Alessio Brugnoli's Blog, page 116

March 19, 2019

San Luca di Melicuccà

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Benedici, padre.


E’ giusto esporre con grande chiarezza le vite dei devoti e santi padri, incidere nei nostri cuori induriti le loro virtù e le lotte che hanno affrontato per volere di Dio e depositarle nei cuori dei fedeli. E’ bene raccontare le loro vite, perché non sia dimenticato tutto il bene che hanno fatto. Molte sono le preoccupazioni d’ogni giorno e le passioni carnali, ma il Signore, datore di beni e dispensatore di misericordia, non delude chi lo cerca. Egli, infatti, dice: “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Egli si è incarnato e ha voluto soffrire di tutto per noi e per la nostra salvezza, per riportarci all’archetipo


II Signore nei divini vangeli dice: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori alla conversione, e sono come un raggio di sole che penetra da uno spiraglio per illuminare chi giace nelle tenebre, portandogli una gioia stupenda”. Tutti, appena vedono il sole, s’inebriano di luce e pensano al nuovo giorno: i contadini, a lavorare la terra, arare e seminare; i militari si preparano a combattere; i pastori a pascolare mentre riposano presso le sorgenti: suonano il flauto e, con la verga, tengono radunato il gregge e vanno alla ricerca della pecora smarrita perché non diventi preda delle belve. Così la Grazia divina illumina la mente di chi piega la propria volontà e la spinge a una sempre più alta contemplazione.


Riportando la vita e la memoria del nostro santo padre Luca, consideriamo quel che dice l’indimenticabile [apostolo Paolo]: “Ricordatevi dei vostri padri spirituali che vi hanno annunciato la parola di Dio: guardate la loro vita e imitatene la fede”. Dal loro ricordo ricaviamo infatti il vantaggio di potere ascendere al nostro Signore che essi vollero glorificare.


Essi sono stati agricoltori, soldati, pastori, piloti e commercianti. Agricoltori, perché hanno piantato cuori secchi nella spirituale vigna di Cristo, hanno sparso il seme della verità, hanno sradicato le spine impure della vita, hanno piantato i dogmi divini, hanno arato con la fede, hanno mietuto più del seminato e si sono arricchiti nel cielo. [Sono stati] soldati, perché hanno sconfitto il nemico e liberato quelli che lui aveva trascinato nella schiavitù del peccato, hanno trionfato sul suo esercito e mutato in salvezza la nostra disfatta, hanno spento le frecce infuocate e guarito coloro che lui aveva ferito: gli hanno fracassato la testa e lo hanno ridotto senza più forze. [Sono stati] pastori, perché hanno guidato il gregge del Signore e hanno scacciato gli eretici lupi, guidati dal Signore e seguiti dal loro gregge spirituale. [Sono stati] piloti, perché hanno governato la Chiesa con la professione della fede e l’hanno ancorata sulla pietra, in Cristo, hanno vinto il mare delle passioni e sottomesso, sommerso, il Faraone della mente: hanno pilotato la barca e non ne hanno perduto il carico. [Sono stati] commercianti, perché si sono venduti il mondo e si sono acquistati la perla che è Cristo, hanno incassato la fede e si sono trasferiti nel cielo, hanno annullato le passioni e hanno dato vita all’anima, hanno eliminato l’ombra e illuminato il mondo.


Così comincia la bios di san Luca di Melicuccà, monaco basiliano e vescovo calabro bizantino, soprannominato “Luca il Grammatico” (dal grego Grammatikòs:letterato) per la sua erudizione, dotato di grande eloquenza, fu anche valente innografo (e di ciò si ha testimonianza nel Codice Messinese Greco, nel quale sono presenti dei Canoni (poesie) da lui composti in onore di San Giovanni Battista) ed amanuense (ne è prova una pergamena greca contenente il testamento dell’abate Gregorio, igumeno del monastero di San Filippo di Demenna, scritto da Luca nel 1105).


Bios scritta trascritta nel 1308 dal monaco Daniele, che contiene Vite di santi o Discorsi per le loro feste: è dunqe un Menologio che fu molto usato nel monastero messinese, come indica il Typikòn dello stesso, conservatoci in un manoscritto del XIII o XIV secolo. Daniele era un bravo calligrafo ma scriveva più di duecento anni dopo la cattolicizzazione dell’Italia Meridionale e chi dettava a lui non era molto più istruito, per cui, ogni tanto, nel testo sono presenti errori e imprecisioni; l’originale, tra l’altro, scritto probabilmente in qualche monastero della Calabria poco dopo la morte dei santo, contiene diverse particolarità sintattiche e di grammatica, che si ritroveranno, evolute e modificate, nell’attuale lingua grecanica.


Bios, in cui, tra le righe, si leggono tutte le difficoltà di convivenza tra l’ortodossia di obbedienza costantinopolitana e il cattolicesimo romano, imposto dai conquistatori normanni. Ad esempio, in un brano dell’opera si legge


Dalle sue parti ci fu una discussione con i cattolici sull’uso del pane fermentato oppure azzimo [per celebrare l’Eucaristia]. Il santo li subissò con una infinita quantità di prove tratte dalla Scrittura: infatti, nell’Antico [Testamento], Melkisedek portò al sacrificio pane e vino. E con questa, molte altre [prove]: “Nel [Grande Giovedì] lo stesso Salvatore e primo sacerdote, nella divina Cena, prese “pane” (dando un esplicito esempio), lo benedisse e lo diede ai discepoli, dicendo prendete, mangiate. Riempito il calice, disse: Bevetene tutti e Ogni volta che mangiate e bevete, celebrate la mia morte e annunciate la mia resurrezione. Ma voialtri cattolici, ipocriti farisei, celebrate come i Giudei, senza lievito: battezzate in qualsiasi giorno e credete un incredibile numero di eresie perché non pensate con ortodossia”.


Così parlando, li spinse alla rabbia estrema. [I cattolici] fecero una capanna, lo trascinarono dentro per bruciarlo vivo. Ma il santo li supplicò: “Sacrificatemi nel fuoco, ma datemi un poco di tempo per celebrare l’incruento Sacrificio”. Gli fu permesso, entrò nella capanna con un fanciullo, fece la pròtesi e iniziò a celebrare i Sacri Misteri. Ma non gli lasciarono il tempo di finire la celebrazione sacra a Dio: diedero fuoco ai quattro angoli della capanna. E il fuoco divorò tutto ma non toccò neppure un pelo del santo. Egli apparve con le sacre vesti, in mezzo [alle fiamme], in preghiera con il fanciullo, illeso e incolume. Gettò gli eretici nella vergogna e nel timore, incitò gli ortodossi a dare gloria.


Ma chi era Luca ? Sul luogo della nascita e sulla sua famiglia, la bios è molto chiara.


nella regione delle Saline vi è un paese chiamato Melicuccà. Di qui era il Padre Nostro Mirabile, Luca; qui il beato fiorì e produsse buoni frutti. Il padre si chiamava Ursino, la madre Maria, ambedue pii e di specchiata virtù


Per cui, Luca era nato in una dei fulcri della Calabria bizantina, l’insediamento medievale delle Saline; area collocata immediatamente a nord del Reggino, compresa tra il mare Tirreno, l’Aspromonte e la Piana di Rosarno. Si tratta di un territorio geograficamente molto articolato, che include la costam con centri portuali di origine romana o pre-romana, come Taurianum, la pianura (Piana di Gioia Tauro), la montagna (Aspromonte) ed i fiumi (tra i quali spicca il Metauro-Petrace). Luogo che, tra l’altro, è lo scenario principe di tante vite di santi calabro-greci, celebre per le gesta di s. Elia Speleota, di cui conserva la spelonca e la tomba


Tra l’altro, dato la peculiarità del nome del padre, è probabile come la sua famiglia fosse di origine longobarda. Non sappiamo la data della sua nascita, ma facendo sempre riferimento alla bios, conosciamo la data della sua morte.


Queste cose e molte altre simili insegnò ai fratelli e ai discepoli, invocando la salvezza dell’anima, e li benedisse. Si distese dentro la chiesa del nostro venerabile padre Nicola, che aveva costruito sul predetto monte Viteorito, tirò i piedi e rese l’anima beata che gioisce tra i buoni che si rallegrano: la consegnò agli angeli mattina di giovedì 10 dicembre 6623, indizione ottava.


Facendo riferimento al calendario bizantino, che partiva dal 5509 a.C., presunto anno della creazione del mondo, la data della sua morte è, quindi, il 1114. Dato che secondo la tradizione, era prossimo agli ottanta anni al momento della sua dipartita, dovrebbe essere nato intorno al 1035, massimo 1040. Già avviato allo studio dei sacri testi, abbracciò la vita religiosa come monaco basiliano, intorno al 1050, da che ricevette la tonsura Nicola, vescovo della vicina Oppido, presso il famoso Monastero delle Grotte.


Nonostante la propaganda delle fonti monastiche greche, che paragonano Roberto il Giuscardo a Gog e a Magog, nel 1060, la conquista delle Saline impattò poco sulla vita di Luca, tanto che intorno a quegli anni fu ordinato sacerdote.Per la sua dottrina e virtù, fu elevato alla dignità episcopale e destinato a reggere la diocesi di Isola Capo Rizzuto. Cosí infatti risulta anche da un diploma greco del 1105, in cui la frase “Episcopos ton Aisulon” interpretata dal Cozza-Luzzi come: “vescovo delle immunità o esenzioni”, ignorando che nei cataloghi greci essa indica precisamente la minuscola diocesi di Isola, suffraganea di S. Severina, a breve distanza da Crotone.


Come vescovo, nonostante i suoi contrasti teologici con i cattolici, collaborò con l’autorità normanna, cosa testimoniata dal fatto che nel 1092 ottenne un privilegio dal Conte Ruggero Borsa, e successivamente una donazione dalla Contessa Adelasia e da Ruggero suo figlio Conte di Calabria. In più, dato che sappiamo si recò ad ordinare sacerdoti secondo il rito greco nella Palermo appena riconquistata dai normanni, doveva essere anche in buoni rapporti con Ruggero I di Sicilia.


Al contempo, la sua attività pastorale si svolse soprattutto in Calabria, nel tentativo contrastare il proselitismo dei cattolici. Si recò a a Medino nella Sibaritide, dove impetrò una pesca miracolosa; a Mesa, presso Scilla, dove fece cessare la siccità; a Bovalino, dove guarí un ammalato e liberò una casa dai demoni; a Squillace, dove mise in fuga un lupo feroce.


Viaggi testimoniati da una sua epistola, in cui si dice


Nella mia vita sono stato, fra i secolari, privo di merito, miserabile e indegno; tra i monaci biasimevole, sacrilego, impuro; tra i sacerdoti incolto, negligente riprovevole … Io non sono né grammatico, né retore, né filosofo; però se Dio “ha scelto gli stolti del mondo”, come c’insegna lo Spirito Santo tramite Paolo, grazie sian rese al maestro Gesù, poiché (il Signore lo sa) ho fatto sempre, per lettere e personalmente, giungere il messaggio a gran voce, fin dove mi era possibile arrivare, non solo qui, ma in tutto il paese circostante alla città di Reggio; non solo nelle città toccatemi in sorte per l’esercizio del mio sacerdozio, ma anche presso gli abitanti della Sicilia e della Calabria.


Nel tentativo di mediare tra Alessio Comneno e Boemondo d’Antiochia, tentò di recarsi a Costantinopoli, ma per il crollo delle fortune normanne, il suo viaggio si fermò a Taranto.Fondò nei pressi di Amaroni il monastero di San Nicola di Vittorito, dove si ritirò negli ultimi anni della sua vita. Dopo la sua morte, come testimoniano i manoscritti liturgici, fu sepolto a Solano (sopra Bagnara Calabra); ai tempi della guerra del Vespro, parte delle delle sue reliquie furono trasferite a Bova, dove se ne perse memoria.


Successivamente, le rimanenti reliquie e la bios poi trascritta da Daneilene furono portate nel Monastero della Trasfigurazione del Salvatore che un tempo sorgeva sulla lingua di terra che da Messina si protende verso la costa calabra.

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Published on March 19, 2019 11:23

March 18, 2019

Custos, quid noctis ?

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Premetto una cosa: senza se e senza ma, sono al fianco di Greta Thunberg nella sua battaglia per lo sviluppo sostenibile e per mantenere alto il livello di attenzione sulla questione del cambiamento climatico. Poi, chi non ha, da giovane, inseguito l’Utopia ?


Come diceva bene Cayce


I sogni sono le risposte di oggi alle domande di domani.


Inoltre, avendomi spesso diagnosticato qualche lieve tratto Asperger, capisco bene cosa affronta ogni giorno e ammiro il suo straordinario coraggio. E per quanto noi vi possiamo sembrare strani, beh, non sapete voi ci sembrate strani a noi.


Da marxista, mi piacerebbe inquadrare la sua storia in un contesto più ampio, partendo, dal concetto di sovrastruttura. Marx stesso introduce il concetto nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859, quando scrive


“Nella produzione sociale delle loro esistenze, gli uomini inevitabilmente entrano in relazioni definite, che sono indipendenti dalle loro volontà, in particolare relazioni produttive appropriate ad un dato stadio nello sviluppo delle loro forze materiali di produzione. La totalità di queste relazioni di produzione costituisce la struttura della società, il vero fondamento, su cui sorge una sovrastruttura politica e sociale ed a cui corrispondono forme definite di coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo generale di vita sociale, politica ed intellettuale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un certo stadio di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con le esistenti relazioni di produzione o – ciò esprime meramente la stessa cosa in termini legali – con le relazioni di proprietà nel cui tessuto esse hanno operato sin allora. Da forme di sviluppo delle forze produttive, queste relazioni diventano altrettanti impedimenti per le stesse. A quel punto inizia un’era di rivoluzione sociale. I cambiamenti nella base economica portano prima o dopo alla trasformazione dell’intera immensa sovrastruttura. Nello studio di tali trasformazioni è sempre necessario distinguere tra la trasformazione materiale delle condizioni economiche di produzione, che può essere determinata con la precisione propria delle scienze naturali, e le forme legali, politiche, religiose, artistiche o filosofiche – in una parola: ideologiche – in cui l’uomo diviene conscio di questo conflitto e lo combatte. Così come non si può giudicare un individuo da ciò che egli pensa di sé stesso, questa coscienza dev’essere spiegata partendo dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto esistente tra le forze sociali di produzione e le relazioni di produzione.”


Ossia nel caso specifico, la sua azione, la sua prassi, è possibile solo in un contesto in cui la Struttura, l’insieme delle rapporti di produzione e delle relazioni economiche, permette a specifiche classi sociali di identificarsi in maniera attiva con il suo messaggio, identificandolo con i propri interessi, e fornisce gli strumenti per ottimizzarle la diffusione.


Greta è figlia del nostro tempo: per dirla tutta, vent’anni fa, una sua omologa non se la sarebbe filata nessuno: questo non perché siamo diventati migliori, più colti o più sensibili; semplicemente si stanno affermando nuovi modelli economici, che usano l’ecologia come strumento di legittimizzazione rispetto ai vecchi.


Il che, attualmente, nella realtà concreta, non è detto che sia vero: si pensi allo sproposito di energia consumata dai data center o dal mining dei bitcoin, oppure al dibattito in corso sull’inquinamento causato dalle stampanti 3D: tuttavia, questi modelli economici, basati sull’IA, sulla robotica, sull’evoluzione del web e connessi alla singolarità, rispetto alla società industriale e post-industriali, hanno maggiori capacità e possibilità di ottimizzare il consumo delle risorse ambientali, sia in buonafede, per idealismo, sia per tenere basso il capitali fisso e aumentare, con il messaggio della sostenibilità ambientale, la quota di mercato delle proprie merci.


Modelli economici la cui diffusione non è certo indolore: pensiamo alla robotica evoluta, che facendo crollare i costi di produzione, rende inutile la delocalizzazione delle attività industriali, e aumentando la produttività per singolo lavoratore, di fatto limita, nei paesi a capitalismo avanzato, la crescita dell’occupazione. Oppure alla progressiva sostituzione, da parte delle IA, di professioni ritenute, a torto e a ragione, di concetto…


Mi torna così in mente quel vecchio versetto di Isaia


Questo messaggio riguarda Edom. qualcuno chiama da Seir: “Sentinella a che punto la notte? Dimmi quanto manca all’alba?”


La sentinella risponde:


“Arriva l’alba, ma presto anche la notte”.


L’interpretazione è facile. L’alba è vicina; il giorno è alle porte; ma non c’è da farsi illusioni. Il buoio tornerà ancora. Ascoltando Greta, potremmo limitare i danni causati dall’attuale modello economico e favorirne la diffusioni di uno nuovo, ma ciò non significa la nascita dell’Utopia. Altri, diversi, ma altrettanto gravi, ne sorgeranno.


E’ importante ricordare anche ciò che è contenuto nelle parole che seguono:


“Voi comunque non stancatevi mai di rivolgervi alla sentinella, di presentare a lei le vostre domande”.


Perché, come ci sta insegnando Greta, qualunque sia la sfida, non bisogna mai smettere di combattere e sperare.

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Published on March 18, 2019 13:28

March 17, 2019

Ocriticum







Altro luogo affascinante dell’Abruzzo è Ocriticum, la cui storia si dipana dall’età del bronzo al Medioevo. In origine si trattava di un pagus, risalente alla fine dell’Età del Bronzo (XII-X sec. a.C.) e costituito da una trentina di capanne di forma ovale, realizzate con materiali vegetali (legno e canne), poste su terrazzamenti ricavati nel pendio di colle Mitra.


Tale pagus era uno dei tanti che gravitavano attorno all’oppidum posto sulla sommità del colle, un recinto delimitato da due muraglioni costruiti con massi e grosse pietre sbozzate, che svolgeva due funzioni differente, tipiche della cività appenninica: la prima riguardava il controllo e di difesa percorsi che da Sulmona risalivano alla regione degli altopiani: il tratturo di Pettorano e quello che ai tempi dei romani diverrà la via Claudia Nova.


La seconda, altrettanto importante, era quella di punto di appoggio logistico alle comunità pastorali che frequentavano l’area, sia come ricovero delle greggi, sia come luogo di tosatura della lana e della produzione di formaggi.


Intorno al IX e VIII secolo a.C., a causa delle migrazioni delle popolazione di lingua sabina, caratterizzate dalle diffusione nell’area della Cultura delle Tomba a fossa ( tra l’altro, dato la sua presenza nella necropoli esquilina e l’esistenza di lucus e di un aedes Mefitis, dea sabellica delle sorgenti e degli armenti, fa pensare come vi fosse un pagus sabino all’altezza di via Carlo Alberto) cambiò totalmente l’assetto dell’area, con il progressivo abbandono dell’oppidum, che però lasciò il nome alla zona, data la radice sabina del nome Ocriticum, okar/okri-, che sta per “arx”, cittadella fortificata, e dei pagi, la cui popolazione si concentrò progressivamente a Sulmona.


Però, rispetto agli altri villaggi dell’età del bronzo, Ocriticum era assai più fortunato: l’approvvigionamento d’acqua era garantito dalle fonti dette di Grascito e Sulmontina, mentre la via Nova oltre a garantire trasporti di materiale e comunicazioni, gli poteva far svolgere il ruolo di stazione di sosta. A questo si aggiungeva la possibilità di utilizzare la pietre locali per la produzione della calce e la sacralizzazione di una parte dell’area, che garantiva l’afflusso costante di pellegrini.


Per cui, pur non giungendo mai allo status cittadino, per la concorrenza attrattiva della vicina Sulmona, Ocriticum mantenne sempre una sua identità sociale ed economica. Il villaggio vero e proprio, collocato nell’area meridionale del pianoro era di di modeste dimensioni e incentrato su una mansio, la stazione di sosta per chi viaggiava lungo la vicina Via Claudia Nova.


A partire da un periodo compreso tra il III e il II sec. a.C. l’abitato sembra svilupparsi maggiormente, espandendosi su di un’area di pianoro ed assumendo connotazione quasi “urbana”, e viene cinto da mura; due viae glareatae, entrambe larghe circa 3 m, una con andamento N-S e una E-W, si intersecavano sul pianoro stesso formando probabilmente la griglia su cui si sviluppò l’abitato ellenistico.


Lungo un tracciato stradale che dal villaggio si dirigeva a Sud, oltre a canalette e modeste muraglie in opera incerta, erano pure collocate – secondo uso romano – delle steli funerarie epigrafate. Sebbene tale necropoli sia stata quasi interamente intaccata dall’agricoltura, un’epigrafe scoperta in zona ha permesso di risalire al toponimo con cui fra i Romani era conosciuto il villaggio; essa riporta l’iscrizione


SEX(TO) PACCIO

ARGYNNO

CULTORES IOVIS

OCRITICANI

P(OSUERUNT)


Il monumento più importante di tale necropoli è un mausoleo a dado, ossica costituito da un nucleo quadrangolare in calcestruzzo, databile tra il I a.C. e il I d.C, di cui restano soltanto le fondamenta e pochi elementi architettonici ornamentali.


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Il vero polo di attrazione di tutto il complesso, però, sembra essere rappresentato, già dal primo ellenismo, da un santuario sito ad E dell’abitato, sulle pendici del Colle Mitra. Il luogo sacro presenta una struttura a terrazze, non dissimile da quella degli altri santuari della conca peligna, e un’articolazione interna complessa, frutto di una frequentazione durata almeno otto secoli, dal IV secolo a.C. al IV d.C. e della successione di almeno quattro fasi costruttive, più una di frequentazione tarda.


La fervente attività religiosa costituì un impulso non indifferente sia per il moltiplicarsi dei culti praticati nel pianoro, sia per la monumentalizzazione e l’ampliamento degli edifici sacri, sia, infine, per l’accrescersi della fama del luogo, tale da essere segnato, col nome Iovis Larene (“Collina di Giove”), lungo la suddetta Via Claudia Nova a sette miglia da Sulmo e a venticinque da Aufidena, all’interno della Tavola Peutingeriana, famosa copia medievale di un’originale carta militare stradale romana; le distanze, rimisurate lungo l’antico tracciato della Via Claudia, pare coincidano.


Tale area sacra era costituita da tre edifici: il primo tempio edificato nell’area risale alla fine del IV secolo a.C., progettato secondo un modulo base in piedi oschi, era originariamente era costituito da un’unica cella di base pressoché quadrata, con ingresso rivolto a Sud-Est (dove sorge il Sole) attorno alla quale era un giardino sacro, delimitato da un muro perimetrale eretto a secco.


Nel II secolo a.C. l’area è soggetta a un rovinoso terremoto, per cui, il tempio originale è soggetto a una profonda ristrutturazione, con un ampliamento del recinto e del santuario, che fu provvisto d’un pronao realizzato in tecnica sensibilmente diversa dalla cella. Al contempo, viene realizzato nel giardino sacro un deposito votivo, con la intenzionale deposizione di cumuli orizzontali di pietre, alternati con sottili strati di terra. I materiali votivi rinvenuti sono per la quasi totalità fittili, insieme ad una quantità di materiale ceramico; la quantità di bronzo e metalli è molto scarsa. In particolare sono state ritrovate: tanagrine, teste soprattutto femminili, anatomici, animali (bovini, un cavallo, un orso, una statuina di kourotrophos e un bambino in fasce, ceramica comune, etc.).


Una statuina in particolare raffigurava una coppia al femminile unita in un abbraccio,interpretata come Cerere e Proserpina. Un unicum è costituito da una macina a tramoggia per grano, da riconnettersi forse a pratiche alimentari di carattere rituale.Elementi di maggiore pregio erano una bella foglia di vite in bronzo e una statuina di Ercole in assalto.


Attorno agli inizi del I secolo a.C., si assiste a un ulteriore ampliamento dell’area sacra, nella quale, su un terrazzo più elevato rispetto al tempio italico ma con esso perfettamente allineato, viene edificato un altro santuario, più grande e architettonicamente sofisticato: di base rettangolare e diviso in due ambienti di egual misura (pronao e naos), con scalinata incastonata innanzi all’entrata, rivolta a Sud-Est come per il precedente tempio, il santuario si può supporre fosse prostilo tetrastilo, malgrado della struttura originale restino solo i muri perimetrali in opera reticolata e alcune tessere di mosaici musivi decontestualizzate (nessun mosaico è stato rinvenuto neppure in prossimità dello stabile). Alla costruzione del nuovo santurari è da giustapporre l’ampliamento del recinto sacro, che ora era provvisto di due ingressi e veniva a delimitare un appezzamento di terra destinato al culto tecnicamente definito temenos, al quale potevano accedere solo i sacerdoti.


Infine, una trentina d’anni dopo la costruzione del secondo tempio, nella zona posta a Occidente del temenos e dei due templi maggiori, su un terrazzo inferiore rispetto agli altri, fu eretto un altro tempio di piccole dimensioni, provvisto anch’esso di un deposito votivo e di un recinto sacro. Si trattava di un sacello di base quadrata, posizionato in perfetto allineamento con gli altri santuari e pure esso con l’ingresso a Sud-Est; l’ambiente conserva ancora parte del pavimento originale, realizzato in tessere rosse, e dell’intonacatura interna, della quale è tuttora possibile osservare la fascia rossa in basso, che spiccava sul bianco della parete.


Deposto accuratamente a est del suo muro orientale in una data presumibilmente circoscrivibile entro la prima età imperiale, esso conteneva oggetti più marcatamente inerenti la sfera muliebre: balsamari fittili, statuine di divinità femminili nude o seminude, tanagrine, teste, oltre a un eccezionale strigile in vetro. Inoltre, all’interno dell’edificio, c’erano probabilmente scansie su cui poggiavano altre offerte relative al mondo muliebre (pettini, unguentari, specchi etc.).


L’intero complesso fu poi abbandondato nel II secolo d.C. quando la zona fu flagellata da un terremoto distruttivo: ma chi erano dedicati i templi ? Se è probabile che il tempio dell’età romana fosse dedicato a Giove, è possibile che il tempio più antico e il sacello fosse dedicato a una divinità femminile, forse Cerere, intesa come manifestazione di Mefitis, protettrice delle donne, della Natura e delle greggi. In tale caso, il sacello, più che il ruolo di luogo di culto, svolgerebbe quello di thesauros.


Dopo il santuario, si sviluppava un’area che, in termini moderni, di chiamerebbe industriale: dalla Via Claudia Nova si diramava, difatti, una via glareata, una massicciata di pietrame ricoperta da pietrisco battuto misto a malta, che, dopo aver attraversato il pianoro, si inerpicava su per la collina orientale e conduceva a un vasto edificio rettangolare suddiviso in vani interni di differente dimensione. Scavata direttamente nel pendio, nel vano più interno dell’edificio, un’ampia cavità di forma cilindrica, sul fondo della quale rocce vulcaniche e ceneri hanno portato a identificarvi una fornax calcaria, fornace improntata alla cottura e al ricavamento della calce; tutti gli ambienti dell’ampio fabbricato (uno dei quali ancora conserva l’originale pavimento in terracotta) dovevano dunque essere destinati al raffreddamento, alla conservazione, allo stoccaggio e infine alla vendita della calce.

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Published on March 17, 2019 06:21

March 16, 2019

U sfinciuni

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Uno dei piatti tipici della zona del Palermitano, è lo sfincione, u sfinciuni o spinciuni, una focaccia di morbido pane pizza, condita con una salsa a base di pomodoro, cipolla, acciughe, origano e pezzetti di formaggio tipico siciliano, l’ottimo ragusano, in siciliano cosacavaddu, benché non abbia nulla a che vedere il caciocavallo del Continente, che è tra i più antichi formaggi della Sicilia.


Il nome si fa derivare dal latino spongia e dal greco spòngos, σπόγγος, ossia “spugna”, oppure dall’arabo ﺍﺴﻔﻨﺞ isfanǧ col quale si indica una frittella di pasta addolcita con il miele, usato tra l’altro per facilitare la levitazione dell’impasto dello sfincione.


A titolo di curiosità, la stessa etimologia è utilizzata per la sfincia di San Giuseppe, uno dolce tipico della prossima festa del papà; per chi non lo conoscesse, è una frittella dolce ricoperta e farcita on una crema di ricotta di pecora con pezzetti di cioccolato e zuccata, e guarnita da scorza d’arancia candita.


Tornando allo sfincione, una sua variante è quella preparata a Bagheria per secondo una ricetta alternativa che non prevede l’uso della salsa di pomodoro, sostituita da tuma (o ricotta), cipolline e acciughe (“sfincione bianco”).


Insomma, se vi fate un giro per le ville barocche di Bagheria, come la Butera, la Valguarnera e la straordinaria Palagonia, che ispirò Goethe per la stesura della Notte di Valpurga, cercate di assaggiarlo…


Tornando alla variante palermitana, questa sarebbe nata nel monastero di San Vito nel cuore delle mura di Palermo tra il mercato del Capo, la via Cappuccini e piazza Indipendenza. L’esigenza era quella di servire un pane più appetitoso e nuovo per il periodo delle feste, invece del solito “pani schittu” pane senza niente, ma a disposizione c’erano solo pasta lievitata e gli ingredienti tipici della cucina contadina siciliana.


Però, le suorine, come avvenuto nella leggenda della frutta martorana, fecero di necessità, virtù.


Detto questo, dove mangiarlo ? Il più tipico è tradizionale è quello quello venduto dagli ambulanti che si aggirano nei pressi di Porta Sant’Agata, nell’antico quartiere popolare dell’Albergheria.


Questi venditori sono noti, oltre che per la bontà artigianale del loro prodotto, anche per le caratteristiche abbanniate con cui propongono lo sfincione ai passanti:


Chissu è sfinciuni. Fattu ra bella vieru. Chi ciavuru. Uora ‘u sfuinnavu. Uora ‘u sfuinnavu. Scarsu r’uogghiu e chinu ri pruvulazzu


ovvero: questo è sfincione. Prodotto davvero bene. Che odore. L’ho appena sfornato. Con poco olio e pieno di polvere, laddove il riferimento alla polvere lo coronerebbe come il cibo da strada per eccellenza.


Per chi invece vuole stare comodo, ecco i panifici dove di solito vado a comprarlo… Secondo me il migliore, è quello di Graziano, dal 1957 in via del Granatiere 11/13, proprio accanto a Zangaloro, nota per essere una delle migliori carnezzerie, il modo locale di chiamare le macellerie di Palermo, consigliabile per gli spiedini, che sarebbero degli involtini di carne ripieni di pangrattato, ragusano, uva passa e pinoli, e per la caponata. Entrare da Graziano è sempre uno spettacoli di colori e profumi: oltre allo sfincione, sono ottime le pizze tradizionali, la margherita, quella con le patate e la faccia da vecchia: il problema, nonostante l’efficienza delle commesse, è la fila, per cui, quando ci andate, armatevi di santa pazienza.


Molto buono è anche lo sfincione di Puccio, aperto dal 1970 a Piazza Don Bosco. Sarò stato fortunato io, ma non vi ho mai trovato una fila eccessiva: il panificio è consigliabile, sotto Natale, per i cardi fritti, per i buccellati, un dolce costituito da un involucro di pasta frolla che racchiude un ripieno di fichi secchi, uva passa, frutta secca e cioccolato, e per il pan d’arancio, morbida torta che, come dice il nome, è aromatizzata con il succo di tale agrume. In estate, poi, è ottimo il gelo di mellone, un budino di cocomero, aromatizzato al gelsomino, che si serve di solito nei giorni del festino di Santa Rosalia.


Infine, consiglio anche quello del panificio Caldopane, in via Alcide De Gasperi 32 vicino allo stadio Renzo Barbera, che appartiene a Gaetano Vasari, detto Tanino, ex attaccante del Palermo…

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Published on March 16, 2019 12:17

March 15, 2019

Parco degli Acquedotti (Parte 4)

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Nel complesso del Parco degli Acquedotti, vi sono i resti di almeno due ville romane. La prima, la più grande nel suburbio romano dopo quella dei Quintili, è la villa dei Sette Bassi, un sito archeologico che si trova in via Tuscolana 1700, nella zona di Capannelle. Tradizionalmente attribuita a Settimio Basso, prefetto sotto l’imperatore Settimio Severo, in realtà più antica di un paio di generazioni, ai tempi dell’imperatore Antonino il Pio.


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La zona residenziale è composta da tre parti contigue, risalenti a tre fasi diverse ma in rapida successione cronologica: le parti hanno pianta rettangolare e sono disposte allineate da est ad ovest. Il primo nucleo, interamente in mattoni, fu costruito agli inizi del regno di Antonino Pio (138-161 d.C.) ed è costituito da una serie di ambienti che affacciavano su un vasto peristilio-giardino, ora del tutto scomparso. Sono ancora conservati una grande sala di soggiorno, un ambiente con nicchia rettangolare ed una sala con impianto di riscaldamento. Le dimensioni della struttura sono le seguenti: 50 metri per lato, un peristilio quadrato a nordovest di circa 45 metri per lato.


Il secondo edificio nasce a sudovest del peristilio precedente, dove venne inglobato nel 140-150; ha una lunghezza di 45 m per 25 m di larghezza, ed era costituito da sale di rappresentanza e stanze da letto lussuose, oltre che da una balconata con finestre e un belvedere semicircolare con colonne. Il terzo nucleo, costruito alla fine del regno di Antonino Pio con funzioni di rappresentanza, comprende vaste aule a più piani, un impianto termale e sale di soggiorno.


Quest’ultimo complesso costituiva il lato di fondo di un grande ippodromo, lungo 320 metri e limitato da un lungo terrazzamento artificiale, su cui si trova un criptoportico. L’area rettangolare dell’ippodromo era ad un livello più basso degli edifici che la fiancheggiavano e forse qui vi era anche un giardino ed un bacino idrico, mentre probabilmente sulla fascia anulare periferica si sviluppava la pista dove i proprietari si esercitavano nell’equitazione, negli esercizi ginnici e dove si facevano eseguire le gare ginniche.


La villa probabilmente fu abitata fino al V secolo, per poi essere adibita al pascolo degli animali e delle greggi della campagna romana.A nordovest della villa si trovava una serie di abitazioni con magazzini, templi e cisterne: era il luogo dove abitava la popolazione rurale e aveva luogo gran parte delle attività domestiche e agricole. L’area non è stata oggetto di indagine archeologica, ma restano ben visibili i resti di un tempietto rettangolare in laterizio risalente al II secolo d.C.; aveva volte a botte e doppio spiovente e, al suo interno, un’abside rettangolare per la statua divina.



L’altra grande villa, oggetto di numerose campagne di scavo da parte dell’’American Institute for Roman Culture, è quella delle Vignacce, i cui resti si possono osservare nei pressi di via Lemonia. Le indagini archeologiche hanno evidenziato ben cinque periodi di vita della villa, dal I al VI sec. d.C.; realizzata in opera mista di reticolato laterizio e in opera listata.


Tra i resti più in vista è possibile osservare le strutture di una zona termale: una vasta aula a pianta circolare coperta a cupola, circondata da altri piccoli ambienti absidati, in cui si conserva uno dei più antichi esempi di utilizzo di anfore per l’alleggerimento della struttura. La villa appartenne a Quinto Servilio Pudente noto costruttore del tempo di laterizi e legato alla famiglia imperiale.


Nel 2009 vi è stata rinvenuta la statua di Marsia Appeso, ora esposta alla Centrale Montemartini, che rappresenta un contributo alla conoscenza della produzione artistica di un gruppo di scultori originari di Afrodisia di Caria, in Asia Minore, che in età Adrianea crearono statue di grande pregio. L’opera realizzata in un unico blocco di marmo dalle venature rosso-violacee, originario dell’Asia Minore. Al momento del rinvenimento mancavano la mano sinistra e i piedi, probabilmente realizzati, come la mano destra superstite, in marmo bianco. Per la parte interna degli occhi sono utilizzati una pietra calcarea bianca per il bulbo,e pasta vitrea per l’iride; il contorno dell’occhio e le ciglia sono in bronzo.


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Published on March 15, 2019 12:14

March 14, 2019

Pace incerta


Dobbiamo essere onesti: di cosa sia successo negli anni tra il 442 e il 447, abbiamo idee assai vaghe. Purtroppo, delle nostra fonte principale, il buon Prisco, sono rimasti ben pochi frammenti relativi a quel periodo. Il poco che sappiamo è frutto di tarde bios di santi bizantini, la cui attendibilità è purtroppo quella che è.


Da Prisco sappiamo che nel 443, Attila e Bleda, in perenne crisi economica, tentarono di ottenere nuovi fondi dall’Impero, ma Teodosio II, avendo le casse vuote per la fallimentare spedizione a Cartagine, nicchiò, il che dovrebbe avere provocato una nuova guerra tra Pars Orientis e Unni.


“Dopo questo attacco, venne stabilita una tregua di un anno, ma un ulteriore attacco venne lanciato nel 443. Sotto il regno di Teodosio il Giovane, Attila, il re degli Unni, dopo aver raccolto il suo esercito, inviò delle lettere all’imperatore riguardanti, ancora una volta, i fuggitivi e il tributo, chiedendo che tutti coloro che, con il pretesto di questa guerra, non erano stati consegnati, fossero inviati a lui, il più rapidamente possibile, e che gli ambasciatori fossero inviati per discutere riguardo alle modalità del pagamento a lui dovuto. Aggiunse, poi, che se si fosse ritardato, e fosse stato necessario procedere alla guerra, non avrebbe potuto più trattenere la sua orda Scita. Quando l’imperatore ebbe letto questi messaggi, lui e la sua corte risposero che non avrebbero in nessun modo consegnato quelli che erano fuggiti presso di loro, che sarebbero stati pronti alla guerra, e avrebbero inviato ambasciatori per tagliare il tributo. Quando le intenzioni dei Romani furono annunciate ad Attila, questi con rabbia prese a devastare il territorio,prendendo alcune fortezze romane e preparò un attacco a Ratialia, una città molto grande e popolosa.”


Guerra che probabilmente non fu che una serie di disordinate scorrerie, finalizzate al saccheggio e alla raccolta di prigionieri da far riscattare, interrotta tra l’altro dalla morte di Bleda, che rese Attila unico Khan degli Unni. Benché le malelingue accusino il fratello di averlo fatto uccidere, è probabile che la versione dell’incidente durante una battuta di caccia, è probabile che sia la più probabile, dato che Attila, di certo non uno stinco di santo, non infierì particolarmente sulla famiglia del defunto. In ogni caso, lo stillicidio costrinse Teodosio a raggiungere un compromesso con gli Unni


“Nello stesso anno Teodosio inviò Senator, un uomo di rango consolare, con un’ambasciata per Attila. Anche se aveva il rango di ambasciatore, costui non era sicuro di poter raggiungere gli Unni a piedi, e così salpò per il Mar Nero e la città di Odessus, dove era di stanza Theodolus, inviato li come comandante militare.”


Compromesso che durò poco: in quel periodo l’impero d’Oriente fu flagellato da una serie senza fine di disgrazie: lotte tra le fazioni dell’Ippodromo insanguinarono Costantinopoli, epidemie nel 445 e nel 446, quest’ultima a seguito di una carestia; quattro mesi di terremoti che distrussero gran parte delle mura causando migliaia di vittime, e dando origine, nel 447, ad una nuova epidemia. Per cui, Attila decise di approfittarne, per strappare più concessioni possibili a Teodosio II


“Sembra che Attila sia stato convinto da Senator, ma a quanto pare si verificò una intensificazione degli assalti, che richiese una seconda ambasciata lo stesso anno. Dopo gli scontri nel Chersonese, altri trattati vennero stipulati dai Romani con gli Unni, per merito di Anatolio,inviato come ambasciatore. Gli Unni accettarono ancora una volta la pace a condizione che i fuggitivi fossero loro restituiti e che seimila libre d’oro venissero loro pagate, al posto del contributo precedentemente pattuito, che ammontava a due mila e cento libbre d’oro; fu poi concordato che, per ogni prigioniero di guerra romano fuggito, che fosse rientrato nella sua terra senza riscatto, sarebbero stati pagati dodici pezzi d’oro, o, se coloro che lo avessero accolto non avessero pagato [quanto pattuito] il fuggitivo sarebbe stato restituito; e infine i Romani si impegnavano non a ricevere alcun barbaro fuggito presso di loro. I Romani finsero di accettare di buon animo questi accordi, ma in realtà lo facevano per necessità, e con il grandissimo timore che aveva costretto i loro governanti. Nonostante il fatto che le condizioni fossero così dure, essi dovettero accontentarsi di fare la pace in fretta. Inviarono quindi il contributo con i tributi, che erano molto pesanti, anche se le loro risorse, così come il tesoro imperiale, erano di fatto esaurite; non per necessità, tuttavia, ma per pagare spettacoli disgustosi, ambizioni sfrenate e piaceri, e per feste dissolute, come nessuno di mente sana, e neanche in tempi prosperi, dovrebbe concedersi. Il risultato è stato che venne concesso il pagamento del tributo non solo agli Sciti, ma anche alle altre tribù di barbari, nei pressi del territorio romano.”


Piccola nota: di seguito Prisco, è molto di parte. Il tributo richiesto da Attila era ragionevole, come dimostrato da Kelly che in un calcolo ha stimato che costituisse all’incirca solo il 3% delle entrate annuali dell’Impero d’Oriente. Solo che Teodosio II lo utilizzò come scusa per lanciare una campagna contro l’evasione fiscale della Pars Orientis. Dato che, a quanto pare, la famiglia dello storico aveva un rapporto particolarmente conflittuale con le tasse e il fisco romano, Prisco se la legò al dito


“Per i tributi e le somme di denaro che è stato necessario inviare gli Unni, l’imperatore costrinse tutti a contribuire al pagamento con una tassa di guerra, sia per coloro che avevano già pagato le tasse in natura, che per quelli esonerati, in quel momento, da qualsiasi imposta fondiaria pesante,o per la decisione dei giudici o per la liberalità degli imperatori. Gli iscritti al Senato pagarono, come tassa di guerra, somme in oro, ciascuno in proporzione al proprio grado, e per molti fu una disgrazia che comportò un duro cambiamento nella loro vita. Molti dovettero concedere sotto tortura ciò che gli veniva richiesto degli incaricati mandati dall’imperatore per fare le valutazioni.E gli uomini che in passato erano stati benestanti ? Loro dovettero mettere sul mercato il mobilio e gli ornamenti delle loro mogli. Dopo la guerra anche questa calamità si abbatté sui romani, e molti furono quelli morti per fame o impiccati. Quindi Scottas, un importante nobile degli Unni e fratello di Onegesius, venne incaricato di provvedere alla riscossione; ma i tesori [ottenuti]furono dilapidati sotto l’impulso del momento, mentre molti dei fuggitivi vennero restituiti.”


Tra l’altro il Khan degli Unni, aveva anche lui le sue gatte da pelare: una di questa si chiamava Asemus, una città dell’Illirico, in teoria soggetta a Costantinopoli, ma di fatto indipendente, i cui abitanti, un’orda di ladri, taglieggiavano con estrema equanimità sia i romani, sia gli unni. Attila, essendo consapevole che qualsiasi sua lamentela nei confronti di Teodosio II sarebbe stata accolta da un solenne pernacchione, decise di prendere di petto la situazione, con pessimi risultati


I Romani, poi, uccisero la maggior parte di coloro che rifiutarono di sottostare alle condizioni di resa. Tra di loro vi erano i membri della famiglia reale Scita, che avevano rifiutato di servire sotto Attila, ed erano venuti a rifugiarsi presso i Romani. In aggiunta a questi ordini, di sua iniziativa, Attila comandò agli Asemuntiani di restituire tutti i prigionieri che avevano trattenuto, sia romani che barbari. Asemus è una fortezza non molto lontana dall’Illiria, e adiacente al confine della Tracia, i cui abitanti inflissero molte terribili sconfitte al nemico; non solo li allontanarono dalle mura, ma inoltre, intrapresero delle sortite al di fuori dei fossati. Combatterono, così, contro molti generali che avevano avuto la più grande reputazione tra gli Sciti, e gli Unni, essendo in svantaggio, si ritirarono lentamente dalla fortezza. Poi gli Asemuntiani si precipitarono fuori e,allontanatisi più del solito dalle loro case, dal momento che gli informatori avevano detto loro che il nemico si stava ritirando con il bottino romano, gli piombarono addosso di sorpresa. Anche se in inferiorità rispetto agli Unni che avevano di fronte, furono eccellenti in coraggio e forza, e causarono la rovina degli Unni. E allo stesso modo gli Asemuntiani, in questa guerra, uccise romolti Sciti, liberarono molti romani, e accolsero coloro che erano fuggiti dai nemici.”


“Attila, quindi, disse che non avrebbe portato indietro il suo esercito, o ratificato il trattato di pace,a meno che i Romani, che erano fuggiti presso queste persone, non si fossero arresi, o la penale di riscatto da pagare per loro, e i prigionieri barbari portati via dagli Asemuntiani, fosse stata revocata.” Non fu possibile per Anatolio, l’ambasciatore, opporsi a tutto questo, né lo fu per Theodolus, il comandante delle forze militari in Tracia. Anche quando proposero argomenti ragionevoli, non poterono convincere il barbaro in quanto, da un lato, egli era molto sicuro di sé ed era pronto a ricorrere alle armi, e, d’altra parte, si erano resi più cauti a causa degli eventi passati. Quindi mandarono delle lettere agli Asemuntiani ordinandogli di restituire i prigionieri romani che erano fuggiti presso di loro, o, per ciascuno, pagare più di dodici pezzi d’oro; e, al tempo stesso, di restituire i prigionieri Unni. Gli Asemuntiani, dal canto loro, una volta ricevute le lettere, dichiararono di aver già rimettere in libertà i romani che erano fuggiti presso di loro, che avevano già ucciso tutti i prigionieri Sciti, ma che ne avevano trattenuti due agli arresti perché, dopo che l’assedio era terminato da tempo, il nemico aveva preparato un agguato e sequestrato alcuni ragazzi che erano al pascolo con il bestiame, nei pressi della fortezza. Se gli Unni non avessero restituito questi ragazzi, affermarono, essi non avrebbero rinunciato ai loro prigionieri, secondo le leggi di guerra. Quando coloro che si erano recati presso gli Asemuntiani ebbero annunciato queste cose, sembrò ragionevole al re degli Sciti e ai comandanti romani, ricercare questi ragazzi che, secondo gli Asemuntiani, erano stati sequestrati. Tuttavia le ricerche non condussero a nulla, e allora i prigionieri barbari degli Asemuntiani vennero rilasciati, dopo che gli Sciti giurarono di non aver rapito quei ragazzi. Gli Asemuntiani giurarono anche che i Romani che erano fuggiti presso di loro erano stati rimandati via liberi. Questo giurarono, e anche se vi erano dei Romani tra loro, non credo che abbiano giurato il falso, dato che era in gioco la sicurezza degli uomini della loro stessa razza.


Chiusa in maniera poco gloriosa per Attila la vicenda di Asemus, fu raggiunta un ulteriore accordo di pace, anche perché, oggettivamente, l’Impero aveva altri problemi rispetto al mercanteggiare pochi spicci con un khan unno, che doveva fare i salti mortali per pagare i suoi soldati e i suoi esosi burocrati


Quando la pace venne conclusa, ancora una volta Attila mandò gli ambasciatori ai Romani d’oriente per chiedere la restituzione dei fuggitivi. Ed essi, ricevendo questi inviati, li lusingarono con molti doni, e li congedarono nuovamente, dicendo che non trattenevano alcun fuggitivo; ma di nuovo [Attila] mandò altri uomini. Quando anche questi si furono scambiati i loro messaggi, giunse una terza ambasciata, e dopo una quarta, da parte del barbaro, vedendo chiaramente la liberalità dei Romani, che essi esercitavano con molta cautela affinché i trattati di pace non venissero rotti, e volle [così] beneficiare il suo seguito. Quindi mandò ancora [altri ambasciatori] ai Romani, accampando nuove scuse e trovando nuovi pretesti. Essi ascoltarono ogni ordine e obbedirono al comando del loro signore in tutto ciò che lui ordinava. Non erano solo preoccupati di evitare una guerra contro di lui, ma, anche, temevano i Parti che erano, come poi avvenne, intenti a fare preparativi per la guerra; poi i Vandali che affliggevano il mare, gli Isauri delle coste che si erano dati al banditismo, i Saraceni che sconfinavano della parte orientale dell’impero, e le razzie degli etiopi. Per farla breve, trascurarono i problemi con Attila, e si sforzarono di rispondere alle altre genti con con la forza dell’esercito, raccogliendo tutte le loro forze e i migliori generali.

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Published on March 14, 2019 15:04

March 13, 2019

Il teatro dell’assurdo di Via Giolitti




Approfittando del down di Facebook, butto giù due righe per riprendere una vicenda dell’Esquilino, che a mio avviso si sta trascinando da troppo tempo.


Come qualcuno ricorda, il due febbraio dovevamo realizzare il nuovo murales dedicato al nostro Gaetano, ma a causa del diluvio universale di quel giorno, avevamo deciso di rimandare il tutto di una settimana.


Nel frattempo, chiacchierando con un paio di amici, c’eravamo accorti come nel portico di Via Giolitti 225 vi fosse qualche problemino. In diversi punti, il cemento era caduto a terra, tanto da evidenziare l’armatura in ferro, anche parecchio arruginita.


Non essendo esperto in materia, non vi ho dato eccessivo peso, limitandomi a commentare con un


“Ammazza quanto siamo messi bene con la manutenzione”


Lunedì 6 febbraio, i vigili urbani, constatato lo stato di pericolo, hanno deciso di isolare e sigillare l’area, considerandola un rischio per i cittadini.


Sino a qui, tutto bene: il problema è che da quel momento in poi, siamo finiti in una sorta di teatro dell’assurdo.


I cittadini che, i primi giorni, sono andati a chiedere informazioni in Municipio su quanto fosse successo, si sono trovati davanti impiegati dall’aria stralunata, che cadevano dalle nuvole, non sapendone nulla, dato che nessuno si era degnato di comunicare loro del sequestro.


Lo stessa reazione l’hanno avuta diversi politici locali, che, a quanto pare, hanno scoperto del problema solo tramite un post su facebook: alla notizia, sono corsi a compiere un sopralluogo, a cui è seguito il nulla. Infine, a qualsiasi ulteriore richiesta di chiarimento, gli uffici preposti si limitano a rispondere con un solleciteremo, non si sa bene chi o cosa.


E intanto la situazione peggiore di giorno in giorno: la stessa recinzione, che doveva impedire l’accesso all’area pericolante, per tutelare la salute dei cittadini, è abbandonata a se stessa ed è stata abbattuta in più punti.


In tutto ciò, non si sa nulla di eventuali lavori… Insomma, parafrasando Cicerone, per quanto altro tempo abuseranno della grande pazienza dei cittadini dell’Esquilino ?

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Published on March 13, 2019 13:07

March 12, 2019

La lunga telenovela dei Giardini di Piazza Vittorio

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Una delle grandi telenovele dell’Esquilino, che ad occhio è cominciata quando sono ritornato da Milano a Roma. Il tutto, a occhio e croce, comincia ai tempi di Alemanno, quando fu presentato un progetto, che cubava un paio di milioni di euro, che prevedeva la ristrutturazione globale dei giardini, assai invasiva.


Se non ricordo male, all’epoca si millantava qualcosa come una pista ciclabile e un percorso per il jogging lungo la cancellata che delimita i giardini, un’area sport attrezzata, la collina di copertura della metro allestita con scivoli e altri giochi per bambini, un gazebo con un caffé, e una grande fontana-laghetto al centro dei ‘Trofei di Mario’ destinata ad ospitare eventi come la tradizionale rassegna estiva di cinema all’aperto, il che detto fra noi, non è che fosse il massimo, per valorizzare un’area archeologica.


Tale proposta fu contestata da varie associazioni del Rione: da una parte, si chiedeva di utilizzare parte dei finanziamenti pubblici per ristrutturare l’intera piazza, dall’altra che il progetto non calasse dall’alto, ma fosse frutto di un processo partecipato, che coinvolgesse le realtà locali.


Così, grazie alla mobilitazione dei cittadini, tale progetto, e fu un bene, viste tutte le vicende giudiziare dell’Amministrazione Alemanno, fu bloccato; le stesse associazioni che era state in prima fila nel contestare l’iniziativa del Campidoglio, oltre a lanciare l’idea di un tavolo comune per definire un nuovo progetto, condiviso tra Istituzioni e Cittadini, sul rinnovo dei giardini, si fecero in quattro per fare nominare Piazza Vittorio Luogo del Cuore del FAI.


Tra le prime inziative della Giunta Marino, vi fu il proprio il lancio del tavolo comune tra istituzioni e associazioni, per definire il nuovo progetto. Tavolo che è andato avanti con molte luci e poche ombre.


Le luci riguardano la tipologia di intervento, con un importo complessivo di 2.875.000 euro, che non comprende solo la ristrutturazione, ma anche la gestione e la manutenzione del giardino. In più, saranno previste la manutenzione delle pavimentazioni e dei volumi, la realizzazione di nuovi percorsi nei giardini, l’eliminazione di barriere visive e infine la creazione di un vero orto botanico con la piantumazione di 1.200 nuove essenze arboree, provenienti da ogni parte del mondo.


Verranno ridisegnate le aree naturalistiche, con un nuovo percorso che si ispirerà al disegno originario, riperimetrate l’area cani e l’area gioco per i bimbi mentre, in corrispondenza dell’edificio liberty, verrà realizzata una pavimentazione in sampietrini com’era in origine. La collina artificiale che nasconde l’accesso alla centrale di controllo della metropolitana verrà trasformata in una “collina acrobatica”, con strutture ludiche per i più giovani.


La recinzione dei Trofei di Mario sarà ridisegnata in modo da permettere di riaprire il percorso tra i resti monumentali e la Porta Magica. Infine verrà ripristinata la fontana del Rutelli e sarà prevista la modellazione degli spazi verdi, con percorsi trattati con ghiaia stabilizzata.


Le ombre, purtroppo sono connesse alla natura stessa del tavolo di lavoro partecipato, che, diciamola tutta, coinvolge una minoranza ristretta di cittadini dell’Esquilino, a cui possono sfuggire delle esigenze della maggioranza. Faccio l’esempio delle giostre, di cui la minoranza che ha collaborato nella definizione del progetto non ha intuito quanto fossero importante per il cittadino comune del Rione.


Il progetto, dopo l’elaborazione, poi, sia per le vicende politiche del Campidoglio, sia per lo scarso amore della Raggi per l’Esquilino, si è arenato per un quadriennio, finchè, in gran segreto, cosa strana per un’amministrazione usa a celebrare con i fuochi d’artificio l’inaugurazione di un paio di vespasiani, oggi, dopo tante chiacchiere, sono cominciati i lavori.


Al di là della scarsa trasparenza, il problema è che, nonostante le tante richieste di una modalità di esecuzione modulare dei lavori, tutti i giardini sono stati chiusi, privandone per chissà quanto tempo il godimento ai cittadini…

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Published on March 12, 2019 10:08

March 11, 2019

O glorioso San Pasquale


Il governo papalino aveva un concetto particolarmente esteso del welfare. Infatti riteneva che fosse compito primario dello Stato provvedere sia al benessere materiale, tra le tante cose aveva messo in piedi un reddito di cittadinanza molto più sensato e intelligente di quello di Di Maio, sia al benessere spirituale dei propri sudditi. E per fare ciò, il welfare pontificio non solo sottoponeva i suoi sudditi a corsi intensivi di catechismo, ma provvedeva con impegno e assoluta dedizione a procurare marito a tutte le zitelle di Roma.


A quanto pare, il Papa Re la pensava in maniera identica a Jane Austen sul fatto che fosse


Una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie.


A tal scopo, un mese sì è l’altro pure, a Roma venivano organizzate processioni pseudo-devozionali, il cui principale scopo era dare occasione alle single locali di mostrar con pudore le proprie grazie. La più nota era la processione dedica a San Pasquale Baylon, ricordata pure in Rugantino, in cui si cantava:


Viva,viva San Pasquale

San Pasquale Bailonne,

gran patrono delle donne,

fa che trovi un buon marito,

alto, biondo,colorito:

come voi tale e quale,

o glorioso San Pasquale


Chissà se San Pasquale Baylon fosse veramente alto, biondo e colorito… Ora, benché questa processione goda di notevole celebrità mediatica, in realtà non era tra le più gettonate dell’Urbe: chi meritava questo titolo era quella dell’Annunciazione, che si celebrava il 25 marzo di ogni anno nella Chiesa della Minerva, addobbata con numerose luci, arazzi, festoni di frutta e verdura, insomma di tutto quello che prevedeva l’immaginario barocco, alla presenza del Papa Re, che vi giungeva con un sontuoso corteo.


Durante la celebrazione della solenne messa cantata entrava in chiesa la processione delle ragazze che, a due a due, vestite di bianco e con un velo che a malapena lasciava scoperti gli occhi – erano infatti chiamate “le ammantate” – con un cero in mano andavano a genuflettersi dinanzi a Sua Santità. Dopo il Bacio della Sacra Pantofola, veniva consegnata loro un sacchetto di seta bianca con una dote di 50 scudi per quelle che intendevano prendere marito e di 100 scudi per quelle che intendevano prendere il velo.


Il “Rito delle Zitelle” fu istituito nella metà del 1400 dall’Arciconfraternita della Ss. Annunziata – composta di 200 cittadini romani – il cui unico scopo era quello di esercitare opere di carità. Per i confratelli uno dei campi più fecondi per l’applicazione dei loro programmi assistenziali era quello di salvare le giovani donne che per mancanza di mezzi venivano spesso trascinate alla prostituzione.


L’Arciconfraternita elaborava ogni anno degli elenchi nei quali potevano iscriversi le fanciulle che avessero compiuto 15 anni. Dopo tre anni di prova, se ritenute meritevoli, alle zitelle “oneste e di buona fama” veniva consegnato un sussidio durante la cerimonia nel giorno dell’Annunciazione. Di questa processione ne parla addirittura il Belli in un suo sonetto


Stavo jjerammatina de piantone

su le scale cquaggiú dde Santa Chiara

aspettanno che uscissi la filara

de zitelle ammantate in priscissione.


Cuanno ecco che un paìno in zur cantone

se mette a rride co ’na faccia amara,

discenno a un antro: «Ir Papa la tiè ccara

la pelle sua si nnun viè a ffà orazzione».


Io fesce allora a cquelli capitali:

«Bboja che pperde tempo, e nnu li snerba

sti dottorini de li mi’ stivali.


Caso er Papa nun vienghi a la Minerba,

ce sò iti però li Cardinali,

che ttutti-cuanti sò ppapetti in erba.


Un altra di queste processioni, avveniva il 25 novembre, festa di Santa Caterina, presso l’omonima chiesa di Santa Caterina della Rosa, detta anche de’ Funari. Al suo fianco esisteva un Conservatorio eretto dalla Compagnia delle Vergini miserabili e destinato ad accogliere le figlie delle prostitute; mentre una casa contigua al monastero dava rifugio alle ex ricoverate una volta rimaste vedove, o nel caso volessero sottrarsi ai maltrattamenti dei mariti.


In origine molte ragazze sue ospiti eretto dalla Compagnia delle Vergini miserabili e destinato ad accogliere le figlie delle prostitute; mentre una casa contigua al monastero dava rifugio alle ex ricoverate una volta rimaste vedove, o nel caso volessero sottrarsi ai maltrattamenti dei mariti. Su iniziativa di Sant’Ignazio da Loyola, che per favorire i matrimoni,convinto che, oltre che all’occhio, anche il portafoglio volesse la sua parte, assicurava ad ogni ragazza una dote aggiuntiva di altri 60 scudi, per complessivi 210 scudi, cifra all’epoca tutt’altro che disprezzabile, fu organizzata una processione, che partiva da Santa Caterina, per dirigersi Basilica dei Santi Apostoli, dove poi si celebrava una grande festa, in cui le single, vestite di bianco, avevano occasione di conoscere i potenziali mariti.


Nel 1611 durante la processione una delle ragazze scomparve misteriosamente: per tale motivo si interruppe tale uso per diversi anni e la processione non si svolse più fino al 1640, quando la tradizione fu ripristinata, per essere poi cancellata, come tutte le stranezze dello Stato Pontificio, con l’Unità d’Italia

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Published on March 11, 2019 12:28

March 10, 2019

Lucus Angitiae





Te nemus Angitiae, vitrea te Fucinus unda, Te liquidi flevere lacus


E’ uno dei versi dell’Eneide, in cui Virgilio parla di Umbrone, un giovane condottiero inviato dal re dei marsi Archippo in appoggio a Turno nella guerra contro i troiani sbarcati nel Lazio, che, oltre ad essere un combattente, è anche sacerdote, medico e incantatore di serpenti. Una citazione colta, da parte del poeta latino, di una delle peculiarità religione dei Marsi, dei Peligni e degli altri popoli osco-umbri, ossia il culto della dea Angizia, la signora dei serpenti, così descritta da Silio Italico


Angitia, figlia di Eeta, per prima scoprì le male erbe,

così dicono, e maneggiava da padrona

i veleni e traeva giù la luna dal cielo;

con le grida i fiumi tratteneva e,

chiamandole, spogliava i monti delle selve.


Questa sua parentela a Circe e Medea, il cui nucleo centrale del mito, basato sul concetto di metamorfosi, è intriso di sciamanesimo, il fatto che sia connessa alla guarigione e alla fertilità e che venisse identificata dai romani con Bona Dea, la Grande Madre dei popoli latini, la rende molto simile alla Potnia Teron della tarda età del Bronzo elladica. Che tale somiglianza sia casuale, dovuta a un’evoluzione analoga della religiosità pre indoeuropea, oppure sia dovuta a contatti tra Micenei e cultura appenninica, è difficile a dirsi.


Il luogo di culto principale di Angizia è Lucus Angitiae, che sorgeva sulle rive occidentali del lago Fucino, nei pressi della nostra Lugo dei Marsi. Attestazioni di carattere archeologico hanno permesso di far risalire all’età del bronzo le prime frequentazioni del sito; i resti protostorici di capanne e sepolture databili X secolo avanti Cristo e delle successive mura poligonali, che racchiudevano un’area di oltre 14 ettari e in cui erano presenti due porte d’accesso, testiminiano la sempre maggiore importanza del bosco sacro nell’età del ferro. Nel IV sec a.C., in occasione delle guerre sannitiche, le mura furono ampliate, arrivando a coprire un’area di circa 30 ettari e ad essere dotate di cinque porte


Il sito è caratterizzato dalla presenza del tempio di epoca italica, composto da due celle, il che farebbe pensare a un culto duplice, quello della Potnia Teron e del suo sposo, situato in località Il Tesoro e di quello di epoca augustea, in occasione del rilancio delle comuni radici italiche volute da Ottaviano, articolato in tre ambienti. Entrambi gli edifici sono stati studiati in scavi condotti a partire dai primi anni Settanta dall’Archeoclub della Marsica e dal 1998 in poi dalla Sovraintendenza dell’Abruzzo


Sempre negli anni Settanta, durante lavori di manutenzione dell’acquedotto, oltri ai templi e alle numerose stipe votive, fu individuato il quartiere artigianale con botteghe con fornaci. Numerosi sono gli ex voto fittili, ceramica a vernice nera e terra sigillata italica databili tra il III e il I sec. a.C. Non sono state trovate raffigurazioni della dea, ma è possibile che in età arcaica il suo simbolo fosse la “chimera funeraria” raffigurata nei dischi corazza di produzione fucense. Alla dea furono associate anche le mascherine fittili quadrate prodotte nel santuario di Luco e diffuse in tutta l’area italica.


Oltre alle aree sacre. e ai resti della cinta e di alcune porte d’accesso, sono evidenti tracce di muri di terrazzamento, cisterne, pavimentazioni stradali, resti di edifici in opera incerta e reticolata, sepolture.


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Nel 2003 opere di ricerca condotte dall’Università degli Studi dell’Aquila hanno permesso di svelare altri importanti reperti, in particolare nell’area denominata Sagrestia sono tornate alla luce le tre statue: quella, che secondo alcuni studiosi sarebbe ricollegabile alla figura della dea Angizia, è in terracotta e risale al III secolo a.C. e rappresenta una donna seduta su un trono; le altre due statue in marmo sono invece databili al II secolo a.C. e raffigurano una donna panneggiata con capo coperto e una donna seminuda con panneggio.



Il culto di Angizia, sotto mentite spoglie, continua ancora oggi nella Marsica, con la festa dei serpari a Cucullo, che da qualche anno si svolge il 1 maggio. Tutto ha inizio con i serpari che alla fine di marzo si recano fuori paese in cerca dei serpenti. Una volta catturati, vengono custoditi con attenzione in scatole di legno (in tempi remoti dentro dei contenitori di terracotta) per 15-20 giorni nutrendoli con topi vivi e uova sode. Ovviamente, inutile dirlo, si tratta di specie non velenose, come il cervone, il saettone o colubro d’Esculapio, la biscia e il biacco.


Il 1 maggio, a mezzogiorno, inizia la processione della statua del san Domenico, il patrono di Cucullo invasa dalle serpi catturate nei giorni prima, che procede per tutto il centro stporico


Ai fianchi della statua del Santo, due ragazze vestite con abiti tradizionali, portano sulla testa un cesto contenenti cinque pani sacri chiamati ciambellani in memoria di un miracolo che fece san Domenico. Questi pani vengono donati per antico diritto ai portatori della Sacra Immagine e del gonfalone. Al termine della festa, i rettili vengono riportati al loro habitat naturale dai serpari.


Alla fine, Nihil sub sole novum…

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Published on March 10, 2019 10:23

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Alessio Brugnoli
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