Alessio Brugnoli's Blog, page 114

April 5, 2019

Certosini

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Visitando il Museo delle terme di Diocleziano, all’improvviso ci si trova davanti il chiostro grande dell’antica certosa, che occupa il corpo centrale dell’antico tepidarium, dove i monaci ebbero le loro celle.


Tra una statua romana e l’altra, all’improvviso ci trova davanti una strana porta; da una parte, un’anta reale, una tavola di legno dipinta a trompe-l’oeil, con colori a olio, il cui lato interno, è decorato con scomparti che ospitano gli oggetti tipici di una cella certosina. Dall’altra, l’ingresso illusorio a una cella, con il ritratto di un monaco, in compagnia di un gatto.


Si comincia da un teschio ed un crocifisso, in riferimento alla meditazione sulla morte ed alla riflessione sulla passione di Cristo, per passare poi, nello scomparto successivo, al rosario, strumento di preghiera, la candela fumante, l’umile aiuto per le preghiere notturne, la clessidra, simbolo dello scorrere del tempo, i pennini ed il calamaio, elencati nella dotazione personale del monaco certosino nelle Consuetudines Cartusiae di Guigo:


« Ad scribendum vero, scriptorium, pennas, cretam, pumices duos, cornua duo, scalpellum unum …»


L’occhio poi cade su un cilicio ed un paio di occhiali da lettura “pince- nez”, elementi che fanno riferimento alla penitenza e l’amore per lo studio, testimoniati anche dalla rappresentazione dei libri, il Vecchio e Nuovo Testamento, le Consuetudines Guigonis, la regola dei certosini e le Institutiones coenobiorum di Giovanni Cassiano, e del cibo povero e spartano del monaco, costituito da pane e ortaggi. Infine, una cesta piena di legna, per far ardere nelle stufe a legna della propria celle per riscaldarsi.


Chi è il monaco: ci vuole occhi e mente acuta, come Sherlock Holmes, per comprendere gli indizi sparsi nell’opera, per identificare il soggetto.


Sul foglietto che regge con la mano sinistra c’è scritto:


Erudi filium tuum et refrigerabit te et dabit delicias animae tuae


Proverb. XXIX. 17.


che tradotto in italiano fa


Correggi il figlio e ti farà contento e ti procurerà consolazioni.


Proverbi 29:17


mentre con la destra indica il ritratto del papa Clemente IV,Gui Foucois, uomo austero, dal pessimo carattere, nemico giurato degli Svevi e amico di San Tommaso d’Aquino. Elementi che permettono di identificare la figura rappresentata in suo padre, Pierre Foucois, già noto avvocato e famoso giudice al servizio del conte Raimondo V di Tolosa. Egli alla morte della moglie, decise di optare per la vita monastica ed entrare nei certosini della Grande Chartreuse, dove morì e fu sepolto nel 1210.


Ma chi è l’autore di questo rebus ? Si tratta di Filippo Balbi, personalità alquanto peculiare: uomo dalle posizioni artistiche e politiche assai conservatrici, era filo papalino e finanziò la guerriglia partigiana contro i Savoia nel Sud Italia, dopo il 1861, all’improvviso era travolto da un furor arcimboldesco, che gli faceva creare delle opere eccentriche, bizzarre e surreali.


Un esempio è la “la testa anatomica”, realizzata nel 1854 ed esposta nel 1855 all’Esposizione Universale di Parigi, un viso composta da un intreccio di decine di corpi


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Oppure straordinari lavori nella Certosa di Trivulsi a cominciare dal ritratto in trompe l’oeil di Fra Benedetto Ricciardi, il monaco speziale dell’epoca, che sembra uscire da una porta, per salutarci sorridendo.


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Per poi proseguire nel ritratto del dispensiere, Fra Michelangelo, che appare nel dipinto con un volto rubicondo contornato da una barba bruna, mentre sorregge una brocca di rame chiaro riferimento alla sua attività nella comunità monastica.


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O pavimento musivo, con una enorme clessidra alata inscritta in un cerchio, attorno alla quale sono disposti i nomi delle virtù umane (ma non solo teologiche): costanza, saggezza, moderazione, verità, sincerità, obbedienza, pazienza, compassione, perseveranza, fedeltà, perfezione, rettitudine. Al centro, la scritta “Memini, volat irreparabile tempus” (“Ricorda, il tempo vola irreparabilmente”). Esternamente, sfere e cuori concentrici, in bianco e rosso. oppure la sua peculiare interpretazione del quadrato magico del Sator


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O infine la sua Allegoria dell’Abbondanza e dell’Avarizia, con le sue feroci caricature dei difetti umani


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Published on April 05, 2019 13:02

April 4, 2019

Il Caso Kravcenko

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Qualche giorno fa, ho letto un post di Davide Del Popolo Riol, che riproduco interamente e che raccontava una storia che non conoscevo


Nel 1944 Viktor Kravcenko, addetto commerciale sovietico in missione negli Stati Uniti, decide di abbandonare l’Urss. Nel 1946 dà alle stampe la sua storia, Ho scelto la libertà, in cui racconta dei gulag, delle purghe, della vita dei comuni cittadini sovietici negli Anni Trenta. Il libro ha un grande successo e viene tradotto in ventidue paesi.


Anche in Francia, dove la rivista Les lettres francaise pubblica tre articoli (il primo di un autore che risulta inesistente) in cui si sostiene che non è stato Kravcenko a scrivere il libro ma i “menscevichi”, che Kravcenko è un agente dei servizi segreti Usa, che è un ubriacone e un ladro, un dongiovanni violento con le donne e che, in definitiva, chi critica Stalin non può che essere un fascista.Kravcenko non ci sta e denuncia per diffamazione gli autori degli articoli e il direttore della rivista al Tribunale di Parigi.


Il processo si svolge tra il gennaio e il marzo del 1949 e vi assiste Nina Berberova. Scrittrice che diventerà famosa negli Anni Sessanta, a quell’epoca non ha un soldo e vive ospite di un’amica, collaborando con una rivista di fuoriusciti russi. Assiste tutti i giorni alle udienze, che si concludono in serata, e ne scrive un resoconto che il giorno dopo esce sulla rivista. L’insieme dei suoi articoli viene poi riunito in un libro Il caso Kravcenko, pubblicato in Italia da Guanda.


Ciò che emerge subito dai suoi articoli è (l’apparente) assenza di carattere “letterario”. Non c’è mai la voce dell’autrice, quasi mai sue considerazioni, raramente descrive gli attori della vicenda, e si limita a un resoconto asettico, quasi dattilografico, di ciò che accade. Ma che cosa racconta!


Il dibattimento è serrato, incalzante come in un legal-thriller. Kravcenko è appassionato e veemente, urla, si arrabbia, si commuove, protesta, accusa i suoi accusatori. Il suo difensore principale, l’avvocato Izard, uno dei migliori legali francesi, deputato socialista, eroe della Resistenza, autore di libri sul marxismo, è sottile e ironico, informatissimo sulla storia del comunismo.


La prima difesa degli imputati è semplice: loro sono stati partigiani, accusarli significa rinnegare la Resistenza. Hanno dalla loro un gruppo di periti che sostengono che Kracvenko è una specie di analfabeta quindi non può aver scritto un libro, e che tra il primo manoscritto e l’edizione definitiva ci sono modifiche, quindi è stato manipolato, e dunque non lo ha scritto lui.


Chiamano a testimoniare funzionari sovietici e intellettuali francesi e internazionali. Il loro obiettivo è dimostrare che Kravcenko è un bugiardo: non ha mai frequentato l’Università di Kharkov, non ha mai diretto una fabbrica, non è mai stato un alto dirigente del Partito (“tra un po’ diranno che non sono mai esistito”, commenterà lui a un certo punto). I funzionari sovietici, abituati ai processi staliniani, sottoposti al controesame si contraddicono, mentono in maniera plateale, il pubblico ride, li prende in giro. Soprattutto, sovietici e francesi giurano che in Urss tutti sono liberi e felici, che il popolo è prospero e ricchissimo, che non ci sono gulag né persecuzioni.


Ma ci sono i testimoni di Kravcenko. Come per miracolo, in migliaia, in cinquemila!, hanno scritto da tutta Europa a lui, ai suoi avvocati, alla corte, esuli russi sfuggiti a Stalin che non desiderano altro che raccontare la propria storia. E come lo fanno! Davanti alla corte sfilano contadini e operai, una sarta, persone umili e povere, che raccontano di essere state arrestate, della vita nei gulag, delle purghe, della grande carestia ucraina, dei privilegi della nomenklatura, della povertà diffusa. Sui banchi della difesa si ride durante queste testimonianze e la corte li rimprovera (“qui non c’è niente da ridere!”).


Il colpo definitivo è forse la deposizione di Margarete Buber-Neumann. Comunista e scrittrice tedesca, vedova di Heinz Neumann, membro del Comintern, racconta di come si siano rifugiati in Urss per sfuggire ai nazisti, di come il marito sia stato ucciso in Russia e lei imprigionata, di come lei, con altri rifugiati antinazisti, sia stata infine consegnata dall’Nkvd alla Gestapo per essere rinchiusa a Ravensbruck.


La conclusione del processo però è agrodolce: i giornalisti vengono condannati a un risarcimento pecuniario (centocinquantamila franchi) per aver negato la paternità dell’opera di Kravcenko e per averlo insultato. La corte non si esprime però sulla veridicità della sua descrizione dello stalinismo, non avendo sufficienti elementi per giudicare.


Bisognerà aspettare Solcenicyn per far capire a (quasi) tutti che cosa è stato l’arcipelago gulag.


Un racconto che sembrerebbe una pura curiosità storica; d’altra parte a chi importa più di Stalin e dei gulag ? Anzi, se si affronta il discorso, c’è sempre il presunto intellettualone di Sinistra, che magari non ha mai letto Marx in vita sua, pronto ad accusare chi lo fa di simpatie per il Fascismo e di revisionismo, termine talmente vago da potersi applicare a ogni cosa.


In realtà, è molto più vicina a noi di quanto si pensi: in questi anni, in Italia, stiamoo cominciando a vivere nella società della post-verità, ovvero una società in cui non esiste un concetto di verità condivisa, in cui si afferma il primato dell’Ideologia, semplicistica come può essere il misticismo tecnologico dei Cinque Stelle o il Sovranismo leghista sulla complessità del Reale.


In cui, il semplice dire la Verità, si sta trasformando in un gesto rivoluzionario… Per questo dobbiamo avere il coraggio di accettarla, con i suoi limiti e contraddizioni e di affermarla sempre e comunque, contro chi vorrebbe negarla, per le affermare le sue paure, i suoi interessi o le sue illusione.


Perchè, per quanto possiamo chiudere gli occhi dinanzi a questa, la Realtà vince sempre…

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Published on April 04, 2019 11:41

April 3, 2019

Gatto con il topo


Il piano di Attila era di giocare come un gatto con il topo, in modo da potere avere prove inequivocabili del complotto in corso. A facilitare i suoi piani, fu paradossalmente lo stesso Prisco, il quale ignaro di tutto e stanco delle vanterie senza costrutto di Bigilas, decise di prendere in mano la situazione


Appena si fece giorno sperammo che il barbaro avesse potuto fare qualche dichiarazione mite e conciliante, ma invece inviò nuovamente gli stessi uomini e ci ordinò di partire, a meno che non avessimo avuto altro da dire oltre alle cose che loro già sapevano. Noi non rispondemmo e ci preparammo per il viaggio, anche se Bigilas sosteneva ostinatamente che avremmo dovuto sostenere di avere altre cose di cui parlare. Quando notai che Massimino era in grande sconforto, interpellai Rusticius, che conosceva a fondo la lingua dei barbari e che era venuto con noi nella Scizia, non per il bene dell’ambasciata, ma per incarico di Costanzo. Era un italico che Ezio, il generale dei Romani d’occidente, aveva mandato da Attila come suo segretario. Lo inviai da Scottas, perché Onegesius non c’era in quel momento. Inviando lui attraverso Rusticius come interprete, mandai a dire che avrebbe ricevuto molti doni da Massimino, se avesse fatto in modo di ottenere per noi l’accesso presso Attila. Inviare Massimino come ambasciatore sarebbe stato redditizio, dissi, non solo per i Romani e gli Unni, ma anche per Onegesius, che, come l’imperatore desiderava, si sarebbe dovuto recare presso di lui [Attila] per comporre le controversie tra le due nazioni, e che in tal modo avrebbe ottenuto vantaggi molto grandi. Poiché Onegesius non era presente, proposi che sarebbe stato vantaggioso per lui aiutarci – o meglio il fratello – in questa nobile impresa. Dissi anche che avevo appreso come Attila nutrisse fiducia in lui, ma che le relazioni su di lui non apparivano veritiere, se non avessi conosciuto il suo potere, per esperienzapersonale. In risposta egli disse che non avremmo dovuto più dubitare sul suo parlare o agire, aparità di condizioni con il fratello, di fronte ad Attila. Poi montò subito a cavallo e si diresse alla tenda di Attila


Quindi tornai da Massimino, che, con Bigilas, era turbato e affranto, nelle attuali circostanze. Riferii quello che avevo detto a Scottas e quello che avevo udito da lui; proposi che fosse necessario preparare dei regali per il barbaro, e considerare ciò che si doveva dire a lui. Tutti e due balzarono in piedi, poiché erano distesi sull’erba, lodarono la mia iniziativa e richiamarono quelli che erano già partiti con le bestie da soma. Poi discutemmo su come affrontare Attila e come presentarci a lui con tutti i doni dell’imperatore e le altre cose che Massimino aveva portato per lui.


Così, sembrò come l’azione dello storico avesse avuto buon esito. Ma in realtà, il khan degli unni, agì con intelligenza machiavellica, seperando i colpevoli del complotto da chi non ne sapeva nulla


Mentre eravamo così impegnati Attila ci convocò attraverso Scottas, e così giungemmo alla sua tenda, che era custodita da una banda di barbari tutto intorno ad essa. Quando facemmo il nostro ingresso trovammo Attila seduto su un sedile di legno. Siccome eravamo leggermente in disparte rispetto al trono, Massimino avanzò, salutò il barbaro, e gli diede le lettere dell’imperatore, affermando che l’imperatore pregava affinché lui e i suoi sudditi fossero sani e salvi.


Egli rispose che per lui i Romani avrebbero potuto ottenere ciò che volevano. Subito, rivolse le sue parole contro Bigilas, chiamandolo una bestia senza vergogna, e gli chiese perché insisteva nel voler venire a lui quando conosceva bene i termini proposti da lui e Anatolio per la pace, aggiungendo che aveva detto che gli ambasciatori non dovevano recarsi da lui prima che tutti i fuggitivi fossero stati riconsegnati ai barbari.


Bigilas rispose che non c’era più un solo rifugiato Scita presso i Romani, in quanto tutti costoro erano già stati restituiti. Attila divenne ancora più furente e, inveendo contro di lui con violenza,disse gridando che lo avrebbe impalato, e lo avrebbe dato in pasto agli uccelli, se non fosse ritenuto un oltraggio, per la legge delle ambasciate, infliggere questa punizione per la sua sfrontatezza e sregolatezza della parola. Disse poi che c’erano stati, tra i profughi romani, molti della sua razza il cui nome, scritto su una pergamena, ordinò ai suoi segretari di leggere. Quando terminò l’elenco, ordinò a Bigilas di ripartire senza ulteriori indugi.


 Mandò Eslas con lui per dire ai Romani che avessero inviato, di nuovo, a lui tutti i barbari che erano fuggiti da loro dal momento in cui Carpileon – che era uno dei figli di Ezio, il generale dei romani d’occidente – era stato un ostaggio alla sua corte. Non avrebbe permesso ai suoi servi di andare in guerra contro di lui, anche perché costoro non erano in grado di aiutare coloro che si rivolsero loro per la protezione della loro terra d’origine, perché, disse, quale città o fortezza che lui avesse deciso di catturare, sarebbe potuta essere difesa da questi profughi ?


Quando a Bigilas ed Eslas ebbe annunciato le sue deliberazioni concernenti i fuggitivi, ordinò loro di tornare e riferire se i Romani erano disposti a cedere, o se avevano intenzione di intraprendere la guerra per loro conto. Ordinò anche, e prima di tutto, che Massimino rimanesse presso di lui così che, per suo tramite, avrebbe potuto rispondere all’imperatore riguardo alle cose scritte, ed infine accettò i doni. Dopo averli presentati tornammo alla nostra tenda, e discutemmo in privato su ciascuna delle cose che erano state dette.


Ovviamente il buon Bigilas, invece di intuire come qualcosa fosse andato storto e di come si stesse infilando in una trappola ben architettata, vi abboccò come un tonno


Bigilas era sorpreso del fatto che Attila fosse sembrato dolce e gentile con lui, quando aveva fatto da ambasciatore in precedenza, mentre ora si scagliava contro di lui con tanta durezza. Dissi poi che avevo paura che alcuni dei barbari che avevano banchettato con noi a Sardica potessero aver reso ostile Attila, riferendogli che lui aveva chiamato l’imperatore dei Romani un dio, e Attila un uomo. Massimino accettò questa spiegazione, come probabile, dal momento che, in realtà, Bigilas non era un complice nella cospirazione che l’eunuco aveva ideato contro il barbaro. Ma Bigilas era in dubbio e appariva veramente sconvolto per come Attila lo aveva affrontato. Non riteneva, come ci disse in seguito, che i fatti di Sardica, o i dettagli del complotto fossero stati riferiti ad Attila, dal momento che nessun altro al mondo, a causa della paura che prevale su tutto, avrebbe avuto il coraggio di entrare in conversazione con Attila, e Edeco avrebbe avuto tutto da perdere a causa di quel giuramento e dell’incertezza della missione; perché egli, come partecipante a tali piani, poteva essere sospettato di essere stato favorevole ad essi, e avrebbe potuto subire la pena di morte.


Mentre eravamo in questo grande dubbio, Edeco andò e condusse Bigilas fuori del nostro gruppo, fingendo di essere seriamente intenzionato sul complotto. Diede gli ordini per l’oro da portare a coloro che sarebbero stati coinvolti con lui e se ne andò. Quando chiesi in confidenza [a Bigilas] ciò che gli aveva detto Edeco egli cercò di ingannarmi – ed ingannare se stesso – nascondendo la vera spiegazione, e affermando che Edeco [gli] aveva riferito che Attila era arrabbiato con lui a causa dei fuggitivi, perché era necessario che venissero riconsegnati tutti o che venissero inviati a lui ambasciatori del più alto rango.


Mentre stavamo discutendo questi argomenti alcuni del seguito di Attila giunsero e riferirono, a Bigilas e a noi tutti, di non comprare alcun romano prigioniero, o schiavo barbaro, o cavalli o qualsiasi altra cosa, tranne le cose necessarie per il nostro sostentamento, fino a quando le controversie tra Romani e Unni fossero state risolte


Il barbaro fece questo con astuzia, in modo che Bigilas fosse facilmente coinvolto nell’ azione rivolta contro di lui – e sarebbe stato tradito per il motivo di avere con sè l’oro – e anche in modo che noi potessimo attendere Onegesius per ricevere i regali dell’imperatore che volevamo recargli, ed aveva usato la pretesa di una risposta da dare all’ambasciata.


Prima di proseguire nella sua descrizione sul suo soggiorno presso Attila, Prisco fa una piccola digressione, sempre mostrando come la diplomazia romana, non solo fosse di gran lunga inferiore rispetto a quella unna, ma fosse nelle mani di colossali idioti


Accadde dunque che Onegesius, con il maggiore dei figli di Attila, era stato inviato presso la nazione di Akatiri. Questa è una nazione degli Unni che si è sottomessa ad Attila per il seguente motivo. La nazione ha avuto molti governanti, divisi secondo le tribù e clan, e l’imperatore Teodosio aveva inviato loro dei doni in modo che, con il suo sostegno morale, potrebbero rinunciare alla loro alleanza con Attila e unirsi in alleanza con i Romani. Ma l’uomo che aveva recato i doni non li aveva distribuiti ai re a seconda del grado di ciascuno. Il risultato fu che Kouridachus, l’anziano in carica, ricevette i doni per secondo, e così, ritenendo di essere stato trascurato e privato degli onori adeguati, chiamò Attila contro i suoi compagni. Senza indugio Attila aveva inviato una forza e, dopo averne uccisi alcuni e sommessi altri, invitò Kouridachus a condividere i premi della vittoria. Ma lui, sospettando un complotto, rispose: ‘E’ difficile per un uomo di accedere alla presenza di un dio, perché se non è possibile guardare direttamente il disco del sole come potrebbe chiunque guardare il più grande degli dei senza soffrirne ?’


Così Kouridachus poté rimanere nei suoi territori e salvò il suo dominio, quando tutto il resto della nazione del Akatiri era stato sottoposto ad Attila. Volendo nominare il suo figlio maggiore re di questa nazione Attila aveva inviato Onegesius per questo scopo. Perciò, come si è detto, ci costrinse ad aspettare, mentre Bigilas ed Eslas ripartivano per territorio romano con il pretesto dei fuggitivi, ma, in verità, in modo che Bigilas potesse recare quell’oro per Edeco.

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Published on April 03, 2019 12:46

April 2, 2019

Salvator Mundi

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Diciamola tutta: non manca anno che salti fuori la notizia del ritrovamento di un Caravaggio o Leonardo perduto. Molto dipende dal fatto che i due pittori, in maniera diversa, sono due icone pop; l’uno rappresenta il bello maledetto, l’altro il grande saggio pieno di misteri, una sorta di Gandalf o di Silente del Rinascimento.


Sono convinto che un Tiziano o un Piero della Francesca riapparsi dal nulla, sarebbero accolti con assai meno scalpore. Tuttavia, al di la dell’immaginario che è fiorito attorno ai due pittori, per entrambi vi sono oggettivi nel delimitare il loro catalogo.


Caravaggio, con l’ausilio della camera ottica e di altri artifici tecnici, ha avuto una produzione copiosa, replicando più volte uno stesso soggetto: in più, ebbe anche in vita abili falsari, come il maestro di Carpineto e ottimi imitatori, ad esempio Bartolomeo Manfredi.


Leonardo fu invece a capo di una bottega numerosa, che produceva, quadri e oggetti che oggi chiameremmo di design, in quantità indistriale; opere che il genio fiorentino concepiva, delineava a grandi linee, magari anche rifiniva, ma che venivano realizzate per gran parte dai suoi allievi.


Proprio per questo le polemiche sull’attribuzione oltre ad essere accese, probabilmente mai si placheranno. L’ultimo caso è il Salvator Mundi: sappiamo che, poco prima di abbandonare Milano per la caduta degli Sforza, Leonardo avrebbe dipinto una tavola del Salvator mundi, con la mano destra per benedire e nella sinistra tiene il globo, simbolo del suo potere universale, ispirato alla tradizione fiamminga.


Opera destinata che era destinata a un committente privato a cui, alcuni studi grafici, conservati soprattutto al castello di Windsor, possono essere riferiti.


Quadro di cui si erano perse le tracce, ma di cui avevamo un’idea del suo aspetto, grazie all’incisione di questo soggetto che nel 1650 circa ne aveva tratto Wenceslaus Hollar e ad alcune copie, come quella appartenente marchese de Ganay, opera forse di Francesco Melzi, che Leonardo nominò nel suo testamento erede di


“tutti et ciascheduno li libri che edicto testatore ha de presente et altri istrumenti et portracti circa l’arte sua et industria de pictori”


e la tavola conservata nella Cappella Muscettola di San Domenico Maggiore a Napoli, opera forse di Cesare da Sesto, che diffuse lo stile leonardesco in sud Italia.


Copia, quelle di de Ganay, che ebbe una storia avventurosa: comprata dal re di Francia Luigi XII, e poi sarebbe passato a Carlo I Stuart e Henrietta Maria, come dono di nozze per i due sovrani inglesi. Tuttavia Carlo I Stuart viene decapitato nel 1649 e nel 1651 la sua collezione viene messa all’asta. Il quadro in questione viene così descritto:


«A peece of Christ done by Leonardo at 30.00,00 / sold to Stone / 23 Oct. 1651».


Lo acquista John Stone che poi, nel 1659 lo restituisce a Carlo II Stuart, che, rientrato in città nel 1666 dopo la peste, fa inventariare sotto questo titolo il Salvator Mundi:


«Leonard de Vince our Savior with a globe in one hand and holding up the other».


Il quadro passò a suo figlio Giacomo, il terzo Re a possedere il quadro. Tuttavia ben presto dovette fuggire dall’Inghilterra e il quadro passò nelle mani della sua amante, Catherine Sedley, la cui figlia portò in dote questo quadro in occasione del matrimonio con John Sheffield. Passato di padre in figlio e tenuto in condizioni precarie, la famiglia si stancò presto di possedere questo quadro. Risultato? Fu venduto all’asta, il 24 febbraio 1763, per 2 sterline. Due. Durante l’Ottocento passò nelle mani del Marchese De Ganay


Il presunto originale, sta avendo una storia altrettanto originale: dopo l’occupazione francese di Milano, finì in un convento di Nantes, il cui patrimonio fu disperso durante la Rivoluzione Francese. Il quadro ricompare a fine Ottocento: viene acquistato per conto di Francis Cook, che, convinto di non possedere un capolavoro, lo lasciò in uno stato precario e allora, nel 1958, fu venduto per 45 sterline.


Nel 2005 invece fu acquistato da un americano, Robert Simon, una sorta di “cacciatore” di opere d’arte minori, per 10000 dollari. L’opera venne portata ai curatori del Metropolitan Museum per una valutazione e poi a quelli del Museum of Fine Arts di Boston, curatori che però non si pronunciarono. Infine nel 2010 fu portato alla National Gallery dove Nicholas Penny, il direttore, invitò quattro studiosi per valutarlo: Carmen C. Bambach, curatrice del dipartimento di grafica del Metropolitan Museum, Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio, studiosi milanesi autori di diversi saggi su Leonardo e sul Rinascimento, e Martin Kemp, professore emerito di storia dell’arte all’Università di Oxford e noto studioso di Leonardo. I pareri furono tutti positivi, così si decise di procedere al restauro e di esporre l’opera alla grande mostra monografica su Leonardo che si tenne nel museo londinese dal 9 novembre 2011. Scelta, ad onor del vero, che fu assai contestata.


Un colpo di scena che ne fece salire verticalmente la quotazione, tanto che nel 2013 la tela fu venduta all’oligarca russo Dmitrij Rybolovlev per 90 milioni. Passano altri anni e altre storie e, nel 2017, Rybolovlev, forse stufo di avere un Leonardo appeso in casa, chiama Christie’s e chiede che mettano in vendita il quadro; in un’asta infuocata, in cui secondo il New York Times si sfidarono il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman e forse un rappresentante della Corte degli Emirati Arabi, il prezzo del quadro passò da 90 a 450 milioni di dollari.


Il museo Louvre di Abu Dhabi, partner del ben più noto Louvre di Parigi, annunciò, un mese dopo la vendita, che il capolavoro sarebbe arrivato ad arricchire la sua collezione. Ma la presentazione programmata a settembre dello scorso è stata annullata e del dipinto al museo non c’è traccia. Il dipartimento culturale degli Emirati arabi uniti, secondo quanto si legge sul Nyt, non ha mai voluto rispondere alle domande sull’ubicazione dell’opera. Da parte sua, il personale del museo di Abu Dhabi ha dichiarato al quotidiano statunitense di non sapere dove si trovi il dipinto. E pure l’ambasciata saudita a Washington ha rifiutato di commentare.


E già si potrebbe scrivere un romanzo, pensando a chissà quali giochi di potere nell’Arabia Saudita; ma complicare ulteriormente lo scenario, è saltata fuori una strampalata teoria, che tira in mezzo anche il buon Trump, affermando come l’acquisto del quadro non sia nulla più che una copertura per un pagamento per i servizi di una società specializzata nelle fake news, che orchestrò la sua campagna elettorale.


Più semplicemente, però, l’acquirente potrebbe aver deciso di tenere per sé il capolavoro, in un luogo privato; oppure potrebbe aver ceduto alle voci che affermano che l’attribuzione leonardiana non sia vera, decidendo di sottoporre il quadro a ulteriori controlli…

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Published on April 02, 2019 07:17

April 1, 2019

Ribera e il Martirio di san Bartolomeo

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Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto, è forse una delle personalità più affascinanti e meno capite del Barocco. Gli nuoce forse il suo essere straniero a Napoli, che spesso, ai critici dei secoli successivi, lo farà considerare una sorta di invasore, che, a causa del suo sangue iberico, ama il grottesco e il patetico e portando all’eccesso ogni emozione, rompe qualsiasi equilibrio classico.


Jusepe è qualcosa di più: un artista colto e sempre pronto a rimettersi in discussione. Il punto di partenza della sua riflessione è, come tanti della sua generazione, Caravaggio: scopre la sua arte nella bottega del suo maestro, l’austero Francisco Ribalta, e tanto è il suo amore per il gran lombardo, che lo spinge a lasciare la patria, per conoscere le origini della sua pittura.


Così, va a Milano e a Cremona, per catturare le origini del naturalismo di Caravaggio, per passare a Roma, a studiare le sperimentazioni della sua maturità e a Napoli, per esplorare il dramma di carne, luce e ombra dei suoi ultimi quadri.


In parallelo Ribera riflette e seleziona le radici culturali della pittura del Merisi, l’influenza di Michelangelo, il pathos ellenistico, l’amore per il teatro. E proprio su questo ultimo punto, le loro strade si separano.


Per Merisi, uomo nato e cresciuto nella Controriforma, il teatro è Epifania, manifestazione del Divino nel Mondo, che evidenzia tutte le debolezze dei nostri peccati e ci mostra la possibilità della Redenzione, cose che si concretizzano nelle Sacre Rappresentazioni.


Al contrario, per Ribera, il teatro è ricerca del Sublime, ossia, per citare lo pseudo-Longino, ciò che


trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all’estasi: perché ciò che è meraviglioso s’accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore.


Per questo il suo riferimento non è San Filippo Neri, ma il Seneca delle Tragedie, pieno di retorica, che qualcuno, usando un termine moderno, chiamerebbe pulp.


Tragedie basate su scontri di forze contrastanti e sul conflitto fra ragione e passione, in cui la filosofia stoica mostra i suoi limiti e il suo fallimento, poichè il logos, il principio razionale che governa del mondo, si mostra incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male.


Così in una realtà dai toni cupi e atroci, si svolge un conflitto fra bene e male dalla dimensione cosmica e dalla portata universale, lo stesso che vive nelle tele di Ribera. Un esempio di tale tensione è in uno dei temi che affascina a lungo il pittore, dato che gli dedicherà molte opere: il martirio di San Bartolomeo.


La storia, come qualcuno sa, è tratta dalla Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, secondo la quale Bartolomeo, dopo aver guarito la figlia indemoniata del re armeno Polemio, causò la conversione del sovrano, della moglie, dei suoi figli e di tutta la popolazione al cristianesimo, provocando l’ira del fratello del re, Astrage, che inviò un esercito di mille soldati per catturare l’apostolo. Appresa la notizia che la statua dell’idolo Baldach era caduta frantumandosi poiché Bartolomeo, rifiutatosi di adorarla, l’aveva distrutta miracolosamente per mezzo della propria fede cristiana, Astrage, furibondo, ordinò che l’apostolo venisse prima percosso con dei bastoni e successivamente scorticato vivo.


Una delle versioni di tale martirio è quella di Firenze, conservata nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti; composizione colta e studiatissima, che reinterpreta il Martirio di San Matteo e la Crocifissione di San Pietro di Caravaggio, con il corpo stanco e anziano del santo che taglia in diagonale la tela e scandisce lo spazio con un vortice, originato dall’incrociarsi delle gambe e l’aprirsi delle braccia, che quasi trascina lo spettatore nella tela, catalizzandone lo sguardo.


Effetto accentuato da un altro trucco retorico mutuato da Caravaggio, l’occhio di bue, la luce diretta che da sinistra illumina il corpo del santo: assuefatto lo sguardo a questo grido di dolore e di carne, appaiono tutte simmetrie e le contrapposizioni su cui, come in sonetto del Marino, è costruita l’opera.


Il pathos del volto di Bartolomeo sfida il ghigno beffardo dei due carnefici, ispirati alle ultime opere napoletane di Caravaggio, posti ai lati opposti della scena, l’uno, rivestito di stracci consunti, intento a legare le caviglie del martire, l’altro in attesa di adoperare il coltello che stringe nelle mani.


Il Dio impalpabile, quasi assente, che sembra ignorare il destino del suo servo, si contrappone alla divinità pagana spezzata, quasi una prefigurazione delle statue di Mitoraj, dallo sguardo rivolto a terra, che proprio per accentuare il contrasto, nell’atmosfera allucinata spicca con la sua mimesi dell’antico, costruito con la tonalità pastosa e consistente del bianco, una coltellata cromatica nel buio della tela.


La stessa mimesi che esplode nella rappresentazione del tronco spezzato sull’estrema sinistra della composizione, allusione al brusco interrompersi della vita del martire, la cui violenza è opposta all’indifferenza delle figure sullo sfondo, alcuni soldati e un vecchio incappucciato, che ignorano il dramma prossimo a compiersi.


Figure, che, vuole dirci Ribera, sono assai simili a ciò che siamo, con la nostra capacità di chiudere gli occhi dinanzi alle tragedie che incontriamo ogni giorno, per tirare avanti, chiusi nel nostro “particulare”, unica difesa per non impazzire…

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Published on April 01, 2019 12:46

March 31, 2019

Il vicus di Molina Aterno

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Il fascino dell’Abruzzo è legato al fatto che, nei luoghi più impensati, saltano fuori tracce di un passato inaspettato. Un esempio, è il Molina Aterno, un paesino, con meno di quattrocento abitanti, in provincia dell’Aquila, il cui nome deriva dal tardo latino molina, con il significato di molino in quanto la zona ne è particolarmente provvista. La seconda parte del nome è stata aggiunta nel 30 giugno 1889 e si riferisce al passaggio del fiume Aterno.


La presenza umana nel suo territorio sin dalla tarda età del bronzo è provata dalla presenza delle cinte murarie megalitiche di Mandra Murata, sulla montagna ad est di Molina, e di Colle Castellano, testimonianze della civiltà appennica. Cinte megalitiche che servivano sia al controllo dei tratturi, sia come rifugio per le greggi e luogo di tosatura e produzioni di formaggi.


Presenza umana che continuò nel tempo, come testimoniato dal rinvenimento nel territorio di buccheri italici risalenti al VI secolo a.C. , tombe, mura e mosaici, capitelli ed epigrafi romane. Uno scavo archeologico del 1877 presso la stazione ferroviaria restituì un cippo con dedica ad Ercole, risalente al I secolo a.C., particolarmente venerato in zona come protettore dei pastori.


Nella contrada chiamata Campo Valentino e nella contrada Pretoli, intorno al lago Acquaviva, già nel secolo scorso si scoprivano regolarmente mura, tombe, mosaici, sepolcri, capitelli, una statua priva di testa, una grande idria di creta finissima (ora conservata nel palazzo dei signori Pietropaoli) ed ancora: ceramiche, rocchi di colonne, monete e alcune iscrizioni, di cui parlerò poi.


Negli ultimi anni, questi scavi, che erano stati eseguiti senza particolare interesse scientifico, ma solo per raccattare materiale da vendere a collezionisti, sono stati ripresi, portando alla scoperto di un vicus.


L’area scavata è attraversata da una strada, lungo la quale si distribuiscono numerosi ambienti che individuano zone con diversa destinazione d’uso. Sono state localizzate, infatti, aree residenziali, i cui ambienti hanno mura intonacati e pavimenti pregiati in mosaico e in cocciopesto. Zone pubbliche che, invece, sono delineate da grandi spazi aperti, in alcuni casi porticati, lungo i quali è collocata una struttura tripartita con ambiente centrale pavimentato a mosaico e ingresso incorniciato da due colonne, da interpretare come edificio sacro.


Di grande interesse è il quartiere destinato alle attività artigianali, contraddistinto contraddistinto da una complessa articolazione degli spazi interni e servito da un canale. L’insediamento sorse ed ebbe un fiorente sviluppo tra la fine del II° e il I° secolo a.C. per essere poi abbandonato a seguito di un terremoto, Dopo un periodo di abbandono, l’area vene utilizzata in età tardo antica sia a scopo abitativo e in alcuni casi l’articolazione interna dei vani venne modificata per esigenze di sepoltura, a scopo funerario, per essere poi abbandonato, a seguito delle invasioni barbariche.


Tuttavia è possibile come il vicus fosse a sua volta parte di una realtà urbana più ampia e articolata. A testimonianza di questo vi sono le iscrizioni, murate nel marciapiede di piazza S. Nicola, nelle quali si attestano le presenze dei seguenti amministratori pubblici: aediles, per la gestione dei lavori pubblici, duoviri, una versione locale dei consoli, e prefecti iure dicurldo, magistrati che dal pretore urbano erano delegati alla giurisdizione di città distanti dall’urbe dette praefecturae


 


 


 

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Published on March 31, 2019 12:21

March 30, 2019

I stigghiola

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Sempre parlando di cibo da strada palermitano, oggi è il turno de i stigghiola specialità, che, per i romani, utilizza la stessa materia prima dei nostri digiuni d’abbacchio, ossia la sezione centrale dell’intestino tenue.


In entrambi i casi, questa si cucina alla brace, ma con una differenza: a Palermo le interiora, dopo essere state lavate in acqua e sale e condite con cipolla e prezzemolo, vengono arrotolate attorno a un cipollotto di scalogno, in modo da formare una sorta di involtino. Questo le rende eredi di una lunga tradizione, risalente al mondo greco bizantino, che propone, in giro per il Mediterraneo, numerosi piatti simili, basati sulle interiora d’agnello.


In Grecia, abbiamo, il kokoretsi, una stigghiola extralarge, cucinata di solito nel periodo pasquale, in cui lo scalogno è sostituito da un ripieno di fegato, cuore e polmoni. In Turchia e nei Balcani vi è il kokorec, dove, i digiuni d’agnello, dopo essere cucinate arrotolate attorno a un lungo spiedo, viene tagliato a fette e in seguito a pezzettini, saltato con pomodori, peperoncino e peperone, insieme ad altre spezie.


In Sardegna, il kokoretsi assume il nome di sa trattalia ed esiste anche variante, realizzata con lo stomaco dell’agnello, la sa corda. Nel complesso mondo del Catepanato d’Italia, da Gaeta a Rhegion, si mangia un qualcosa di simile alle stigghiole, chiamati genericamente gnummareddi, benché la metodologia di cottura sia assai diversa.


Tornando alle nostre stigghiole, l’antichità di tale piatto è testimoniata anche dal nome, che deriva anche dal latino Extilia, che significa appunto intestino, budella.


Le bancarelle degli stigghiolari sono in piena attività soprattutto di pomeriggio, quando cominciano a preparare la griglia con la brace, in largo anticipo rispetto alla cottura del piatto. Ciò che attira praticamente tutti è il fumo che si leva alto, tanto da dare origine al detto locale


Cca in giru c’è u stigghiularu ca v’attira sulu sulu c’u ciavuru senza bisuognu r’abbanniari!


ossia, in Italiano


Qui vicino c’è un venditore ambulante di stigghiole che senza bisogno di dire nulla ti attrae col solo profumo


I stigghiola sono protagoniste anche nella versione domestica delle arrustute (grigliate), tanto che il palermitano


s’ava addumari a rarigghia a prima cosa c’hannu a essiri i stigghiola va sinnó un c’avi piaciri


che tradotto da


se il palermitano deve accendere il braciere è meglio che ci siano anche le stigghiole se no non c’è piacere.


Essendo i stigghiole molto grasse, vanno mangiate caldissime, quindi, per evitare agli avventori lunghe e fastidiose attese davanti al rogo fumante, lo stigghiularu le cuoce parzialmente in anticipo e poi le sposte lateralmente sulla griglia in modo che si mantengano calde, senza però bruciare. Prima della consumazione, sono rimesse sulla brace per ultimare la cottura. Quindi vengono tagliate a piccoli pezzi e servite con una spolverata di sale e del limone spremuto sopra.


Dopo tutte queste chiacchiare, però, è il caso di tornare al dunque: dove si possono mangiare buone stigghiole a Palermo ? I migliori stigghiulari si possono trovare di fronte al mercato ittico, in piazza Kalsa, in viale Regione sotto il ponte vicino ai Pagliarelli, in via Ernesto Basile Alta, nella corsia che scende verso il centro (zona università), in via Altofonte e a Brancaccio, nella zona industriale.


Insomma, fuori dai soliti giri turistici, però, insomma, la fatica per trovarli viene abbondantemente ricompensata…

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Published on March 30, 2019 10:01

March 29, 2019

Sul Tempo e sul Decoro

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Dal punto di vista marxista, l’evoluzione tecnologica pone un grosso problema al sistema capitalista: aumentando la produttività per singolo lavoratore, permette alle imprese di ottenere un volume maggiore di merci, lasciandone però invariato il valore.


In teoria, diminuendo il tempo necessario alla produzione della merce, aumenterebbe il plusvalore, ma il mercato, saturandosi con maggiore rapidità e imponendogli di conseguenza una riduzione del prezzo, affinché la merce non rimanga invenduta, compensa tale effetto.


Di conseguenza, il sistema capitalista si è inventato diverse soluzioni per compensare tale effetto: il più banale, è stata la creazione e la ricerca di nuovi mercati, per poi passare alla trasformazione della merce da bene durevole a bene transitorio, basti pensare all’obsolescenza programmata degli elettrodomestici o la feticizzazione tramite marketing, come quella indotta sugli smartphone e il sottoutilizzo della forza lavoro potenziale


Ciò, oltre a creare una fisiologica quota di disoccupazione, ha portato una sempre riduzione dell’orario di lavoro. Dato che però pone sempre il problema della riduzione del plusvalore, il sistema capitalista si è posto il problema di come utilizzare in qualche modo questo tempo libero, rendendolo economicamente produttivo: ciò ha causato la nascita della cosiddetta società dello spettacolo.


Fin qui, si è parlato di un modo di produzione, una struttura, tipica delle prime fasi dell’industrializzazione: ora, che si sta realizzando la singolarità tecnologica, il paradigma sta cambiando. Dal materiale si è passati al virtuale, dalla merce all’informazione, creando un’unico mercato liberato dai vincoli del tempo e dello spazio: sotto certi aspetti, ci stiamo avvicinando a una società del post lavoro, senza gli strumenti sociali e culturali utili per gestire al meglio tale transizione.


E in questo contesto, in cui la società dello spettacolo si è polverizzata, diventa primaria la questione della gestione del Tempo extra lavoro, affinché non diventi vuoto: tempo che può essere utilizzato per la propria crescita personale, all’ozio creativo, per compensare i limiti di un welfare sempre più inadeguato, il volontariato, oppure in qualche modo, come un strumento di oppressione delle marginalità, portando alla cosiddetta ideologia del decoro, un’ estetica idealista in grado di produrre nemici immaginari, nel senso che esso viene pensato e affrontato come pura immagine, senza giungere alle radici socio-economiche che portano alle situazioni cittadine limite. In


Un’ideologia che, in fondo, è l’elogio del conformismo. Scrive al riguardo Alessandro dal Lago:


Si comprende pertanto che il modello implicito e mai dichiarato di “conformità”, (nella teoria struttural-funzionalista, che ha dominato la scena sociologica per gran parte del Ventesimo secolo) ad altro non rimanda che all'”uomo in grigio”, l’abitante dei “suburbs”. Costui infatti è definito precisamente dal non cadere nella tentazione o nella pratica dei comportamenti devianti citati sopra. Non credo che sia necessario grande acume sociologico per scoprire che il cittadino conforme è quello che non partecipa ad alcun tipo di conflitto, non si mescola a culture marginali, alternative o antagoniste, non soffre di problemi personali, mentali o di comportamento, è insomma definito in tutto e per tutto da quello stile di vita che un certo cinema americano ha diffuso con successo fino all’avvento del fatale ’68 (di qua e di là dall’Oceano Atlantico). Un personaggio altrettanto irreale del protagonista di “Truman Show


Conformismo, che ad esempio, guardando con sospetto la potenza anarchica e eversiva dell’Arte, che si illude, mettendosi la coscienza a posto, pulendo un giardinetto o strappando un adesivo, ossia colpendone i sintomi superficiali, di curare i mali di una società.

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Published on March 29, 2019 04:10

March 28, 2019

Finalmente, a via Giolitti

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Come molti sanno, qualche tempo fa mi sono pubblicamente lamentato dell’inerzia da parte degli uffici preposti nel verificare le condizioni del portico di via Giolitti 225, che era stato soggetto a sequestro i primi di febbraio, a causa di possibili problemi di stabilità.


Sequestro, che ha impattato gravamente sulla vita di chi abita in quel palazzo, riducendo anche l’attività della scuola d’italiano de la Casa dei Diritti Sociali e complicando la vita al nostro buon Gaetano.


Per caso, che per effetto delle mie parole, nei giorni successivi questo benedetto sopralluogo è stato effettuato. La prima buona notizia è che il portico, grazie a Dio, non rischia di crollare sulla testa dei passanti. La seconda è che, da lunedì scorso sono cominciati i lavori di sistemazione e pulitura dell’area, che spero terminino entro questa settimana.


Dato che tutto è bene quello che finisce bene, a questo punto che si fa ? L’idea è che ad Aprile, in funzione della disponibilità di Mauro Sgarbi, santo subito, realizzeremo il nuovo murale dedicato a Gaetano. Quando sarà finito, per festeggiare la chiusura di una vicenda assurda, faremmo una bella sonata con Le danze di Piazza Vittorio…


Rimanendo in tema, continua la polemica sulla poster art all’Esquilino. Premesso che la cosa comica è chi più si riempie la bocca di rispetto delle regole, quando viene interrogato sul tema, sembra averne idee assai vaghe, tra un post e l’altro mi è venuto in mente come più di un anno fa, sulla facciata delle Viperesche, edificio ben più storico dei nostri Portici, un artista di Piazza Vittorio fece un intervento simile.


Nessuno all’epoca si stracciò le vesti. Perché non era un luogo di passaggio ? Per una sorta di razzismo nei confronti di chi vive fuori del Rione ? In realtà sospetto che la questione sia più complessa.


L’intervento dell’artista nostrano era più finalizzato a fornire uno spettacolo piacevole allo sguardo, che a fare riflettere. Per cui ha realizzato un’immagine neutra, dal contenuto rassicurante.


Ben altro fanno Pino Volpino e Collettivo Qwerty, che incidono quel bubbone di ipocrisia che nascondiamo dietro il concetto di decoro. Loro non sono sopportati non per quello che fanno, ma per ciò che comunicano…

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Published on March 28, 2019 09:50

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
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