Ocriticum
Altro luogo affascinante dell’Abruzzo è Ocriticum, la cui storia si dipana dall’età del bronzo al Medioevo. In origine si trattava di un pagus, risalente alla fine dell’Età del Bronzo (XII-X sec. a.C.) e costituito da una trentina di capanne di forma ovale, realizzate con materiali vegetali (legno e canne), poste su terrazzamenti ricavati nel pendio di colle Mitra.
Tale pagus era uno dei tanti che gravitavano attorno all’oppidum posto sulla sommità del colle, un recinto delimitato da due muraglioni costruiti con massi e grosse pietre sbozzate, che svolgeva due funzioni differente, tipiche della cività appenninica: la prima riguardava il controllo e di difesa percorsi che da Sulmona risalivano alla regione degli altopiani: il tratturo di Pettorano e quello che ai tempi dei romani diverrà la via Claudia Nova.
La seconda, altrettanto importante, era quella di punto di appoggio logistico alle comunità pastorali che frequentavano l’area, sia come ricovero delle greggi, sia come luogo di tosatura della lana e della produzione di formaggi.
Intorno al IX e VIII secolo a.C., a causa delle migrazioni delle popolazione di lingua sabina, caratterizzate dalle diffusione nell’area della Cultura delle Tomba a fossa ( tra l’altro, dato la sua presenza nella necropoli esquilina e l’esistenza di lucus e di un aedes Mefitis, dea sabellica delle sorgenti e degli armenti, fa pensare come vi fosse un pagus sabino all’altezza di via Carlo Alberto) cambiò totalmente l’assetto dell’area, con il progressivo abbandono dell’oppidum, che però lasciò il nome alla zona, data la radice sabina del nome Ocriticum, okar/okri-, che sta per “arx”, cittadella fortificata, e dei pagi, la cui popolazione si concentrò progressivamente a Sulmona.
Però, rispetto agli altri villaggi dell’età del bronzo, Ocriticum era assai più fortunato: l’approvvigionamento d’acqua era garantito dalle fonti dette di Grascito e Sulmontina, mentre la via Nova oltre a garantire trasporti di materiale e comunicazioni, gli poteva far svolgere il ruolo di stazione di sosta. A questo si aggiungeva la possibilità di utilizzare la pietre locali per la produzione della calce e la sacralizzazione di una parte dell’area, che garantiva l’afflusso costante di pellegrini.
Per cui, pur non giungendo mai allo status cittadino, per la concorrenza attrattiva della vicina Sulmona, Ocriticum mantenne sempre una sua identità sociale ed economica. Il villaggio vero e proprio, collocato nell’area meridionale del pianoro era di di modeste dimensioni e incentrato su una mansio, la stazione di sosta per chi viaggiava lungo la vicina Via Claudia Nova.
A partire da un periodo compreso tra il III e il II sec. a.C. l’abitato sembra svilupparsi maggiormente, espandendosi su di un’area di pianoro ed assumendo connotazione quasi “urbana”, e viene cinto da mura; due viae glareatae, entrambe larghe circa 3 m, una con andamento N-S e una E-W, si intersecavano sul pianoro stesso formando probabilmente la griglia su cui si sviluppò l’abitato ellenistico.
Lungo un tracciato stradale che dal villaggio si dirigeva a Sud, oltre a canalette e modeste muraglie in opera incerta, erano pure collocate – secondo uso romano – delle steli funerarie epigrafate. Sebbene tale necropoli sia stata quasi interamente intaccata dall’agricoltura, un’epigrafe scoperta in zona ha permesso di risalire al toponimo con cui fra i Romani era conosciuto il villaggio; essa riporta l’iscrizione
SEX(TO) PACCIO
ARGYNNO
CULTORES IOVIS
OCRITICANI
P(OSUERUNT)
Il monumento più importante di tale necropoli è un mausoleo a dado, ossica costituito da un nucleo quadrangolare in calcestruzzo, databile tra il I a.C. e il I d.C, di cui restano soltanto le fondamenta e pochi elementi architettonici ornamentali.
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Il vero polo di attrazione di tutto il complesso, però, sembra essere rappresentato, già dal primo ellenismo, da un santuario sito ad E dell’abitato, sulle pendici del Colle Mitra. Il luogo sacro presenta una struttura a terrazze, non dissimile da quella degli altri santuari della conca peligna, e un’articolazione interna complessa, frutto di una frequentazione durata almeno otto secoli, dal IV secolo a.C. al IV d.C. e della successione di almeno quattro fasi costruttive, più una di frequentazione tarda.
La fervente attività religiosa costituì un impulso non indifferente sia per il moltiplicarsi dei culti praticati nel pianoro, sia per la monumentalizzazione e l’ampliamento degli edifici sacri, sia, infine, per l’accrescersi della fama del luogo, tale da essere segnato, col nome Iovis Larene (“Collina di Giove”), lungo la suddetta Via Claudia Nova a sette miglia da Sulmo e a venticinque da Aufidena, all’interno della Tavola Peutingeriana, famosa copia medievale di un’originale carta militare stradale romana; le distanze, rimisurate lungo l’antico tracciato della Via Claudia, pare coincidano.
Tale area sacra era costituita da tre edifici: il primo tempio edificato nell’area risale alla fine del IV secolo a.C., progettato secondo un modulo base in piedi oschi, era originariamente era costituito da un’unica cella di base pressoché quadrata, con ingresso rivolto a Sud-Est (dove sorge il Sole) attorno alla quale era un giardino sacro, delimitato da un muro perimetrale eretto a secco.
Nel II secolo a.C. l’area è soggetta a un rovinoso terremoto, per cui, il tempio originale è soggetto a una profonda ristrutturazione, con un ampliamento del recinto e del santuario, che fu provvisto d’un pronao realizzato in tecnica sensibilmente diversa dalla cella. Al contempo, viene realizzato nel giardino sacro un deposito votivo, con la intenzionale deposizione di cumuli orizzontali di pietre, alternati con sottili strati di terra. I materiali votivi rinvenuti sono per la quasi totalità fittili, insieme ad una quantità di materiale ceramico; la quantità di bronzo e metalli è molto scarsa. In particolare sono state ritrovate: tanagrine, teste soprattutto femminili, anatomici, animali (bovini, un cavallo, un orso, una statuina di kourotrophos e un bambino in fasce, ceramica comune, etc.).
Una statuina in particolare raffigurava una coppia al femminile unita in un abbraccio,interpretata come Cerere e Proserpina. Un unicum è costituito da una macina a tramoggia per grano, da riconnettersi forse a pratiche alimentari di carattere rituale.Elementi di maggiore pregio erano una bella foglia di vite in bronzo e una statuina di Ercole in assalto.
Attorno agli inizi del I secolo a.C., si assiste a un ulteriore ampliamento dell’area sacra, nella quale, su un terrazzo più elevato rispetto al tempio italico ma con esso perfettamente allineato, viene edificato un altro santuario, più grande e architettonicamente sofisticato: di base rettangolare e diviso in due ambienti di egual misura (pronao e naos), con scalinata incastonata innanzi all’entrata, rivolta a Sud-Est come per il precedente tempio, il santuario si può supporre fosse prostilo tetrastilo, malgrado della struttura originale restino solo i muri perimetrali in opera reticolata e alcune tessere di mosaici musivi decontestualizzate (nessun mosaico è stato rinvenuto neppure in prossimità dello stabile). Alla costruzione del nuovo santurari è da giustapporre l’ampliamento del recinto sacro, che ora era provvisto di due ingressi e veniva a delimitare un appezzamento di terra destinato al culto tecnicamente definito temenos, al quale potevano accedere solo i sacerdoti.
Infine, una trentina d’anni dopo la costruzione del secondo tempio, nella zona posta a Occidente del temenos e dei due templi maggiori, su un terrazzo inferiore rispetto agli altri, fu eretto un altro tempio di piccole dimensioni, provvisto anch’esso di un deposito votivo e di un recinto sacro. Si trattava di un sacello di base quadrata, posizionato in perfetto allineamento con gli altri santuari e pure esso con l’ingresso a Sud-Est; l’ambiente conserva ancora parte del pavimento originale, realizzato in tessere rosse, e dell’intonacatura interna, della quale è tuttora possibile osservare la fascia rossa in basso, che spiccava sul bianco della parete.
Deposto accuratamente a est del suo muro orientale in una data presumibilmente circoscrivibile entro la prima età imperiale, esso conteneva oggetti più marcatamente inerenti la sfera muliebre: balsamari fittili, statuine di divinità femminili nude o seminude, tanagrine, teste, oltre a un eccezionale strigile in vetro. Inoltre, all’interno dell’edificio, c’erano probabilmente scansie su cui poggiavano altre offerte relative al mondo muliebre (pettini, unguentari, specchi etc.).
L’intero complesso fu poi abbandondato nel II secolo d.C. quando la zona fu flagellata da un terremoto distruttivo: ma chi erano dedicati i templi ? Se è probabile che il tempio dell’età romana fosse dedicato a Giove, è possibile che il tempio più antico e il sacello fosse dedicato a una divinità femminile, forse Cerere, intesa come manifestazione di Mefitis, protettrice delle donne, della Natura e delle greggi. In tale caso, il sacello, più che il ruolo di luogo di culto, svolgerebbe quello di thesauros.
Dopo il santuario, si sviluppava un’area che, in termini moderni, di chiamerebbe industriale: dalla Via Claudia Nova si diramava, difatti, una via glareata, una massicciata di pietrame ricoperta da pietrisco battuto misto a malta, che, dopo aver attraversato il pianoro, si inerpicava su per la collina orientale e conduceva a un vasto edificio rettangolare suddiviso in vani interni di differente dimensione. Scavata direttamente nel pendio, nel vano più interno dell’edificio, un’ampia cavità di forma cilindrica, sul fondo della quale rocce vulcaniche e ceneri hanno portato a identificarvi una fornax calcaria, fornace improntata alla cottura e al ricavamento della calce; tutti gli ambienti dell’ampio fabbricato (uno dei quali ancora conserva l’originale pavimento in terracotta) dovevano dunque essere destinati al raffreddamento, alla conservazione, allo stoccaggio e infine alla vendita della calce.
Alessio Brugnoli's Blog

