Giovanni De Matteo's Blog: Holonomikon, page 64

October 23, 2010

Fighter: il dominio della lotta secondo Craig Davidson

[image error]Da una parte un ragazzo che si ribella alla vacuità del mondo borghese in cui è cresciuto. Dall'altra uno che cerca un'alternativa ai progetti di fama e successo che il padre ha costruito per lui. In mezzo: un ring. È la boxe il perno narrativo di Fighter (2007), romanzo di Craig Davidson seguito alla raccolta di racconti Ossa e ruggine (2005) e a un horror ambientato nelle lande settentrionali del Canada, The Preserve (2006, pubblicato sotto lo pseudonimo di Patrick Lestewka, su cui Brian Keene ha scritto parole entusiastiche). Un romanzo crudo, violento, notturno, sporco, che mantiene intatta fino all'ultima riga la commistione di luce e di ombre, la profonda compenetrazione di speranze di redenzione e condanna alla dannazione. Con un prologo che, guarda caso, rappresenta in realtà l'epilogo della vicenda, che possiamo leggere come un unico lungo flashback alla scoperta dei retroscena che hanno portato uno dei due protagonisti lì dove si trova ADESSO, in un ring clandestino da qualche parte nel Sud-Est Asiatico.


L'attacco è magistrale:


Dicono che un uomo riesca a cambiare la propria personalità – l'essenza che sta alla base dei chi o di che cosa lui sia – del cinque per cento. Cinque per cento: il cambiamento massimo che ognuno di noi è in grado di realizzare.

In un primo momento può sembrare trascurabile. Cinque per cento, che sarà mai? Una limatura d'unghia. Ma considerate la vastità della psiche umana, e quel numero acquisisce un peso reale. Milioni di metri quadrati, miliardi di anni luce. Considerate quanto un cambiamento del cinque per cento possa alterare una persona. Immaginate tessere del domino allineate in lunghe file dritte, con un mondo di possibilità a portata di mano.

Cinque per cento: tutto cambia. Cinque per cento: una persona tutta nuova.

Visto in questi termini, il cinque per cento significa davvero qualcosa.

Visto in questi termini, il cinque per cento è colossale.


Fighter si presenta fin dalle prime battute come un romanzo di formazione, ma un romanzo nerissimo, destinato a seguire la parabola della crescita e della distruzione dei suoi giovanissimi protagonisti. Davidson sceglie una riuscita alternanza di punti di vista per dispiegare gli eventi, imbastendo un parallelo tra due mondi separati da un fiume e dal salto del Niagara: da una parte del confine, la placida serenità alto-borghese (se non proprio aristocratica) di Niagara Falls, Canada, in cui viene su, annoiato e apatico, Paul Harris; dall'altra l'entropia terminale di Niagara Falls, New York, acropoli americana nella sua fase di ultimo declino, nel cui fango e nella cui polvere si allena Robert Tully, promessa della boxe locale e speranza di fama e riscatto per suo padre, panettiere con ambizioni da manager, e per suo zio, uno sparring partner che si presta ai combattimenti clandestini per rifarsi dalle perdite al tavolo da gioco, sua mania e suo vizio.


Stremato dalla sua esistenza abulica, Paul Harris si infila nel tunnel di un trattamento steroideo, raccontato da Davidson con un'efficacia orrorifica e visionaria che evidenzia un'ottima conoscenza dei meccanismi della narrazione di genere, oltre che del mondo descritto (si racconta che l'autore si sottopose a un ciclo steroideo di 16 settimane per scrivere il libro). Preoccupato per l'ossessione del padre e per la china imboccata dallo zio, su spinta della sua unica amica Kate Paulson, Robert Tully matura invece un crescente disincanto sulle prospettive di successo che il padre ha voluto incuccargli fin da piccolo, a suon di allenamenti e match.


L'incontro/scontro tra i due si traduce nell'incontro/scontro tra due mondi e tra due epoche, dipinto senza scadere nell'agiografia né nell'apologia della violenza grazie anche alla forte tensione morale che regge tutta la narrazione.


Ci sono tre segnali per riconoscere un vero combattente. Non sono quelli che uno potrebbe pensare: niente a che vedere con quanto sia grosso il tizio, o con le dimensioni dei suoi pugni. I tre indizi sono:


1. Una gran calma, che rasenta il torpore, negli occhi.

2. L'insistenza a volerti stringere la mano senza sforzarsi di stritolartela.

3. Quando chiede scusa per quello che succederà dopo.


Se vi ritrovate fuori da un bar e il tizio che dovete affrontare vi stringe la mano e domanda perdono prima di alzare la guardia, il mio consiglio spassionato è di scappare.


Quello che non si può negare al romanzo di Davidson è un ostinato disincanto, che nasce dalla propensione al fatalismo che si può tastare con mano in ogni singola pagina di Fighter. Anche per questo più che a Fight [image error]Club e a Chuck Palahniuk, a cui il libro è stato accostato, mi sentirei di affiancarlo a un misconosciuto titolo della filmografia di Shinya Tsukamoto: Tokyo Fist (1995), sanguinario triangolo amoroso in una Tokyo crepuscolare e surreale come quasi sempre avviene con il cineasta giapponese, che trasfigura il pugilato in una ridefinizione dei ruoli nella società, celebrando al contempo un'elegia di corpi riscritti, feriti, massacrati.


Ottima riproposizione di un titolo pubblicato nel 2007 dalle Edizioni BD (traduzione di Marco Schiavone) all'interno di una collana popolare di genere come i Gialli Mondadori, che conferma la lungimiranza della linea editoriale conferita dalla conduzione Altieri alla più longeva delle collane italiane da edicola. Se lo scorso giugno vi foste distratti e lasciati scappare Fighter, ve ne consiglio caldamente il recupero dal mercato dei remainders, dove la prima edizione del libro viene venduta a poco più di 5 euro in una pregiata rilegatura rigida. Sperando di vedere un giorno tradotto in italiano anche The Preserve.

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Published on October 23, 2010 04:15

October 21, 2010

Modi di porsi

Non mi piace parlarmi addosso, non mi piace parlare di me e credo che questo si sia capito piuttosto facilmente, dopo 556 post di questo blog e chissà quante migliaia di altre tracce disseminate per la rete. Chi indulge in dissertazioni sulla propria condizione, tipicamente mi lascia la sensazione di essere anche convinto della propria unicità all'interno del genere umano, della straordinarietà della propria esperienza di vita o carriera rispetto ai comuni mortali, e questo basta a rendermelo presto antipatico. Però ci sono giorni… Penso che capitino a tutti. Ti svegli e l'ennesima provocazione dello smargiasso che il giorno prima non avresti degnato di un nanosecondo d'attenzione, oggi ti strappa una risposta.


Lavorando dietro le quinte del Blog di Urania mi sono attirato l'antipatia di un certo numero di persone. Non è un problema, in fondo uno che scrive impara ad abituarsi molto preso a rancori, livori e invidie dei tipi più vari: vinci un premio, sei un raccomandato; vieni convocato per un'antologia, sei un amico del curatore; moderi un blog, sei un nemico della democrazia; le associazioni sono automatiche e persistono come luoghi comuni duri a morire nell'atteggiamento di una grande parte delle comunità italiane di genere. La mia esperienza si fonda su una certa conoscenza del mondo del fantastico e in particolare della fantascienza, e qui siamo davanti a una galassia di campanili e di micro-comunità disposte a firmare armistizi giorno per giorno e a federarsi tra loro contro il comune nemico del momento, per tornare poi a darsi battaglia il giorno dopo lo scioglimento della tregua e spargere veleno nei pozzi e napalm sugli orticelli le une contro le altre. E' uno stato di fatto che nessuno può negare e sarebbe interessante indagare i retroscena di questi atteggiamenti, ma non è questo il luogo e il momento e infatti non ho alcuna voglia di dilungarmi oltre sull'amenità di questo comportamento.


Sta di fatto che il rappresentante di uno dei siti più importanti dedicati dagli appassionati a Urania, la collana per cui ho collaborato per oltre due anni fino ad oggi in veste di blogmaster, uno dei rappresentanti del suddetto sito che conta sul contributo di diversi amministratori per gestire le sue diverse aree, non si è mai risparmiato in giudizi e considerazioni sul mio operato. Nessun problema. Stamattina (erano le 6.30 o giù di lì) arriva però ad auspicare per il sottoscritto che:


Speriamo che di persona sia molto più simpatico di come risulta come moderatore.


Testuali parole, suggellate dalla simpatica emoticon del vomito verde che fa sempre la sua figura, specie in bocca a un amministratore. E' qui, se permettete, che per me sorge un piccolo problema. Come dicevo nella premessa a questo post, solitamente sarei stato dispostissimo a sorvolare, ma oggi no. Perchè oggi sono disposto anche a prendermi 10 minuti per rispondere a questo signore e, già che mi trovo, anche a qualcun altro. A lui, in particolare, mi piacerebbe chiedere, con la stessa indulgenza che ha sempre dimostrato nei miei riguardi:


scusa, ma cosa te ne frega di come sono di persona?


Il problema, credo, nasca dal fatto che si tende a sovrapporre con un pizzico di intraprendenza maggiore del necessario gli ambiti di appartenenza/attività. Viviamo in una società liquida, dopotutto, e il settore del fantastico in Italia la rispecchia alla perfezione: l'appassionato che bazzica il settore tipicamente ci impiega qualche secondo di navigazione web o presenza a una convention per maturare la certezza che, se il fantastico italiano si alimenta soprattutto del contributo di appassionati disposti a tenerlo in vita anche con contributi amatoriali (e stiamo parlando di economia e ordini di grandezza per la diffusione delle opere e la loro retribuzione, non di qualità e di merito delle stesse), allora nessun operatore del settore (salvo qualche meritevole eccezione, vivaddio!) deve anche solo permettersi di ambire alla considerazione che meriterebbe un professionista, malgrado tutta la professionalità che quella persona possa dedicare e riversare nella propria attività.


Non a caso qualcuno, nei giorni scorsi, mi faceva notare il livellamento, l'appiattimento, che contraddistingue il mondo del fantastico italiano, dove gli esagitati che schiamazzano dalla mattina alla sera ammonendo il popolo bue dai sotterfugi e dalle connivenze della grande editoria hanno imposto la regola, nel loro seguito, che gli scrittori, i curatori, i saggisti, etc. debbano essere trattati sempre come degli esordienti, se non proprio come dei mentecatti. Io non lo so se altrove ci siano fenomeni di questa portata, ma in Italia l'influenza di questi scalmanati è sicuramente amplificata dalle dimensioni del settore. Con ciò, piccolo inciso, non voglio certo sostenere che il fantastico sia una nicchia in Italia, ma alla fine quello che si percepisce (quello che percepiamo noi come autori, curatori, blogger, etc.) è sempre e solo lo schiamazzo di quella minoranza che ha deciso di fare un uso militare della rete, mentre magari un numero di lettori due o tre ordini di grandezza maggiore rispetto a loro e al loro seguito resta confinato nella cosiddetta maggioranza silenziosa. E se questo è quello che percepiamo noi come autori, curatori, blogger, etc. mi viene da chiedermi quale sia l'impressione che ne ricava un neofita o comunque un osservatore esterno.


Rilevo, in sostenza, una generale deresponsabilizzazione provata dal mezzo e, come se non bastassero i pierini e i troll che si dilettano nella pratica per rivalsa, dispiace soprattutto che a questo atteggiamento sempre più diffuso partecipino anche figure che avrebbero tutte le carte in regola e gli strumenti per imporsi al di sopra del blob. Ma contenti loro, contenti tutti.


La provocazione che ho riportato sopra fa il paio con quella che mi è stata rivolta un paio di mesi fa da quello che ho sempre reputato un blog amico. Non a caso ci ho messo due mesi per metabolizzare la cosa…


[...]la cosa che mi fa più male nel blog di Urania è veder Giovanni De Matteo trasformarsi in paladino aziendalista della purezza del testo. Io sono convinto della sua buona fede ma credo che farebbe bene a fare un passo indietro e leggere i suoi commenti dalla prospettiva della sua produzione artistica (con tutto quel che si porta dietro in termini politici e morali).


Ora, con la persona che ha scritto queste parole ho condiviso - credo - interessa, amicizia e attività, avendo collaborato fattivamente su quello che ancora oggi ritengo uno degli esperimenti più importanti, significativi e ambiziosi tentati dalla fantascienza italiana in questo scorcio di secolo. Ma lui ha sempre preferito fare del ruolo di lettore la propria bandiera. La qual cosa, per me, va benissimo. Però, anche questa volta, c'è qualcosa che non va nel tono usato, qualcosa che trovo terribilmente fuori luogo e che mi ha spinto a restarmene zitto per settimane intere meditando sul tono migliore da dare a una eventuale risposta. Adesso, il signore di cui sopra, con la sua domanda fuori luogo e tutta l'impertinenza che trasmette, mi offre l'occasione di riaprire il discorso e - spero - di chiuderlo subito dopo, domandosi che tipo di persona io sia fuori dalla rete. Sono simpatico? Sono antipatico? Chiederei all'amico di dare una risposta al mio posto e, già che si trova, di non tralasciare dal giudizio che vorrà esprimere ogni valutazione di carattere non strettamente attinente alla mia produzione artistica: "termini politici e morali" in primis. Per aiutarlo nella sua valutazione gli ricordo che no, non ho fatto nessun passo indietro sulla questione della moderazione del Blog di Urania e sì, condivido consapevolmente tutte le scelte che sono state operate finora dai curatori della collana.


Perché io non sono di certo la persona più indicata per esprimermi sulla mia simpatia e potrei essere imparziale nel pronunciarmi. Anche se sono ragionevolmente certo di non aver mai - in trent'anni di presenza al mondo e almeno una quindicina di vita di società - sputato nel piatto del mio commensale né pisciato sullo zerbino del mio ospite. Cosa che, invece, pare essere largamente tollerata tra gli ex-commentatori del Blog di Urania, che magari ne fanno anche un punto a favore nei loro metri per valutare la simpatia di chi hanno davanti.

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Published on October 21, 2010 03:31

October 18, 2010

La notte dei morlock

Lo segnalava ieri il compagno Fazarov: i Wu Ming hanno aperto su Giap un laboratorio di riflessione critica sulla scorta di un loro articolo apparso sabato scorso sull'Unità. Oggetto: l'instant fiction e le caratteristiche di una storia avvelenata. Proposito assolutamente interessante, investendo il ruolo della narrazione in quest'epoca in cui tutto viaggia o sembra viaggiare sulle onde della comunicazione immediata, istantanea appunto. Ne riporto un brano che trovo significativo:


Molti, allora, storcono il naso, si fanno prendere dall'inquietudine: ma come? – domandano – prima le telecamere schierate, a modificare narrativamente lo svolgersi degli eventi, poi le notizie, raccontate al mondo secondo i dettami dello storytelling, e infine la mitopoiesi istantanea, versata sulla realtà prima ancora di farla decantare: non rischiamo l'indigestione di storie, la scomparsa dei fatti? Difficile rispondere, ma intanto le neuroscienze hanno dimostrato che il nostro cervello interpreta la realtà attraverso schemi narrativi, e in fondo l'unico modo che abbiamo per far parlare i fatti è quello di raccontarli e connetterli in un'unica trama. Le storie sono un nutrimento indispensabile per la nostra specie, sembra impossibile farne indigestione. Certo tra istant fiction, infotainement e gialli da prima serata, le buone storie sono sempre più assediate da quintali di monnezza narrativa. L'unica soluzione è munirsi di guanti, naso fino e competenze per distinguere i rifiuti tossici dal cibo commestibile. In altre parole: diventare tutti cantastorie, artigiani dello storytelling, bricoleur dell'immaginario.


Il problema è che se tutti riuscissimo a incarnare quel ruolo partecipativo nel processo dell'informazione (chiamiamola così, perché a quel punto sarebbe davvero tale) o, per dirla con un termine che nel settore delle reti di distribuzione dell'energia sta assumendo una certa efficacia e rilevanza (almeno fuori dall'Italia), prosumer - ovvero produttori & consumatori, attori in scena e non solo spettatori passivi - il problema nemmeno si porrebbe. Ma viviamo in una società che da questo punto di vista non manca di dare prova della sua estrema immaturità. Mancano gli strumenti, alla maggioranza degli utenti, per poter ambire a un ruolo simile, ma la cosa più grave è che l'illusione di partecipazione conferita dall'immediatezza di certi strumenti (le chatline e i gruppi di discussione prima, quindi i forum, adesso Facebook) stimola in molti la convinzione di possedere un'autonomia e un'indipendenza di giudizio che purtroppo latita in maniera preoccupante. Alla necessità di formarsi un'opinione, si è sostituito l'obbligo di esprimerne una: quale che essa sia. Non è importante davvero la sostanza, conta solo la presenza. [E il trolling impera di conseguenza: ovunque si capiti, basta aspettare a sufficienza per vederlo manifestarsi, quando non proprio prendere il sopravvento.]


Ad aggravare questa sensazione, sembra sul serio che l'uso più comune di Facebook sia diventato ruminare la poltiglia vomitata dai vecchi mezzi di informazione, TV in primis. In questo, sono convinto che nella sua espressione più massiccia e - per usare una parola significativamente adottata dai Wu Ming nel loro pezzo - totalitaria, Facebook resti sostanzialmente uno spreco, un'occasione perduta, l'ennesima nei tempi che corrono.


In una società in cui la maggioranza continua a sorbire passivamente la marmellata psichica cucinata da un'elite, la rete sembrerebbe aver fallito completamente nel proprio scopo. Ma siamo davvero senza speranza? Sempre la vicenda dei minatori cileni potrebbe fornirci materia utile su cui riflettere. Nella mia occasionale attenzione prestata alla vicenda, ho tifato fino alla fine perché i prigionieri del sottosuolo, una volta tornati in superficie, dessero libero sfogo alla rabbia trattenuta nei loro corpi provati dal supplizio e in un impeto di epica rivalsa investissero le strutture e i simboli di quel potere che nel sottosuolo li aveva relegati per due mesi, come morlock finalmente liberi dalle loro catene. E al loro fianco i familiari accampati nelle tendopoli allestite intorno al sito, provati da un'attesa estenuante e disumana mentre la loro vita si trasformava in una fiction di successo mondiale grazie all'onnipresenza di telecamere, cronisti e operatori. Incrociavo le dita perché lo spettacolo del dolore vivesse la redenzione di un rito catartico in mondovisione, un gesto - anche solo una dichiarazione - che invece dei cori da stadio e dell'accoglienza da star desse voce alla frustrazione subita e sfogo emblematico alle ingiustizie patite, trasformandole nell'espressione dei diritti calpestati di miliardi di altre persone che per la gran parte, in quelle ore, se ne stavano sedute placidamente dall'altra parte degli schermi. Confidavo in un sussulto che desse una scarica anche alle coscienze narcotizzate dallo spettacolo artificioso e dalla cronaca disinnescata che aveva avuto i minatori cileni per oggetto. E invece ho appreso alla fine del tristissimo show che i valorosi superstiti si erano già accordati prima della risalita per la costituzione di un fondo comune, in cui far confluire il denaro raccolto dall'effimera parentesi di popolarità mediatica che li attende, per poi procedere alla sua equa spartizione tra tutti i "protagonisti".


Per la nuova classe operaia il paradiso assume dunque la forma di un banale imprenditorialismo televisivo. Anche questo è un segno dei tempi? Forse è così. E forse la vicenda dei minatori cileni trasfigura in maniera impietosa la parabola della rete. Forse il futuro che ci attende, se una nuova coscienza civile, culturale e sociale tardasse a maturare, potrebbe essere proprio quello di veder mutare il popolo della rete in morlock elettronici sepolti sotto valanghe di bit di sterile pseudo-informazione. Analfabeti e imbarbariti come la specie devoluta rappresentata dal precursore H.G. Wells, ma a differenza di quelli del tutto ignavi, appagati e soddisfatti dal nettare dis-informativo del vile cabaret che ci viene spacciato come la festosa realtà che ci aspetta là fuori o, a seconda dei casi, per il paradiso che ci attende al di là. In superficie.

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Published on October 18, 2010 15:00

October 17, 2010

Requiem per un sogno (frattale)

Ho appreso con ritardo e, per puro caso, con un intervallo di qualche ora tra una notizia e l'altra, che ci hanno lasciati due grandi visionari. Per puro caso, entrambi sono stati stroncati da un cancro al pancreas. Così va la vita.


Il regista e mangaka Satoshi Kon è scomparso il 24 agosto, dopo avere appreso lo scorso maggio di avere meno di sei mesi di vita. A seguito della notizia si era ritirato dalle attività che lo vedevano impegnato su quello che avrebbe dovuto essere il suo prossimo film, The Dream Machine. Tra le sue opere, ho finora avuto occasione di vedere solo Paprika (2006), inquietante e psichedelica scorribanda onirica che conserva notevoli punti di contatto con il Signore dei sogni di Zelazny, e anticipa sorprendentemente molti spunti sviluppati poi in Inception. Qui potete leggere la sua lettera d'addio.


Giovedì scorso, 14 ottobre, ci ha lasciati Benoît Mandelbrot, padre della geometria frattale. Nel 1993 gli era stato conferito il premio Wolf con la motivazione di "aver trasformato la nostra visione della natura". Come dimostrano le evoluzioni nell'applicazione dei frattali allo studio della matematica e non solo, le sue intuizioni hanno fatto scuola. Nel mio piccolo, devo anche e forse soprattutto a lui la scoperta che la matematica poteva essere qualcosa di più appassionante della grigia e meccanica applicazione di numeri, variabili e parametri su un foglio di carta. Nelle sue mani, come in quelle di Mitchell Feigembaum e di Riemann prima ancora di loro, la matematica era diventata poesia e arte, quando non proprio metafisica. L'insieme che porta il nome di Mandelbrot campeggia nella testata dello Strano Attrattore fin dalla sua prima incarnazione: un omaggio di poco conto per un gigante che mi ha insegnato come lo studio dei numeri e degli insiemi potesse e dovesse essere anche stupore e meraviglia, oltre che conoscenza.

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Published on October 17, 2010 15:11

Underworld: la gabbia memetica di Don DeLillo

Non credo di aver trascorso mai tanto tempo immerso nelle pagine di un libro quanto ne sto trascorrendo su Underworld, di Don DeLillo. Ho intervallato ad altri libri la sua lettura tante di quelle volte che le sue pagine devono essere finite per impastarsi con la polpa di tutti gli altri libri che continuano ad accumularsi sui miei scaffali, le mie scrivanie, i miei comodini e i miei armadi. Ed è stupefacente come il tutto si combini alla perfezione, in un amalgama coerente che riesce a inglobare e assimilare ogni cosa, a incorporare e giustificare ogni frammento di realtà venga a trovarsi nel suo campo gravitazionale.


Mentre mi appresto a concluderlo, la trama continua a dispiegarsi davanti ai miei occhi con una coerenza e un rigore che ha del sovrannaturale, a giudicare dal caos di situazioni, episodi, riflessioni, ricordi e storie che DeLillo interseca nelle sue pagine, portando la storia degli uomini a scontrarsi con quella di una città, di una nazione e del mondo intero, mentre l'immaginario collettivo decanta intorno a nuclei minimi di significato di varia rilevanza (il fuoricampo di Bobby Thomson, la bomba H dei sovietici, la figura di J. Edgar Hoover, le performance di Lenny Bruce). Come testimonia l'insistenza sul Botto che ha Fatto il Giro del Mondo e il focus sugli acronimi che raggiunge il suo apice nel bellissimo brano di pag. 255, DeLillo costruisce una gabbia memetica per imbrigliare il mondo e la storia.


Retrovirus nel sangue, acronimi nell'aria. Edgar sapeva cosa rappresentava ogni singola lettera. AZidoThymidine. Azt. Human Immunodeficiency Virus. Hiv. Acquired Immune Deficiency Syndrome. Aids. Komitet Gosudarstvennoj Bezopastnosti. Sì, il Kgb faceva parte dello sciame che si moltiplicava, dell'esplosione cellulare che doveva essere distillata e contrassegnata da iniziali per essere vista.


Quando poco sopra mi riferivo alle sovrapposizioni di Underworld con le altre letture fatte nel frattempo, pensavo a due passaggi significativi che riguardano la figura di Albert Bronzini (che poi fu in qualche modo la ragione per cui acquistai il libro nel remoto 2002, in una libreria appena aperta nell'atrio della Stazione Tiburtina, dopo aver letto queste parole che sono l'inizio della Parte sesta del romanzo: "Bronzini pensava che camminare fosse un'arte. Quasi ogni giorno dopo la scuola usciva all'aperto, lasciando che la strada producesse un miscuglio di suoni, forme e movimenti, lasciando che le voci cadessero e gli aromi si spandessero in modi che variavano, ma non troppo, da un giorno all'altro.").


Il primo si trova a pag. 718:


I bambini trovano sempre un modo. E' come se riuscissero a schivare il tempo e le devastazioni del progresso. Ho l'impressione che operino in uno schema temporale completamente diverso.


L'altro a pag. 745-746 si riferisce a una partita di scacchi ma subito ne trascende i confini:


Ascoltò Mr. Bronzini in soggiorno. Stava parlando della verità di una posizione. La radio trasmetteva un serial intitolato «Orizzonti radiosi» o «Un radioso domani» o «Giorni radiosi», e ogni posizione ha una verità, disse Bronzini a Matty. E devi cercare una verità profonda, non una verità superficiale. Una posizione degna di essere difesa fino alla morte.


Se il primo non può mancare di stimolare nell'orecchio dell'appassionato di fantascienza delle assonanze fin troppo eloquenti (a Ballard, a W.S. Burroughs e a tanto cyberpunk), nel secondo colgo riferimenti a situazioni personali che nella loro banalità avvalorano le caratteristiche di universalità che da sempre investono la grande letturatura.

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Published on October 17, 2010 10:18

Martin Mystère 311: L'orizzonte degli eventi

[image error]L'esperimento del secolo va storto confermando le previsioni dei suoi oppositori e un buco nero minaccia di inghiottire il pianeta, provocando l'estinzione del genere umano. Questo il concept dell'ultimo numero della storica testata bonelli dedicata alle investigazioni sull'impossibile del Buon Vecchio Zio Martin, creato da Alfredo Castelli nel lontano 1982. Trattando di LHC e di buchi neri, e riportando per di più il titolo di uno dei miei racconti preferiti (nonché più apprezzati in giro, a quanto leggo), appena l'ho visto segnalato da un amico della Lista Yahoo! di Fantascienza ho provveduto a procurarmelo, tanto più che era da tempo che pensavo di rileggere qualche avventura del BVZM.


La storia di Paolo Morales si sviluppa in una progressione drammatica efficace che ha per obiettivo la fine - silenziosa, ma non per questo meno apocalittica - dell'umanità. Accettata la sospensione dell'incredulità sul punto di partenza, continuano a destare tuttavia qualche perplessità un paio di approssimazioni in cui la trama purtroppo inciampa: in particolare le modalità di recupero del minerale ultradenso dalla fascia asteroidale (a bordo di uno shuttle…) e l'arbitrarietà di posizionamento del buco nero (creato all'interno di ATLAS, Martin Mystère se lo ritrova tra i piedi mentre percorre un tunnel…). A risollevare il tenore della storia ci pensa la soluzione con cui la minaccia viene disinnescata, con l'idea di utilizzare il buco nero come una macchina del tempo per inviare nel passato un messaggio di avvertimento.


Essendomi ritrovato ad avere molto a che fare con i viaggi nel tempo negli ultimi mesi, è una trovata che - per quanto non originalissima - ho trovato particolarmente stimolante, nonché - perché no? - suscettibile di ulteriori sviluppi. In definitiva, se siete in cerca di una buona avventura per un'oretta di valido intrattenimento, questa storia potrebbe fare al caso vostro. Resta tuttavia raccomandato un approfondimento su ciò che LHC veramente fa e potrebbe fare, scopo per cui il blog del fisico renitente (che proprio su ATLAS lavora) vi viene in soccorso.

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Published on October 17, 2010 03:57

October 15, 2010

Estratto

Un altro assaggio. Da Codice Arrowhead.

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Published on October 15, 2010 09:00

October 10, 2010

Inception

Ovvero, il sogno ricorsivo della fantascienza al cinema. Su Delos SF, come anticipavo qualche giorno fa. Buona lettura.

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Published on October 10, 2010 14:58

October 5, 2010

Ancora nel Vortice

L'ora di Malin Kurylenko è finalmente arrivata. Me ne ha appena dato notizia l'editore, annunciandomi che da domani pomeriggio sarà su Bookrepublic e nel frattempo si trova già in approvazione per Amazon. L'uscita dell'e-book è stata anche l'occasione per iscrivermi a Goodreads.com (la pagina d'autore è stata predisposta da Giuseppe Granieri, che ringrazio), che rischia di diventare una droga peggiore di Anobii… Considerando il work in progress sul sito di 40k Books, ne approfitto per aggiornare anche il link alla pagina ufficiale della novelette.


Da quelle parti mi sto ancora acclimatando, ma qui mi piacerebbe spendere due parole su Codice Arrowhead, che nasce con un altro titolo per la rivista di cultura connettivista Next, e che adesso si accinge a vivere una seconda vita in formato elettronico. O meglio, avendone già parlato a suo tempo, tornarci sopra per una presentazione mirata a questa uscita.


Codice Arrowhead è la storia di una caccia. Come nella più classica delle cacce, ben presto si perdono le coordinate che ci permettono di distinguere il cacciatore dalla preda. E come ancor più spesso accade nelle cose che scrivo, l'ambientazione reclama l'attenzione del lettore. Questa volta - per la prima volta nella mia fiction - siamo in Medio Oriente, in un'immaginaria città della West Bank, la Cisgiordania occupata da Israele, che qui è anche il luogo di un'anomalia psicogeografica, un vortice temporale che porta epoche diverse a sovrapporsi sul cuore della Città Vecchia di Yass-Waddah. E' un ritorno nella Zona, ma in circostanze più dinamiche (con un'interessante, per me, deriva spionistica) di quanto non avvenisse nel racconto omonimo incluso in Revenant. Quaggiù la sopravvivenza diventa davvero questione di un millimetro o, a seconda dei punti di vista, di una frazione di secondo. Eppure qualcuno sembrerebbe avervi insediato la propria base operativa. Qualcuno che forse è qualcosa di diverso da quello che tutti credono, compresa Malin Kurylenko. E che con lei potrebbe stringere un patto…


Questo è l'incipit:


L'attività della contraerei intesseva una fitta ragnatela fluorescente nel cielo di Yass-Waddah, Z.I. Le microluci danzavano sul campo virtuale delle retine di Malin, scandendo l'astrazione di una musica visiva. Una barriera intangibile tagliava fuori dal suo sensorium il tuono delle esplosioni, relegato in uno spazio esterno che sembrava distante anni luce da lei.


Sulle strade si depositava la polvere del tempo, strappata ai muri e ai tetti da decenni di fiera e insensata battaglia, quando un avviso acustico reclamò la sua attenzione.


Il rilevatore di movimento aveva individuato qualcosa alla sua destra. Ne trasmise la localizzazione al display tattico e l'immagine a infrarossi di un gatto si sovrappose al suo campo visivo. Il felino alzò la testa dai rifiuti in cui stava rovistando e scrutò l'intrusa con occhi scintillanti e vibrisse in allerta, cacciando un miagolio di sfida.


– Hai ragione, gatto. Scusa se ho interrotto la tua cena – disse la ragazza, consapevole della registrazione operata dalla tuta cibernetica. – Tolgo subito il disturbo.


L'imprevisto l'aveva lasciata senza fiato. Approfittò dei secondi necessari a recuperare il biocontrollo per valutare la propria posizione nel reticolo topografico della Città Vecchia. Non era lontana dal cuore del Vortice. Dopo tre ore di ricognizione non aveva ancora scorto tracce del comandante Hawksmore, né degli enfants terribles.


Codice Arrowhead è un racconto sulla guerra, quando la guerra diventa una condizione mentale. Ed è un racconto sul cambiamento e sulle diverse velocità che le persone dimostrano nell'adattarsi al passo dei tempi. Deve molto a diversi grandi scrittori, di genere (Alan D. Altieri, Richard K. Morgan, Greg Egan) e non (William S. Burroughs, Jorge Luis Borges), senza la cui lezione non sarebbe mai stato scritto. Spero che possa restituirvi almeno in parte l'angoscia che mi ha riservato la sua stesura.

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Published on October 05, 2010 14:18

October 3, 2010

Tutti i livelli del sogno

Posso finalmente dirlo: Inception è il film che mi aspettavo. D'altro canto, come potrebbe deludere un racconto senza un antagonista, in cui i protagonisti sono molto meno buoni del loro avversario (che dopotutto è solo una vittima) e la lotta è contro le trappole e i tranelli tesi dalla mente umana, reso per di più in maniera altamente spettacolare? Non può, semplicemente.


Se poi ci aggiungete che c'è anche Peter Riviera, anche se qui si chiama Eames e opera all'interno delle dinamiche oniriche come falsario, e che nella scena in cui Parigi si ripiega su se stessa sembra di vedere finalmente al cinema uno scorcio di Freeside, il conto è presto fatto e il biglietto ampiamente ripagato. Nolan dimostra di aver letto (e compreso) molta più fantascienza di quanta ne serva solitamente per farsi venire in mente di scrivere o dirigere un blockbuster. E trovo davvero plausibile che tra le sue letture propedeutiche possano essere capitati Ballard, Dick e Zelazny, e magari anche dosi di Galouye assimilate indirettamente attraverso Il tredicesimo piano.


Apprendo con gioia che anche a Gibson è piaciuto. Sebbene il mio caper movie preferito di tutti i tempi resti Heat - La sfida, Inception si candida seriamente a imporsi come pietra miliare per la fantascienza cinematografica d'idee del prossimo decennio. Ma magari ne parliamo in maniera più circostanziata su Delos. Così, chi non l'ha ancora fatto, ha il tempo di recuperarlo finché lo trova ancora nelle sale, perché temo che come già accadeva per Cloverfield una visione in home video possa solo penalizzare il gradimento finale.


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Published on October 03, 2010 15:00