Emanuela Navone's Blog, page 29

February 19, 2019

Correggere un libro di seicento pagine in un mese è un suicidio letterario

Correggere un libro di seicento pagine in un mese è un suicidio letterario





In tanti non del mestiere mi chiedono e si chiedono quanto duri l’editing su un libro. Poco? Troppo? 





E se è troppo tempo o troppo poco, cosa comporta?





Oggi vedrò di rispondere a queste domande, con una premessa fondamentale: correggere un libro di seicento pagine in un mese è un suicidio letterario.









[image error] 1388843/Pixabay



Quanto “dura” il lavoro di editing?



Innanzitutto, per molti aspetti dell’editing, anche in questo caso non c’è una risposta precisa: tutto dipende.





Dipende da come lavora un editor, se è da solo o affiancato da un team — qualora fossimo in una casa editrice —, se ha altri lavori oltre a quello, il tipo di correzione che richiede il testo… e così via.





Alcuni colleghi svolgono un lavoro di editing in poche settimane, altri ci mettono anche un annetto: tutto è relativo.





Quindi, nel momento in cui devi scegliere l’editor giusto per te, dà sì un’occhiata alle tempistiche, ma solo per saperti regolare in base alle tue esigenze: un editor che corregge un libro in pochi giorni può essere bravo quanto uno che impiega un anno.





Però… c’è sempre un però.





E ciò riguarda i libri particolarmente… corposi.





[image error]



Libro lungo = editing lungo



Facciamo un piccolo esempio pratico affinché tutti — e soprattutto i testoni — capiscano che se un libro è lungo il lavoro di editing non può essere fatto nel giro di poco.





Romeo è un autore in erba. Ha scritto un fantasy epico di cinquecentosessanta pagine, primo di una trilogia, e adesso è alla ricerca di un editor. Si imbatte sul sito di Giulietta, le piace e la contatta. Lei è disposta a correggergli il libro, ma Romeo ha un’esigenza: vorrebbe che il romanzo uscisse il 14 di febbraio, un anno esatto da quando ha iniziato a scriverlo. È la metà di dicembre. Giulietta fa qualche calcolo: avendo già altri due testi da correggere, e tenendo conto che, per essere pubblicato il 14 febbraio, il testo deve essere pronto almeno il 10, e che le serviranno almeno dieci giorni di rilettura, dovrà consegnare la prima bozza a inizio febbraio. Un mese e mezzo di tempo. Quindi… calcolando seicento pagine per stare larghi e dividendole per il numero di settimane — Giulietta conta di inviare un tot. di pagine a settimana a Romeo, così che lui stia al suo passo — viene all’incirca un’ottantina di pagine a settimana. Il che vuol dire, lavorando otto ore al giorno e avendo anche altri due testi, per una correzione completa ma non del tutto invasiva — com’è il libro di Romeo — una ventina di pagine al giorno. Giulietta lavorerebbe sul testo di Romeo quattro giorni a settimana, prendendo gli altri due — o uno e mezzo: ricordiamo che ha altri due testi! — per una rilettura del blocco corretto.





Fattibile? Certo che sì, ma qui occorre fare dei distinguo.





Se, come nel caso del libro di Romeo, il testo non ha bisogno di un intervento di editing troppo invasivo, si potrebbe anche riuscire a completare un lavoro fatto bene nei tempi richiesti. Si potrebbe, appunto: perché Giulietta avrebbe poi solo dieci giorni per rileggere il testo che Romeo le rinvierà, alla ricerca di refusi o altro. E dieci giorni sono pochi, la lettura sarà più veloce e qualche refuso rimarrà per strada.





Se il testo ha bisogno di un intervento massiccio, con ampie correzioni e riscrittura di interi passaggi, siamo di fronte a un vero e proprio suicidio letterario.





Perché è impossibile correggere un testo così in un mese e mezzo circa.





E ciò, bada bene, non te lo dico perché me lo hanno detto: te lo dico perché mi è capitato, con buona pace mia e di chi mi ha inviato il libro.





[image error]Pexels/Pixabay



Dare il tempo al tempo



Gli autori che apprezzo di più sono quelli che mi dicono: “Ecco il libro. Non ho particolari tempistiche, ma conto che sia fatto bene, quindi anche se ci metti un anno non c’è problema, l’importante è che esca perfetto”.





Ecco, quando mi dicono così bacerei i loro piedi. E non perché ciò equivale a dire “me la prendo comoda e chi s’è visto s’è visto”, ma perché potendo organizzarmi senza una fastidiosa acqua alla gola, lo farò nel migliore modo possibile, per me e per l’autore.





Certo, è lecito che uno scrittore abbia delle esigenze, ma deve anche tenere conto delle esigenze di chi affronterà il suo testo.





Dai, a meno che non abbia le fette di mortadella sugli occhi — scusa ma la preferisco al salame

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 19, 2019 23:00

February 16, 2019

Avvocato, avvocata, avvocatessa: una riflessione sull’uso di maschile e femminile

Avvocato, avvocata, avvocatessa: una riflessione sull’uso di maschile e femminile





Da tempo ormai numerose parole sono entrate a pieno regime nel nostro vocabolario: anglicismi, parole prese dai social, e anche parole italiane che prima, forse, erano snobbate, come nel caso dell’uso femminile per alcune professioni.





Una riflessione, questa, nata spontanea dopo uno scambio di opinioni con un’autrice che seguo e dopo un interessante video dell’Accademia della Crusca, che troverai a fine articolo.





Perché vi è spesso reticenza nell’utilizzo di termini nuovi?





E perché, invece, per altri siamo tranquilli e ne facciamo un uso forse spropositato?





Schiarirci le idee sarà lo scopo di questo articolo.









[image error]Greyerbarby/Pixabay



Tu, operaia? No, sindaco!



La domanda sorge lecita: perché per alcune professioni è d’uso ormai consolidato da anni la distinzione tra maschile e femminile (operaio, operaia; bidello, bidella; fornaio, fornaia, e così via), mentre per altre vi è ancora reticenza?





Pensiamo agli odiernissimi “sindaca” o “ministra”, e pure ad “avvocata” — ma ce ne sono altre! Parole che non sono errate — e se provi a scriverle su Word o altro vedrai che non te le segna come errore — ma che qualcuno, ancora, fa fatica a usare, preferendo la “versione” maschile.





Io stessa ammetto di avere qualche perplessità circa l’uso di “avvocata”, preferendo “avvocatessa”, più per un fatto di musicalità che per ragioni culturali o altro.





La questione è tutta lì: chi non vuole usare queste forme femminili lo fa per qualcosa di consolidato nel suo io — un’avversione nei confronti del “nuovo”? — o perché in bocca suona male, dà fastidio allo scritto e al parlato?





Medica e medichessa? Sì!



Nel 2017 l’Accademia della Crusca, in un suo articolo, ha confermato che, seppur sempre con reticenza da molte parti, anche per altre professioni è valida la forma femminile.





E così non abbiamo solo la guardia medica, ma anche la medica, chi svolge questa professione: “Entrambe le forme” leggiamo sull’articolo “sono attestate nella letteratura fin dai primi secoli.”





Purtroppo, parole come “medica” e “medichessa” oggi non sono molto gettonate, come invece accadeva in passato — e l’articolo della Crusca dà molti esempi. Forse perché troppo pesanti da sentire, o sempre per la solita reticenza nei confronti del nuovo — per non parlare di questioni sessiste o peggio.





[image error]



Che fare, quindi?



L’italiano è una lingua in costante evoluzione: quante parole nascono al giorno, magari tra di noi, e quante di nuove ne sentiamo in giro? Per non parlare di tutto ciò che i social partoriscono: anglicismi spesso antipatici ma che ormai non riusciremmo a evitare di usare.





Dai, sarà bruttino, ma come potrei dirti che ti taggo in una foto senza usare quel verbo? “Appongo il tuo nome su questa foto presente su Facebook”? Mmmm… macchinoso, meglio taggare.





In altri casi, invece, possiamo anche fare a meno di queste nuove parole: sì, googlare è più veloce, ma anche “cercare su Google” ha lo stesso significato, no?





Perché, allora, se usiamo questi nuovi termini come se li conoscessimo da sempre, abbiamo più reticenza nel coniugare al femminile una professione?





Se ci pensi bene, la questione ha poco senso.





Forse è davvero una questione culturale, di avversione per il nuovo… che poi del tutto nuovo non è, come hai letto prima.





Quel che sia la tua opinione, l’importante è comprendere come la nostra lingua sia variegata e dalle mille sfumature: nessuna parola deve essere mai messa a caso — e men che meno in un libro — e ogni termine ha la sua importanza, che sia un’avvocata o un profilo fake su Facebook.





E chissà che magari anche tu, un domani, non inventerai una nuova parola: con l’italiano tutto è possibile — tranne gli orrori grammaticali: quelli sono osceni.






L'articolo Avvocato, avvocata, avvocatessa: una riflessione sull’uso di maschile e femminile proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 16, 2019 23:00

February 14, 2019

Phi di Azra Kohen: recensione

[image error]



Can Manay è uno psicologo con molte ombre nel passato. Grazie alla sua filosofia di vita e ai suoi insegnamenti, ha ormai la popolarità di un guru ed è una potente e capricciosa star mediatica.
Un giorno, mentre visita una proprietà da acquistare in un quartiere defilato della città, scorge tra le foglie una ragazza, una ballerina, che con una grazia e un’armonia uniche si esercita nel giardino di casa.
Per Can è una vera e propria rivelazione: davanti a sé c’è l’incarnazione della perfezione estetica, di ogni ideale di bellezza, il PHI.
L’uomo non può far altro che ricorrere a tutti i suoi mezzi e la sua ricchezza per conquistarla… Ma c’è qualcosa di più spietato dell’amore per una sola persona?
Inizia così la travolgente storia di Can e Duru, del suo fidanzato Deniz e di Özge, una giornalista che scoprirà scottanti segreti sul conto di Can.
Quattro personaggi intramontabili perché ci somigliano da vicino, ciascuno con i suoi traguardi da raggiungere e le sue ossessioni.
Una storia di passione, speranza, tradimento, come la vita vera, che condurrà il lettore a muovere i primi passi verso un percorso di consapevolezza. Come i personaggi di
PHI , infatti, «ciascuno, nella vita, ha una cosa che gli riesce molto bene. Una soltanto. Ce la portiamo dentro sin dalla nascita» e il nostro compito è riconoscerla; in una parola, scoprire chi siamo davvero.













Non so dire se questo libro mi sia piaciuto o meno.





Certo, è davvero complesso e ha un intreccio talvolta difficile da seguire, ma è anche vero che la narrazione affascina sin dall’inizio e ti sprona a macinare come niente le oltre seicento pagine.





Tuttavia qualcosa… come si suol dire… forse è andato storto, perlomeno dentro di me, e mi impedisce di essere positiva al cento percento.





Partiamo però dalla trama.





Seguiamo, in tutto il libro, le vicende di quattro personaggi, di cui il protagonista assoluto è l’eccentrico psicologo Can Manay, che per caso nota la ballerina Duru e se ne innamora. Abbiamo, poi, il fidanzato di Duru, Denis, un musicista spesso strafatto che fatica a trovare un posto nel mondo, e la giornalista Özge, la quale ha scoperto alcune cose sul conto del Manay, molto torbide. Per finire Bilge, la studentessa solitaria che entrerà ben presto in contatto con lo psicologo.





Scrivere, però, come banalmente ho fatto prima, per sintetizzare la trama in un paragrafo, che il Manay si innamora di Duru è riduttivo e sminuirebbe la portata di questo romanzo: Can è attratto dal Phi, dalla perfezione, e per lui Duru rappresenta proprio questo. È quindi qualcosa che va oltre l’amore, sia fisico sia platonico, né il buon Can Manay è un personaggio che possiamo inquadrare in uno o più aggettivi precisi.





È forse il personaggio che mi ha incuriosita di più, anche se l’ho detestato a più riprese per il suo carattere capriccioso e volubile. Ma, come gli altri personaggi, è davvero a tutto tondo, e questo a mio avviso è il punto di forza della storia: l’aver saputo tratteggiare in maniera egregia ogni personaggio, dal protagonista alla comparsa, e tutti hanno un profilo psicologico davvero dettagliato.





Forse il mio giudizio non del tutto positivo riguarda l’intreccio, che spesso ho trovato, sì, diciamo difficile da digerire, con lunghi dialoghi che talvolta mi hanno annoiata, e i continui richiami a “qualcosa che accadrà” che mi sono sembrati forzati, come se si avesse voluto a tutti i costi trattenere il lettore sulle pagine — fatto che non sarebbe comunque servito.





Il punto che mi ha delusa maggiormente, però, riguarda l’ambientazione.





Sarò troppo pignola sotto questo aspetto, ma quando leggo un libro voglio essere nella storia, nei luoghi. Voglio conoscere tutto, anche a costo di rasentare un’ossessione per l’infodump, sennò mi sento… come dire, estraniata.





In “Phi” ho dovuto più volte spremere la mente per cercare di capire dove fosse ambientato, perlomeno la città, perché difficilmente l’autrice dà informazioni di questo tipo. E a me non piace troppo pensare quando leggo: preferisco lasciarmi trascinare dalla storia e dopo, magari sì, fare le mie considerazioni.





Quindi sì, il libro da una parte mi è piaciuto, ma dall’altra non mi sento di darvi un giudizio positivo del tutto.





Non è certo una lettura da spiaggia, quindi se siete in cerca di un romanzo per trascorrere qualche ora lieta, passate oltre, perché “Phi” è tutto fuorché un libro “per staccare”.





Se cercate, però, qualcosa di complesso e che vi faccia pensare (anche se troppo, da parte mia), “Phi” vi piacerà sicuramente.


L'articolo Phi di Azra Kohen: recensione proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 14, 2019 23:00

February 13, 2019

Case editrici VS scrittori: la storia infinita

Case editrici VS scrittori: la storia infinita





Da una parte abbiamo editori che pubblicano solo quello che piace al mercato e che fa “soldi”. O editori che pubblicano solo se pagati.





Dall’altra abbiamo scrittori che pubblicano solo con grandi editori, hanno mille pretese e snobbano piccole e medie case editrici.





La battaglia si svolge ormai da anni, ma non vede né vinti e né vincitori, né ci sono buoni e cattivi: entrambe le forze in campo hanno colpe e sono vittime.





In questo articolo cercherò di mettere su carta vizi e virtù di questi due grandi combattenti… affinché questa storia infinita abbia davvero fine.









[image error]ulleo/Pixabay



L’editore succhia-soldi e il Grande Snobbatore



Il sogno di ogni autore è pubblicare con un editore serio.





Dimmi se conosci qualcuno che non lo ha, perché voglio assolutamente chiedergli il perché!





Purtroppo, se sei un esordiente con nessuno alle spalle — in pratica uno sconosciuto, ahimè — è molto difficile che una grande casa editrice si accorga di te.





Dai, non nascondiamo la testa sotto la sabbia: è risaputo come i grandi editori preferiscano pubblicare chi sanno di vendere — che sia un autore famoso, un calciatore o altro, o qualcuno con grande seguito ad esempio su Wattpad.





E magari ciò che pubblicano ha contenuti di bassa qualità o trama e argomenti di banalità estreme.





Cavolo! Io ho impiegato anni per scrivere il mio libro, e ‘sti editori preferiscono pubblicare robbaccia?!





Sicuramente questo pensiero ti sarà venuto più di una volta, ho ragione?





O ancora:





Ho scritto a quattro editori e tutti e quattro mi hanno chiesto dei soldi! Ma non c’è proprio niente di serio?





Da questo punto di vista, tante case editrici sono viste come il cattivo per eccellenza, da combattere o da snobbare per il più tranquillo self-publishing.





Tuttavia se leggi i miei articoli sai che mi piace fare il bastian contrario e dire cose che tanti non vogliono sentire.





E quindi.





[image error]



L’autore pretenzioso o l’Odioso… Menabelino



Dalle mie parti, chi “mena” non è solo chi picchia, ma anche chi stressa. E il belino… be’… diciamo che è un termine tipicamente ligure riferita all’organo maschile. In soldoni, un menabelino è qualcuno che rompe le scatole a non finire.





E con grande rammarico mi tocca scrivere che purtroppo ci sono tanti autori che rompono, con richieste assurde o con pretese che nemmeno a Lourdes potrebbero risolvere.





Cambiamo un poco prospettiva e mettiamoci dalla parte degli editori.





Grandi, meno grandi e minuscoli — tralasciando chi si fa pagare ché è un altro discorso.





Orbene: innanzitutto se l’autore ha l’ardire — e l’incoscienza — di spedire un manoscritto che fa orore, sotto tutti i profili, non c’è trama che tenga: sarà scartato in un batter di ciglia — o con la stessa velocità con cui si emette un peto, tanto per variare con i paragoni.





E ciò purtroppo accade, e non te lo dico perché lo so da Tizio, Caio o Fiorellin del Prato, ma perché avendo lavorato in una casa editrice e dirigendo una collana di narrativa me ne sono arrivati spesso.





In questo caso l’autore non si lamenti se nessuno lo considera.





E poi vogliamo parlare degli autori che hanno quarantaquattro gatti… ops… pretese e si credono l’incarnazione di Zeus e altri?





Dai, sicuramente ne conosci anche tu: scrittori che, convinti di aver in mano l’opera del secolo, sobillano il povero editore con richieste tra le più assurde, che questi non tarderà a soddisfare seppur con due o tre imprecazioni, e che vogliono tuttosubitosennòrecedodalcontratto?





Anche in questo caso ci sarebbe molto da dire, ma voglio farla breve.





Per non parlare degli autori che, come gli editori, hanno l’attitudine a snobbare… magari piccole case editrici serie che farebbero i salti mortali per pubblicarli poiché hanno davvero scritto un buon libro, ma no! questi autori vogliono il big e se poi non se li fila nessuno tappezzano la bacheca di Facebook con mille critiche e goccioloni di lacrime… per poi passare con aria arrogante, ancora una volta, al self-publishing.





Capito perché entrambe le parti in gioco hanno colpe?





[image error]LUM3N/Pixabay



Storia infinita non avrà fine



Lo scopo di questo breve articolo era di porre fine a una storia infinita…





… ma storia infinita non avrà fine, perché nessuna delle due parti ammetterà mai i propri errori, né tanto meno vorrà scendere a patti, attraversare il ponte levatoio e stringere la mano ai soldati avversari.





In effetti, le grandi battaglie della storia e quelle delle storie raramente terminano con una stretta di mano, perché dovrebbe succedere tra editori e scrittori?





Mi piaceva, però, esporre il punto di vista di ambo i lottatori, perché troppo spesso tendiamo a incolpare di tutto una sola parte, senza renderci conto che anche noi sbagliamo.





Di certo non cambierò la storia con quattro righe scritte alle cinque di sera, però nella mia mente mi è piaciuto immaginare editori e scrittori l’uno di fronte all’altro, come una guerra al fosso di Helm 2.0

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 13, 2019 08:29

February 9, 2019

Quando l’editing serve davvero (e quando è inutile)

Quando l’editing serve davvero (e quando è inutile)





Ne parlano tutti come se fosse un mostro che distrugge un libro, oppure come un angelo che lo salva da morte certa.





Tuttavia il famigerato EDITING a volte… non serve a niente.





Sorpreso e scettico? Tranquillo: in questo articolo ti chiarirò le idee, e scoprirai perché in certi casi affidarsi a un editor è pressoché inutile.









[image error]_Alicja_/Pixabay



Editing, questo “sconosciuto”…



Ebbene sì, ancora oggi molti autori non hanno idea di cosa sia l’editing.





Qualcosa tipo il dating? O una glassa come il frosting?





Non voglio sprecare troppo tempo a spiegarti che cos’è l’editing perché l’ho fatto in altri articoli, oggi ti basti sapere che l’editing è quella penna magica che puff! migliora il tuo libro e lo rende quantomeno leggibile, e l’editor è la mano che muove quella penna.





Magari l’editor è un freelance che lavora in autonomia, come nel mio caso, oppure è una figura che fa parte del team di una casa editrice — e che nella migliore ipotesi fa solo quello; nella peggiore è il factotum stagista che si occupa anche di altro.





Non sto nemmeno a spiegarti come si fa l’editing e quanti tipi esistono, perché ogni editor ha il suo modus operandi.





Oggi ti parlerò di qualcosa che sicuramente tanti colleghi, se lo leggessero, mi bandirebbero a vita dalla Terra delle Correzioni. Ossia: quando l’editing diventa inutile e dannoso.





[image error]



Premessa: l’editing serve



Una premessa quantomeno doverosa è obbligatoria è che l’editing serve.





Ma come, Emanuela: poco fa mi hai detto che a volte l’editing non serve!





Appunto: a volte.





Perché sì, a volte l’editing non solo non serve a nulla, ma potrebbe anche rovinare il tuo libro.





Tranquillo, non metterti le mani nei capelli: ti spiego subito.





E, poiché ormai dalle medie ho la brutta abitudine di dividere i miei ragionamenti in blocchi, lo farò proprio così: elencandoti i due casi in cui l’editing è qualcosa oserei dire di deleterio.





[image error]Peggychoucair/Pixabay



Perché correggere un libro ben scritto?



Spesso gli autori mi contattano per una prova gratuita sul loro romanzo o racconto, e quando il libro che mi trovo fra le mani è ben scritto, sono sempre felice, perché c’è ancora qualcuno che si impegna in quello che fa.





Tuttavia talvolta mi domando: ma se un libro è già ben scritto, che senso ha correggerlo?





Voglio dire, se non ci sono troppi orrori grammaticali, se la scrittura e fluida e l’intreccio sta in piedi, a parte una pulizia da eventuali refusi o un miglioramento di periodi o frasi poco chiare, non saprei davvero dove mettere le mani.





E non lo dico perché questo lavoro non lo so fare.





Proprio perché è il contrario che a un certo punto metto le mani avanti e rispondo: “Ascolta, il libro è scritto bene, e sono contenta per te. Ma non mi chiedere di correggere ciò che è già corretto perché andrei oltre il lavoro dell’editor“.





Sì, perché se volessi a tutti i costi riscrivere qualcosa che va bene così, non solo perderei del tempo, ma stravolgerei il lavoro dell’autore. E non è il mio scopo.





Riassumendo, quindi: se un libro è già ben scritto, l’editing sarebbe inutile. Non si può migliorare qualcosa che va già bene così.





Purtroppo la maggior parte delle volte i libri che ricevo hanno bisogno di una robusta revisione…





… o peggio.





[image error]stempow/Pixabay



Quando anche l’editing si arrende



Povero editor… a volte gli capita di incappare in certe… cose (non saprei nemmeno come definirle) che gli fanno rimpiangere il giorno in cui ha deciso di fare ‘sto mestiere.





È proprio in questo caso che deve suo malgrado gettare le armi e dire: “Mi arrendo. Non c’è nulla che possa fare”.





Ebbene sì, perché quando un libro è scritto male, ma male tanto, non ha né capo e né coda… insomma, traballa, fa acqua da tutte le parti, è un’accozzaglia di roba e pure un minestrone mal cotto… non si può fare nulla.





Mi dispiace, perché dietro un libro c’è sempre qualcuno che lo ha scritto, ma certe volte è meglio dedicarsi ad altro.





Per quanto un lavoro di editing possa migliorare il migliorabile, se il libro, la storia o altro non stanno in piedi, l’unica soluzione è una riscrittura da capo, oppure stracciare il tutto e andare a cogliere narcisi sul monte Buio — ma non te lo consiglio perché è vietato.





Il problema è quando l’autore non lo capisce e si ostina a pubblicarlo lo stesso — uno dei problemi del self-publishing italiano.





[image error]



Conclusioni



Abbiamo visto, quindi, che sebbene il lavoro di editing sia importante se non essenziale per la maggioranza dei libri, in certi casi è meglio lasciare perdere.





Se il libro è già ben scritto, magari una semplice correzione di bozze potrebbe essere quella che fa per te.





Se il libro è… insensato, forse allora faresti meglio a ricominciare da capo, anche con un bel libro di grammatica davanti

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 09, 2019 23:00

February 5, 2019

Le verità di Numeesville – recensione

[image error]



Ci sono storie di cui non vorresti mai conoscere la fine, ma ricorderai per sempre come sono iniziate.





Un’intricata
ragnatela di eventi avvolge le vite degli abitanti della tranquilla
cittadina canadese di Numeesville e, poco a poco, rivela verità
sconcertanti.
In un tetro gioco del destino, c’è chi si nasconde
dietro una facciata di perbenismo, chi nega deliberatamente l’evidenza
dei fatti e poi c’è Sophie Park che, privata di una promettente carriera
giornalistica, scappa dalla gabbia del proprio presente. Si ritrova
però ad annegare nel torbido passato della sua città natale, dove
tornano a galla particolari ignorati di una morte misteriosa che l’ha
segnata profondamente. La donna non ha dimenticato e si rifiuta di
credere all’ipotesi di molti che si sia trattato di un suicidio, facendo
di tutto per riaprire quel caso, archiviato come irrisolto dieci anni
prima.
Ed è allora che una voce si solleva più forte delle altre, quella di colei che tutto sa, nonostante mai avrebbe voluto sapere.





Danzo leggera con lei e assaporo l’illusione di ciò che mi è rimasto della vita: i ricordi, i profumi, le sensazioni e… l’inaspettata verità.













[image error]StockSnap/Pixabay



Ritengo ormai che sia davvero difficile scrivere e trovare un thriller degno di tale nome, soprattutto nel panorama italiano e odierno.





Da amante del genere da anni e da una che scrive e ha scritto thriller, so che è complesso sia trovare una trama che si differenzi dal resto (ormai sono quasi stufa di amiche-mogli-figlie-ragazze-coppie perfette e di segreti familiari), e soprattutto portarla avanti senza… smagliature.





Il libro della Di Iorio e della Ferraro riesce a distinguersi in modo egregio, oserei dire, sia nel panorama dei thriller, sia nell’autopubblicazione italiana. Ed è veramente un piacere poterlo recensire e consigliarlo a chiunque capiterà qui.





Sophie ritorna dopo anni a Numeesville, una sonnolenta cittadina abitata da poche anime e che da subito dona quel sapore di vita di periferia e di rapporti di buon vicinato che spesso vediamo nei film americani. In realtà Numeesville sembrerebbe essere proprio la location ideale per verità a lungo celate e che scalpitano per tornare a galla: infatti, tempo addietro qui è morta Beth, una cara amica di Sophie e, sebbene si sia sempre pensato al suicidio, Sophie sente che qualcosa non torna.
La decisione di iniziare a indagare sulla morte dell’amica è solo uno dei molteplici aspetti che ruotano intorno alla protagonista, non da ultimo i rapporti con vecchi amici come Chris e Claire e con l’enigmatico Jack.
A mano a mano che va avanti, Sophie si troverà sempre più schiacciata in una trama spessa e impenetrabile, e dai risvolti difficili da immaginare.
Fino al colpo di scena conclusivo, classico ma egualmente scioccante.



A prima vista, la trama potrebbe sembrare semplice e dall’andamento “classico”: una donna fugge dal proprio passato e ritorna al paese natale, dove inizia a indagare sulla morte di un’amica e piano piano scoperchia uno scottante vaso di Pandora… con colpo di scena alla fine.





In verità, se la trama è semplice, l’intreccio segue una strada davvero tortuosa, con ripetuti incroci e curve a gomito, e situazioni in cui è fondamentale seguire il navigatore per non perdersi.





Un libro molto complesso, quindi, ma è proprio questa complessità il suo punto di forza. E, inoltre, la bravura con cui le due autrici hanno saputo destreggiarsi nelle varie situazioni e sotto-trame che accompagnano la principale, senza perdersi per strada o finire in vicoli ciechi.





Ho apprezzato anche l’ambientazione, questa cittadina innevata che in ogni angolo sembra sempre celare qualcosa. Deduco non esista nella realtà, ma è stata tratteggiata davvero bene.





Come pure il carattere della protagonista e degli altri personaggi: di certo a Numeesville non troverai cavalieri senza macchia e paura o supereroine belle e simpaticine!





Sophie, Claire, Chris, Jack, Ethan… sono persone che potremmo incontrare uscendo di casa tra poco, o in cui potremmo rivederci: questo perché sono umane, con pregi, difetti, sogni e paure. E segreti, ovviamente.





Unico neo in un romanzo che ho apprezzato dall’inizio alla fine: avrei preferito fosse approfondito il rapporto tra Sophie e Drew (che non ti svelo chi è, per non fare spoiler), ma per una completezza personale e la solita curiosità





In un thriller, si sa, o sai chi è il colpevole/assassino/villain, e segui le vicende del protagonista sperando che riesca a sconfiggerlo (a tal proposito mi viene in mente “Mr. Mercedes” di Stephen King), oppure, in pieno stile Agata Christie, devi accompagnare il protagonista nello scoprire chi ha commesso cosa.





Difficile da scrivere in entrambi i casi, direi: quante volte hai letto un thriller dal finale scontato? O a metà libro sapevi già chi era il colpevole?





Be’, il romanzo della Di Iorio e della Ferraro ti farà ricredere fino alla fine: ti darà un indizio affinché tu segua una pista, poi ti porterà indietro per un’altra, e poi ancora ti farà voltare angolo, e quando finalmente pensi di aver capito tutto zak! ti assesta il colpo del KO, ma vai a terra felice, perché un buon thriller è questo: ti fa soffrire dall’inizio alla fine e, una volta giunto all’ultima pagina, stravolge ogni tua conclusione. Ma lo fa così bene che quasi torneresti a rileggerlo.


L'articolo Le verità di Numeesville – recensione proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 05, 2019 23:00

February 4, 2019

“Magnolia” di Alice DC – presentazione

[image error]



Elise Sodderland, la ragazza dai capelli corvini e l’animo tormentato, vive una menzogna. Prigioniera del suo passato, custodisce un segreto del quale non può liberarsi, i cui ricordi hanno infettato la sua anima e marchiato la sua pelle. Quando all’improvviso si scontrerà con tutto ciò da cui sta tentando di nascondersi, scoprirà di non voler più vivere nell’ombra, ma di non essere pronta a fidarsi ancora.

Colin Knight, noto imprenditore inglese, all’apparenza possiede tutto ciò che ogni uomo possa desiderare, ma la sua anima vive in un’armatura. Ha detto addio all’amore il giorno in cui ha perso una parte di se stesso e da allora cerca di tenere insieme i pezzi, di essere un padre per sua figlia, ma il suo cuore è sopito in un sonno fatto di dolore e rimpianti, al di là di un muro che sembra invalicabile.





Che succede quando due universi all’apparenza così lontani, eppure così affini, entrano in collisione?
Solo l’amore, quello improvviso e travolgente, potrà riaccendere due cuori schiacciati sotto le ceneri di una vita che sembra volerli spezzare.













TITOLO: Magnolia (Hearts on Fire series volume 1)





AUTORE: Alice DC





GENERE: Romance





EDITORE: Self-publishing





PREZZO: 3,99 euro (digitale), 14,99 euro (cartaceo)





DATA DI PUBBLICAZIONE: 15 novembre 2018









[image error]Engin_Akyurt/Pixabay



Pian piano il mio respiro si calmò, perciò mi scostai dal suo petto e lo guardai. Quell’oceano notturno che erano le sue iridi, rappresentava un luogo che irretiva e spaventava allo stesso tempo. Avrei tanto voluto scorgerne il fondo, capire da uno sguardo le sue intenzioni, ma tutto ciò che potevo fare era fidarmi e vedere dove ci avrebbe condotto questa cosa.





Ciao, Alice. Grazie per aver scelto questo blog. Innanzitutto parlaci un po’ di te.





Comincio col dire che sono una persona molto riservata e parlare di me mi mette sempre un pochino in difficoltà. Fin da bambina, ero più propensa a raccontare una cosa su carta che a voce, e crescendo questo aspetto si è accentuato fino a diventare un’esigenza quotidiana. Ho iniziato così a tenere un diario in cui annotavo idee e pensieri, piccoli spunti di storie o citazioni tratte da libri o film che mi avevano particolarmente colpito. Ho continuato per anni, finché alcuni di quegli spunti sono diventate vere e proprie storie, rimaste chiuse in un cassetto o in una cartella del PC, e altre invece hanno visto la luce sotto diverse forme. Alcune sono diventati racconti, altri cortometraggi, altri ancora (come nel caso di Magnolia) romanzi. Crescendo, ho scelto di studiare sceneggiatura cinematografica a Roma e di specializzarmi nella scrittura per il cinema. Ho poi intrapreso un percorso lavorativo all’estero, in particolare a Londra, che mi ha permesso di crescere professionalmente e di poter approcciarmi al cinema internazionale. La passione per la narrativa è comunque rimasta, coltivata nei ritagli di tempo che riesco a ricavare durante la giornata. Quando non scrivo, leggo e quando non leggo, passo il tempo con la mia famiglia, il mio barboncino, preparo dolci, guardo film (tantissimi) e cerco ispirazioni per scrivere ancora.





Non è forse questo, che fa la vita? Sconvolgere i programmi, spezzare le certezze, scorticare la tua corazza fino a lasciarti esposto a farti trafiggere da ogni emozione. Non hai più difese, né barriere. Ti lasci travolgere, sperando d’essere abbastanza forte da prendere tutto addosso senza romperti, e quando un giorno scopri di essere ancora in piedi ti guardi intorno, cercando di capire cosa ti sei lasciato indietro.





[image error]Free-Photos/Pixabay



Da quali libri e autori trai ispirazione?





Posso dire di essere un’accanita lettrice di fantasy e fantascienza. Fin da bambina questi erano i generi che mi affascinavano di più, perché mi permettevano di volare alto con l’immaginazione e immergermi dentro altri mondi. Molti sono gli autori che mi hanno meravigliato con le loro storie, posso citare Asimov, Tolkien, C. S. Lewis, Michael Ende e andare avanti tutto il giorno, ma credo di potermi fermare citando l’autrice che in assoluto è per me una musa e un’ispirazione quotidiana. Joanne Rowling e il suo Harry Potter mi hanno cambiato la vita, e a dieci anni, leggendo le avventure che si snodavano nel castello di Hogwarts, capii che ciò che volevo fare nella vita era raccontare storie. Oltre a questi due generi, leggo molto altro e cerco di spaziare anche a seconda del momento che sto attraversando. Adesso, per esempio, sto finendo di leggere un romance di un’autrice italiana.





Quell’uomo mi aveva del tutto sconvolta. Lo avevo incontrato vicina al punto di rottura, poco più di un mese prima, sicura che fra noi non sarebbe mai potuto nascere nulla. Certa di non poter dare niente a chi già aveva tutto, impaurita ed insicura come solo una donna che aveva passato l’inferno avrebbe potuto essere. Lui però aveva visto qualcosa in me, qualcosa che credevo fosse morto per sempre. Dietro ai capelli corvini, agli occhi terrorizzati, ai modi bruschi e diffidenti, aveva scorto la ragazza dai lunghi capelli rossi, quella che amava la vita e aveva fiducia nell’amore.





[image error]markusspiske/Pixabay



Progetti futuri?





Ce ne sono molti, a dire il vero, ma i principali sono completare la serie “Hearts on Fire” pubblicando il secondo volume entro la prossima estate 2019, e finire la sceneggiatura di un film sci-fi a cui sto lavorando da due anni, dal titolo Memoria, che una volta pronto troverà sbocco oltreoceano.









Toscana, sceneggiatrice cinematografica di giorno e scrittrice di notte. Vivo tra l’Italia e l’Inghilterra, in cui mi sposto principalmente per lavoro; amo il cinema con tutta me stessa, soprattutto i generi distopico e sci-fi, in cui ambiento molte delle mie storie. Leggo una quantità infinita di libri ogni anno, e mi perdo in mezzo alla natura, gli animali, oppure osservando le stelle. MAGNOLIA è il mio romanzo d’esordio come scrittrice, primo di una dilogia (il cui secondo volume è previsto per l’anno 2019). MEMORIA, la mia ultima sceneggiatura di genere sci-fi, è arrivata in finale a un importante concorso indetto da ScreenCraft (USA) e sarà presto un film (2019). Fra i miei progetti cinematografici è presente APEIRON, film-concept vincitore di 12 premi a importanti festival in tutto il mondo.


L'articolo “Magnolia” di Alice DC – presentazione proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 04, 2019 23:00

February 3, 2019

Blogtour Time Vampires: 6a tappa – Intervista ai personaggi

[image error]



Sesta e terzultima tappa dedicata al blogtour di “Time Vampires”, il nuovo romanzo di Therry Romano edito da Astro Edizioni.





In questa tappa ho il piacere di intervistare i vari personaggi… sentiamo cosa ne esce… ma temo nulla di buono… almeno per me

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 03, 2019 23:00

February 2, 2019

Facciamo il punto… del dialogo (breve guida sulla punteggiatura, prima parte)

Facciamo il punto… del dialogo
(breve guida sulla punteggiatura, prima parte)





Dentro la virgoletta o fuori? 





E per quanto riguarda le lineette, dove va messo e quando?





E nel bel mezzo di un inciso che divide due dialoghi?





In tanti mi chiedono come diamine funzioni il punto nei dialoghi: in questa breve guida, prima di tutta una serie sulla punteggiatura, cercherò di rispondere a queste domande.





Perché sì, conta il contenuto… ma anche come lo si presenta.









[image error]aitoff/pixabay



Il punto… ma dove cavolo va?



Può sembrare una domanda banale.





Alla fine di ogni dialogo ci va il punto (a meno che, ovvio, non devi inserire altra punteggiatura, come punti esclamativi, interrogativi o di sospensione o che il dialogo non termini, come vedrai tra poco).





Però…





Il punto va fuori o dentro le virgolette? E se usi la lineetta, dove devi metterlo e quando?





Sono piccoli accorgimenti grafici, ma che se non uniformati e usati nel modo giusto, danno quell’idea di scarsa cura che spesso si trova in scritti grossolani… e scritti male, perdona la ripetizione.





E poi tanti agenti e editori storcono sempre il naso di fronte a una punteggiatura nei dialoghi mal scritta.





Altrove ho già parlato in linee generali delle virgolette da usare nei dialoghi. Oggi è il caso di soffermarsi sulla singola punteggiatura, a partire dal punto.





Premessa: non esiste una regola fissa che ti dica dove mettere il punto, ogni casa editrice adotta le proprie norme di punteggiatura. Tuttavia, ripeto, è meglio essere uniformi.





[image error]



Il punto con caporali e virgolette



[image error]Prima prassi: il punto va fuori o dentro le virgolette



La prima prassi è che il punto può andare o dentro o fuori le virgolette (nell’esempio ho usato le caporali, ma va bene anche per le virgolette alte o per gli apici).





Questo se il dialogo termina senza inciso o se l’inciso che segue è separato dal resto.





La Mondadori di solito usa il punto dentro la caporale, mentre la Newton Compton lo mette fuori. La Mondadori, inoltre, se il dialogo è preceduto dai due punti, inserisce il punto all’esterno (vedi immagini qui sotto).





[image error][image error]



Come scrivevo prima, se il dialogo termina o l’inciso è separato, serve il punto. Caso inverso se al dialogo segue un inciso che fa parte del dialogo stesso.





[image error]Se il dialogo è seguito da un inciso, non vuole il punto.



In questo esempio, è come se il dialogo non si interrompesse al “ti amo” come in precedenza, ma proseguisse con il “disse Maria”. Questa frase è collegata al dialogo, perciò non va bene interromperlo con un punto (ossia: «Ti amo». Disse Maria.)





Lo so, a dirlo è difficile, e magari ti sto confondendo le idee; per aiutarti, mettila così: se al tuo dialogo segue un verbo, come nel caso sopra, non mettere il punto ma prosegui.





Diverso se dialogo e frase successiva sono staccati, formano due blocchi diversi.





[image error]Se l’inciso che segue il dialogo è separato, occorre chiudere quest’ultimo.



In questo esempio, le due frasi sono separate, è come se avvenissero in due momenti diversi: prima Maria dice “ti amo”, poi sorride.





La seconda frase, quindi, pur essendo sulla medesima riga, non è parte del dialogo, che va chiuso con il punto finale (che può essere anche così, se sceglie di metterlo fuori dalla caporale: «Ti amo». Maria sorrise.)





Ovviamente, la frase successiva al dialogo chiuso vuole sempre la maiuscola: «Ti amo.» Sorrise.





Riassumendo…





[image error]



Il punto con le lineette



Un discorso a parte va fatto se usi le lineette come segno di punteggiatura.





[image error]In caso di dialogo privo di inciso a seguire, non serve la lineetta di chiusura.



A dir la verità, se usi le lineette il punto nei dialoghi è più semplice da… capire, passami il termine: se il dialogo è privo di inciso, come nell’esempio sopra, non serve la lineetta di chiusura, pertanto non si pone l’interrogativo di dove mettere il punto: va per forza a fine frase.





Diverso il caso in presenza di incisi, che siano o meno staccati dal dialogo.





[image error]Il punto in dialoghi con lineette e inciso a seguire.



Nel primo caso, quando la frase che segue il dialogo è collegata (quindi, come dicevo prima, quando vi è un verbo), il meccanismo è il medesimo di quando usi le caporali o le virgolette: nessun punto.





In caso di inciso separato dal dialogo, l’unica scelta è di inserire il punto dentro il dialogo. Non ho mai visto casi di punti esterni, e a mio parere personale sarebbero anche antiestetici: — Ti amo —. Maria sorrise.





Se hai appena iniziato a scrivere, ti consiglio di usare questo metodo, ossia le lineette: sono più semplici da inserire (sebbene non siano presenti in tastiera: NON sono il trattino che usi di solito né un elenco puntato!), e anche per la punteggiatura è più facile ricordare dove vadano il punto e gli altri segni (vedremo meglio prossimamente).





[image error]



Conclusioni



In questa breve ma spero esaustiva guida ti ho spiegato come usare il punto nei dialoghi, sia per caporali e virgolette, sia per la lineetta.





Quando iniziai a scrivere, dopo svariati strafalcioni (primo fra tutti << e >> al posto delle caporali), ho scelto di copiare la punteggiatura dei dialoghi di una casa editrice che mi piacesse, e ho proseguito così.





Quindi il mio consiglio è di fare altrettanto tu stesso e, quando ti sentirai più sicuro, di usare una punteggiatura diversa.





È meglio, però, soprattutto per i primi tempi, appuntare su un foglio la punteggiatura usata, così da ricordare dove vanno punti, virgole… e così via.


L'articolo Facciamo il punto… del dialogo (breve guida sulla punteggiatura, prima parte) proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 02, 2019 23:00

January 29, 2019

La rilettura: fino a quando è necessaria (e quando diventa inutile)?

La rilettura: fino a quando è necessaria (e quando diventa inutile)?





Scrivere, correggere, rileggere, pubblicare, promuovere. Questa, più o meno, è la “filiera” dell’editoria — tradizionale e no.



Oggi mi fermerò sul terzo punto: rileggere.



Sì, è un passaggio che non puoi saltare… ma fino a un certo punto.



Perché troppe riletture fanno male, e in questo articolo scoprirai il motivo.







[image error]MonikaP/Pixabay



Rileggere: sì, perché…



In un articolo di qualche tempo fa avevo disquisito (che parolona!) sull’importanza della rilettura, poiché serve soprattutto a “sentire” la musicalità del testo e a scovare refusi e sviste.





Troppi autori dimenticano questo passaggio fondamentale, ritenendo che, una volta corretto, il libro sia pronto per essere pubblicato.





In realtà la correzione NON elimina refusi o altro — sennò i correttori di bozze che senso avrebbero? Né tanto meno aiuta ad ascoltare il testo per capire se sia fluido. Certo, parte della correzione mira a quello, ma senza la rilettura non potresti vedere se scorre o se è pesante.





Già per questi due motivi, dovresti aver capito che la rilettura è una tappa che devi assolutamente fare.





Tuttavia…





[image error]Mandyme27/Pixabay



Rileggere… ma quanto?



Dall’altro lato, tantissimi autori hanno la “fobia” della perfezione, e rileggono, rileggono, rileggono, rileggono…





… fino a snaturare completamente il loro libro.





C’è un punto, durante la rilettura, che se lo superi smetti di migliorare il libro e inizi a peggiorarlo.





Certo, scovarlo è difficile, e non è nemmeno così matematico: non è che esista la regola che dopo quattro riletture, ad esempio, devi smettere sennò lo peggiori.





È qualcosa che dovresti avvertire, una vocina interiore che ti dice: “Fermati!”





Purtroppo, in tanti non la ascoltano e vanno avanti a limare e limare, magari inserendo uscio anziché porta perché sennò si ripeteva, ma poi uscio c’è anche dopo, e allora lo togliamo e mettiamo portone, ma poi fa ripetizione con porta, e allora togliamo portone e porta e mettiamo finestra, ma diamine, come fa Pinco Pallino a uscire dalla finestra, e allora togliamo porte, portoni, usci e finestre e spostiamo il Pallino di fuori…





… e ciò cambia la storia, perché Pinco Pallino, uscendo e sbattendo la porta, fa cascare una tegola in bilico sul tetto che finisce in testa alla suocera, ma se adesso Pinco è fuori, la tegola come fa a cadere? Forse, con un temporale e un bel fulmine… ma allora Pinco e suocera dovrebbero ritornare in casa, e di nuovo porte, portoni, usci…





L’ho estremizzata un poco, ma, fidati, che non è qualcosa che capiti raramente!





Troppe riletture ti portano a eccessive correzioni, che non solo snaturano il libro, come dicevo, ma potrebbero causare situazioni ridicole o paradossali — vedi sopra.





Soprattutto con le ripetizioni: magari ti sforzi tanto per trovare una parola che non si ripeta, da inserirne una ridondante o che c’entra come un cavolo… a colazione.





Che fare, allora?



Rileggere più e più volte spesso è sintomo di incertezza.





Se rientri in questo caso, ti consiglio un correttore di bozze o un beta reader che ti aiutino a migliorare il libro e che ti rassicurino che più di così non puoi fare.





Se, invece, preferisci fare tutto tu, la soluzione migliore è lasciar riposare per qualche tempo il libro, e poi riprenderlo e rileggerlo con sguardo più critico come se facessi mantecare il risotto: non è più buono dopo cinque minuti?





L’importante è saper fermarsi al momento giusto, anche se c’è la foga di rileggere correggere; ma, fidati, che se hai corretto ed eliminato ogni refuso, ripetizione, ridondanza, eccetera, di più non puoi fare!





[image error]

L'articolo La rilettura: fino a quando è necessaria (e quando diventa inutile)? proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on January 29, 2019 23:00