Alessio Brugnoli's Blog, page 113

April 11, 2019

Orgogliosi di essere uomini

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Ieri è stato uno dei rari casi in cui ho bannato un tizio su Facebook. Il motivo non è stata la politica, anche se devo dire che ultimamente i grillini stanno tirando fuori il peggio di me, rendendomi poco tollerante e ancor meno paziente, il calcio o le offese personali.


Il motivo può sembrare strano: una battuta, alquanto volgare, sull’immagine che ha stupito il mondo ieri, il buco nero supermassiccio del tipo di Kerr, ovvero caratterizzato da due soli parametri, massa e rotazione, che si trova al centro o della galassia M87 a 55 milioni di anni luce dalla Terra.


Qualcuno di voi potrebbe commentare la questione con un


Ammazza quanto sei diventato permaloso


e forse neppure gli posso dare torto.


Ora, non voglio fare una lezione di fisica, in queste ore ne sono state fatte a bizzeffe, da persone molto più qualificate di me. Però una cosa vorrei dirla: dai tempi della Relatività Generale di Einstein in poi, tra errori, pasticci, passi falsi, abbiamo elaborato una teoria per descrivere un oggetto celeste, la cui natura, a pensarci bene, si pone ben lontano da ciò che noi definiamo senso comune.


Dopo anni di ricerche, siamo riusciti ad avere una verifica empirica di tutte le nostre deduzioni. E queste si sono rivelate esatte, un trionfo della nostra razionalità, che rende perfetta testimonianza di quanto disse Pascal


L’uomo è solo una canna, la piú fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre piú nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla.


Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiam cercare la ragione di elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non potremmo riempire. Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale.


Deridere questo risultato con volgarità, per sentirsi anticonformisti e importanti, è anche ciò che ci rende umani… E comincio ad essere troppo vecchio, per permetterlo ancora, perché per una volta, voglio essere orgoglioso della nostra natura.


Perché la scienza ci ricorda come si possa essere migliori di come, per stanchezza, abitudine e viltà, ci accontentiamo di apparire ogni giorno…


 


 

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Published on April 11, 2019 12:40

April 10, 2019

La fortuna di Colombo

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Quando ero alle elementari, il maestro di raccontò la storia della discussione tra Colombo e la commissione costituita dai professori dell’Università di Salamanca, i quali sarebbero opposti al progetto portando come obiezione che la Terra fosse piatta, e che quindi fosse impossibile raggiungere il Giappone passando dall’oceano.


Storiella carina, che ha sicuramente generato nel sottoscritto una profonda antipatia per terrapiattisti e i comitati di qualsiasi genere e risma, ma falsa come una moneta da tre euro.


Fu infatto un parto della fantasia di uno scrittore americano, Washington Irving, che se lo inventò di sana pianta: i dotti di Salamanca era qualcosa di ben diverso dei tontoloni che infestano facebook, ed erano tra le persone più colte che l’Europa potesse offire all’epoca.


Tra i dotti dell’autunno del Medioevo, il concetto della sfericità della Terra era acclarato e di pubblico dominio. Si pensi, almeno, al matematico e astronomo inglese Giovanni Sacrobosco: nel 1230 egli scrisse il Tractatus de Sphaera, emblematico già dal titolo. Il trattato del Sacrobosco ebbe una diffusione ampissima, tanto che fu uno dei primi testi ad essere pubblicati a stampa. Oppure, per parlare che dovrebbe essere nota a ogni italiano, nella Divina Commedia di Dante Alighieri la Terra è descritta come una sfera, dentro cui si articola il regno infernale.


Le obiezioni dei professori, in realtà, erano di due diverse tipologie, in qualche modo, fondate entrambe. La prima, che dovrebbe essere abbastanza nota, riguardava la dimensione del globo terreste. Colombo, ispirato da un matematico Paolo dal Pozzo Toscanelli, che aveva compiuto i suoi calcoli basandosi sugli errori compiuti da Tolomeo, la riteneva assai più piccola di quanto fosse in realtà; secondo lui, la distanza tra Spagna e Giappone sarebbe stata pari a circa 4500 Km.


I professori di Salamanca, che conoscevano il lavoro di Eratostene, affermarono come questo numero non fosse né in cielo, né in terra e come la distanza, dovesse essere almeno cinque volte più grande di quanto affermato dal genovese. Sembra strano, ma avevano ragione loro: tra Madrid e Tokio ci sono circa 22000 Km.


L’immagine che accompagna il post, in cui la geografia reale e quella che aveva in mente Colombo sono confrontate, rende bene l’entità dell’errore del genovese


La seconda obiezione, meno nota a più, è legata alle idee che si avevano nel 1400 sulla geografia dell’oceano Atlantica, basate sia sulle fonti classiche, sia sull’esperienza concreta dei viaggi. I geografi dell’età ellenistica, come Ipparco, Posidonio e Seleuco di Babilonia si erano accorti di come il regime delle maree dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano fossero notevolmente notevolmente diverse (in particolare perché le disuguaglianze diurne, vistose nell’oceano Indiano, non sono visibili nell’Atlantico).


Per spiegare tale stranezza avevano ipotizzato come i due Oceani fossero divisi da istmo di terra, su cui dovevano essere presente, per evitare il contatto tra le acque, un’immensa catena montuosa: senza saperlo, avevano immaginato, il complesso costituito dalle Montagne Rocciose e dalla Cordigliera delle Ande. Tale istmo, di fatto, avrebbe reso impossibile qualsiasi circumnavigazione del globo.


Tale idea, tramite Strabone e tramite i geografi arabi, era giunta alle persone colte del Quattrocento e veniva considerata attendibile. Sempre le fonti classiche, come Diodoro Siculo,Tolomeo, Plinio il vecchioo Plutarco, affermavano l’esistenza nell’Atlantico di un arcipelago subtropicale, le cosiddette Isole Fortunate, distanti dall’Africa circa 10.000 stadi (circa 2000 km), caratterizzato da una vegetazione lussureggiante.Ora che fossero un’invenzione puramente letteraria o in citazione distorta delle Canarie o di Madeira, è difficile dirsi.


Però, questo, unito alla conoscenza dell’esistenza di Vinland, cosa che non era nel Medio Evo un segreto per nessuno, aveva portato ipotizzare come l’Atlantico, dalla Groenlandia all’Equatore, fosse pieno di arcipelaghi, più o meno civilizzati.


Le isole ipotetiche più famose erano Antillia, simmetrica come posizione dimensione e forma al Portogallo, Hy-Brasil e Mam, a centinaia di miglia dall’Irlanda, Mayda, poco più a sud del Vinland e l’arcipelago costituito da Saluaga, Sallia, Ymana, Rosellia e Taumar. In queste ultime, secondo la leggenda, vi si erano rifuggiati, per sfuggire all’ìnvasione arabe l’ultimo re visigoto della Spagna e sette vescovi cristiani, fondando 7 città, in cui i loro discendenti sarebbero vissuti in santa pace.


Ipotesi, quella dell’abbondanza di arcipelaghi,paradossalmente supportata dalle scoperte geografiche dell’epoca: le Canarie sono esplorate tra il 1312 e il 1335; Madeira tra il 1339 e il 1425; le Azzorre dopo il 1427. Scoperte che potevano fare pensare come queste isole non fossero le prime di una lunga serie


Per cui, i dotti spagnoli, per farla breve, nel contestare la proposta di Colombo, affermarono che il suo viaggi, nel caso peggiore o avrebbe fatto morire di fame e sete il suo equipaggio, oppure, nell’ipotesi migliore, avrebbe scoperto terre e isole, alquanto sfigate, su cui al massimo sarebbe stato possibile coltivare vite e canna da zucchero, ma non certo l’Asia ricca d’oro e spezie.


Se non fosse stato per le raccomandazioni di Padre Juan Pérez e del vescovo Alessandro Geraldini, entrambi confessori di Isabella la Cattolica, Colombo non avrebbe ottenuto dalla Spagna, dal Banco di San Giorgo e dal mercante fiorentino Giannotto Berardi i 50000 euro, in valuta attuale, necessari a finanziare l’impresa…


Ma come si sa, la fortuna aiuta gli audaci e la Realtà spesso è più complicata e sorprendente di quanto qualsiasi ipotesi, per quanto razionale e ben congegnata, possa contemplare…

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Published on April 10, 2019 14:00

Lo stratagemma di Datame (Nep. 14, 9)

Studia Humanitatis - παιδεία


di Cornelio Nepote, De viris illustribus, 14, 9



At rex, quod implacabile odium in Datamen susceperat, postquam bello eum opprimi non posse animaduertit, insidiis interficere studuit: quas ille plerasque uitauit. sicut, cum ei nuntiatum esset quosdam sibi insediari, qui in amicorum erant numero (de quibus, quod inimici detulerant, neque credendum neque neglegendum putauit), experiri uoluit, uerum falsumne sibi esset relatum. itaque eo profectus est in quo itinere futuras insidias dixerant. sed elegit corporea c statura simillimum sui eique uestitum suum dedit atque eo loco ire, quo ipse consuerat, iussit; ipse autem ornatu uestituque militari inter corporis custodes iter facere coepit. at insidiatores, postquam in eum locum agmen peruenit, decepti ordine atque uestitu impetum in eum faciunt, qui suppositus erat. praedixerat autem iis Datames, cum quibus iter faciebt, ut parati essent. ipse, ut concurrentes insidiatores animum aduertit, tela in eos coniecit. hoc idem cum uniuersi fecissent, priusquam peruenirent ad eum…


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Published on April 10, 2019 12:12

Idrisi, Il Libro di Ruggero

Shackleton


Muhammad_al-Idrisi



La cartografia nel Medioevo



Nel Medioevo, mentre in Europa si assisteva ad un regresso degli studi e quindi delle conoscenze scientifiche rispetto al mondo classico, nel mondo islamico fiorivano tutta una serie di scuole divenute veri e propri centri di ricerca che spaziavano dall’astronomia alla matematica, alla fisica, alla geometria, alla medicina, alla chimica.



La conoscenza di scritti e trattati scientifici dell’antichità classica, come l’Almagesto e la Geografia del grande matematico alessandrino Claudio Tolomeo (100-178 d. C.), andati persi in Occidente in seguito alle distruzioni delle invasioni barbariche, avevano infatti permesso agli Arabi di compiere progressi in ogni campo dello scibile umano e soprattutto nelle scienze mediche, astronomiche e geografiche.



Gli Arabi, infatti, entrati in contatto con le popolazioni dell’Egitto, e particolarmente della Siria, conoscevano alcune delle grandi opere greche di geografia e di astronomia e, per merito dei califfi di Baghdad, ne curarono la traduzione. Tra le opere classiche…


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Published on April 10, 2019 06:07

April 9, 2019

Vaporosamente 2019

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Uno degli eventi più importanti della Fantascienza nostrana è l’Italcon, un modo famigliare e sintetico di definire il ben più lungo e pomposo Convegno Italiano del Fantastico e della Fantascienza: occasione in cui tutti coloro che bazzicano quel mondo, scrittori, editori, appassionati si incontrano, si confrontano, spettegolano, litigano e si dedicano ad abbondanti libagioni.


Evento a cui il sottoscritto, per la sua leggendaria pigrizia e per i suoi epici casini al lavoro non ha mai partecipato.


Quest’anno però, potrei cambiare idea: l’edizione del 2019, in maniera inaspettata, almeno per me, non sarà abbinata alla Starcon, la convention degli appassionati di Star Trek, ma udite, udite, sarà ospite di Vaporosamente, manifestazione torinese dedicata allo steampunk, e alla Torino Maker Faire, il festival di noi smanettoni.


E’ inutile nascondere la mia contentezza: negli ultimi anni, dal punto di vista umano, sono assai legato a Vaporosamente.


Perché vi collaborano molti miei amici, compreso Peregrino Tuc, ovviamente è un nome d’arte, il miglior editor con cui ho collaborato. Perchè Roberto Cera, l’organizzatore di Vaporosamente, è uno dei pochi che ha ancora fiducia nelle capacità narrative del sottoscritto; è uno dei pochi che continua a pubblicare i mie racconti.


Soprattutto perchè Roberto è una persona eccezionale: da quando lo conosco, si è fatto sempre in quattro per promuovere lo steampunk in Italia, lottando contro tutti e tutti. Contro, con la puzza sotto al naso, chi considera questo genere letterario e in generale il Fantastico Italiano, come qualcosa di serie B, privo di qualsiasi spessore culturale. Contro la disorganizzazione delle amministrazioni locali e le stranezze della burocrazia, cose che ti fanno mangiare il grasso del cuore, quando provi a organizzare un qualche evento. Contro la voglia di mollare tutto e mandare tutti al diavolo, la stanchezza, la frustazione, l’incomprensione di ti guarda scuotendo il capo e liquida i tuoi sforzi con un “Ma chi te lo fa fare” o con “Perchè perdi tempo in queste sciocchezze”.


E contro noi scrittori, che in fondo, se fossimo lasciati allo stato brado, saremmo i peggiori nemici di noi stessi. Roberto ha lottato ogni giorno e vinto contro questo; è il motivo per cui merita il mio omaggio.


Non posso che essere felice e fiero del fatto che sia stato scelto come padrone di casa di Italcon. Sono sicuro che darà il massimo, per organizzare il tutto al meglio, ottenendo un ottimo risultato. Gli auguro un grande in bocca al lupo e di mostrare a tutti la bellezza, il fascino e la complessità dello steampunk…


E non è che detto che, rimendiando un passaggio e un tetto, non possa passare a dirglierle dal vivo, tutte queste cose…

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Published on April 09, 2019 12:11

ZENO THE LAST EASTERN ROMAN EMPEROR

Byzantine Real History (BRh - Basileia Rhomaion)


1447695836Flavius Zeno Augustus (425 – 9th April 491) was the East Roman Emperor from 474 to 475 then from 476 to his death. His imperium witnessed the deposition of the lastWestern Roman emperor in Rome in 476 and then in Dalmatia in 480: the division was formally abolished and Zeno was theoretically the soleRoman Emperor and the first to be since Theodosius. His age was one of stability in the East but his legacy is controversial as of his religious policies.



➡ THE ISAURIAN FIGHTER

Zeno was born as Tarasis son of Kodisa in Isauria, a rustic Roman historical region in the southern parts of Asia, around the Taurus mountains. His family were Isaurians, a fierce people considered as half-Barbarians by the Romans. But as they were Orthodox Catholic Christians they were accepted into the Imperial Army, especially into the newly-founded imperial guards of the Excubitores. Tarasis did…


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Published on April 09, 2019 11:21

April 8, 2019

La strage dei Villini

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In queste settimane, a Roma si è riaccesa la polemica sulla cosiddetta “strage di villini”, ossia la corsa alla demolizione di queste tipologia di case risalenti al periodo che va dagli anni Dieci agli anni Trenta dello scorso secolo, per sostituirli con con nuovi edifici, a maggiore cubatura.


Corsa che ha mietuto la prima vittima, il defunto villino di via Ticino 3, al Trieste-Salario, al cui posto stanno realizzando un condominio di circa 3200 metri cubi, con sette appartamenti, quindici box auto e otto cantine.


Corsa che ha rischiato di colpire anche l’Esquilino, tra i villini presi di mira vi era quello che sorge nella corte interna di via di Porta Maggiore 38, tra l’altro un vero e proprio miracolo di conservazione, dove oltre all’esterno sono ancora preservati gli interni, con le loro decorazioni, pavimenti e modanatura, per fortuna vincolato dalla Soprintendenza, e che ha come ultimo casus belli le vicende di Villa Paolina.


I villini, per chi non conoscesse le vicende urbanistiche di Roma, sono il risultato del Piano Regolatore voluto dal 1909 dal sindaco Ernesto Nathan, quello di “Non c’è trippa per gatti”, sostenuto da una coalizione progressista costituita da radicali, repubblicani e socialisti.


Piano Regolatore, disegnato da Edmondo Sanjust di Teulada, sotto molto aspetti all’avanguardia: prevedeva ad esempio una strada di circonvallazione larga 60 metri e lunga circa 25 km che oggi corrisponde pressappoco al tracciato della Tangenziale Est, di Viale del Foro Italico (anche nota a noi romani come L’Olimpica) e della Circonvallazione Gianicolense e l’alternanza tra zone ad alta densità, parchi e zone poco abitate.


In tale Piano Regolatore erano previste tre diverse tipologie di edilizia privata: fabbricati, villini e ville signorili. In particolare, il regolamento attuativo, ispirato dalle realizzazioni romane del grande Ernesto Basile e da quanto costruito dalle cooperative edilizie promosse da Luzzatti all’Esquilino, prevedeva come i villini avessero un’altezza di 2 piani oltre il pianterreno e fossero dotati su ogni lato di spazi a verde con un distacco dalla viabilità di accesso.


Purtroppo, tale soluzione abitativa ebbe vita breve: nel 1920, con il pretesto della crisi edilizia – motivazione tanto ricorrente quanto fuorviante nella storia dei cicli edilizi –, si consentì, con un Regio Decreto, la possibilità di sostituire i villini con le palazzine (quattro piani oltre l’attico e riduzione delle aree a verde) decisamente più redditizie per i costruttori.


Così i palazzinari romani dell’epoca, anticipando i nostri contemporanei, si dedicarono con sommo impegno allo sfuttare tale possibilità: vittima predestinata del loro furore speculativo fu Monte Sacro, quartiere realizzato a partire dal 1920 su progetto di Gustavo Giovannoni il cui impianto planimetrico richiama manifestamente le città giardino inglesi. Gli iniziali 500 villini per circa 3.000 alloggi nel corso degli anni furono sostituiti nella quasi totalità dalle palazzine e l’incremento di volumetria ha portato al raddoppio delle unità abitative.


Questo riguarda un passato morto e sepolto, si potrebbe pensare… Per cui, cosa diavolo ha causato il ritorno di fiamma del piccone demolitore ? Come sempre accade nell’Urbe, un folle e complesso, per citare Gadda, gnommero legislativa.


Il tutto a origine dal governo Berlusconi, che, nel 2009, nel “Piano Casa”, permise di abbattere edifici per ampliare le cubature per realizzare, secondo i proclami 100.000 alloggi in 5 anni, sempre per la ricorrente scusa di combattere la crisi. Il piano avrebbe dovuto essere realizzato dalle Regioni, e nell’agosto dello stesso anno il Lazio (governato all’epoca dal centrosinistra con Esterino Montino, che sostituiva ad interim Marazzo, il quale si era autosospeso) varò la sua legge, intitolata “Misure straordinarie per il settore edilizio ed interventi per l’edilizia residenziale sociale”.


La legge esclude interventi su edifici abusivi (non sanati), su quelli in aree sottoposte a vincolo di inedificabilità assoluta, o in aree naturali protette (con alcune deroghe) e sugli edifici nelle zone del demanio marittimo. Sono vietati anche interventi “su edifici situati nelle zone individuate come insediamenti urbani storici dal piano territoriale paesaggistico regionale (PTPR)”. La legge fu poi integrata e modificata nell’estate 2011 dalla giunta di centrodestra guidata da Renata Polverini, che rese molto più laschi i vincoli.


Zingaretti cercò prima di ridimensionare i contenuti più eclatanti del Piano Casa, poi scaduto nel 2017, ha approvato la cosiddetta “legge per la rigenerazione urbana”, che pur in continuità con questo, cercava di attenuarne gli effetti.


Il problema però i villini da demolire a Roma non sono stati inseriti nel PTPR. Né dalla giunta dell’epoca, quella di Gianni Alemanno (centrodestra), né successivamente dalla giunta di Ignazio Marino (centrosinistra) e neppure da quella di Virginia Raggi (M5s). Mentre il piano regolatore del 2008 individuava le aree dove oggi si demolisce come “città storica” o “storicizzata”. Per cui, se le costruzioni non solo vincolate, sono facilmente vittima della speculazione.


Ora, io non sono contrario a priori alla rigenerazione urbana: ritengo che si debba valutare caso per caso, in funzione delle condizioni dell’edificio esistente, della sua qualità artistica, del suo significato storico e dell’estetica dell’edificio che lo sostiturà e del suo rapporto con il tessuto urbano preesistente.


Però, spaventano le posizioni di chi la sostiene acriticamente, senza se e senza ma: quando leggo gli articoli di Roma fa schifo, che sposano in pieno le richieste dei palazzinari romani, non possono che tornarmi in mente le parole con cui Salvo Lima giustificò il Sacco di Palermo, in cui la città liberty fu rasa al suolo per favorire la speculazione edilizia.


“Palermo è bella, facciamola più bella“.


Così fu distrutto un pezzo di storia, per avere in cambio anonimi casermoni e riempire le tasche della politica e del malaffare

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Published on April 08, 2019 12:39

April 7, 2019

Abbazia di Santo Spirito al Morrone

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Uno dei luoghi d’Abruzzo, in cui nelle pietre e nell’aria traspira una profonda e nobile spiritualità è l’Abbazia di Santo Spirito al Morrone, che si trova a solo cinque chilometri dal centro di Sulmona, in una località denominata Badia.


Le sue origini sono legate alla figura di Pietro Angeleri, eremita e fondatore dell’ordine dei Celestini, oltre che futuro pontefice con il nome di Celestino V. Giunto in questi luoghi negli anni trenta del XIII secolo, scelse il monte Morrone per l’ eremitaggio e le sue pendici per riunire il primo cenobio. Nel 1241 fece portare a termine l’ampliamento dell’originaria cappella intitolata a santa Maria del Morrone, promuovendo in seguito la costruzione di una chiesa dedicata allo Spirito Santo. La chiesa fu dotata di un convento dove nel 1293 si ebbe la proclamazione ufficiale dell’edificio come sede dell’abate supremo dell’Ordine dei celestini.


Ordine che, tra le tante cose, è un pezzo di scuola dell’Esquilino: l’undici giugno 1289 la chiesa di Sant’Eusebio fu infatti concessa da Niccolò IV a Pietro da Morrone e ai Celestini, che, tra alti e bassi, la tennero sino al 1810, anno in cui il ramo maschile dell’ordine fu sciolto da Napoleone; cosa che molti non sanno, il ramo femminile, le monache celestine, sono vive e vegete.


Tornando all’Abbazia di Santo Spirito, il suo momento di maggiore gloria è il 1294 quando fra Pietro è eletto Papa e la delegazione composta a Perugia, dove si era svolto il conclave, lo raggiunge nel suo eremo di S. Onofrio e gli consegna ufficialmente il Decreto di nomina, per poi essere ospite nel complesso monastico.


L’Abbazia fu più volte ricostruita nel tempo: il primo intervento fu dovuto nel 1299 a re Carlo II d’Angiò, che la arricchirà di terre e castelli, facendolo divenire uno dei più ragguardevoli del Regno.


Fu ristrutturata poi in seguito ai grandi terremoti del 1456 e del 1706; in particolare abbiamo notevoli testimonianze dei lavori del 1706 e del 1730, data incisa anche sull’orologio della chiesa. Con la legge napoleonica del 1806, che disponeva la soppressione degli Ordini religiosi nel regno di Napoli, l’abbazia viene abbandonata. Fino ad allora l’entrata del monastero superava i 6000 ducati annui e i monaci non erano meno di ottanta.


Dopo il 1807 diventerà prima “Real Collegio dei tre Abruzzi”, poi nel 1818 Ospizio, nel 1840 “Real Casa dei Mendici dei tre Abruzzi” e infine nel 1868 verrà trasformata in Istituto di pena. Nel 1993 ne viene dismesso l’uso carcerario e nel 1998 l’edificio monumentale viene assegnato al Ministero per i Beni e le Attività Culturali.


Attualmente il complesso, che occupa una superficie di 16.600 mq, si presenta come un grandioso complesso monumentale di forma quadrangolare circondato da possenti mura; composto da una monumentale chiesa settecentesca e da un imponente monastero che si articola su cinque cortili interni, tre maggiori e due minori. La struttura generale del progetto fu opera del capo mastro del cantiere Caterino Rainaldi da Pescocostanzo


Il settecentesco portale d’ingresso immette nel Cortile dei Platani, in fondo al quale è la chiesa e dal quale si dipartono gli accessi agli ambienti che in origine costituivano il complesso monastico (dormitorio, refettorio, ecc.).


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La chiesa, probabilmente progettata da Donato Rocco di Pescocostanzo, è caratterizzata dall’ interessante facciata di gusto borrominiano che richiama il San Carlo alle Quattro Fontane di Roma. Al suo fianco, un campanile di quasi 30 m. di altezza, dovuto probabilmente a Matteo Colli, giacché la torre campanaria richiama quella della SS. Annunziata di Sulmona e fatta realizzare nel 1596 dall’abate Generale Donato di Taranto.


L’interno della chiesa, luminoso e semplice, è a croce greca, sovrastato da una cupola: vi sono presenti due altari, a destra dedicato a San Benedetto e a sinistra a San Pietro Celestino, entrambi ornati da bellissimi marmi policromi.


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Nell’abside è posizionato l’imponente coro a due ordini di stalli, in noce e preziosamente intagliati. Tradizionalmente attribuito a Ferdinando Mosca, di recente è stato assegnato a Mastro Leonardo Marchione di Pacentro che nel 1722 stipula un contratto con l’Abate Generale dei Celestini. Al centro dell’abside vi è una bella tela secentesca di scuola napoletana, raffigurante la Discesa dello Spirito Santo. E’ probabile, che, vista le decorazione di Sant’Eusebio all’Esquilino, risalente allo stesso periodo, possa essere opera di uno dei fratelli Solimena


Nella controfacciata della chiesa è posizionata la monumentale cantoria d’organo sostenuta da quattro pilastri, intagliata e scolpita da Giovan Battista Del Frate nel 1681 e dorata da Francesco Caldarella di Santo Stefano di Sessanio. Presenta un parapetto curvilineo con bellissimi bassorilievi che riproducono fogliame e fiori; al centro della balaustra, all’interno di un ovale è visibile lo stemma del Celestini e quello dell’Abate Generale.


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I dipinti che la ornano forniscono interessanti notizie per la ricostruzione delle vicende storiche dell’Abbazia, uno in particolare ne propone una visione d’insieme. La cupola mostra la particolarità di non poggiare sul tamburo ma direttamente su quattro pennacchi. Al suo interno, in otto ovali, troviamo pitture monocrome con le immagini degli Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, in uno dei quali è visibile la figura di Celestino V.


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Nel coro, chiuso dall’imponente altare in marmi policromi, due piccole aperture immettono l’una nella famosa cappella Caldora e l’altra, attraverso una stretta scalinata nella cripta. La prima, dedicata dedicata ad una nobile e potente famiglia abruzzese, custodisce il sarcofago di Restaino Caldora-Cantelmo, scolpito dal tedesco Walter Monich, Gualtiero d’Alemagna.


Gualtiero, nato a Monaco di Baviera, su invito di Gian Galeazzo Visconti, partecipa al cantiere del Duomo di Milano, dove svolge il compito del gruppo di magistri a lapidibus, ossia di coordinatore degli inteventi scultorei, in modo che le opere dei diversi artisti presenti non contrastino troppo tra loro. In particolare, realizza i gargoyle della cattedrale e in collaborazione con Iacopino da Tradate, le statue del Profeta e di Santo Stefano.


Di fronte alla crisi ecomica della fabbrica del Duomo milanese, Gualtiero prese armi e bagagli e lascia la città meneghina, per essere assunto nel cantiere del duomo d’Orvieto, assieme a un suo socio lombardo, tale Giovanni Berti. Intorno al 1412, si trasferì in Abruzzo, dove diffuse il suo stile, che reinterpreta in chiave espressionistica il gotico internazionale.


In particolare, nel sarcofago Caldora, Gualtiero accentua sia la presenza delle decorazioni sulle cornici e sulle colonne, sia fitta serie dei personaggi ad alto rilievo, in una sorta di horror vacui, sorreto da un ritmo serrato di luci e delle ombre.


In perfetta sintonia con i valori simbolici e le peculiarità stilistiche del monumento funebre, sulle pareti della Cappella Caldora si svolge una pagina notevole di pittura, commissionata sempre da Rita Cantelmo. Sopra al monumento è rappresentata la scena del Compianto e di fianco un Santo guerriero. Sulle altre pareti nei dodici riquadri sono rappresentati, partendo dall’alto, i seguenti episodi della vita di Cristo: Annunciazione, Natività, Fuga in Egitto, Strage degli Innocenti, Battesimo di Cristo, Ingresso a Gerusalemme, Preghiera nell’orto degli ulivi, Flagellazione, Salita al Calvario, Crocifissione, Ascensione e Pentecoste. La scena del Compianto costituisce l’elemento di raccordo tra il monumento funebre e i dipinti: Rita Cantelmo piange il figlio morto al pari della Vergine che accoglie tra le braccia il corpo esanime del Cristo.


Benché il ciclo sia attribuito a Giovanni di Sulmona, la questione è assai problematica: Giovanni, nonostante dipinga meglio di quanto gli si attribuisca nei libri di storia dell’arte, nel 1412 è ancora a bottega del suo maestro, il grande Maestro del Trittico di Beffi. Inoltre, le opere di cui abbiamo attribuzione certa, sono su tavola e non affreschi.


L’autore degli affreschi di Caldora è invece già attivo come capobottega nel 1408 a Santa Scolastica a Subiaco, su commissione dei potenti Conti di Celano. E nella cittadina laziale, questo pittore tornerà più volte, dedicandosi alla decorazione del Sacro Speco, questa volta al soldo dei Colonna. Inoltre, la tensione drammatica con cui pervade le sue opere fa pensare, più che a una formazione senese, a una di tipo iberico. Per cui, più che un artista abruzzese, il maestro di Caldora potrebbe essere di origine siculo-napoletana.


La seconda scalinata invece porta all’ampia cripta medioevale,a pianta irregolare con volte a crociera, sostenute da colonne sormontate da originali capitelli decorati con motivi geometrici. In un piccolo ambiente, lungo tutta la parete, corre un sedile in pietra da cui partono sette colonnine che si raccordano al centro di una cupola. In una nicchia è conservato un dipinto degli inizi del XIV secolo raffigurante San Pietro Celestino che dispensa la regola.







Altro luogo che desta stupore per la vastità è il Refettorio a cui si accede per mezzo di uno splendido scalone composto da due gradinate simmetriche in pietra della Maiella, consistente in una sala di 34 m. di lunghezza per 8 m. di larghezza, decorata da pitture murali monocrome realizzate tra il 1717 e il 1719 da Frate Joseph Martinez ed impreziosite da ricche decorazioni in stucco.


Nelle due ampie lunette all’estremità della sala troviamo rappresentate le Nozze di Cana e l’Ultima Cena; negli ovali laterali sono visibili episodi del Vecchio Testamento e storie della vita di San Pietro Celestino, mentre in alto otto medaglioni incorniciano le figure simboliche delle virtù. All’esterno delle cornici in stucco, campeggia la serie di telamoni, che un tempo si integravano con pregevoli arredi lignei.

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Published on April 07, 2019 06:43

April 6, 2019

La battaglia di Tapso (6 aprile 46 a.C.)

Studia Humanitatis - παιδεία


da Plutarco, Vita di Cesare, 52-53 in D. Magnino, A. La Penna (eds.), Plutarco. Vite parallele: Alessandro – Cesare, testo greco a fronte, Milano, BUR, 2007, pp. 422-427.





La battaglia di Tapso. Illustrazione di Igor Dzis.





52. τῶν δὲ περὶ Κάτωνα καὶ Σκηπίωνα μετὰ τὴν ἐν Φαρσάλῳ μάχην εἰς Λιβύην φυγόντων κἀκεῖ, τοῦ βασιλέως Ἰόβα βοηθοῦντος αὐτοῖς, ἠθροικότων δυνάμεις ἀξιολόγους, ἔγνω στρατεύειν ὁ Καῖσαρ ἐπ᾽ αὐτούς· καὶ περὶ τροπὰς χειμερινὰς διαβὰς εἰς Σικελίαν, καὶ βουλόμενος εὐθὺς ἀποκόψαι Τῶν περὶ αὐτὸν ἡγεμόνων ἅπασαν ἐλπίδα μελλήσεως καὶ διατριβῆς, ἐπὶ τοῦ κλύσματος ἔπηξε τὴν ἑαυτοῦ σκηνήν καὶ γενομένου πνεύματος ἐμβὰς ἀνήχθη μετὰ τρισχιλίων πεζῶν καὶ ἱππέων ὀλίγων, ἀποβιβάσας δὲ τούτους λαθών ἀνήχθη πάλιν, ὑπὲρ τῆς μείζονος ὀρρωδῶν δυνάμεως· καὶ κατὰ θάλατταν οὖσιν ἤδη προστυχών κατήγαγεν ἅπαντας εἰς τὸ στρατόπεδον. πυνθανόμενος δὲ χρησμῷ τινι παλαιῷ θαρρεῖν τοὺς πολεμίους, ὡς προσῆκον ἀεὶ τῷ Σκηπιώνων γένει κρατεῖν ἐν Λιβύῃ, χαλεπὸν εἰπεῖν εἴτε φλαυρίζων…


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Published on April 06, 2019 13:27

Sofonisba Anguissola

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Anche se meno famosa delle sue colleghe, penso ad Artemisia Gentileschi, la pittrice Sofonisba Anguissola ha avuto una vita altrettanto affascinante.


Nata nel 1532, era la prima dei sette figli di Amilcare Anguissola e di Bianca Ponzoni, entrambi di famiglie nobili di Cremona, all’epoca della dominazione spagnola seconda città dello Stato di Milano per importanza e ricchezza, e grandi amanti dell’Arte e della cultura. In particolare, il padre Amilcare, disegnatore dilettante, per il suo tempo fu una personalità anticonformista: superando i pregiudizi dei contemporanei, egli non solo concesse alle figlie la possibilità di studiare letteratura, pittura e musica, secondo quanto suggerito dagli umanisti più illuminati, come Baldassarre Castiglione.


Quattro delle sorelle di Sofonisba, Elena, Lucia, Europa e Anna Maria divennero anch’esse pittrici. Elena, in seguito, abbandonò la carriera artistica per diventare una suora domenicana. La quinta sorella, Minerva, fu insegnante di latino e scrittrice, mentre l’unico fratello, Asdrubale, studiò latino e diventò musicista In più Amilcare, fece di tutto per promuovendone la notorietà delle figlie, tanto da rompere le scatole a quel misantropo di Michelangelo, spedendogli quantità industriali di lettere.


Tanto fece che Michelangelo, famigerato per il pessimo carattere, accettò, per toglierselo dalle scatole, di dare un’occhiata ai disegni delle figlie, preparandosi poi a rispondere con una delle sue famigerate battutacce… Vasari, infatti, dovrebbe essere fatto santo, per la sua pazienza e grande capacità di sopportazione..


I disegni arrivarono, tra cui uno di Sofonisba, che ritraeva il fratellino Asdrubale: Michelangelo rimase sorpreso, e invece di essere il solito criticone, disse che Sofonisba sapeva disegnare meglio di tanti suoi colleghi uomini.


Così, come racconta Tommaso Cavalieri, le lanciò una sfida: se tutti i pittori erano più o meno capaci di rappresentare un bambino sorridente, ben più complicato sarebbe stato dipingere uno che piangesse. Il tema avrebbe rappresentato il banco di prova delle capacità di Sofonisba, che accettò il compito.


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Nacque così Il Fanciullo morso da un gambero, fonte di ispirazione per Il Fanciullo morso da un Ramarro di Caravaggio, che rappresenta sempre il fratellino Asdrubale, morso da un gambero nascosto in cestino, che piange a dirotto e viene consolato dalla sorellina Europa.


Michelangelo apprezzò molto il nuovo disegno e come premio, spedì a Sofonisba alcuni suoi disegni, affinché la ragazza potesse studiarli e colorarli. Subito dopo, Sofonisba fu messa a bottega presso il pittore manierista Bernardino Campi, il quale si rese conto come fosse, a differenza delle sorelle, poco portata per lo studio della matematica, della prospettiva e allergica alla polvere d’intonaco, che le rendeva complicato utilizzare la tecnica dell’affresco.


Per cui le consigliò di dedicarsi alla ritrattistica; fu un ottimo suggerimento. Con Sofonisba il ritratto non è solo l’immagine della persona, ma accenna alla sua storia; infatti, accompagna i volti straordinariamente somiglianti ed espressivi («tanto ben fatti che pare che spirino e siano vivissimi» scrisse il Vasari in persona dopo aver visto nel 1566 i ritratti di famiglia in casa Anguissola), con sguardi profondi, che suggeriscono gli infiniti mondi nascosti nell’animo umano, ed elementi, descritti con una minuzia fiamminga che, come tanti indizi, aiutano a ricomporre la personalità del soggetto raffigurato: un medaglione, un libro aperto, un guanto, un gioiello, uno spadino, secondo l’approccio tipico della ritrattistica cinquecentesca, ma con un naturalismo diretto che presuppone anche la conoscenza della pittura bresciana del Moretto e di quella bergamasca del Moroni. Lo stesso humus creativo da cui nascerà l’esperienza caravaggesca.


In ogni caso, il padre Amilcare, ottico press agent, Sofonisba riuscì in breve tempo a farsi conoscere nelle corti italiane ed europee – Annibal Caro in una lettera del 14 luglio 1556 scrisse «le cose sue son da principi» – a cominciare da quella spagnola dove arrivò nel 1559, per il tramite del duca d’Alba e del duca di Sessa, presso cui aveva soggiornato a Milano.


A Madrid, oltre a svolgere il compito di ritrattista reale, che le procurò una rendita annua di 200 scudi, fungeva da dama di compagnia e insegnante di pittura per la regina Elisabetta di Valois; alla sua morte, fu una sorta di tata tuttofare per le due infante di Spagna, Isabella e Caterina.


Nel frattempo però, il tempo passava e Sofonisba rischiava di rimanere zitella: per cui, Filippo II di Spagna, senza neppure interpellarla, decise di trovarle un marito, provando ad appiopparle qualcuno dei suoi nobili spagnoli. Sofonisba fece resistenza passiva, finché, stanca di dovere sopportare el Rey, che quando ci si metteva, era peggio di una pignatta di fagioli, accettò di sposarsi, a patto che il futuro marito fosse italiano.


Così Sofonisba fu sposata per procura nel 1573 a un altro famoso scapolone del tempo, Fabrizio Moncada, fratello del viceré di Sicilia; Filippo II, felice del suo ruolo di pronubo, fornì alla pittrice una ricca dote di 12000 scudi, numerosi gioielli e una pensione annua di 1000 ducati.


Sofonisba così si trasferì a Paterno, nel feudo del marito, che si fece in quattro per farla sentire a suo agio; cosa che provocò scandalo nella buona società siciliana dell’epoca, non solo permise a Sofonisba di continuare a dipingere, ma decise addirittura di diventare suo allievo.


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La coppia dipinse assieme addirittura una pala d’altare, dedicata alla Madonna dell’Itria, l’ Odigitria, (dal greco bizantino Oδηγήτρια, colei che conduce, mostrando la direzione, composto di ὁδός «via» e ἄγω, ἡγέομαι «condurre, guidare») rappresentata secondo l’iconografia locale con la Vergine in una cassa portata da due anziani che apparentemente scelgono strade diverse. L’iconografia si rifà alla leggenda che narra di una contesa tra due paesi che volevano impossessarsi di un simulacro mariano, e che si sia conclusa con la costruzione del santuario là dove, al bivio, la Madonna divenne talmente pesante da non essere più trasportabile.


In più, nonostante la tradizione letteraria, Sofonisba fu in ottimi rapporti con il resto della famiglia Moncada: il tutto però cambiò nel 1578. La corte di Madrid tardava nel pagamento della pensione di Sofonisba e per difendere i diritti della moglie, Fabrizio si imbarcò per la Spagna, al seguito di don Carlo d’Aragona, principe di Castelvetrano e vicerè di Sicilia. Nei pressi di Capri, il convoglio fu però assalito da pirati algerini; seguì un duro combattimento, dove Fabrizio, distinguendosi per coraggio, riuscì a mettere in fuga i nemici.


Però la nave era così malridotta, che l’equipaggio e i passeggeri dovettero evacuarla a nuoto; in tale circostanza, però, Fabrizio morì affogato. Per qualche tempo, con l’aiuto del fratello Asdrubale, gestì il feudo di Paternò, poi stanca, decise di tornarsene a Cremona.


Così, viaggiando in nave diretta a Genova, a Livorno conobbe il nobile avventuriero e corsaro Orazio Lomellini; fu un colpo di fulmine e i due si sposaro a Pisa nel 1579. Cosa che provocò un enorme scandalo: Orazio era assai più giovane di Sofonisba e aveva una fama di scavezzacollo. Tutti, a cominciare da Filippo II, lo consideravano un cacciatore di dote.


In realtà, Orazio era profondamente innamorato di Sofonisba, tanto da trasformarsi per lei, progressivamente, in una persona tanto noiosa, quanto rispettabile. Per oltre trent’anni la pittrice visse con il marito a Genova continuando la sua opera di ritrattista per le famiglie aristocratiche della città e facendo registrare nei suoi dipinti le influenze del genovese Luca Cambiaso (Sacra Famiglia con Sant’Anna e San Giovannino, Coral Gables, Florida, The Lowe Art Museum).


Ora piccola digressione storica: sin dai tempi dell’emirato kalbita, i rapporti commerciali tra Palermo e Genova erano assai stretti. Nel 1117, grazie a un trattato stipulato con Ruggero II, i Genovesi, già esperti conoscitori dell‟arte del mercanteggio, ottennero l‟esenzione dalle imposte ed il diritto ad avere un console, quale proprio rappresentante a Messina e nel 1300 ottennero il monopolio dell’esportazione del grano siciliano.


Cosa che portò alla nascita, a Palermo, di un loro quartiere nel cuore della città, tra il porto antico, detto la Cala ed il fiume Carraffo. Questo aveva uno schema molto semplice costituito da una piazza più un fondaco per il deposito delle merci, una chiesa, case e botteghe attigue. La struttura attorno alla quale ruotava l‟intera attività commerciale, era la loggia, una sorta di porticato che ospitava, al di fuori dei palazzi, i mercanti intenti agli affari: il termine loggia infatti trae origine dalla parola araba taq, arco.


Al piano terra delle logge si trattavano gli affari, si procedeva alle vendite di cui si prendeva nota in certi libretti detti ricordanze: qui avevano sede i consolati del mare ed altri enti collegati alle attività portuali mentre al piano superiore vi erano gli uffici dei notai, le banche e i tribunali. Le logge avevano una funzione di aggregazione, erano dotate in basso di alte finestre chiuse da cancelli di ferro che si elevavano su di un alto basamento che serviva da sedile per i mercanti.


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Ovviamente, questa comunità aveva bisogno di una chiesa di riferimento: inizialmente fu data loro una cappella nei pressi della chiesa di San Francesco, la Capela Mercatorum Genuensium, decorata nel 1526 da un grandioso altare marmoreo di Antonello Gagini, che rappresenta San Giorgio e il Drago.


Nel 1437, precisamente un privilegio emanato da Alfonso re di Aragona e di Sicilia tolse la loggia ai Genovesi per concederla ai Catalani: i Liguri si sistemarono in un‟altra parte della stessa Piazza della Loggia, allo scoperto, perché ritennero che abbandonare del tutto quella zona della città sarebbe stato controproducente per i loro affari. Questa piazza rimase il fulcro delle attività commerciali dei Genovesi anche quando più tardi la stessa divenne Piazza Garraffello e fu abbellita, nel 1591, da una fontana opera di Vincenzo Gagini.


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A partire dal 1564 i mercatores genovesi con il prospettarsi della nascita del nuovo porto, cominciarono ad avvertire la necessità di avvicinare la loro comunità alla nuova collocazione portuale. L’occasione propizia giunse esattamente nel 1576, quando la confraternita di San Luca in Palermo entrò in crisi non potendo far fronte alle spese di restauro della propria chiesa, situata vicino alla Porta di SanGiorgio.


I Genovesi seppero cogliere questa ottima opportunità stipulando con tale confraternita un accordo: il 9 Luglio 1576 acquisirono la proprietà di questa chiesa e dei terreni adiacenti con l‟impegno di ricostruirla a loro spese facendone un tempio dedicato al loro patrono, San Giorgio, con annesso ospedale per la cura della comunità ligure in Sicilia. Ai confratelli rimase il diritto ad una cappella per la sepoltura dei propri morti con l‟impegno, in contropartita, di non interferire negli affari dei mercanti genovesi.


I lavori iniziarono nel 1576 e proseguirono fino al 1591, su progetto dell’architetto Giorgio Di Fazio, mentre le edicole marmoree al suo interno, opera dell’artista Battista Carrabio furono completate solo nel 1650, grazie a sovvenzioni private. Un decreto del maggio 1579, emesso dai rappresentanti della Nazione, stabiliva le modalità per il recupero dei fondi autorizzando il console a prelevare tributi ed interessi sui commerci.


In tutto questo fervore edile fu coinvolto proprio il buon Orazio Lomellini, che si ritrovò improvvisamente nominato console della nazione genovese: così nel 1615, lui e Sofonisba si trasferirono a Palermo. Orazio, carico di onori e di impegni, le comprò una casa nell’antico quartiere arabo del Seralcadio, presso l’attuale Chiesa di Santa Maria del Piliere, dove l’ormai anziana pittrice continuò a dipingere nonostante le difficoltà alla vista che la portavano pian piano all’abbandono della sua arte. Ma la sua fama l’aveva preceduta a Palermo e Sofonisba fu messa a capo della commissione che doveva scegliere le pale d’altare della chiesa di San Giorgio dei Genovesi. Compito che svolse con notevole impegno, tanto da portare a Palermo due opere di Palma il Giovane.


Nel 1624 la peste infuriava sulla città e ne fu vittima anche il Viceré Emanuele Filiberto di Savoia. Era a Palermo, proprio in quei giorni, per un ritratto del Viceré, l’allievo di Rubens il grande Antoon Van Dyck. Il pittore olandese si recò a far visita alla collega anziana pittrice, che qualche anno prima lo aveva preceduto alla “Corte di Spagna”.


Van Dyck, che redigeva un suo diario, la trova pronta di memoria e di mente, cortesissima e ancora piena di interessi e di vita. Così scrive nel suo taccuino:


“ancora contò parte della vita di essa, per la quale si conobbe essere pittora de natura et miracolosa et la pena magiore che hebbe era per un mancamento di vista de non poter più dipingere”.


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Il pittore le fece quindi un ritratto e lei lo pregò di non ritrarla troppo dall’alto,


”a ciò che le ombre nelle rughe della vecchiaia non diventassero troppo grandi”.


Malgrado i suoi due matrimoni Safonisba non ebbe figli e tenne sempre vivi i contatti con i lontani nipoti di Cremona e con il figlio naturale di Orazio Lomellini.


Il 16 novembre 1625 Sofonisba morì e fu sepolta nella chiesa di San Giorgio dei Genovesi. Purtroppo la sua tomba è scomparsa, ma il Orazio, a futura memoria, ha fatto posare nella chiesa dei genovesi una commossa lapide, nel centenario della sua nascita.


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Questa lapide ci presenta Sofonisba in modo quasi perfetto:


”Alla moglie Sofonisba, del nobile casato degli Anguissola, posta tra le donne illustri del mondo per la bellezza, straordinarie doti di natura, e tanto insigne nel ritrarre le immagini umane che nessuno del suo tempo potè esserle pari, Orazio Lomellini, colpito da immenso dolore, pose questo estremo segno di onore, esiguo per tale donna, ma il massimo per i comuni mortali”.

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Published on April 06, 2019 06:49

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Alessio Brugnoli
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