua e linguaggio non sono la stessa cosa: il linguaggio è qualcosa che ci appartiene dalla nascita, abbiamo visto, qualcosa di innato. È come l’hardware di un computer.





Le lingue, invece, non sono congenite ma vanno apprese, e possono variare in base al contesto storico, sociale, ambientale. Mutano e non sono universali.





Le lingue non sono osservabili in modo concreto ma attraverso alcuni dati scritti e parlati.





Per quanto riguarda l’italiano, abbiamo vari tipi di parlato (formale, quello ad esempio con gli amici, o informale). Cosa che non accade nel latino: essendo una lingua morta, al momento non vi è alcun parlante. Esistono anche lingue che non producono né dati scritti né parlati: è il caso di alcune lingue delle Filippine dove non vi è una tradizione scritta né alcun dato orale registrato.





Se il linguaggio ci accomuna, le lingue ci distinguono. E talvolta ci dividono.





[image error]Foto di Free-Photos da Pixabay



Le branche della linguistica



Molto in breve, vediamo quali sono alcune delle più importanti branche della linguistica.





La linguistica generale studia che cosa sono, come sono fatte e come funzionano le lingue: quante lingue sono parlate nel mondo, quante parole conosciamo, quanti modi esistono per scrivere una lingua, e così via.





La linguistica tipologica studia invece le varie lingue analizzando la loro diversità: se c’è qualcosa di universale, ad esempio, o perché esistono così tante lingue al mondo e non una sola.





La glottologia (o linguistica storica) studia invece i motivi per cui le lingue cambiano nel tempo: come nascono e come muoiono, in che modo inizia un mutamento e come si diffonde.





Altre branche della linguistica sono la linguistica acquisizionale (che studia la formazione della competenza di una data lingua), la psicolinguistica (che studia i fattori neurologici alla base del linguaggio) e la sociolinguistica (che studia il rapporto lingua-società).





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Published on October 22, 2019 23:00

October 19, 2019

Che cos’è la letteratura italiana?

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Inauguriamo questa nuova rubrica sulla letteratura italiana con uno sguardo d’insieme.





Che cos’è la letteratura? E che cos’è la letteratura italiana?





Ti assicuro che la domanda non è scontata come sembra.









** questa serie di articoli si basa sul corso universitario di Letteratura italiana contemporanea tenuto dal docente De Nicola presso l’Università di Genova **









[image error]Foto di Ylanite Koppens da Pixabay



Che cos’è la letteratura?



Non tutto ciò che è scritto è letteratura, e qui penso che siamo tutti d’accordo. Una canzone non è letteratura, ad esempio. Né qualsiasi altra cosa abbia una mera funzione informativa.





In generale, possiamo dire che la letteratura è tutto ciò che è autonomo, si basa sul pensiero dell’autore e non deve aver bisogno di un supporto, come la musica.





Sono letteratura, quindi, poesie, romanzi, racconti.





Ciò detto, vediamo di capire che cos’è la letteratura italiana.





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Che cos’è la letteratura italiana?



Quando il nostro professore chiese: “Che cos’è secondo voi la letteratura italiana?”, mi venne spontaneo rispondere: “La letteratura di un autore italiano, scritta in italiano e prodotta in Italia”.





Potrebbe essere una risposta corretta… almeno in parte.





Sì, perché a ben pensarci uno dei primi romanzi italiani (“Il dottor Antonio” di Ruffini) venne scritto in inglese, quando lo scrittore era esule in Inghilterra. Lo stesso Fenoglio scriveva in inglese la prima stesura, e Tabucchi ha scritto “Requiem” in portoghese.





Può comunque essere considerata letteratura italiana? Be’, certo che sì.





Nel cercare di inquadrare la letteratura italiana, quindi, occorre anche considerare la cultura di ogni autore.





La letteratura italiana, riassumendo, comprende tutte quelle opere che esprimono il pensiero dell’autore, sono autonome (non supportate quindi, ad esempio, dalla musica, come le canzoni) e scritte da italiani, anche se non necessariamente in italiano.


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Published on October 19, 2019 23:00

October 5, 2019

Recensire libri self è difficile?

Recensire libri self è difficile?






Domanda semplice, risposta complessa.





È difficile recensire libri self? E se sì, perché?









[image error]Image by Free-Photos from Pixabay



Libri self: un salto nel buio



Ho ricevuto una recensione carina tempo fa, e nei commenti ho proprio letto la frase oggetto di oggi: “È difficile recensire libri self.”





Non sono entrata nel merito, ognuno ha la sua opinione, ma la domanda è sorta spontanea.





Perché è difficile recensire un libro self?





Perché gli autori self sono notoriamente permalosi? Perché c’è sempre il rischio di leggere un testo poco curato?





In effetti i motivi sarebbero tantissimi.





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Gli autori self sono permalosi (?)



Partiamo dal primo dilemma: gli autori self sono permalosi?





E cosa intendiamo per “permaloso”?





Uno che se la prende spesso. Nel nostro caso, un autore che se la prende per una recensione negativa o una semplice critica.





In effetti, da quello che sento e leggo, la maggior parte degli autori self reagiscono davvero male alle recensioni negative (sì, pure autori editi da case editrici, ma non è nell’argomento di oggi).





Su Facebook, un post sì e uno no della mia bacheca è uno screenshot di una recensione negativa (quasi sempre by Amazon) con relativa contro-critica da parte dell’autore chiamato in causa.





Una puntualizzazione: certi autori hanno ragione. Soprattutto se le “recensioni” sono solamente critiche gratuite da parte di chi vuole solo screditare e nemmeno ha letto il libro.





Ma in questo caso parlo di autori che se la prendono se qualcuno ha letto il loro libro e non gli è piaciuto. E reagiscono male, come scritto sopra. La mettono sul personale, bloccano profili, chiamano in raccolta legioni di fan al fine di screditare il poveretto che ha osato scrivere che il libro non è piaciuto perché…





Messa in questi termini, sì: è difficile recensire un libro self.





Mi metto nei panni del blogger o di chi avrà l’ingrato compito di far sapere che un dato libro non è piaciuto. Certo, la libertà di espressione è d’obbligo, ognuno la pensa come crede, ma, oddio… c’è da usare i piedi di piombo.





Tempo fa scrivemmo su questo blog una recensione negativa a un libro. Non cattiva, solo negativa. Ebbene: l’autore in questione mi chiese di cancellarla perché lo danneggiava.





Ed è il meno che ti possa capitare!





Spesso si scatenano veri e propri flame, chi blocca di qua, chi offende di là, addirittura chi vuole passare alle maniere forti…





Quindi sì, ripeto: in questi casi recensire un self è difficile.





Tuttavia, e nuovamente mi metto nei panni di un blogger, la difficoltà maggiore è un’altra.





La vediamo subito.





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Self=scarsa qualità



Penso che il commento sulla difficoltà di recensire libri self si riferisse proprio a questo: un buon cinquanta percento di libri autopubblicati è di scarsa qualità.





E nella maggior parte dei casi, non solo è difficile recensirli, ma lo è anche leggerli!





Purtroppo la totale gratuità (in senso lato) dell’autopubblicazione ha fatto sì che chiunque voglia può pubblicare: anche Gutta La Gatta (e lo farà presto, attenzione!).





E siamo costantemente invasi da libercoli di infima qualità, dalla grafica scadente e i contenuti… boh?





Normale che un lettore o un blogger, o in generale un opinion leader, dopo cinque o sei libri self scadenti ci pensi un po’ su prima di leggere il sesto (se mai lo farà).





Ed è difficile anche recensirlo, ovviamente.





Aspetto, questo, intrecciato con il precedente: sì, perché mi trovo nuovamente a camminare sulle uova perché da un lato ho un libro pessimo, e dall’altro un autore self che potrebbe reagire male .





Oppure, ponendo il caso che non reagisca male, mi sento sempre un po’ in difficoltà a dover screditare, in un certo senso, un autore self, magari emergente.





Sappiamo che chi si autopubblica ha più difficoltà a imporsi sul mercato rispetto a chi ha una spinta dietro, e una recensione negativa non fa mai piacere, nemmeno se siamo santi.





Quindi per la terza volta sì: è difficile recensire un libro self.





Ma non impossibile.





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Published on October 05, 2019 23:00

September 28, 2019

Attenzione al punto di vista!

Attenzione al punto di vista!






È uno degli elementi fondamentali di ogni storia.





In un certo senso, è la bussola di ogni lettore, che lo guiderà nel corso delle pagine.





In un altro, sono gli occhiali grazie ai quali il lettore osserverà ogni scena.





In termini più semplici è il punto di vista.





[image error] Photo by Artem Beliaikin from Pexels



Vedo, quindi so



Non è scopo di questo articolo raccontarti cos’è il punto di vista, anche perché se scrivi dovresti saperlo già.





In ogni caso almeno un ripasso super veloce è meglio farlo.





Senza perdere la testa in tecnicismi, in scrittura possiamo usare l’io narrante, ossia è il protagonista che parla attraverso la sua voce, e vede solo quello che può vedere; oppure usare un punto di vista in terza persona, che può essere interno, e cioè collegato al personaggio, o esterno, dove la voce narrante si limita a riportare i fatti senza saperne di più dei personaggi. Inoltre esiste anche la seconda persona, meno usata ma suggestiva, e il narratore onnisciente, su cui vorrei soffermarmi oggi.





Infatti, se per l’io narrante non ci sono grandi problemi, e neppure per la seconda persona, una buona maggioranza di scrittori tende a confondere onnisciente con un uso improprio del punto di vista che in inglese si chiama head hopping.





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Un minestrone senza sapore



Ogni punto di vista presenta vari problemi.





In prima e seconda persona, ad esempio, corri il rischio di rivelare cose che il personaggio non sa, anche se nella seconda persona c’è più flessibilità perché si tende a dare al narratore una sorta di onniscienza.





Sono comunque facilmente risolvibili cambiando qualche frase.





Quando, invece, si tende a confondere più punti di vista in un capitolo, o addirittura in un paragrafo, la situazione si fa delicata.





Un breve esempio per capire meglio.





Margherita alzò la cornetta, ma dall’altro capo del telefono nessuno parlò. Poi sentì qualcuno che si schiariva la voce.

“Chi c’è?” sussurrò Margherita.

“Non ti ricordi di me, ma io ti conosco benissimo” disse la voce dall’altra parte.

“Ma chi sei?”

“Per ora nessuno, ma presto ti ricorderai di me.”

La persona dall’altro capo del telefono chiuse la telefonata con un colpo secco. Si sfregò le mani e sorrise. Sì, finalmente Margherita avrebbe conosciuto Violetta.

In quel momento Romeo entrò nella stanza, e si stupì nel vedere Margherita con la cornetta in mano e lo sguardo fisso di fronte a sé.

Che diamine c’era, di nuovo?





In questo testo ci sono ben tre punti di vista: Margherita, Violetta e Romeo.





Di testi simili ne leggo uno alla settimana, e sai cosa li accomuna? Il fatto che l’autore ogni volta mi dice che ha usato un narratore onnisciente.





Il narratore onnisciente, ricordiamolo, ne sa più dei personaggi, entra spesso nella narrazione e “cala” dall’alto la storia, senza entrare in maniera particolare nella testa dei personaggi. È una sorta di visuale d’insieme volta a far emergere ogni personaggio e magari anche una morale.





Il narratore onnisciente non vuol dire saltare da un punto di vista all’altro così, quando capita, ma è un unico punto di vista, globale.





[image error] Photo by Adrienne Andersen from Pexels



Non ci ho capito nulla!



Prendiamo l’esempio precedente.





La scena inizia con Margherita che alza la cornetta, e dopo poco una voce sembra minacciarla. La continuazione più logica sarebbe proseguire la storia con la narrazione di come agisce Margherita dopo la chiamata, il suo stato d’animo… Invece saltiamo dall’altra parte della cornetta e conosciamo questa Violetta misteriosa, di cui sappiamo solo che in un certo senso vuole vendicarsi. Poi passiamo a Romeo, che entra nella stanza (e qui subito non si capisce di quale stanza si parli!) e si stupisce perché Margherita ha lo sguardo perso nel nulla. Addirittura fa intuire che tra loro c’è maretta perché si chiede “che diamine c’è di nuovo”.





E adesso mettiamoci nei panni del lettore.





Segue la scena di Margherita, poi salta su Violetta e poi ancora su Romeo. I suoi occhi dovrebbero seguire un percorso a zigzag per star dietro a questa confusione, e ne uscirà con un mal di testa atroce.





Pensa se tutto il romanzo fosse così!





Il problema di questa confusione dei punti di vista a mio avviso sta tutto nell’incertezza.





L’autore ha paura che il lettore capisca poco, così deve per forza inserire un pensiero per ogni personaggio.





E questo porta a due (pessimi) risultati.





Il primo è che, come scrivevo prima, il lettore non solo non capisce, ma è così confuso da stufarsi.





Il secondo, ben più grave, è che a voler a tutti i costi mostrare aspetti dei personaggi, anche tutti insieme, si rischia di rivelare troppo, facendo perdere pathos alla storia.





Pensa se nell’esempio precedente non avessi scritto che Violetta voleva far sapere a Margherita chi fosse: avremmo avuto il dubbio si chi l’avesse chiamata, e saremmo rimasti in sospeso sino alla rivelazione, invece che saperlo subito.





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E quindi?



La prima cosa da fare per risolvere questo problema è capire, ancora prima di scrivere, che punto di vista adottare.





Poniamo il caso di aver scelto un narratore interno alla terza persona.





Per evitare punti di vista confusi, soprattutto se è un nostro punto debole, sarebbe meglio avere una lista delle varie scene, e per ognuna decidere da che punto osservarla.





Questo purtroppo non è facile, soprattutto se il modo di scrivere è quello di dire tutto di tutti in contemporanea.





Occorre allora operare una massiccia pulizia in fase di editing, eliminando i passaggi incriminati (esempio: se la scena è vista dagli occhi di Giulietta, eliminare tutti gli accenni agli stati d’animo o pensieri di Romeo), a volte anche con tagli massicci, ma doverosi.





È un lavoro lungo, ma una volta presa dimestichezza verrà da solo usare il corretto punto di vista ed evitare minestroni insipidi

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Published on September 28, 2019 23:00

September 24, 2019

BabyBook’s Tube: un progetto per i piccoli scrittori

[image error]Foto di Sasin Tipchai da Pixabay



È con immenso piacere che presento questa bellissima iniziativa a cura dello scrittore Marco Conti.





Il progetto è davvero semplice, e chiunque piccolo scrittore può aderirvi.





Un’occasione unica per far volare la fantasia anche in tenera età.





[image error]Foto di rawpixel da Pixabay



Come funziona?



Come ho scritto prima, è davvero semplice, e soprattutto… visivo.





Sì, perché BabyBook’s Tube è un canale di YouTube dove saranno caricati, sotto forma di video i racconti di ogni piccolo scrittore.





Per partecipare è semplice e non ci sono restrizioni: occorre inviare il proprio racconto alla mail marcoscrive.video(at)gmail.com, oppure compilare il modulo di invio che trovate a questa pagina.





E questo è il trailer!









Sul canale YouTube di Marco Conti trovate anche i racconti già pubblicati.





Una bellissima opportunità che vi consiglio di cogliere al volo

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Published on September 24, 2019 23:00

September 23, 2019

Review tour: “Sei di Corvi” di Leigh Bardugo

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** Questa recensione fa parte del Review Tour dal 23 settembre all’8 ottobre. In fondo troverai tutti i blog partecipanti **









A Ketterdam, vivace centro di scambi commerciali internazionali, non c’è niente che non possa essere comprato e nessuno lo sa meglio di Kaz Brekker, cresciuto nei vicoli bui e dannati del Barile, la zona più malfamata della città, un ricettacolo di sporcizia, vizi e violenza. Kaz, detto anche Manisporche, è un ladro spietato, bugiardo e senza un grammo di coscienza che si muove con disinvoltura tra bische clandestine, traffici illeciti e bordelli, con indosso gli immancabili guanti di pelle nera e un bastone decorato con una testa di corvo. Uno che, nonostante la giovane età, tutti hanno imparato a temere e rispettare.
Un giorno Brekker viene avvicinato da uno dei più ricchi e potenti mercanti della città e gli viene offerta una ricompensa esorbitante a patto che riesca a liberare lo scienziato Bo Yul-Bayur dalla leggendaria Corte di Ghiaccio, una fortezza considerata da tutti inespugnabile. Una missione impossibile che Kaz non è in grado di affrontare da solo. Assoldati i cinque compagni di avventura – un detenuto con sete di vendetta, un tiratore scelto col vizio del gioco, uno scappato di casa con un passato da privilegiato, una spia che tutti chiamano lo “Spettro”, una ragazza dotata di poteri magici -, ladri e delinquenti con capacità fuori dal comune e così disperati da non tirarsi indietro nemmeno davanti alla possibilità concreta di non fare più ritorno a casa, Kaz è pronto a tentare l’ambizioso quanto azzardato colpo. Per riuscirci, però, lui e i suoi compagni dovranno imparare a lavorare in squadra e a fidarsi l’uno dell’altro, perché il loro potenziale può sì condurli a compiere grandi cose, ma anche provocare grossi danni…
Finalmente arriva in Italia il primo romanzo della duologia che ha consacrato Leigh Bardugo come una delle voci più talentuose e autorevoli della narrativa fantasy. Una serie ambientata in un mondo articolato e straordinario, il GrishaVerse, dove si muovono personaggi sapientemente costruiti e sfaccettati. Una storia avventurosa ricca di colpi di scena che vi mancherà nell’istante stesso in cui avrete letto l’ultima pagina.









Ho trovato questo romanzo davvero particolare, non solo per l’ambientazione, ma anche per la trama, non così scontata come potrebbe apparire a prima vista.





In effetti un lettore pigro potrebbe giudicare questo romanzo banalotto: un ladro, il protagonista Kaz Brekker, viene in un certo senso “ingaggiato” dai piani alti per liberare uno scienziato che conosce gli ingredienti e la preparazione di un potentissimo allucinogeno, che se cade in mani sbagliate rischia di gettare nel caos tutto il regno. Il buon Kaz si accerchia di un nutrito gruppo di scappati di casa e va alla ricerca dello scienziato, tra colpi di scena, azione e un po’ di umorismo.





Può sembrare banalotto, sì, ma proviamo ad addentrarci in Ketterdam…





C’è che Kaz non è solo un ladro senza cuore ma ha un passato oscuro e difficile per un ragazzino, passato crudo che l’ha visto crescere e indurirsi prima del previsto…





C’è che Inej non è solo lo Spettro ma una giovane con una grande forza di volontà e voglia di riscatto…





Ci sono Nina e Matthias, tanto vicini quanto lontani, lei una Grisha (un essere dotato di poteri paranormali) e lui un druskëlle, un cacciatore di Grisha, ma il Fato vuole che non si possano separare…





E c’è pure Jesper, incallito giocatore d’azzardo ma che nasconde qualcosa a tutti, perfino a se stesso…





“Sei di Corvi” non è solo un romanzo fantasy; è soprattutto la storia di ragazzi giovanissimi cresciuti troppo presto e alle prese con qualcosa di più grande di loro (e non è il Destino, badate bene!).





Qualcosa che, nascosto, muove i loro fili come ballerine di cartapesta. E lo scopriranno solamente alla fine, quando sarà troppo tardi.





È un po’ la storia di tutti noi: spesso vogliamo emergere dalla melassa che ci incatena a una vita da formiche, ma senza la forza d’animo necessaria continueremo a correre in fila le une con le altre. Ci vogliono coraggio, astuzia, e un pizzico di fortuna; e non è detto che ci andrà bene comunque.





“Sei di Corvi” è quindi molto più che un semplice romanzo fantasy o l’avventura di cinque reietti.





O, per meglio dire: è l’avventura di cinque reietti che hanno deciso di voler contare qualcosa e di riemergere dai bassifondi di una vita fastosa, forse sì, ma mediocre nell’anima.





Perché ognuno di noi ha qualcosa da espiare.





E prima o poi ti chiederà il conto.





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Published on September 23, 2019 23:00

September 21, 2019

ANTEPRIMA: “Un’altra vita” di Alessandro Marazzato

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In anteprima un estratto del nuovo romanzo della collana Policromia, scritto dall’esordiente Alessandro Marazzato!





In questo racconto a capitoli, lo scrittore ci trascina sull’isola di Creta, dove vive da qualche anno, rendendoci partecipi delle sue vicissitudini e della nostalgia di amici e parenti sempre latente in lui.





Un’immersione in sentimenti, sensazioni, sapori e odori che non potrà lasciare indifferente il lettore.





Qui di seguito trama e un estratto.









Mia figlia sorrideva triste e io mi domandavo se quello non fosse l’ultimo dolore che le recavo. Mi accarezzava spesso, forse per tenere nei palmi il mio odore. L’ho sempre amata e le sono stato vicino ma, come due parallele, non ci siamo mai intersecati. Pur sforzandoci, rimanevamo due dirimpettai che si cercano guardandosi ogni giorno e alzano la mano in segno di saluto. Non rimaneva altro che un sorriso, una carezza: tutto lì. La mia vita ormai era altrove. Ultimi giorni di angoscia e di preparazione, poi via verso l’isola sconosciuta, speranzoso di ricominciare e lasciare tutto e tutti alle spalle.

Un’altra vita. Un racconto in capitoli trattato con ironia e fraseggio interiore dialettale (tradotto). Uno scambio di battute con la coscienza vigile descrivono l’attuale vita dell’autore tra avventure amorose, amicizie sincere e veleggiate sul suo Koala 38.









PROLOGO



Sbarcai a Creta un giorno di maggio per un periodo di indagine.
Desideravo stabilirmi sull’isola ed eleggerla come seconda patria. Appena
attraversato il tunnel mi ritrovai in una selva di corpi che mi stringeva e
pressava, un carnaio in cui la cacofonia di lingue mi stordiva. I variopinti
abbigliamenti dei turisti ondeggiavano come fiori al vento, profumi e odori si
condensavano in un unico miasma soporifero. L’altoparlante sovrastava il brusio
insistente. Il tintinnio dei bicchieri e delle tazzine del bar, collocato sotto
una finta tettoia di palme, si perdeva cristallino sulla pletora di voci.





Ero turbato e confuso. Scombussolato
dai discorsi di quell’ultima cena con gli amici da Maria, la gestrice del
ristorante che aveva preparato una tavola degna di un convivio luculliano,
ripercorrevo costantemente la serata. Loro mi dicevano: «Tanto Creta è a un
tiro di schioppo, in tre ore sei a casa.» Qualcuno mi rammentava che forse un
periodo sabbatico mi avrebbe solamente giovato. Qualcun altro mi confortava
raccontando delle cazzate che combinavamo imitando il film “Amici miei”. La
maggior parte ironizzava sulla mia imminente partenza, mancavano dieci giorni,
paragonandomi all’emigrante veneto con la valigia di cartone tenuta da uno
spago.





Mia figlia, seduta di fronte a me,
sorrideva triste e io mi domandavo se quello fosse l’ultimo dolore che le
recavo. Mi accarezzava spesso, forse per tenere nei palmi il mio odore. L’ho
sempre amata e gli sono stato vicino ma, come due parallele, non ci siamo mai
intersecati. Pur sforzandoci, rimanevamo due dirimpettai che si cercano guardandosi
ogni giorno alzando la mano in segno di saluto. La mia vita ormai era altrove.





I fuggiaschi, quelli che se ne vanno da
una realtà divenuta, nonostante tutti gli sforzi per raddrizzarla, storta e
insostenibile, tendono ad annullare, dimenticare e annichilire ogni traccia del
passato. Sperimentano di tutto per nascondere e confondere le orme e i segni
lasciati dal transitare sulle vestigia di un passato ormai remoto. Io ero
consapevole di me stesso, dei miei trascorsi. Non cercavo di scomparire e mi attaccavo
agli affetti ancor più di quando li frequentavo, ma me ne dovevo allontanare
per salvarli, perché non rimanessero in me come rovine ma semplici e attuali
ricordi. Il passato è come un fantasma che appare nei momenti bui e quando meno
te lo aspetti ti segue mormorandoti i fallimenti che hanno costellato la vita,
dimenticando i successi. Avrei dovuto aver pietà di me e dei miei atti,
quell’antica “pìetas” che rispecchia, tra l’altro, il sentimento religioso, il
rispetto della famiglia, il valore gerarchico che ancora confusamente
albergavano in me. Non avevo fatto mai chiarezza e neppure avevo imparato che
la pietà è quella parte dell’amore che non chiede nulla ed è di per sé una
preghiera. Ora lo sapevo ma sembrava che tutto fosse perduto.





Forse
semplicemente accantonato
,
mi dissi in preda all’angoscia.





Avevo bisogno di respirare. Uscii e mi
sedetti sulla panchina dell’ingresso guardando i turisti che trascinavano i
trolley o si caricavano in spalla zaini voluminosi dai quali pendevano i più
disparati oggetti. File ordinate di nordici stazionavano di fronte ai box delle
varie autolinee. Frotte di italiani e spagnoli assalivano corriere e autobus
come fossero diligenze nel far west mentre personaggi più distinti e ricchi
incedevano, naso all’in su, verso il parcheggio dei taxi.





Ero stanco e frastornato. La decisione
di partire mi era costata parecchio in emozioni e convinzioni. Il tempo per i
se e i ma era scaduto, e mi trovavo solo in un paese straniero con una lingua
incomprensibile. Una vita di successi e disastri alle spalle non mi aveva
insegnato niente dell’amore, della tolleranza e della pace: avevo gustato solo
avventure. Portavo sulle spalle le azioni passate come Atlante la volta
celeste. Esausto, mi sentivo imbrigliato in una ragnatela di crucci e
rincrescimenti. Più progettavo di riemergere e più affondavo invischiato in una
densa melassa che m’impediva movimenti fluidi. Nuotavo nell’affanno e avevo
paura. L’ego si ribellava alla situazione di stasi e all’accondiscendenza
supina di una realtà devastante. Pagavo il motto preferito: meglio rimorsi che
rimpianti. Non sono ubbidiente per natura e tanto meno il mio carattere si
adatta all’inerzia.





«Cerco pace, anche se dolorosa»mormorai guardandomi ancora una volta
attorno alla ricerca di un segno, di un indizio che rivelasse che quanto stavo
facendo fosse la cosa giusta. «Perché qui?»





Era vero che avevo accettato un invito
ed era altrettanto vero che Creta era la meta ideale per lontananza e, al
contempo, per vicinanza al mio paese. Avevo altresì ricevuto proposte dalla
Spagna e dal Venezuela, persino dalla Germania da dove alcuni amici mi avevano
scritto offrendomi ospitalità. Perfino dalla Norvegia mi aveva telefonato una
vecchia “morosa”, sperando di riavermi tra le sue braccia. Io avevo scelto
Creta senza un preciso motivo se non quello di incontrare una vecchia amicizia.





Da un’ora stavo seduto a pensare,
recriminare e immaginare, nell’attesa dell’autobus che da Chania mi avrebbe
condotto a Rethymnonn. Quando arrivò, trascinai le valige e mi sedetti al primo
posto per avere una visuale migliore del nuovo panorama.





Seduto a osservare il paesaggio, ancora
verde della primavera, mi resi conto che mi rimanevano solo due opzioni: o
credere in me stesso e nelle mie possibilità, o no; e ciò sarebbe stato come un
trampolino o una fossa, una ripida e difficile salita o una fluida e veloce
discesa nel precipizio della fine.

Ora percorro le strade dell’isola, che fu patria
di Minosse, alla ricerca di una dimensione consona al mio spirito curioso ed
errabondo. Nel girovagare peregrinante, senza precise mete, incontri casuali e
cercati tingono i giorni di colori vivi, e avvenimenti fortuiti mi donano nuova
linfa. Le donne, tutte, sono il leitmotiv. I suggestivi paesaggi di Creta
permeano di eros e pathos le mie esperienze di errabondo.




L'articolo ANTEPRIMA: “Un’altra vita” di Alessandro Marazzato proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.

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Published on September 21, 2019 23:00

September 17, 2019

Show, don’t tell: aggettivi deboli

Show, don’t tell: aggettivi deboli






Spesso ci lasciamo trasportare dalla pigrizia e preferiamo appoggiarci a concetti semplici e veloci, senza star troppo a spremerci.





Non è un male, bada bene, ma se fatto spesso impoverisce la tua scrittura.





Come nel caso degli aggettivi “deboli”.









[image error]Foto di JL G da Pixabay



Mostra, non raccontare!



In questo caso sarebbe meglio scrivere: mostra, non usare troppi aggettivi.





Sì, perché se da un lato un aggettivo sembra arricchire la tua scrittura, dall’altro la impoverisce.





Suona strano, vero?





Meglio che mi spieghi con qualche esempio.





Margherita aveva notato quella strana e bellissima ragazza, per lei e per gli altri, già altre volte sulla metro. Non sapeva perché, ma catturava la sua attenzione. Forse per via del bizzarro abbigliamento, o forse era l’aria spersa che si trascinava dietro. Fatto sta che un giorno decise di avvicinarla. Così, senza nemmeno pensarci prima. Ma ne era davvero incuriosita, anche se un poco timorosa. Sì, quella ragazza stramba la spaventava anche.





Di per sé, noterai anche tu, questo testo non ha nulla che non vada.





A una lettura più attenta, però, potresti già cogliere dei problemi.





Un altro esempio per farti capire meglio.





Quella casa era davvero splendida! Romeo non ne aveva mai visto una simile, così bella e ordinata e pulita. Si guardava intorno, meravigliato, e l’avrebbe voluta anche lui una così. Fiorella lo fece accomodare in una cucina ampia e maestosa, e gli offrì una fetta di dolce prelibato.





Anche qui non c’è nulla di strano…





… solo in apparenza.





Il vero problema di questi due esempi è che entrambi sono raccontati.





Non trasmettono nulla, non lasciano nel lettore alcuna immagine, alcun profumo.





Sono testi scritti con pigrizia, e proprio per questo poco accattivanti.





Sarebbe stato meglio mostrare anziché adagiarsi su aggettivi usati e strausati, e sono certa che avrebbero dato tutt’altra impressione.





[image error]



Aggettivi deboli, scrittura opaca



Prendiamo alcuni aggettivi scritti qui sopra.





Una strana e bellissima ragazza, con un bizzarro abbigliamento.





Una casa splendida, una cucina maestosa, un dolce prelibato.





A rifletterci bene, sono tutte descrizioni che nella nostra mente non rimandano nulla.





Una ragazza strana e bellissima? Ma strana perché? E bella secondo chi? E perché questa persona la ritiene bella? E cos’ha di bizzarro il suo abbigliamento?





E la casa: è splendida, okay, ma come? Cosa la rende splendida rispetto ad altre, o semplicemente rispetto al punto di vista di Romeo? E la cucina maestosa? Per quale motivo? E il dolce prelibato? Che tipo di dolce, e perché prelibato?





Lo so, ci potremmo addentrare in discorsi infiniti, ma la scrittura non è semplice, e arretra da chi te lo dice, o da chi ti vuole far credere che basta poco a scrivere una storia. Sì, bastano anche pochi giorni, ma forse il risultato non è quello sperato.





Per scrivere occorre consapevolezza, certo, ma anche un po’ di stile… e un po’ di accortezza per il povero lettore, che sappiamo ama immergersi in un romanzo nella sua totalità, e soprattutto odia quando gli si impongono concetti prestabiliti.





E che cavolo! Io voglio sapere com’è questa casa così splendida, voglio vedere com’è questa ragazza che Margherita considera strana, e voglio sentire nelle mie papille gustative questo dolce così prelibato. Ne ho diritto!





Quindi abolisci tutti gli aggettivi deboli e inizia a far uscire dalla tua testa creativa un po’ di fantasia.





[image error]Foto di Christian Bueltemann da Pixabay



Una scrittura per immagini



Sto leggendo un romanzo che mi sta piacendo tanto (di cui pubblicherò a breve la recensione) e, giusto per scrupolo, o deformazione professionale che dir si voglia, mi sono messa a cercare aggettivi deboli o concetti scontati.





Ebbene: sia l’autore sia l’editor hanno fatto un buon lavoro, perché non ne ho trovati.





Ogni emozione è mostrata, ogni oggetto pure, ogni sensazione riecheggia grazie a paragoni o metafore mai scontate.





Questa è senz’altro una scrittura matura e per immagini.





Certo, non tutti siamo grandi scrittori, men che meno la sottoscritta (a volte mi lascio tentare dalla pigrizia, ne convengo), e non dico di arzigogolare il nostro testo di iperbole o altro, ma una buona partenza è, appunto, scovare tutti gli aggettivi deboli e sostituirli con qualcosa in più.





Ti hanno detto che l’editing è eliminare buona parte del testo? Sicuramente, pure Stephen King lo consiglia, ma in certi casi è meglio una spiegazione in più, un’immagine in più.





Quella ragazza la guardavano tutti. Non solo gli adolescenti che si davano di gomito e sussurravano ogni volta che saliva, sempre alla stessa fermata di Bellecour e sempre alle 17.30, minuto più e minuto meno. Pure qualche anziano smetteva di fissare il finestrino e la occhieggiava, facendo scorrere lo sguardo prima sui ricci che le incorniciavano il viso e il cui il rosso ramato si rifletteva sui sedili, e poi lungo il cappotto di lana viola da un lato e verde dall’altro, stretto quanto bastava per evidenziare un seno che proprio non ne voleva sapere di essere compresso sotto quella stoffa. Per finire sulle lunghe gambe fasciate in collant rosa Big Babol e sugli anfibi con i lacci arcobaleno.

Ma a Margherita erano rimasti soprattutto impressi gli occhi. Occhi che vagavano qua e là appena entrava e che non smettevano di fissare intorno a sé anche quando la ragazza si era seduta o era aggrappata a una maniglia. Occhi che cercavano. Occhi che scrutavano. Occhi che volevano dire: ti prego, fa’ che non sia qui.

Margherita conosceva bene quello sguardo. Era lo stesso che aveva avuto per due anni. Per i due anni in cui Arturo aveva fatto parte della sua vita.





Sei d’accordo anche tu che questo testo, riscritto, pur avendo altre criticità suona decisamente meglio del precedente?





Spero di sì.





Invece che usare aggettivi deboli ho cercato di mostrare perché questa ragazza susciti attenzione negli altri e soprattutto in Margherita. Visto che vediamo la scena dal suo punto di vista, ho cercato di mostrarlo attraverso i suoi occhi.





Ciò ha impiegato qualche paragrafo in più, ma almeno le immagini che ne escono sono visive: so che la ragazza in questione ama vestirsi usando vari colori e so anche che qualcosa la spaventa. Come so che molti la guardano, vecchi e giovani, e i primi non lesinano a far scorrere lo sguardo sul suo corpo. E so pure che Margherita la ritiene spaventata perché in lei rivede la se stessa di prima.





Informazioni in più che danno colore alla scena aggiungono quel qualcosa che potrebbe spingere il lettore a continuare la lettura e non a chiudere il libro.





[image error]Foto di Erbs55 da Pixabay



In conclusione



Un veloce articolo come questo non sarà mai abbastanza esaustivo per colmare tutte le lacune che ho lasciato e per terminare il discorso sullo show, don’t tell: ci vorrebbe un intero libro, e forse anche in quel caso qualcosa rimarrebbe indietro.





Per permetterti però di avere quantomeno qualcosa una volta terminata la lettura, ecco qualche veloce consiglio per eliminare gli aggettivi deboli dal tuo testo.





Primo consiglio: quando scrivi la prima stesura, a meno che tu non abbia momenti di particolare creatività, essa sarà piena di aggettivi deboli e di raccontato. Fregatene. Continua a scrivere e arriva alla fine.





Correggere in fase di scrittura è deleterio perché ti impedisce di concludere, e rischi di impantanarti.





Secondo consiglio: riscrivi qualsiasi scena debole o poco chiara solo durante la fase dell’editing.





L’ideale sarebbe evidenziare tutti i passaggi di raccontato, aggettivazione e avverbi con colori diversi, così da avere da subito un colpo d’occhio su cosa è necessario migliorare.





Terzo consiglio: nel riscrivere le scene mostrando e non raccontando, cerca anche in questo caso di non adagiarti su cliché e frasi fatte.





È il caso di dire che “tremava dalla paura” e “tremava come una foglia” non vanno bene! Usa la fantasia, evita il già sentito.





Ultimo consiglio: lascia correre la fantasia!





Non è il caso di aggiungere altro

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Published on September 17, 2019 23:00

September 7, 2019

Collaborare con case editrici? Non saprei

Collaborare con case editrici? Non saprei






Il sogno di tanti blogger è collaborare con grandi case editrici.





Non so il motivo, a dirti la verità, ma forse è perché tanti nomi big accettano solo blog con grande seguito e interazioni, e il fatto di esserlo è un successo personale.





Come dire: ho un blog seguito e finalmente anche un grande editore si fida di me e delle mie recensioni!





Purtroppo, come tante belle cose, anche questa cela del marcio.





Sì, perché tante case editrici cercano i blogger, ma poi non li trattano bene. Affatto.









[image error]Foto di Free-Photos da Pixabay



Case editrici? Di tanto in tanto



Raramente collaboro con case editrici; intendo come blogger.





Nel mio precedente blog accadeva più spesso, adesso, avendo lasciato in sospeso la questione recensioni, lo faccio solo per libri che hanno attirato la mia attenzione o mi piacciono davvero.





Spesso si tratta di libri editi da grandi CE che hanno fatto richiesta ai blogger attraverso i social, come ad esempio la partecipazione a blogtour o review party.





Una richiesta, quindi, che viene direttamente da loro.





E allora mi domando: perché poi ci trattano, quando va bene, con indifferenza e, quando va male, quasi a pesci in faccia?





Un quesito tanto misterioso da poterci scrivere una storia.





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Tempo dedicato, tempo sottratto



Essere blogger è un impegno costante e soprattutto richiede tempo. Che spesso è poco: mica viviamo su internet ventiquattro ore al giorno!





Quindi se scegliamo di leggere un romanzo dobbiamo ritagliarci un po’ del nostro tempo, e una parte la useremo anche per scrivere la recensione. Magari sul treno, in autobus, prima di dormire…





In ogni caso è tempo sottratto (ma non per questo sprecato) ad altro, ai figli, alla casa, al proprio animale domestico, ai genitori.





Tutto questo per dirti che, soprattutto se leggiamo un libro che una casa editrice ci ha inviato, ci aspettiamo una sorta di ricompensa per aver impegnato parte del nostro tempo.





E raramente arriva.





[image error] Photo by Kasturi Roy on Unsplash



Editori, questi ingrati…



Posso contare sulla punta delle dita gli autori self che non mi hanno ringraziato per una recensione o altro (sì, ci sono stati, non tutti sono educati e riconoscono l’impegno).





Posso anche contare sulle dita le case editrici che hanno messo un “mi piace” o hanno commentato o condiviso.





In genere lo fanno quelle piccole o medie, le grandi non sanno nemmeno se esisti.





Lo so, è brutta da dire, ma se lo faccio è perché ne ho avuta esperienza diretta.





Non una condivisione, un mi piace, un misero commento… nemmeno un ringraziamento collettivo per quei venti blogger che hanno recensito in anteprima (e magari bene) un romanzo.





A volte promettono di inviarti la copia cartacea a mo’ di ringraziamento, ma solo una volta mi è effettivamente arrivata. Le altre la promessa è caduta nel limbo.





Non è di certo un bel modo di comportarsi.





Ci potrebbe domandare perché facciano così, ma a dirti la verità non saprei proprio cosa rispondere.





Da curatrice di collana ho a cuore i blogger che contatto per recensioni o segnalazione, e nel mio possibile cerco di ringraziarli sempre. Ma evidentemente ai piani più alti non funziona così.





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Tutto questo per dirti…



… che non sempre quello che sembra bello e aspirato da tutti è in realtà qualcosa di valido.





Non voglio fare troppo la bacchettona, ma avevo questo sassolino da un po’ e mi andava di tirarlo in acqua.





Ovvio che non tutti gli editori sono così; anzi, molti sono davvero generosi e cordiali, ma salendo le scale delle gerarchie è difficile trovare umanità dietro uno schermo.





E serietà.





C’è sempre la mosca bianca, e spero anche io un giorno di trovarla.





Ammesso che qualcuno non la spanteghi prima sul tavolo.





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L'articolo Collaborare con case editrici? Non saprei proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.

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Published on September 07, 2019 23:00