Giovanni De Matteo's Blog: Holonomikon, page 51
November 4, 2011
Nella rete profonda: il lato oscuro del web
Anche la Rete ha la sua twilight zone, una quinta dimensione che riserva aspetti decisamente più inquietanti della classica zona del crepuscolo di Rod Serling. Ci si riferisce ad essa come deep web, e nei suoi recessi più oscuri assume la connotazione di una darknet.
In un'inchiesta interessantissima per Corriere.it, Alessandro Calderoni documenta la sua discesa nei meandri di questa realtà sotterranea. Maggiori informazioni si possono trovare come al solito su Wikipedia, mentre su YouTube è possibile consultare un documentario sul web segreto (o invisibile, o sommerso) e diversi tutorial sulla procedura per accedervi (tra cui questo e questo). Una sintesi abbastanza completa è data dalla clip Exploring the Deep Web, di Dan Downs.
Ultime dalle colonie extra-mondo
8 mesi fa destò scalpore la notizia della cessione dei diritti cinematografici di Blade Runner, rilevati dalla Alcon Entertainment, compagnia intenzionata a rinnovare radicalmente il franchise. Adesso qualcosa comincia a muoversi. Intervistato da Speakeasy (web magazine del Wall Street Journal dedicata a media, intrattenimento e arti), Ridley Scott ha lasciato trapelare qualche dettaglio sul film che sta mettendo in cantiere. Che potrà essere, a suo dire, un sequel, sebbene non vedrà la partecipazione di Harrison Ford. Il volto ormai iconico del cacciatore di replicanti non tornerà a vestire il trench di Deckard, come d'altro canto era già nell'aria. Il 74enne regista britannico reduce dalla post-produzione di Prometheus ha poi dichiarato di essere ormai prossimo, dopo un'accurata ricerca preliminare, a trovare lo sceneggiatore adatto per il film (via io9).
Intanto, godiamoci questo time-lapse di Tokyo firmato da Samuel Cockedey: s'intitola Android Dreams e fotografa il panorama della metropoli giapponese come se fosse un incrocio tra la Los Angeles del 2019 e l'altrettanto avveniristica New Port City di Ghost in the Shell. E il colore del cielo è fin troppo riconoscibile a chiunque abbia masticato silicio e Neuromante. Quale che siano le fonti d'ispirazione, giudicate voi stessi visionando la clip direttamente su Vimeo. Essendo accompagnata dalle note di Vangelis, anche quella ricade nelle restrizioni riconducibili al regime di embargo imposto dall'Anonima Esattori. Quindi, per non lasciare sguarnito questo post, mi limito a riprodurre qualcuno dei fotogrammi più suggestivi scattati da Cockedey.
November 2, 2011
Al servizio di un'Oscura Nazione
La NeoRepubblica Kaotica di Torriglia, erede ideale della Nazione Oscura KAOS-SF, ha un nuovo governo, nominato ieri - 2 novembre 2011 - dal Primo Ministro Lukha Kremo Baroncinij. In questa III legislatura, torno come Oscuro Ministro al Ministero dell'Entropia, dello Spazio Interno e del Rumore Bianco, e siccome questo ministero aveva già vissuto una precedente incarnazione, in questa III legislatura ho optato per la sigla Mesir-B, denominazione scelta in segno di discontinuità dal passato ma anche per il suo potere di evocare oscuri acronimi farmaceutici, composti chimici assemblati per scopi oscuri.
L'annuncio del Primo Ministro è sul blog. Il programma del mio e degli altri ministri pure. Quindi adesso basta giocare e sotto con il lavoro, che la programmazione ministeriale e la diplomazia sono cose serie. E' un duro lavoro servire un'Oscura Nazione, ben più di servire una nazione chiara, cristallina e trasparente come le nostre confinanti. Adesso vi devo lasciare, ho il mojito che si sta annacquando, ma riceverete un mio segnale, prima o poi. Da questo mondo o da qualche dimensione adiacente.
Lunga vita e prosperità a tutti!
October 30, 2011
This Must Be the Place
"Il problema è che passiamo troppo velocemente dall'età in cui diciamo: Farò così, a quella in cui diremo: E' andata così."
Cheyenne
Si è detto che al Festival di Cannes 2008 Sean Penn rimase folgorato da Il Divo, film che Sorrentino presentava in concorso, a tal punto da mettere in cantiere con il regista napoletano un progetto comune. Quell'anno Il Divo riportò dalla Croisette il Premio della Giuria. Tre anni dopo, arriva nelle sale il frutto della collaborazione tra Sorrentino e Penn: un'opera per molti versi alienante, un oggetto cinematografico non identificato che s'inserisce nel solco del precedente lavoro e al contempo se ne distacca. Forte di un budget stimato di 25 milioni di euro e alle prese con un cast straniero (tre Premi Oscar tra Sean Penn e Frances McDormand), alla sua prima produzione internazionale Sorrentino sembra voler prendere le misure al cinema americano. Non che debba stupire: se Il Divo segna una vetta difficilmente eguagliabile nel cinema italiano contemporaneo, è naturale che il suo autore cerchi per la propria creatività una sfida e uno sbocco altrove, arrivando ad ambire a opere di più facile esportazione.
This Must Be the Place è a tutti gli effetti un'opera di transizione, così non stupisce nemmeno che abbia spaccato la critica. Ma al di là degli elogi che come di consueto sono piovuti su Sorrentino, anche i riscontri meno entusiastici intravedono nella pellicola dei momenti da antologia: sono per lo più parentesi nel flusso della narrazione (l'incontro fortuito con un top manager texano che affida al protagonista il proprio pick-up di lusso perché lo riconsegni alla moglie, il passaggio dato a un anziano indiano in pieno deserto, l'incidente al motore del fuoristrada che prende improvvisamente fuoco e lo scambio di battute con un camionista capitato lì per caso, il flashback che riporta il protagonista al discorso del proprietario del veicolo sul valore della fiducia nel mondo moderno), ma aprono spiragli sul mondo autoriale di Sorrentino, che si nutre di una comicità capace di fotografare il caos e l'imprevedibilità del mondo che ci circonda.
Ciò detto, il film si regge per intero sulle spalle del suo protagonista. Sean Penn è Cheyenne, una ex rockstar in pensione, che vive quasi in esilio nella periferia dublinese, trascinando la propria esistenza come un bizzarro trolley (quasi una valigetta di Charlot), con l'unica compagnia di una moglie che gli fa da balia, una giovane goth che ha in stesura una tesi sulla sua carriera e un consulente finanziario prigioniero di una vita inconsistente e astratta come i flussi di denaro che è abituato a maneggiare quotidianamente. La prima parte del film vive di tempi estremamente dilatati e si limita a cucire insieme episodi che poco o nulla hanno a che fare con quella che diventerà la sua direttrice narrativa. E' come se autore e attore volessero delineare con la massima precisione possibile il carattere di Cheyenne, una star plasmata sull'estetica di Robert Smith dei Cure e che nel nome della sua ex band "Cheyenne and the Fellows" echeggia altri storici complessi della new wave post-punk, Siouxsie and the Banshees e Echo and the Bunnymen su tutti, e per farlo si fossero posti un unico vincolo: tenere la telecamera ancorata al presente, evitando categoricamente i flashback sul passato e usando le parole con economia. Dalla sua interazione con le vite perdute nei suburbi irlandesi all'ombra dell'avveniristico disegno di acciaio e vetro dell'Aviva Stadium, apprendiamo così pochi elementi chiave, comunque utili per inquadrare il personaggio: che malgrado la presa di distanze dalla filosofia dark che aveva contribuito a promuovere in gioventù è ancora incapace di rinunciare al look di quegli anni, che vive come un freak sopravvissuto al suo tempo ma inseguito dal rimorso per le vite spezzate da un'adesione esasperata o solo da una cattiva interpretazione del testo delle sue vecchie canzoni, che cammina al contempo sull'orlo di una depressione incipiente.
Il punto di discontinuità è segnato dalla notizia che il padre con cui ha interrotto i rapporti da oltre trent'anni è gravemente malato. Cheyenne non riesce a decidersi per tempo (anche per via della sua paura di volare) e arriva a New York troppo tardi. Da suo cugino apprende tuttavia che il genitore ha speso gli ultimi anni della sua vita dando la caccia all'aguzzino nazista che lo aveva umiliato durante la prigionia in un campo di concentramento tedesco. Cheyenne trova quindi uno scopo nella prosecuzione e nel compimento della missione paterna. Solo in parte assistito dal cacciatore di criminali nazisti Mordecai Midler (intrepretato da Judd Hirsch e plasmato sul personaggio storico di Simon Wiesenthal), intraprende così un viaggio nell'America profonda, da New York al Michigan al New Mexico, fino alle montagne dello Utah, incontrando lungo il cammino una galleria di figure che ritraggono le facce veritiere della provincia sperduta: austere maestre in pensione, ragazze madri, orfani di guerra, inventori in ritiro. Ognuno di questi volti, nella propria lontananza da uno stereotipo hollywoodiano, sembra trasmettere un senso di autenticità unico, segnando nel bene e nel male una tappa lungo il percorso di vendetta, scoperta e ritrovamento intrapreso da Cheyenne.
La colonna sonora riveste un ruolo determinante, grazie alla cura di David Byrne, che ispira il titolo (da una traccia di Speaking in Tongues dei Talking Heads) e a cui il regista ritaglia un cammeo in cui è chiamato a vestire i panni di se stesso. La fotografia e la cinepresa immortalano la vastità del paesaggio americano con un occhio come sempre debitore di Sergio Leone e una luce che indugia tra David Lynch e i fratelli Coen.
Come già fatto con Le conseguenze dell'amore, Sorrentino si diverte a innestare stilemi da noir nella sua[image error]storia, che questa volta definisce come "un romanzo di formazione". E se la questione irrisolta dell'Olocausto sembra fare un po' il verso ai Bastardi Senza Gloria di Tarantino (stemperando la tragedia della Shoah in un piccolissimo episodio esplicativo della banalità del male), al termine della caccia la cosa più lampante che resta del film è la maturazione di Cheyenne, manifestata dal suo superamento della paura di volare e dalla sua rinuncia alla gabbia estetica del passato. E' un uomo rinnovato, il Cheyenne che viene giù lungo la strada nell'epilogo, senza più il suo trolley inseparabile. Non tutto è risolto, le ferite del passato non sono ancora tutte cicatrizzate. Ma sembra pronto a prendere il volo per una nuova vita, a bordo dello stadio-astronave che sovrasta Lansdowne Road.
October 27, 2011
Fermate la musica!
E' arrivato perentorio, il diktat della SIAE. Da un giorno all'altro, in ottemperanza a una clausola dell'accordo firmato a inizio anno con quei furbacchioni dell'AGIS, l'Anonima Estorsioni ha deciso che era arrivato il momento di farsi pagare per i trailer caricati e condivisi in rete. La denuncia è partita proprio da Fantascienza.com, su cui è ospitato lo Strano Attrattore, e per riepilogare la situazione riporto qui di seguito giusto qualche link chiave per districarsi nella bolgia delle ultime ore:
• Rimossi i video, fine dei trailer sul web? (Fantascienza.com, 26-10-2011)
• I trailer online sono illegali? (Il Post, 26-10-2011)
• SIAE e i diritti sui trailer online (Punto informatico, 26-10-2011)
• SIAE e trailer, cresce la preoccupazione (Fantascienza.com, 27-10-2011)
• SIAE, i trailer sul web non saranno più gratis (Wired, 27-10-2011)
Per farla breve:
L'accordo (causa): produttori consociati nell'Associazione Generale Italiana dello Spettacolo hanno accettato che la SIAE pretendesse un obolo dai siti delle sale di proiezione, che avrebbero potuto continuare a pubblicare a scopo promozionale trailer dei film in programmazione solo a patto di corrispondere una quota all'Anonima Estorsioni.
La conseguenza (effetto): da oggi qualunque frammento video pubblicato on-line contenente almeno una nota di musica dovrà essere opportunamente regolato attraverso il pagamento di una tariffa, un canone se vogliamo, che discrimina solo sulla lunghezza dello stesso (opere superiori ai 45″, come sono spesso i trailer, ricadono nella categoria "opere intere e assimilate") e fissa un tetto massimo nel numero di 30 video per una durata massima complessiva di 10 ore.
Come risultato, nel nostro piccolo, dell'accordo SIAE/AGIS, lo Strano Attrattore si uniformerà alla scelta dell'editore Delos Books che ci ospita sulla sua piattaforma e smetterà di pubblicare filmati contenenti estratti musicali. Rinuncerò al privilegio di condividere su queste pagine i video dei film recensiti, da cui non traevo alcun beneficio se non la completezza del servizio reso ai lettori. Rinuncerò al piacere di condividere video di autori emergenti o clip rare, da cui non traevo alcun beneficio se non pubblicizzare il lavoro dei rispettivi autori. I video già presenti saranno rimossi, al loro posto lascerò solo un link alla risorsa originaria, ospitata da un altro sito, almeno finché anche quel sito non deciderà che la SIAE non merita i suoi soldi, oppure non si smaschererà pubblicamente e si porrà fine a questa assurda politica di soprusi normati, di cui l'estorsione legalizzata operata dall'Anonima è solo uno degli aspetti. Il prossimo giro di vite, dopo i siti di informazione e i blog, potrebbe investire i social network, e sono proprio curioso di vedere allora cosa succederà.
Si potrebbero invocare a questo punto tanto l'effetto farfalla, punto cardine della teoria del caos, quanto l'aneddotica popolare sull'arroganza e l'avidità. In effetti, da quel pasticciaccio del compromesso tra SIAE e produttori si è scatenato il cataclisma che in queste ore sta investendo l'intero web italiano; e, come se non bastasse, l'atteggiamento della SIAE ricorda molto quello di un pingue e distinto signore che si diverte a rubare le caramelle ai bambini, investendo le ore della sua giornata a escogitare gli espedienti più astrusi per giustificare legalmente le proprie perversioni. Un comportamento avido, che denota incapacità di allinearsi con i tempi nuovi della rete, e per di più lesivo, dannoso, nocivo, che alla lunga non mancherà di ritorcersi contro la SIAE stessa e gli Autori/Editori che vorrebbe tutelare. Meno video in streaming significa meno pubblicità, oltre che azzoppamento dell'informazione. Meno pubblicità significa meno introiti. Basteranno 450 euro a trimestre a compensare i mancati ricavi? E come verrà convertito l'obolo alla SIAE in ricavi per gli Editori?
Viviamo in un mondo intriso di misteri. Ma la burocrazia italiana ha in serbo trovate che saprebbero lasciare di sasso Kafka in persona.
October 23, 2011
Tutto quel nero
Ancora per qualche giorno potete trovare in edicola Tutto quel nero di Cristiana Astori, uscita numero 3041 della storica collana Il Giallo Mondadori, un bel noir ambientato nel mondo sotterraneo dei cacciatori di pellicole rare. Il soggetto richiama echi dei lavori cinematografici di Cronenberg, Lynch e Carpenter, come dichiarato dalla stessa autrice nell'intervista che ha rilasciato per Thriller Magazine, e queste influenze si notano, contano nell'economia del racconto, come conta l'ascendenza letteraria di Lansdale, oltre che in una parentesi grottesca, soprattutto sullo stile veloce e coinvolgente della scrittura della Astori. Ad amalgamare tutti questi spunti provvede efficacemente la seduzione di un certo tipo di cinema, underground, forse maledetto, che imbriglia gli elementi della trama nel campo elettromagnetico di due ombre psichiche che pervadono le pagine del libro: il regista spagnolo Jesús Franco e l'occultista Aleister Crowley.
La storia di Susanna Marino, studentessa disoccupata, s'intreccia con quella di Soledad Miranda, attrice feticcio di Jess Franco che continua a popolare i sogni e le fantasie dei cinefili ancora oggi, quarant'anni dopo la sua tragica morte in un incidente stradale. Un misterioso committente ingaggia Susanna per ritrovare l'unica copia esistente di una certa pellicola, Un día en Lisboa, girata dal misterioso Alfonso Nieva, che sarebbe l'ultima testimonianza della vita di Soledad. Quando Susanna scopre che i luoghi delle riprese, nell'Estoril, corrispondono proprio a quelli in cui si compì il triste destino dell'attrice, per lei inizia una discesa nelle spire dell'incubo, che dalle strade notturne di Torino la condurranno fino alla Boca do Inferno, dove si narra che Crowley ascese a un diverso piano esistenziale nel corso dei suoi esperimenti sull'invisibilità.
Esoterismo e cinefilia si (con)fondono anche nelle parole del mago, riportate da uno dei personaggi di contorno, che sembra costruito apposta per lasciare quest'unica testimonianza a Susanna. Una testimonianza che è anche un indizio, che orienta le sue indagini su binari diversi: "Arrivai al punto che il mio riflesso fisico allo specchio si era fatto fievole e tremolante. Somigliava all'effetto delle immagini interrotte delle prime pellicole, degli albori del cinematografo…" Ma la rapida sparizione del personaggio trova piena giustificazione nell'approccio razionale dell'autrice, che dissemina l'intreccio di suggestioni esoteriche con lo scopo di disinnescarne volta per volta le aspirazioni al soprannaturale. I demoni a cui Cristiana Astori è interessata e contro cui pone in lotta i suoi personaggi sono molto più umani e concreti di entità infilatesi nella nostra da un'altra dimensione: ossessioni private, verità rimosse, pressioni dell'inconscio. I demoni che ognuno di noi si porta dentro.
Per non rovinare il gusto della lettura a chi ancora non ha finito il libro, basti dire che le ricerche di Susanna si intersecano con quelle di altri cacciatori, e con la misteriosa esistenza di una versione alternativa de Il morboso vizio della signorina Smith (che nel titolo fa il verso a uno dei titoli storici del thrilling italiano anni '70, Lo strano vizio della signora Wardh, e per chi volesse approfondire si consiglia di seguire la bella rubrica dedicata al filone da Stefano Di Marino sul suo blog), in cui apparirebbe Sabrina Corday, un'attricetta italiana prestata come controfigura della Miranda in una versione estesa di Un giorno a Lisbona. E proprio la figura di Sabrina andrà a chiudere con Susanna e Soledad un ideale triangolo che, combinato con il trittico Vampyros Lesbos, Un día en Lisboa e Il morboso vizio della signorina Smith, disegna l'esagramma necessario per approdare allo scioglimento della vicenda, in un finale sospeso tra il surreale e l'onirico che omaggia l'ultimo Kubrick. E come Eyes Wide Shut attingeva alle visioni di Arthur Schnitzler, così Susanna, inscenando una danza sensuale per un pubblico di spettri, arriverà alla ricomposizione della verità nascosta dietro il suo personale Doppio sogno.
October 16, 2011
Universi fantascientifici a portata di tutti
Gli scrittori di fantascienza, soprattutto in un mercato editoriale ristretto come quello italiano che obbliga i titoli di genere a spartirsi la fettina di una torta alquanto magra, si domandano da sempre quale possa essere la strada giusta per raggiungere un pubblico più ampio. Americani e inglesi (penso a Audrey Niffenegger, Chuck Palahniuk, ma anche a Robert Harris con Fatherland e L'indice della paura, quest'ultimo scoperto grazie a una segnalazione di Italo Bonera sulla lista di discussione Yahoo! Fantascienza) da tempo stanno esplorando le strade di quella che nella recensione de La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo mi ero spinto a definire come "fantascienza ripotenziata": una fantascienza in cui l'immaginario di riferimento che impregna ogni opera del genere fosse ridotto all'essenziale, con un gioco di affilatura in grado di esaltare la capacità di taglio e penetrazione degli strumenti di analisi della SF. Sulla scia di quanto fatto dal compianto Michael Crichton, certo, ma senza limitarsi a uno spazio comunque predisposto a operazioni di questo tipo come il techno-thriller.
Si potrà obiettare che America e Regno Unito sono comunque paesi in cui Dune e William Gibson vendono milioni di copie, in cui Iain M. Banks è un intellettuale di riferimento oltre che un autore bestseller, e che ospitano eventi come la mostra Out of this World alla British Library. Tutto vero. Ma dagli stessi paesi arrivano anche serie televisive estremamente popolari e tutt'altro che immediate come Life on Mars, Battlestar Galactica, Caprica oppure Fringe, che in virtù della loro specificità riescono a riscuotere l'apprezzamento del pubblico più vasto. Lo dimostrano l'attesa della quarta stagione trasmessa in America dalla fine di settembre e il commento odierno di Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera noto per la sua severità, che scrive:
Proprio la complessità e la raffinatezza della scrittura sono i veri punti di forza di Fringe: il fascino oscuro di fenomeni paranormali si accompagna sempre alla profondità del racconto delle relazioni e delle psicologie dei personaggi. Le stagioni precedenti erano tutte costruite sull'esplorazione del rapporto tra Walter e Peter, padre e figlio, mentre ora il tema cruciale è quello del doppio e del riconoscimento.
Se proprio si vogliono fare paragoni tra il fantastico (e la SF in particolare) in Italia e altrove - sport in cui qui da noi si sfiora l'eccellenza come in molti altri settori (dal calcio alla politica), aggiungendo una voce peculiare e particolarmente ossessiva al coro più generale dell'eterno lamento nazionale - allora per onestà di analisi non si dovrebbero trascurare presupposti e condizioni al contorno. Da quanti decenni non vengono prodotti un film o una serie di fantascienza? Quanto interesse riscontriamo da parte dell'industria culturale a investire in un immaginario che non può fare a meno del futuro come colonna portante? Quanto interesse riscontriamo quotidianamente nel superare i confini dell'eterno presente in cui ci siamo lasciati ingabbiare?
Sembrerà strano, ma da qualche tempo non riesco a scindere il discorso sulla fantascienza da quello sullo stato più generale della cultura del Paese, sul suo dissesto politico ed economico, sul suo sfaldamento sociale. Nel dibattito perpetuo che ci tiene impegnati di stagione in stagione, mettere in relazione letteratura e vita/realtà è necessario in questo momento più che mai, anche per scongiurare il rischio di autoghettizzazione (perfetto mix di settarismo e alienazione) a cui i generi di nicchia risultano da sempre esposti. E a cui troppo spesso ci lasciamo consensualmente ridurre.
[Immagine di Olivia Dunham/Anna Torv via Tor.com .]
October 15, 2011
La distanza della Luna, secondo Google
L'avevamo sempre addosso, la Luna, smisurata.
Il 15 ottobre di 88 anni fa nasceva Italo Calvino. Google decide di ricordarlo attraverso un doodle ispirato dalla prima - in ordine di stesura - delle sue cosmicomiche. Quest'anno sostituirò alla rilettura delle pagine di Se una notte d'inverno un viaggiatore qualcuna delle Lezioni americane.
October 13, 2011
Cose lette in giro per la rete
Il ritorno alla SF di Ridley Scott sta generando un'attesa a dir poco spasmodica. L'ultimo tassello di una lunga trama di illazioni, anticipazioni e piccole rivelazioni intorno a Prometheus è l'intervista a Noomi Rapace riportata da Fantascienza.com. La data da segnare è l'8 giugno 2012, ma la prossima estate il kolossal che promette di ridisegnare l'immaginario di genere e non solo (il paragone con Avatar per il 3D e Inception per la complessità che se ne riesce a presagire e la parentela con entrambi per l'ambizione che traspare dalle dichiarazioni del regista è scontato) avrà almeno un rivale alla sua altezza: proprio Christopher Nolan con il suo The Dark Knight Rises, capitolo conclusivo della sua visionaria trilogia dedicata all'uomo-pipistrello (un paio di da Fantasy Magazine, giusto per stimolare un po' le papille gustative).
Dal cinema alla letteratura. L'evento fantascientifico della prossima stagione sarà a quanto pare la scanzonata scorribanda nel dopo-Singolarità di Cory Doctorow e Charles Stross, per cui vi rimando all'esaustivo articolo di Maurizio Del Santo pubblicato oggi su Fantascienza.com. Negli ultimi giorni due belle interviste a firma di Lucius Etruscus sono uscite su Thriller Magazine: Cristiana Astori parla di Tutto quel nero, un bel noir per cinefili attualmente in libreria, di cui conto di riparlare a breve; il grande Sergio "Alan D." Altieri rilascia una lunga e completa intervista su Underworlds, la sua quarta antologia per TEA, e non solo.
Per finire in bellezza, Francesco Cortonesi (ricordate NOF 4? be', il Corto è da poco sbarcato in libreria con la sua ultima fatica letteraria, Gotham Polaroid) è ospite delle pagine dell'edizione fiorentina del Corriere della Sera, a cui ha rilasciato un'intervista molto interessante. Al di là del solito titolo d'impatto, l'articolo suggerisce molte riflessioni, che in qualche misura vanno a riallacciarsi al filo dei pensieri dei giorni scorsi. Francesco è tutt'altro che uno «scrittore fallito», ma al contrario una delle menti più eclettiche e innovative tra quante hanno dato il loro apporto al connettivismo, e la sua voce è tra le più personali del fantastico italiano. Voglio concludere condividendo un suo dubbio:
"Mi spaventa che non riusciamo più a soffermarci sulle cose. Il mondo progredirà ugualmente, ma nel frattempo quanti concetti ci sfuggiranno dalle mani e da un cervello disabituato a riflettere?"
October 10, 2011
L'alba del pianeta delle scimmie
[image error]Finalmente una bella sorpresa al cinema! Dopo l'era dei sequel infiniti e dei remake, sembrerebbe che Hollywood sia entrata in una nuova stagione, con i reboot di franchise storiche. Sulla scia del cinema horror, pare giunta l'ora anche della fantascienza, che dopo la buona prova di Star Trek offre adesso una seconda giovinezza all'opera di Pierre Boulle che ha segnato un'intera generazione di appassionati. E finché il reboot viene interpretato con intelligenza, come hanno saputo mostrare sontuosamente - per esempio - Christopher Nolan con il suo Cavaliere Oscuro e Paul Haggis con l'Agente 007 e come appunto riesce a fare onestamente L'alba del pianeta delle scimmie, va riconosciuto il merito alle case di produzione di volersi addentrare in territori magari non del tutto ignoti agli spettatori, ma mostrando il coraggio necessario per esplorarli percorrendo piste ancora sconosciute. E se all'orizzonte si prospettano quelli che sono stati presentati come i nuovi inizi di pietre miliari del nostro immaginario come Alien (con Prometheus, l'autentico evento della prossima stagione) e Blade Runner, allora, tutto sommato, sembra esserci speranza.
Non fraintendetemi. L'originalità resta un valore da premiare, ma in un periodo in cui le produzioni ad alto budget rappresentano prima di tutto un rischio, è comprensibile che le major cerchino di ottenere le migliori garanzie in fase di pianificazione delle pellicole. E in questo senso il reboot rappresenta, a quanto pare, il migliore dei compromessi, capace di coniugare la tradizione con l'innovazione, molto meglio di quanto in genere capiti con i sequel e con la marcia in più, rispetto ai remake, che deriva dall'operare in un contesto in larga parte già familiare, ma con la possibilità di sfruttare al massimo i margini di iniziativa necessari. In una certa misura, il reboot costituisce proprio un antidoto tanto alla stanchezza delle serie trascinate troppo per le lunghe quanto al rischio dell'imitazione pedissequa dei capostipiti, avvantaggiandosi di un'iniezione di freschezza che richiede l'unico requisito dell'elasticità (mentale ed emotiva) verso l'opera originaria da parte degli appassionati. Una prassi, dopotutto, ben consolidata nel mondo del fumetto, che si sta diffondendo anche al cinema e in TV (si vedano gli eccellenti risultati ottenuti da Battlestar Galactica).
L'alba del pianeta delle scimmie è un altro valido esempio di quanto bene si possa fare con un interessante universo di partenza e una dose appropriata di buone idee. La storia di quello che succederà è ben nota a tutti: al termine di una missione spaziale compromessa da un'avaria, Charlton Heston e i suoi colleghi astronauti precipitano su un pianeta devastato, dominato da una civiltà di primati sorprendentemente evoluti che ha soggiogato gli umani (Il Pianeta delle Scimmie, 1968). L'origine di quella civiltà è raccontata in questa pellicola, con le dovute varianti rispetto alla storia originaria (l'evoluzione delle scimmie è segnata da un farmaco sperimentale messo a punto come cura per l'Alzheimer e non più da un effetto collaterale dell'olocausto nucleare che ha ridotto l'umanità sull'orlo dell'estinzione) e i rimandi altrettanto obbligati (a un certo punto si assiste al lancio di una navetta spaziale, più avanti nel film si intravede una prima pagina con il titolo "Lost in Space" che allude all'incidente spaziale da cui prende le mosse lo storico Pianeta delle Scimmie di Franklin James Shaffner, abile mix di cautionary tale e fantascienza avventurosa). La regia si concentra sullo scimpanzé che aprirà una nuova strada al futuro dei primati, rivalendosi verso l'umanità nel suo complesso, che nel migliore dei casi tratta le scimmie con indulgente superiorità e nel peggiore le sfrutta barbaramente nei laboratori o le sevizia per puro e becero ludibrio. Considerata la varietà di angherie che i primati sono costretti a subire da parte di uomini rozzi, ignoranti e primitivi (a prescindere dalle firme sui completi e dal dosaggio dell'acqua di colonia), non richiede troppo sforzo alla pellicola conquistare l'empatia dello spettatore, che si ritrova a parteggiare per Cesare e i suoi cugini contro l'in-civiltà umana, sfruttatrice e corrotta in quasi tutte le sue espressioni.
Una regia funzionale alla storia riesce dove il genio di Tim Burton aveva fallito: l'insistenza sul particolare degli occhi (la cui lucentezza è sintomatica della crescita cognitiva delle scimmie), il motivo della finestra sul mondo che perseguita Cesare (tanto nella sua prima fase, segregato in un ambiente domestico, nella pace ovattata di una famiglia borghese; quanto nella seconda, rinchiuso in una cella striminzita e sporca, vessato dal custode del ricovero per primati), la sua conquista di una forma possibile di integrazione, nella consapevolezza che è l'unione a fare la forza. L'alba del pianeta delle scimmie è un crescendo costruito con cura, in cui ogni progresso narrativo scaturisce logicamente dai suoi presupposti. E a differenza del diretto rivale al botteghino che è il Super 8 di J.J. Abrams, tanto atteso quanto deludente, non fa del citazionismo la sua intrinseca ragion d'essere, pur omaggiando la nutrita tradizione fantascientifica che ha ordito l'iconografia del primate (dalla tribù primitiva di 2001: Odissea nello Spazio alla propagazione del contagio mutuata dallo scioglimento de L'esercito delle 12 scimmie, passando per Project X e King Kong), ma presta la necessaria attenzione ai momenti-chiave del climax, tra cui la rivincita di Cesare sulle scimmie, il suo rifiuto delle regole degli uomini e la rivalsa finale sull'umanità.
Non sorprende l'efficacia del risultato finale, a giudicare da queste premesse. Sorprende piuttosto che dietro l'operazione non vi siano firme particolarmente illustri: il regista è il britannico Rupert Wyatt (un prison movie come The Escapist nel suo curriculum), gli sceneggiatori Rick Jaffa e Amanda Silver hanno all'attivo un titolo come Relic, tutt'altro che memorabile. Ma a quanto pare il loro era un conto in sospeso con gli ambienti di detenzione e l'evoluzione, e hanno deciso di unire le forze per saldare il conto in questo film. Avvalendosi del contributo del direttore della fotografia Andrew Lesnie, premio Oscar per il primo capitolo de Il Signore degli Anelli, e poi sempre al servizio di Peter Jackson per il suo King Kong, e con Andy Serkis, che già aveva esaltato la propria abilità espressiva a Gollum/Smeagol e proprio a King Kong, e qui presta le movenze al capostipite della nuova civiltà delle scimmie. Gli attori umani (James Franco, John Lithgow, Freida Pinto, Brian Cox) fanno tutti un buon lavoro al servizio della storia, in ruoli che per necessità devono cedere spazio alla storia di Cesare e dei suoi compagni. Risaltano per contrapposizione i caratteri negativi (il custode aguzzino interpretato da Tom Felton, l'avido industriale di David Oyelowo).
Ma a uscire maggiormente rafforzata è la visione di una dinamica evolutiva che, in un panorama culturale sempre più minacciato da manie oscurantiste e dogmi religiosi, riesce a caricare di un secondo livello di lettura lo slogan che ha accompagnato il lancio del film nelle sale: L'evoluzione diverrà rivoluzione.
Con le immagini genuinamente apocalittiche di San Francisco messa a ferro e fuoco dalla guerriglia delle scimmie ancora impressa sulle retine, la domanda che mi perseguita a 48 ore dalla visione resta ossessiva: possibile che uno scimpanzé possa arrivare a concepire una ribellione così credibile da suscitare la partecipazione del pubblico (lo dimostrano i 418 milioni di dollari fin qui incassati, a fronte di un budget di 93 milioni), e noi umani continuiamo ad accettare passivamente le regole delle banche, lo strapotere delle multinazionali, l'arroganza dei nostri governanti e tutte le altre prove quotidiane della stupidità dei nostri simili? Ma questa ne chiama a sua volta un'altra, in un beffardo gioco di echi: chi sarebbe disposto oggi a lasciarsi sedurre da un messaggio ambientalista tanto radicale e tranciante? E così l'augurio è che L'alba del pianeta delle scimmie lo vedano soprattutto i bambini, a frotte. Forse il vero segreto del successo di Cesare risiede proprio nella scelta del nemico: non degli esseri umani, ma dei simulacri, dei replicanti, dei burattini - automi privi di coscienza e ripuliti di ogni barlume di umanità. Data la nostra pochezza, non si può non gioire dell'esito della sua rivoluzione: pur nella sua apocalittica brutalità, spazzare via una società moribonda è una prospettiva di gran lunga migliore per il pianeta e il genere umano rispetto al ristagno culturale e umano nelle cui sabbie mobili stiamo sprofondando ogni giorno di più. Riscrivere le regole, insomma, per ripartire. Possibilmente in pace con i nostri cugini primati e in equilibrio con la natura.