Andrea Viscusi's Blog: Unknown to Millions, page 36
April 15, 2017
Dj set: 30th
Ogni tanto mi riaffaccio sul blog proponendo un dj set da me registrato. L'ultimo risale a un periodo non proprio sereno che è in qualche modo sublimato in musica, e anche questa volta si tratta di qualcosa del genere. Infatti gli 80 minuti che compongono il set linkato qui sotto è in qualche modo una rielaborazione del 2016, l'anno dei miei trent'anni. Questo non significa contiene pezzi del 2016, i miei set sono sempre "astorici", ma racchiude in sé il mood dell'anno da poco trascorso. Che in effetti non è un mood troppo spensierato.
30th contiene alcuni pezzi di cui ho parlato in alcuni post musicali comparsi ultimanete sul blog, ad esempio quelli di Atelier Francesco, Telefon Tel Aviv, Moderat, Stephan Bodzin e Paul Kalkbrenner. Il resto proviene da fonti varie passate e recenti, con alcuni nomi piuttosto ricorrenti. Potete sentirlo qui sotto, e con l'occasione vi ricordo che sulla mia pagina Mixcloud trovate anche gli altri miei dj set registrati negli anni.
30th contiene alcuni pezzi di cui ho parlato in alcuni post musicali comparsi ultimanete sul blog, ad esempio quelli di Atelier Francesco, Telefon Tel Aviv, Moderat, Stephan Bodzin e Paul Kalkbrenner. Il resto proviene da fonti varie passate e recenti, con alcuni nomi piuttosto ricorrenti. Potete sentirlo qui sotto, e con l'occasione vi ricordo che sulla mia pagina Mixcloud trovate anche gli altri miei dj set registrati negli anni.
Published on April 15, 2017 06:16
April 11, 2017
Coppi Night 09/04/2017 - La scoperta
Netflix ormai si è già ricavato una posizione di rilievo nell'offerta cinematografica attuale, visto che dopo le serie tv adesso ha preso a rilasciare anche film con una certa frequenza. Se alcune produzioni possono essere considerate di medio livello (ad esempio Spectral) altre rivaleggiano con il cinema "ufficiale" per regia, comparto tecnico, attori di "fascia alta". È questo il caso di The Discovery, che vede nel cast principale Robert Redford, Jason Segel e Rooney Mara e si presenta con un livello qualitativo che non sfigurerebbe visto sul grande schermo. E anche la storia è molto ambiziosa.
La "scoperta" del titolo è quella dell'aldilà. Un neurologo (Redford) ha dimostrato scientificamente l'esistenza di un qualche tipo di vita oltre la morte, o per lo meno della prosecuzione della coscienza in un'altra forma dopo la morte corporale. La scoperta, diffusa presto in tutto il mondo, ha provocato un elevato numero di suicidi, perché in fondo, che sbattersi a fare quando sai che c'è qualcosa dopo? A distanza di qualche anno dall'annuncio seguiamo il figlio dello scienziato (Segel), convocato dal padre in una villa isolata dove sta compiendo ulteriori esperimenti sull'aldilà. Durante il viaggio incontra una donna (Mara), che poco dopo è lui a salvare dal suicidio e portare all'interno della comunità del padre.
Il film prende di petto un tema molto profondo e controverso. Si potrebbe pensare che, una volta dimostrata l'esistenza dell'aldilà, si raggiungerebbe il consenso sul significato e il valore della vita, ma così non è. L'immortalità della coscienza non avalla automaticamente nessuna religione, né dà indizi ulteriori su come sia questa oltre-vita. Per cui c'è chi (come il protagonista) non è affatto convinto che il suicidio sia la scelta più vantaggiosa, e c'è chi pur non dando particolare valore alla vita non è capace di togliersela. Da questa differenze di visioni nasce il conflitto tra il protagonista e suo padre ma anche il fratello, la ragazza e gli altri ospiti/operai della villa. Ne emerge un quadro complesso, in cui non è facile identificare un'unica prospettiva corretta e rimane aperto a interpretazioni ancora differenti.
Poi però succede qualcosa. Nell'ultima parte del film viene approfondita una sottotrama di "investigazione", e nel climax finale emerge un plot twist che non sembra del tutto coerente con quanto visto fino a quel momento. È una visione comunque affascinante, che dà un nuovo significato a tutta la storia (e per certi versi, affine ad alcuni temi da me sviluppati in Dimenticami Trovami Sognami ... mica ve la prendete se ne approfitto per spiattellare con nonchalance la copertina?), però sembra essere la conclusione di una storia diversa da quella con cui il film era iniziato. Certo non mi aspettavo che fosse rivelata la "verità" sulla vita dopo la morte o che il technobabble che giustifica la scoperta fosse spiegato interamente, ma il senso finale della vicenda (così come proprio l'ultima scena) sembra adattarsi a tutt'altro tipo di storia e di conseguenza lascia incompiuto ciò che si era aperto inizialmente. Non mi sentirei di definirlo uno scivolone, perché il film gestisce comunque con competenza e intensità anche questo twist, e non si può non rimanerne colpiti. Però appunto, la conclusione fa passare in secondo piano tutta la storia precedente e si arriva quasi a dubitare che tutto la scoperta stessa abbia davvero l'impatto che si pensa inizialmente.
C'è anche da rilevare qualche difformità minore, con alcune scene leggermente fuori registro (mi riferisco soprattutto alla sequenza dell'obitiorio) e qualche incoerenza nello sviluppo dei personaggi, che non sempre sembrano comportarsi come dovrebbero. Anche la relazione tra il protagonista e la ragazza sembra svilupparsi in modo alquanto innaturale, come se a un certo punto il regista avesse semplicemente detto "ok, manca mezz'ora alla fine del film, ora bisogna che vi baciate".
The Discovery merita sicuramente la visione, ma a mio avviso avrebbe avuto bisogno di una maggiore focalizzazione. Si sarebbe potuto interlacciare le due storie principali in modo più profondo, o forse ancora meglio concentrarsi su una sola, senza rincorrere il twist a tutti i costi e dando più forza ai personaggi e alle loro scelte.
La "scoperta" del titolo è quella dell'aldilà. Un neurologo (Redford) ha dimostrato scientificamente l'esistenza di un qualche tipo di vita oltre la morte, o per lo meno della prosecuzione della coscienza in un'altra forma dopo la morte corporale. La scoperta, diffusa presto in tutto il mondo, ha provocato un elevato numero di suicidi, perché in fondo, che sbattersi a fare quando sai che c'è qualcosa dopo? A distanza di qualche anno dall'annuncio seguiamo il figlio dello scienziato (Segel), convocato dal padre in una villa isolata dove sta compiendo ulteriori esperimenti sull'aldilà. Durante il viaggio incontra una donna (Mara), che poco dopo è lui a salvare dal suicidio e portare all'interno della comunità del padre.Il film prende di petto un tema molto profondo e controverso. Si potrebbe pensare che, una volta dimostrata l'esistenza dell'aldilà, si raggiungerebbe il consenso sul significato e il valore della vita, ma così non è. L'immortalità della coscienza non avalla automaticamente nessuna religione, né dà indizi ulteriori su come sia questa oltre-vita. Per cui c'è chi (come il protagonista) non è affatto convinto che il suicidio sia la scelta più vantaggiosa, e c'è chi pur non dando particolare valore alla vita non è capace di togliersela. Da questa differenze di visioni nasce il conflitto tra il protagonista e suo padre ma anche il fratello, la ragazza e gli altri ospiti/operai della villa. Ne emerge un quadro complesso, in cui non è facile identificare un'unica prospettiva corretta e rimane aperto a interpretazioni ancora differenti.
Poi però succede qualcosa. Nell'ultima parte del film viene approfondita una sottotrama di "investigazione", e nel climax finale emerge un plot twist che non sembra del tutto coerente con quanto visto fino a quel momento. È una visione comunque affascinante, che dà un nuovo significato a tutta la storia (e per certi versi, affine ad alcuni temi da me sviluppati in Dimenticami Trovami Sognami ... mica ve la prendete se ne approfitto per spiattellare con nonchalance la copertina?), però sembra essere la conclusione di una storia diversa da quella con cui il film era iniziato. Certo non mi aspettavo che fosse rivelata la "verità" sulla vita dopo la morte o che il technobabble che giustifica la scoperta fosse spiegato interamente, ma il senso finale della vicenda (così come proprio l'ultima scena) sembra adattarsi a tutt'altro tipo di storia e di conseguenza lascia incompiuto ciò che si era aperto inizialmente. Non mi sentirei di definirlo uno scivolone, perché il film gestisce comunque con competenza e intensità anche questo twist, e non si può non rimanerne colpiti. Però appunto, la conclusione fa passare in secondo piano tutta la storia precedente e si arriva quasi a dubitare che tutto la scoperta stessa abbia davvero l'impatto che si pensa inizialmente.
C'è anche da rilevare qualche difformità minore, con alcune scene leggermente fuori registro (mi riferisco soprattutto alla sequenza dell'obitiorio) e qualche incoerenza nello sviluppo dei personaggi, che non sempre sembrano comportarsi come dovrebbero. Anche la relazione tra il protagonista e la ragazza sembra svilupparsi in modo alquanto innaturale, come se a un certo punto il regista avesse semplicemente detto "ok, manca mezz'ora alla fine del film, ora bisogna che vi baciate".
The Discovery merita sicuramente la visione, ma a mio avviso avrebbe avuto bisogno di una maggiore focalizzazione. Si sarebbe potuto interlacciare le due storie principali in modo più profondo, o forse ancora meglio concentrarsi su una sola, senza rincorrere il twist a tutti i costi e dando più forza ai personaggi e alle loro scelte.
Published on April 11, 2017 10:32
April 8, 2017
Rapporto letture - Marzo 2017
Marzo è iniziato con la lettura dell'epico Seveneves (iniziata già a metà febbraio), ultimo romanzo di Neal Stephenson che dovevo ancora recuperare, di cui ho già parlato in un post dedicato e per il quale non mi soffermo ulteriormente. Finito questo volume enorme e complesso, ho pensato di "disintossicarmi" dalla hard sf e alleggerire con qualche lettura meno impegnativa.
Ho pensato che l'ideale per un defaticamento completo era leggere qualche racconto, e così ho recuperato la raccolta
Mucho Mojo Club vol. 1
, un'antologia di racconti thriller/noir curata appunto dal Mucho Mojo Club, club letteriario ideato da Mauro Falciani, un libraio indipendente di Firenze (con l'occasione vi invito a conoscere e visitare la libreria Mucho Mojo). Falciani ha chiesto a una decina di autori di livello internazionale di prestargli un racconto per questa raccolta e ognuno di loro ha dato il suo contributo. Perosnalmente non sono un appassionato del genere e quind anche i nomi non mi sono familiari, ma si capisce subito che si tratta di professionisti. Come in tutte le raccolte il livello dei racconti non è sempre costante, alcuni sono meglio riusciti di altri, ma la lettura è sempre piacevole e almeno in un paio di casi inquietante al punto giusto. Un volume quindi ben riuscito, oltre che un'iniziativa da promuovere e sostenere, per cui se vi piace il thriller puntateci gli occhi. Voto: 7/10
Mantenendomi ancora al di fuori del familiare territorio della narrativa fantastica, ho pensato che fosse il momento giusto per leggere
Apologia del porco
, romanzo di Marco Di Pinto pubblicato un paio di anni fa da I Sognatori (la casa editrice con cui è uscito il mio Spore). Come già esplicitato dalla dedica, Apologia del porco è una storia che mette in evidenza lo sfruttamento dei lavoratori, in questo caso nella Puglia contemporanea, ma in fondo non così diversa da quello che si può trovare in altri posti e altre epoche. La narrazione in prima persona del giovane protagonista che si trova a lavorare per un imprenditore del settore alimentare riporta mancanze, soprusi, umiliazioni e tutta una serie di piccoli episodi sgradevoli. Il tono rimane comunque leggero, quindi la bassezza dei personaggi non porta a una storia cupa, purtroppo quello che mi è sembrato mancare è proprio un arco di sviluppo dei personaggi. Sia il protagonista che l'antagonista non seguono un percorso, manca un vero e proprio finale che concluda la vicenda. Insomma per quanto interessante, alla fine sembra incompleto. Voto: 6/10
E poi vabbè, posso provarci quanto voglio ma poi sempre alla fantascienza torno. E così l'ultimo giorno del mese sono riuscito a infilarci anche uno degli ultimi titoli di Future Fiction, il racconto Sinestesia di Oliver Paquet (incuriosito anche dal fatto che c'è in giro un mio racconto con lo stesso titolo). Storia di un'invasione aliena su un mondo abitato da umani e altre razze, l'elemento di spicco del racconto è il modo in cui gli uomini abbiano sviluppato una tecnologia capace di aprire passaggi per altri mondi, attraverso l'uso di IA "emotive". Solo un piccolo scorcio di un universo molto vasto, di cui si può apprezzare la grande immaginazione nonostante la brevità. Voto: 7/10
Published on April 08, 2017 02:44
April 4, 2017
Coppi Night 02/04/2017 - Il bosco ha fame
Per una volta mi sento di promuovere il titolo italiano, decisamente più accattivante dell'originale Wrong Turn che non dà nessuna indicazione sul contenuto.
Un onesto b-movie horror con classico gruppo di ragazzi sprovveduti braccati dal mostro di turno, nel caso specifico un trio di montanari cannibali. Tutto inizia con il protagonista che rimane bloccato nel traffico e per arrivare in tempo a un colloquio importante decide di fare una strada alternativa che passa in mezzo al bosco. Qui si schianta contro il camper di un gruppo di amici fermo in mezzo alla strada, mettendo fuori uso entrambi i mezzi di trasporto. Per cercare aiuto sono costretti quindi ad attraversare il bosco per raggiungere la civiltà.
Tutto procede come da copione: il gruppo si separa e si assiste alle prime vittime che come nella migliore tradizione sono quelli rimasti da parte a drogarsi e fare sesso (non c'era nessun nero nella comitiva, altrimenti sarebbe toccato a lui). Gli altri raggiungono invece proprio l'abitazione dei cannibali, e quando capiscono che c'è qualcosa di strano nei vasetti di interiora conservati in frigorifero è troppo tardi, perché gli inquilini sono rientrati portandosi dietro i cadaveri dei loro amici.
Dopodiché si succedono fughe, nascondigli, infortuni e morti alla spicciolata. Degno di nota comunque il fatto che i ragazzi non si comportino da decerebrati come avviene di solito in questo tipo di film, e che le loro reazioni sono per lo più ragionevoli per quanto possano esserlo in un contesto del genere. Dall'altra parte anche i tre cannibali (non è chiaro se imparentati tra loro) si dimostrano piuttosto intelligenti e capaci di rappresentare una sfida reale, cosa non scontata per questo livello di horror, dove di solito i protagonisti soffrono unicamente per la loro propria stupidità. Tutto sommato la credibilità vacilla solo in un paio di occasioni, e non in modo così drammatico.
Naturalmente nessuno grida al capolavoro, ma il film non si rivela irritante quanto le premesse potevano far supporre, ha un buon livello di gore e delle sequenze d'azione valide. Quindi alla fine un prodotto più gradevole di altri sul tema del cannibalismo, tabù così forte che in molti casi pare che basti invocarlo per dare spessore a una trama, quando in realtà non c'è niente intorno. Ce l'ho con te, Green Inferno .
Un onesto b-movie horror con classico gruppo di ragazzi sprovveduti braccati dal mostro di turno, nel caso specifico un trio di montanari cannibali. Tutto inizia con il protagonista che rimane bloccato nel traffico e per arrivare in tempo a un colloquio importante decide di fare una strada alternativa che passa in mezzo al bosco. Qui si schianta contro il camper di un gruppo di amici fermo in mezzo alla strada, mettendo fuori uso entrambi i mezzi di trasporto. Per cercare aiuto sono costretti quindi ad attraversare il bosco per raggiungere la civiltà.Tutto procede come da copione: il gruppo si separa e si assiste alle prime vittime che come nella migliore tradizione sono quelli rimasti da parte a drogarsi e fare sesso (non c'era nessun nero nella comitiva, altrimenti sarebbe toccato a lui). Gli altri raggiungono invece proprio l'abitazione dei cannibali, e quando capiscono che c'è qualcosa di strano nei vasetti di interiora conservati in frigorifero è troppo tardi, perché gli inquilini sono rientrati portandosi dietro i cadaveri dei loro amici.
Dopodiché si succedono fughe, nascondigli, infortuni e morti alla spicciolata. Degno di nota comunque il fatto che i ragazzi non si comportino da decerebrati come avviene di solito in questo tipo di film, e che le loro reazioni sono per lo più ragionevoli per quanto possano esserlo in un contesto del genere. Dall'altra parte anche i tre cannibali (non è chiaro se imparentati tra loro) si dimostrano piuttosto intelligenti e capaci di rappresentare una sfida reale, cosa non scontata per questo livello di horror, dove di solito i protagonisti soffrono unicamente per la loro propria stupidità. Tutto sommato la credibilità vacilla solo in un paio di occasioni, e non in modo così drammatico.
Naturalmente nessuno grida al capolavoro, ma il film non si rivela irritante quanto le premesse potevano far supporre, ha un buon livello di gore e delle sequenze d'azione valide. Quindi alla fine un prodotto più gradevole di altri sul tema del cannibalismo, tabù così forte che in molti casi pare che basti invocarlo per dare spessore a una trama, quando in realtà non c'è niente intorno. Ce l'ho con te, Green Inferno .
Published on April 04, 2017 11:14
March 31, 2017
Coppi Night 26/03/2017 - Los ùltimos dìas
Mi permetto di mantenere il titolo originale perché non vedo la ragione per cui dovrei trasporto come The Last Days, in una lingua terza, piuttosto che un semplice Gli ultimi giorni. E anche per rendere evidente che si tratta di una produzione spagnola.
Scovato su Netflix, è un film del 2013 la cui premessa mi ha affascinato subito. In tutto il mondo si diffonde una "epidemia" di agorafobia. Le persone non sono più capaci di sopportare gli spazi aperti, e sono costrette a vivere continuamente all'interno degli edifici. La patologia è abbastanza grave da provocare la morte per shock a chi si avventura al di fuori della porta. La crisi colpisce tutti, gradualmente: l'intera umanità si ripara nelle sue costruzioni: abitazioni, uffici, stazioni, fogne. Qualunque cosa non sia direttamente sotto il cielo aperto. A mesi di distanza dall'inizio della psicosi collettiva, della civiltà contemporanea rimane molto poco.
In questo contesto apocalittico il protagonista della storia è Marc, un giovane impiegato rimasto imprigionato nel suo ufficio insieme ai colleghi. Marc vuole trornare dalla sua ragazza nella loro casa, ma non potendo uscire, decide di raggiungerla attraverso un percorso sotterraneo passando dai binari della metropolitana alle fogne. Suo compagno di viaggio sarà Enrique, un consulente del personale dal fare minaccioso che era stato assunto dall'azienda per eseguire tagli all'organico (e che aveva messo gli occhi proprio su Marc). Entrambi diffidenti dell'altro all'inizio, andando avanti imparano a conoscersi e collaborare, constatando che è inutile mantenere i propri ruoli quando la società non esiste più.
Ma il viaggio lungo la metro di Barcellona è anche l'occasione per mostrare le varie soluzioni adottate dall'umanità per adattarsi alle nuove condizioni di vita. Chi può è rimasto in casa, ma ha dovuto comunque trovare il modo di rifornirsi di cibo, acqua ed energia. Nei luoghi di passaggio affollati come stazioni e supermercati si sono invece create delle comunità complesse, con fazioni in lotta tra loro. I due protagonisti devono quindi cercare di passare indenni attraverso la serie di pericoli dovuti alla disperazione di chi è costretto a convivere con migliaia di sconosciuti in uno spazio chiuso e limitato.
Il film riesce innanzitutto a tasmettere bene l'ansia e l'oppressione a cui tutti si trovano sottoposti (mi ha ricordato in qusto sensto Blindness ). Inoltre gestisce con padronanza le storie personali dei due protagonisti, inserendo anche alcuni flashback che mostrano le ultime settimane prima della catastrofe. Come sempre nelle storie in cui la società si è disgregata, la moralità si fa più indefinita, e i protagonisti stessi compiono delle azioni non proprio encomiabili che tuttavia sono in parte giustificate dalla situazione. Dal punto di vista tecnico il film è ben realizzato, e trae il meglio dalle valide interpretazioni degli attori (devo dire che anche il doppiaggio è di buon livello). L'unico scivolone è la scena dell'orso, dove forse per una eccessiva voglia di azione si pecca un po' di credibilita e brutta CGI, ma anche quella sequenza si rivela poi importante nello svolgimento della trama.
Tutto questo fa di Los ùltimos dìas una piacevole sorpresa, il film su cui non punteresti nulla e invece riesce ad appassionare, stimolare e commuovere. E a questo punto, credo che dovrò iniziare a guardare con più attenzione a un certo tipo di cinema spagnolo, perché mi rendo conto che ultimamente tutti i film spagnoli che ho visto mi hanno quanto meno convinto, e in diversi casi anche lasciato qualcosa. Penso a Mientras duermes, Automata, Cella 211 e ora questo. Potrebbe anche essere un caso, ma comincia a farsi abbastanza sospetto da meritare maggiore approfondimento.
Scovato su Netflix, è un film del 2013 la cui premessa mi ha affascinato subito. In tutto il mondo si diffonde una "epidemia" di agorafobia. Le persone non sono più capaci di sopportare gli spazi aperti, e sono costrette a vivere continuamente all'interno degli edifici. La patologia è abbastanza grave da provocare la morte per shock a chi si avventura al di fuori della porta. La crisi colpisce tutti, gradualmente: l'intera umanità si ripara nelle sue costruzioni: abitazioni, uffici, stazioni, fogne. Qualunque cosa non sia direttamente sotto il cielo aperto. A mesi di distanza dall'inizio della psicosi collettiva, della civiltà contemporanea rimane molto poco.
In questo contesto apocalittico il protagonista della storia è Marc, un giovane impiegato rimasto imprigionato nel suo ufficio insieme ai colleghi. Marc vuole trornare dalla sua ragazza nella loro casa, ma non potendo uscire, decide di raggiungerla attraverso un percorso sotterraneo passando dai binari della metropolitana alle fogne. Suo compagno di viaggio sarà Enrique, un consulente del personale dal fare minaccioso che era stato assunto dall'azienda per eseguire tagli all'organico (e che aveva messo gli occhi proprio su Marc). Entrambi diffidenti dell'altro all'inizio, andando avanti imparano a conoscersi e collaborare, constatando che è inutile mantenere i propri ruoli quando la società non esiste più.Ma il viaggio lungo la metro di Barcellona è anche l'occasione per mostrare le varie soluzioni adottate dall'umanità per adattarsi alle nuove condizioni di vita. Chi può è rimasto in casa, ma ha dovuto comunque trovare il modo di rifornirsi di cibo, acqua ed energia. Nei luoghi di passaggio affollati come stazioni e supermercati si sono invece create delle comunità complesse, con fazioni in lotta tra loro. I due protagonisti devono quindi cercare di passare indenni attraverso la serie di pericoli dovuti alla disperazione di chi è costretto a convivere con migliaia di sconosciuti in uno spazio chiuso e limitato.
Il film riesce innanzitutto a tasmettere bene l'ansia e l'oppressione a cui tutti si trovano sottoposti (mi ha ricordato in qusto sensto Blindness ). Inoltre gestisce con padronanza le storie personali dei due protagonisti, inserendo anche alcuni flashback che mostrano le ultime settimane prima della catastrofe. Come sempre nelle storie in cui la società si è disgregata, la moralità si fa più indefinita, e i protagonisti stessi compiono delle azioni non proprio encomiabili che tuttavia sono in parte giustificate dalla situazione. Dal punto di vista tecnico il film è ben realizzato, e trae il meglio dalle valide interpretazioni degli attori (devo dire che anche il doppiaggio è di buon livello). L'unico scivolone è la scena dell'orso, dove forse per una eccessiva voglia di azione si pecca un po' di credibilita e brutta CGI, ma anche quella sequenza si rivela poi importante nello svolgimento della trama.
Tutto questo fa di Los ùltimos dìas una piacevole sorpresa, il film su cui non punteresti nulla e invece riesce ad appassionare, stimolare e commuovere. E a questo punto, credo che dovrò iniziare a guardare con più attenzione a un certo tipo di cinema spagnolo, perché mi rendo conto che ultimamente tutti i film spagnoli che ho visto mi hanno quanto meno convinto, e in diversi casi anche lasciato qualcosa. Penso a Mientras duermes, Automata, Cella 211 e ora questo. Potrebbe anche essere un caso, ma comincia a farsi abbastanza sospetto da meritare maggiore approfondimento.
Published on March 31, 2017 08:44
March 27, 2017
Neal Stephenson - Seveneves
Neal Stephenson è quell'autore che può iniziare un romanzo con:
Seveneves è una storia della fine del mondo, che comincia con quella frase riportata sopra. La luna si frammenta di punto in bianco in sette pezzi, senza che nessun potesse prevederlo o possa capire perché è successo (e mettetevi l'animo in pace: non verrà mai data una spiegazione di come e perché è successo). Dalla iniziale curiosità si passa al terrore quando il calcolo delle meccaniche orbitali degli iniziali sette frammenti porta a concludere che nell'arco di due anni circa la massa di detriti raggiungerà un livello critico di caos tale da iniziare a piovere sulla Terra, sottoponendo il pianeta a una caduta continua di bolidi in grado di devastare la superficie e incendiare l'atmosfera. Inizia allora la corsa contro il tempo per salvare l'umanità e fare in modo che una parte sufficiente della popolazione sopravvivere all'imminente apocalisse. Da qui in poi ci sarà qualche spoiler, ma niente di più di quello che si scopre leggendo la quarta di copertina.
Il romanzo è diviso in tre parti: nella prima si verifica la distruzione della luna e vengono elaborati i piani di emergenza messi in atto per mettere in salvo la maggior parte possibile della popolazione. La soluzione che viene adottata e condivisa da tutte le nazioni è quella di ampliare la Stazione Spaziale Internazionale (ISS o Izzy per i suoi abitanti) e portare in orbita, al riparo dalla tempesta di fuoco, un numero selezionato di persone che possano poi ripopolare il pianeta, quando a distanza di qualche migliaio di anni la superficie tornerà abitabile. Nella seconda parte viene abbandonata la prospettiva terrestre, e tutta l'azione si svolge in orbita, tra Izzy e le arklet che formano lo sciame di arche su cui è stata trasferita la popolazione. Da qui si assiste all'inizio della Hard Rain che mette fine alla civiltà umana sulla Terra, per poi passare al difficile compito di sopravvivere alle condizioni estreme, mancanza di spazio ed esaurimento delle risorse. Le poche migliaia di occupanti di Izzy e delle arklet sopportano una sequenza di momenti terribili, e l'estinzione dell'umanità si fa pericolosamente vicina. Infine, nella terza parte, si salta di cinquemila anni nel futuro, quando l'umanità si è più o meno ricostituita e ha stabilito la sua vita in una moltitudine di habitat che circondano tutta l'orbita terrestre, e si sta preparando a tornare finalmente sul pianeta.
Il livello di speculazione verso cui si spinge Stephenson è estremo ma sempre coerente. La storia parte da un'epoca tecnologicamente affine a quella attuale. Gli unici due elementi non ancora presenti "nel mondo reale" rispetto a quanto narrato nel romanzo sono la presenza di un asteroide catturato e agganciato alla ISS, e la disponibilità di piccoli robot da lavoro più avanzati di quelli attualmente in uso. Si tratta di due elementi che si rivelano determinanti nel dipanarsi nella storia, le uniche concessioni alla sospensione dell'incredulità richieste dall'autore. Per il resto il mondo è perfettamente riconoscibile: dai social media alla politica internazionale fino a personaggi che sembrano di fatto gli alter ego di personaggi reali, come Neil DeGrasse Tyson ed Elon Musk. A paritre da questo Stephenson si permettere però di sollevare problemi e proporre soluzioni, da questioni apparentemente banali del tipo "come funziona una frusta a gravità zero" ad altre più complesse come "dove trovare la massa di reazione per far cambiare orbita alla ISS in assenza di rifornimenti dalla Tera". Come già successo in molti dei suoi lavori precedenti, l'autore non ha paura di lanciarsi in lunge digressioni, usando terminologia precisa ma non strettamente tecnica, e prendendosi il tempo di illustrare tutte le nozioni di base per comprendere le questioni affrontate. In qualche modo, Neal Stephenson sembra totalmente immune dall'intolleranza all'infodump che affligge la maggior parte degli autori e lettori di oggi, e anzi ha con sé gli anticorpi necessari per debellare questa epidemia contemporanea, perché non si avverte nemmeno per una pagina il fastidio delle informazioni rigurgitate in modo gratuito e anticlimatico. I temi affrontati nel corso delle quasi 900 pagine sono davvero vasti, afferenti a numerose discipline, dalla meccanica dei corpi celesti alla balistica, dalla genetica alla programmazione, dalle arti marziali alla sociologia.
Volendo ricercare un difetto in Seveneves, forse la sproporzione tra le prime due parti e la terza è quello più evidente. Per le prime 570 pagine la storia segue l'umanità come la conosciamo, con il focus su un gruppo di personaggi principali, che si impara a conoscere e apprezzare. Nella terza parte ci si trova sbalzati di 5000 anni, e per quanto sia stimolante vedere come la società e gli uomini si sono evoluti durante la loro permanzenza nell'habitat orbitale, si perdono tutti i punti di riferimento accumulati fino a quel momento e al tempo stesso non si ha modo di acquisirne di altri, perché le rimanenti trecento pagine hanno così tanto da dover raccontare del presente e dei cinquemila anni trascorsi che non c'è spazio per approfondire a dovere personaggi e dinamiche. A lettura ultimata mi è venuto da chiedermi se non avrebbe potuto avere senso raccontare prima la parte ambientata nel futuro, e in seguito riferire come è avvenuta la fine del mondo. Dato che nella terza parte le riprese di alcuni momenti storici dell'epoca della crisi sono continuamente riprodotte e formano un'Epica a cui tutta l'umanità si ispira, forse sarebbe stato giustificato. Peraltro c'è anche chi teorizza che l'intero libro sia una sorta di documento di propaganda in-universe, la storia come viene raccontata da una delle due fazioni in cui l'umanità si è divisa nel futuro.
Nonostante la storia cominci con una catastrofe totale e arrivi vicinissima all'annientamento completo dell'umanità, Seveneves è in un'ultima analisi un'opera ottimista, anzi, quasi positivista. Gli eroi del romanzo sono le persone che si impegnano, quelli che affrontano i problemi e trovano le soluzioni, che pensano e agiscono. Si può avvertire anche una certa contrapposizione tra tecnica e politica, laddove i professionisti (ingegneri, astronomi, medici, programmatori) sono costretti a seguire le decisioni dei burocrati (presidenti, uffici stampa, avvocati, ambasciatori), spesso abbandonando la strategia più efficace a favore di quella più opportuna. Questo contrasto in alcune occasioni si fa esplicito, e culmina a un certo punto in una vera e propria guerra sui social media con conseguenze devastanti.
In definitiva, Seveneves è un'opera totalizzante. Se qualche pecca minore si può individuare, non toglie nulla all'immensità del quadro complessivo. È uno di quei libri che, una volta chiuso, richiede qualche giorno di assestamento, perché la sola idea di poter metterlo da parte e aprire un libro che non parli di quello sembra inconcepibile. Per questo sono anche un po' preoccupato che il film tratto dal romanzo a cui sta lavorando Ron Howard si riveli alla fine solo un disaster movie che poco ha a che spartire con la profondità della narrazione e la speculazione selvaggia del libro.
E in tutto questo, sono riuscito a non rivelare che cosa significa il titolo palindromo. Il che costituisce da sé il momento più wtf di tutto il libro, se si esclude l'incipit.
Piccola nota personale: Seveneves contiene nella sua vastissima trama almeno tre spunti che avevo messo da parte e avrei voluto usare per dei racconti, cosa che a questo punto eviterò di fare. Ma sono ben contento che Neal Stephenson si sia occupato di raccontare le mie storie meglio di quanto avrei mai potuto farlo io!
La luna esplose all'improvviso e senza una ragione apparentee farne seguire 860 pagine di hard sf traboccante di infodump che scorrono con la piacevolezza di un'acqua tonica ghiaccio e limone il 28 luglio. Stephenson si è costruito dagli anni novanta in poi una posizione quasi di culto nell'ambito della fantascienza contemporanea, grazie a una produzione non troppo vasta ma sempre azzeccata. Dall'iconico Snow Crash a Cryptonomicon, dal Ciclo Barocco al capolavoro di Anathem , ogni romanzo di questo atuore è un viaggio completo in una dimensione diversa, sia essa storia alternativa, universo parallelo, futuro, o soltanto il presente che ancora non siamo capaci di riconoscere. Seveneves , pubblicato nel 2015 e colpevolmente ancora inedito in Italia, è solo l'ultimo dei suoi viaggi epici, e in questo caso il termine ha una connotazione quasi letterale.
Seveneves è una storia della fine del mondo, che comincia con quella frase riportata sopra. La luna si frammenta di punto in bianco in sette pezzi, senza che nessun potesse prevederlo o possa capire perché è successo (e mettetevi l'animo in pace: non verrà mai data una spiegazione di come e perché è successo). Dalla iniziale curiosità si passa al terrore quando il calcolo delle meccaniche orbitali degli iniziali sette frammenti porta a concludere che nell'arco di due anni circa la massa di detriti raggiungerà un livello critico di caos tale da iniziare a piovere sulla Terra, sottoponendo il pianeta a una caduta continua di bolidi in grado di devastare la superficie e incendiare l'atmosfera. Inizia allora la corsa contro il tempo per salvare l'umanità e fare in modo che una parte sufficiente della popolazione sopravvivere all'imminente apocalisse. Da qui in poi ci sarà qualche spoiler, ma niente di più di quello che si scopre leggendo la quarta di copertina.Il romanzo è diviso in tre parti: nella prima si verifica la distruzione della luna e vengono elaborati i piani di emergenza messi in atto per mettere in salvo la maggior parte possibile della popolazione. La soluzione che viene adottata e condivisa da tutte le nazioni è quella di ampliare la Stazione Spaziale Internazionale (ISS o Izzy per i suoi abitanti) e portare in orbita, al riparo dalla tempesta di fuoco, un numero selezionato di persone che possano poi ripopolare il pianeta, quando a distanza di qualche migliaio di anni la superficie tornerà abitabile. Nella seconda parte viene abbandonata la prospettiva terrestre, e tutta l'azione si svolge in orbita, tra Izzy e le arklet che formano lo sciame di arche su cui è stata trasferita la popolazione. Da qui si assiste all'inizio della Hard Rain che mette fine alla civiltà umana sulla Terra, per poi passare al difficile compito di sopravvivere alle condizioni estreme, mancanza di spazio ed esaurimento delle risorse. Le poche migliaia di occupanti di Izzy e delle arklet sopportano una sequenza di momenti terribili, e l'estinzione dell'umanità si fa pericolosamente vicina. Infine, nella terza parte, si salta di cinquemila anni nel futuro, quando l'umanità si è più o meno ricostituita e ha stabilito la sua vita in una moltitudine di habitat che circondano tutta l'orbita terrestre, e si sta preparando a tornare finalmente sul pianeta.
Il livello di speculazione verso cui si spinge Stephenson è estremo ma sempre coerente. La storia parte da un'epoca tecnologicamente affine a quella attuale. Gli unici due elementi non ancora presenti "nel mondo reale" rispetto a quanto narrato nel romanzo sono la presenza di un asteroide catturato e agganciato alla ISS, e la disponibilità di piccoli robot da lavoro più avanzati di quelli attualmente in uso. Si tratta di due elementi che si rivelano determinanti nel dipanarsi nella storia, le uniche concessioni alla sospensione dell'incredulità richieste dall'autore. Per il resto il mondo è perfettamente riconoscibile: dai social media alla politica internazionale fino a personaggi che sembrano di fatto gli alter ego di personaggi reali, come Neil DeGrasse Tyson ed Elon Musk. A paritre da questo Stephenson si permettere però di sollevare problemi e proporre soluzioni, da questioni apparentemente banali del tipo "come funziona una frusta a gravità zero" ad altre più complesse come "dove trovare la massa di reazione per far cambiare orbita alla ISS in assenza di rifornimenti dalla Tera". Come già successo in molti dei suoi lavori precedenti, l'autore non ha paura di lanciarsi in lunge digressioni, usando terminologia precisa ma non strettamente tecnica, e prendendosi il tempo di illustrare tutte le nozioni di base per comprendere le questioni affrontate. In qualche modo, Neal Stephenson sembra totalmente immune dall'intolleranza all'infodump che affligge la maggior parte degli autori e lettori di oggi, e anzi ha con sé gli anticorpi necessari per debellare questa epidemia contemporanea, perché non si avverte nemmeno per una pagina il fastidio delle informazioni rigurgitate in modo gratuito e anticlimatico. I temi affrontati nel corso delle quasi 900 pagine sono davvero vasti, afferenti a numerose discipline, dalla meccanica dei corpi celesti alla balistica, dalla genetica alla programmazione, dalle arti marziali alla sociologia.
Volendo ricercare un difetto in Seveneves, forse la sproporzione tra le prime due parti e la terza è quello più evidente. Per le prime 570 pagine la storia segue l'umanità come la conosciamo, con il focus su un gruppo di personaggi principali, che si impara a conoscere e apprezzare. Nella terza parte ci si trova sbalzati di 5000 anni, e per quanto sia stimolante vedere come la società e gli uomini si sono evoluti durante la loro permanzenza nell'habitat orbitale, si perdono tutti i punti di riferimento accumulati fino a quel momento e al tempo stesso non si ha modo di acquisirne di altri, perché le rimanenti trecento pagine hanno così tanto da dover raccontare del presente e dei cinquemila anni trascorsi che non c'è spazio per approfondire a dovere personaggi e dinamiche. A lettura ultimata mi è venuto da chiedermi se non avrebbe potuto avere senso raccontare prima la parte ambientata nel futuro, e in seguito riferire come è avvenuta la fine del mondo. Dato che nella terza parte le riprese di alcuni momenti storici dell'epoca della crisi sono continuamente riprodotte e formano un'Epica a cui tutta l'umanità si ispira, forse sarebbe stato giustificato. Peraltro c'è anche chi teorizza che l'intero libro sia una sorta di documento di propaganda in-universe, la storia come viene raccontata da una delle due fazioni in cui l'umanità si è divisa nel futuro.Nonostante la storia cominci con una catastrofe totale e arrivi vicinissima all'annientamento completo dell'umanità, Seveneves è in un'ultima analisi un'opera ottimista, anzi, quasi positivista. Gli eroi del romanzo sono le persone che si impegnano, quelli che affrontano i problemi e trovano le soluzioni, che pensano e agiscono. Si può avvertire anche una certa contrapposizione tra tecnica e politica, laddove i professionisti (ingegneri, astronomi, medici, programmatori) sono costretti a seguire le decisioni dei burocrati (presidenti, uffici stampa, avvocati, ambasciatori), spesso abbandonando la strategia più efficace a favore di quella più opportuna. Questo contrasto in alcune occasioni si fa esplicito, e culmina a un certo punto in una vera e propria guerra sui social media con conseguenze devastanti.
In definitiva, Seveneves è un'opera totalizzante. Se qualche pecca minore si può individuare, non toglie nulla all'immensità del quadro complessivo. È uno di quei libri che, una volta chiuso, richiede qualche giorno di assestamento, perché la sola idea di poter metterlo da parte e aprire un libro che non parli di quello sembra inconcepibile. Per questo sono anche un po' preoccupato che il film tratto dal romanzo a cui sta lavorando Ron Howard si riveli alla fine solo un disaster movie che poco ha a che spartire con la profondità della narrazione e la speculazione selvaggia del libro.
E in tutto questo, sono riuscito a non rivelare che cosa significa il titolo palindromo. Il che costituisce da sé il momento più wtf di tutto il libro, se si esclude l'incipit.
Piccola nota personale: Seveneves contiene nella sua vastissima trama almeno tre spunti che avevo messo da parte e avrei voluto usare per dei racconti, cosa che a questo punto eviterò di fare. Ma sono ben contento che Neal Stephenson si sia occupato di raccontare le mie storie meglio di quanto avrei mai potuto farlo io!
Published on March 27, 2017 23:40
March 24, 2017
Coppi Night 19/03/2017 - L'acchiappasogni
Non mi sono preso la briga di googlarlo, ma credo che Stephen King abbia un qualche record relativo al numero di opere tradotte in film. È vero che si parte da una produzione già di per sé sostanziosa, ma di questi lavori la porzione che avuto un adattamento a schermo è sicuramente notevole. Non è sempre garantita la corrispondenza qualitativa tra materiale iniziale e adattamento, così racconti o romanzi mediocri hanno avuto film spettacolari e viceversa. Uno dei problemi di base è che la produzione di King si inquadra in un genere che è facile obiettivo di b-movies splatter, e se ne sono visti parecchi negli anni.
L'acchiappasogni è uscito nel 2003, basato sul romanzo che King ha scritto durante la sua convalescenza dopo essere stato investito da un'auto e avere rischiato la vita. Per sua stessa ammissione, non è un gran romanzo. Non l'ho letto quindi non posso valutare il libro, ma se dovessi fornire un giudizio coplessivo sul film che ne è stato tratto, userei la comune formula "poche idee ma confuse". Non ci sono spunti particolarmente innovativi in questa storia: l'invasione aliena, la telepatia, i bambini speciali, il gruppo di amici che si ritova ogni anno, i corpi militari segreti. Ma ok, l'originalità non è un requisito essenziale, ne possiamo benissimo fare a meno se lo svolgimento è coinvolgente. Purtroppo, anche qui si arranca.
La parte più interessante del film è quella iniziale, in cui conosciamo i quattro protagonisti e si intuisce che hanno qualcosa di "speciale" che li unisce, li sentiamo parlare di qualcosa successo anni prima e di un altro personaggio che ha avuto un ruolo fondamentale nella loro storia. Anche i primi indizi anomali formano inizialmente un mistero interessante: gli animali in fuga, le macchie rosse, le prime vittime. Quando però i primi mostri si rivelano crolla tutta l'impalcatura, perché le situazioni perdono tutto il pathos: un uomo seduto sul cesso che non può fare a meno di raccogliere uno stuzzicadenti da terra merita di morire, per capirsi. Allo stesso modo gli alieni dalla forma indefinita che a quanto pare possono leggere la mente e infilrarsi nel corpo di un umano mantenendo però la sua mente attiva e poi uscirne fuori all'improvviso... boh, è tutto molto controintuitivo. Quando poi, oltre metà film, viene introdotto il personaggo di Morgan Freeman (senza spiegare quelle sopracciglia ridicole) e tutta la sottotrama della caccia agli alieni, ormai si sta già andando avanti per inerzia. Il colpo finale è la scoperta che il diabolico piano degli alieni è infestare l'acquedotto di Boston di vermi assassini, azione che a loro giudizio porta alla dominazione del mondo. Senza contare il deus ex machina finale da parte di un personaggio di cui tutto faceva pensare che fosse morto molti anni prima. Vederlo ricomparire da adulto con tutta la naturalezza, quando fino ad allora ne avevano tutti parlato con timore reverenziale, è stata la cosa più straniante di tutte.
A mio avviso il film ha sofferto nel concentrare in due ore una storia mooolto lunga, di quelle storie di Stephen King che si svolgono metà nel passato e metà nel presente, un po' la stessa formula di It. Nel film ci sono un paio di flashback del gruppetto di ragazzini, ma sono pochi e mal distribuiti, e più che aggiungere contesto alla loro storia sembrano un'inutile interruzione del filone principale. Altra cosa sarebbe stato appunto dividere equamente il film tra le due epoche, ma proabilmente non c'era tempo a sufficienza.
Un film a mio avviso mal concepito e mal riuscito, forse una produzione frettolosa per agganciarsi al treno in corsa del "basato sull'ultimo romanzo di Stepehn King". Con mezzi ben inferiori si sono realizzate invasioni aliene ben più credibili e tese, penso ad esempio a Attack the Block ma anche un semplice L'arrivo di Wang . A questo punto non mi resta che sperare che lo stesso trattamento non sia stato riservato a La Torre Nera, perché a quello ci tengo.
L'acchiappasogni è uscito nel 2003, basato sul romanzo che King ha scritto durante la sua convalescenza dopo essere stato investito da un'auto e avere rischiato la vita. Per sua stessa ammissione, non è un gran romanzo. Non l'ho letto quindi non posso valutare il libro, ma se dovessi fornire un giudizio coplessivo sul film che ne è stato tratto, userei la comune formula "poche idee ma confuse". Non ci sono spunti particolarmente innovativi in questa storia: l'invasione aliena, la telepatia, i bambini speciali, il gruppo di amici che si ritova ogni anno, i corpi militari segreti. Ma ok, l'originalità non è un requisito essenziale, ne possiamo benissimo fare a meno se lo svolgimento è coinvolgente. Purtroppo, anche qui si arranca.
La parte più interessante del film è quella iniziale, in cui conosciamo i quattro protagonisti e si intuisce che hanno qualcosa di "speciale" che li unisce, li sentiamo parlare di qualcosa successo anni prima e di un altro personaggio che ha avuto un ruolo fondamentale nella loro storia. Anche i primi indizi anomali formano inizialmente un mistero interessante: gli animali in fuga, le macchie rosse, le prime vittime. Quando però i primi mostri si rivelano crolla tutta l'impalcatura, perché le situazioni perdono tutto il pathos: un uomo seduto sul cesso che non può fare a meno di raccogliere uno stuzzicadenti da terra merita di morire, per capirsi. Allo stesso modo gli alieni dalla forma indefinita che a quanto pare possono leggere la mente e infilrarsi nel corpo di un umano mantenendo però la sua mente attiva e poi uscirne fuori all'improvviso... boh, è tutto molto controintuitivo. Quando poi, oltre metà film, viene introdotto il personaggo di Morgan Freeman (senza spiegare quelle sopracciglia ridicole) e tutta la sottotrama della caccia agli alieni, ormai si sta già andando avanti per inerzia. Il colpo finale è la scoperta che il diabolico piano degli alieni è infestare l'acquedotto di Boston di vermi assassini, azione che a loro giudizio porta alla dominazione del mondo. Senza contare il deus ex machina finale da parte di un personaggio di cui tutto faceva pensare che fosse morto molti anni prima. Vederlo ricomparire da adulto con tutta la naturalezza, quando fino ad allora ne avevano tutti parlato con timore reverenziale, è stata la cosa più straniante di tutte.A mio avviso il film ha sofferto nel concentrare in due ore una storia mooolto lunga, di quelle storie di Stephen King che si svolgono metà nel passato e metà nel presente, un po' la stessa formula di It. Nel film ci sono un paio di flashback del gruppetto di ragazzini, ma sono pochi e mal distribuiti, e più che aggiungere contesto alla loro storia sembrano un'inutile interruzione del filone principale. Altra cosa sarebbe stato appunto dividere equamente il film tra le due epoche, ma proabilmente non c'era tempo a sufficienza.
Un film a mio avviso mal concepito e mal riuscito, forse una produzione frettolosa per agganciarsi al treno in corsa del "basato sull'ultimo romanzo di Stepehn King". Con mezzi ben inferiori si sono realizzate invasioni aliene ben più credibili e tese, penso ad esempio a Attack the Block ma anche un semplice L'arrivo di Wang . A questo punto non mi resta che sperare che lo stesso trattamento non sia stato riservato a La Torre Nera, perché a quello ci tengo.
Published on March 24, 2017 00:30
March 21, 2017
Vale & The Varlet - Believer
Nella mia continua ricerca di proposte musicali che possano suscitare interesse per lo spettatore casuale, ho pensato di dedicare un post a questo insolito duo, che ho avuto l'occasione di vedere esibirsi live poche settimane fa.
Vale & The Varlet
è un gruppo composto da due "Vale": Valeria Sturba e Valentina Paggio. Se qualcosa vi suona familiare, forse è perché Valeria Sturba è già stata citata su questo blog, quando ho recensito l'album OoopopoiooO di cui è autrice con Vincenzo Vasi. È proprio da questo collegamento tramite theremin che sono arrivato ad ascoltare acquistare Believer l'album autoprodotto nel 2016 da Vale & The Varlet.
La musica delle due Vale è qualcosa che non risulta facile da classificare secondo le usuali definizioni a cui siamo abituati. Gli strumenti principali sono tastiera, violino elettrico, drum machine, theremin e voce, oltre alle rispettive campionature di tutti questi. Da questi ingredienti risultano brani electro-soul, in cui la voce dal timbro blues della Paggio (occasionalmente accompagnata dalla collega) è la componente intorno a cui viene strutturata la musica, con frequenti cambi di ritmo e registro. La parte musicale è comunque tutt'altro che secondaria, e nonostante si basi su pochi strumenti tra loro non complementari, riesce comunque a riempire il contesto, dando una caratterizzazione completa alle tracce.
Si spazia da stornelli surreali come I Forogt Belgium e Alejandro a pezzi più d'atmosfera come la title track Believer, dall'electro effettata di TechOMG alle incursioni soul di Sunday Morning e Only a Man. Non mancano le citazioni, come le melodie riprese dal Bolero e dalla Carmen, e sicuramente tante altre che non so cogliere perché non conosco abbastanza la storia della musica da notarle. Ma la cosa più soddisfacente dell'album rimane la possibilità di accorgersi come i singoli elementi sono rimescolati per creare registri e mood diversi. Il violino e la voce sono le due componenti principali: in un certo senso, il violino è la voce di Valeria contrapposta a quella di Valentina: entrambe infatti si piegano e modellano a seconda delle necessità. Il violino può essere suonato, pizzicato, percosso, la voce estesa e modulata: queste creano il percorso a cui segue il resto degli strumenti. Come nella miglior tradizione della techno minimal che spesso passa su questo blog, a volte basta solo un clic in più per dare corpo e profondità al pezzo e raggiungere il climax. Non che, a dire la verità, i pezzi seguano la struttura base della musica pop con intro, corpo, refrain e outro, anzi in molti casi non si capisce subito quando un pezzo sta arrivando alla fine. Per i miei gusti avrei inserito tanto tanto più theremin, che in questo album non è uno strumento princpale ma un supporto, ma so bene di essere monomaniaco in questo senso.
Come dicevo parlando di OoopopoiooO, per quanto l'ascolto dell'album sia piacevole, la vera esperienza è quella di seguire un live delle Varlet, durante il quale l'improvvisazione e la campionatura in tempo reale e l'effettistica portano a versioni sempre diverse e a volte difficilmente riconoscbili dei pezzi. Durante l'esibizione non è soltanto la musica a catturare, ma anche l'esibizione, con le intense interpretazioni vocali di Valentina e il continuo affanno di Valeria, costantemente impegnata a premere pulsanti e girare manopole, un'attività febbrile da pilota di astronave.
Quindi visto che le due sono tuttora in giro a portare la loro improponibile musica in giro per locali d'Italia, date un'occhiata al calendario delle prossime serate e se avete l'occasione fate un salto ad ascoltarle.
La musica delle due Vale è qualcosa che non risulta facile da classificare secondo le usuali definizioni a cui siamo abituati. Gli strumenti principali sono tastiera, violino elettrico, drum machine, theremin e voce, oltre alle rispettive campionature di tutti questi. Da questi ingredienti risultano brani electro-soul, in cui la voce dal timbro blues della Paggio (occasionalmente accompagnata dalla collega) è la componente intorno a cui viene strutturata la musica, con frequenti cambi di ritmo e registro. La parte musicale è comunque tutt'altro che secondaria, e nonostante si basi su pochi strumenti tra loro non complementari, riesce comunque a riempire il contesto, dando una caratterizzazione completa alle tracce.Si spazia da stornelli surreali come I Forogt Belgium e Alejandro a pezzi più d'atmosfera come la title track Believer, dall'electro effettata di TechOMG alle incursioni soul di Sunday Morning e Only a Man. Non mancano le citazioni, come le melodie riprese dal Bolero e dalla Carmen, e sicuramente tante altre che non so cogliere perché non conosco abbastanza la storia della musica da notarle. Ma la cosa più soddisfacente dell'album rimane la possibilità di accorgersi come i singoli elementi sono rimescolati per creare registri e mood diversi. Il violino e la voce sono le due componenti principali: in un certo senso, il violino è la voce di Valeria contrapposta a quella di Valentina: entrambe infatti si piegano e modellano a seconda delle necessità. Il violino può essere suonato, pizzicato, percosso, la voce estesa e modulata: queste creano il percorso a cui segue il resto degli strumenti. Come nella miglior tradizione della techno minimal che spesso passa su questo blog, a volte basta solo un clic in più per dare corpo e profondità al pezzo e raggiungere il climax. Non che, a dire la verità, i pezzi seguano la struttura base della musica pop con intro, corpo, refrain e outro, anzi in molti casi non si capisce subito quando un pezzo sta arrivando alla fine. Per i miei gusti avrei inserito tanto tanto più theremin, che in questo album non è uno strumento princpale ma un supporto, ma so bene di essere monomaniaco in questo senso.
Come dicevo parlando di OoopopoiooO, per quanto l'ascolto dell'album sia piacevole, la vera esperienza è quella di seguire un live delle Varlet, durante il quale l'improvvisazione e la campionatura in tempo reale e l'effettistica portano a versioni sempre diverse e a volte difficilmente riconoscbili dei pezzi. Durante l'esibizione non è soltanto la musica a catturare, ma anche l'esibizione, con le intense interpretazioni vocali di Valentina e il continuo affanno di Valeria, costantemente impegnata a premere pulsanti e girare manopole, un'attività febbrile da pilota di astronave.
Quindi visto che le due sono tuttora in giro a portare la loro improponibile musica in giro per locali d'Italia, date un'occhiata al calendario delle prossime serate e se avete l'occasione fate un salto ad ascoltarle.
Published on March 21, 2017 00:00
March 15, 2017
Coppi Night 12/03/2017 - The Zero Theorem
In genere ho un buon rapporto con Terry Gilliam. Non sono mai stato a cena a casa sua, questo è vero, però in linea di massima ce la intendiamo, già dai tempi dei Monty Python. Per quanto molte sue produzioni da regista si muovano ai confini del surreale, riesco a entrare in sintonia con quello che cerca di trasmettere, e ne rimango infine soddisfatto.
Con The Zero Theorem questa affinità non è scattata del tutto. Il film ha molti lati positivi, principalmente per l'ambientazione e la caratterizzazione dei personaggi (quasi tutti). Quando arriva però a lasciare il suo messaggio finale mi è sembrato più incerto, incapace di colpire davvero come lo schieramento di idee e attori a disposizione avrebbe permesso di fare. La storia di Qohen (Christoph Waltz) sulle prime cattura per la sua stranezza: un genio matematico, che lavora pedalando e maneggiando un joypad, in attesa di una telefonata da dio o chi ne fa le veci, a cui viene assegnato il lavoro ultimo, dimostrare che l'universo equivale a zero, che tutto è nulla e viceversa. Come punto di partenza ha enormi potenzialità, ma la trama poi sembra incepparsi troppo su alcuni aspetti che forse sono i più banali, nel senso di più facili da ritrovare in centinaia di altri filmetti da domenica pomeriggio. Quante volte si è visto il nerd che si innamora della spogliarellista che gli è stata mandata apposta dagli amici per metterlo in difficoltà? E c'è davvero bisogno di dedicare metà film al suo interesse per quella che è di base una videochat erotica? Anche la spiegazione definitiva di cosa lui sta cercando di dimostrare arriva quando ormai non ha quasi più importanza, né per i personaggi né per lo spettatore, perché la situazione si è protratta abbastanza in altre direzioni da far dimenticare lo spunto iniziale.
Ma soprattutto, per tutto il film aleggia un'atmosfera di già visto che da Terry Gilliam non ci si dovrebbe aspettare: l'ambientazione ricorda Il quinto elemento, lo svolgimento per molti versi riprende invece elementi di Brazil dello stesso Gilliam, che però ha il pregio di strutturare la distopia in maniera molto più efficace. Per un regista/autore che ha fatto sempre dell'imprevedibilità uno dei suoi caratteri distintivi, questo rappresenta la giustificazione scritta dei genitori "mio figlio non ha potuto fare i compiti perché impegnato ad accudire il fratellino".
Peccato perché quando vuole, con pochi dettagli il film riesce a riguadagnare parecchi punti (penso ad esempio ai cartelli di divieto che si trovano sulla strada). Ma un film intero non si può reggere sui particolari, se la struttura non sta in piedi da sé. In fin dei conti non mi sento di dire che The Zero Theorem sia un brutto film, ma non è il prodotto fresco e innovativo che mi sarei aspettato. Questo passo falso non basterà certo ad affossare la mia fiducia in Gilliam, ma forse la prossima volta qualcuno tra me e lui dovrà pensarci meglio prima di dedicare tempo a un nuovo film.
Con The Zero Theorem questa affinità non è scattata del tutto. Il film ha molti lati positivi, principalmente per l'ambientazione e la caratterizzazione dei personaggi (quasi tutti). Quando arriva però a lasciare il suo messaggio finale mi è sembrato più incerto, incapace di colpire davvero come lo schieramento di idee e attori a disposizione avrebbe permesso di fare. La storia di Qohen (Christoph Waltz) sulle prime cattura per la sua stranezza: un genio matematico, che lavora pedalando e maneggiando un joypad, in attesa di una telefonata da dio o chi ne fa le veci, a cui viene assegnato il lavoro ultimo, dimostrare che l'universo equivale a zero, che tutto è nulla e viceversa. Come punto di partenza ha enormi potenzialità, ma la trama poi sembra incepparsi troppo su alcuni aspetti che forse sono i più banali, nel senso di più facili da ritrovare in centinaia di altri filmetti da domenica pomeriggio. Quante volte si è visto il nerd che si innamora della spogliarellista che gli è stata mandata apposta dagli amici per metterlo in difficoltà? E c'è davvero bisogno di dedicare metà film al suo interesse per quella che è di base una videochat erotica? Anche la spiegazione definitiva di cosa lui sta cercando di dimostrare arriva quando ormai non ha quasi più importanza, né per i personaggi né per lo spettatore, perché la situazione si è protratta abbastanza in altre direzioni da far dimenticare lo spunto iniziale.Ma soprattutto, per tutto il film aleggia un'atmosfera di già visto che da Terry Gilliam non ci si dovrebbe aspettare: l'ambientazione ricorda Il quinto elemento, lo svolgimento per molti versi riprende invece elementi di Brazil dello stesso Gilliam, che però ha il pregio di strutturare la distopia in maniera molto più efficace. Per un regista/autore che ha fatto sempre dell'imprevedibilità uno dei suoi caratteri distintivi, questo rappresenta la giustificazione scritta dei genitori "mio figlio non ha potuto fare i compiti perché impegnato ad accudire il fratellino".
Peccato perché quando vuole, con pochi dettagli il film riesce a riguadagnare parecchi punti (penso ad esempio ai cartelli di divieto che si trovano sulla strada). Ma un film intero non si può reggere sui particolari, se la struttura non sta in piedi da sé. In fin dei conti non mi sento di dire che The Zero Theorem sia un brutto film, ma non è il prodotto fresco e innovativo che mi sarei aspettato. Questo passo falso non basterà certo ad affossare la mia fiducia in Gilliam, ma forse la prossima volta qualcuno tra me e lui dovrà pensarci meglio prima di dedicare tempo a un nuovo film.
Published on March 15, 2017 11:55
March 9, 2017
Coppi Night 05/03/2017 - I figli degli uomini
Film che avevo già visto anni fa e che ho ripreso volentieri, ricordando che mi aveva lasciato una buona impressione. Intendo "buona" non nel senso di soddisfacente, visto che è un film che difficilmente si può considerare piacevole, per tema e svolgimento.
La premessa su cui si basa è abbastanza semplice, e per la verità non particolarmente originale nell'ambito della fantascienza apocalittica: per qualche ragione sconosciuta, l'umanità non sono più in grado di concepire. Le donne non fanno più figli, e quando la cosa diventa evidente ormai è troppo tardi per trovare una soluzione, il mondo si sta già avviando al collasso. Senza una prospettiva per il futuro, la società sta vacillando, gran parte delle nazioni sono cadute a causa delle ribellioni e sono poche le isole di civiltà ancora abitabili. Tra queste spicca il Regno Unito, che come in V per Vendetta è riuscito a mantenersi calmo and carry on. Questo fa dell'UK la meta preferita dei profughi, in fuga dalle devastazioni in corso nel resto del mondo, pertanto il governo inglese ha dovuto mettere in atto forti misure restrittive nei confronti dell'immigrazione. Seguiamo la storia di un burocrate qualsiasi, che si trova a dover accompagnare una ragazza incinta (profuga anche lei), forse l'unica al mondo e possibile via di salvezza/sopravvivenza per tutta l'umanità. Ma proprio per questo, sono in molti a volersi impossessare di lei e del nascituro, e la bontà delle intenzioni di ognuno è difficile da valutare.
I figli degli uomini è un film crudo, con una regia frenetica, simile a un reportage di guerra, e non a caso. Attentati, posti di blocco e sparatorie sono la norma in questo mondo preapocalittico. Le città sono posti relativamente sicuri ma sottoposti a severi controlli, al tempo stesso la deportazione degli immigrati irregolari è una costante. Il film è uscito nel 2006, e rivedendolo a dieci anni di distanza, in piena "emergenza migranti" fa un certo effetto. Le cause del fenomeno sono diverse, ma sembra quasi che in Europa ci stiamo avviando su una strada simile, a dimostrazione di come alla fine dei conti l'odio ha bisogno solo di un pretesto per potersi esprimere. Le riflessioni che il film suscita sono parecchie, ma tutte confluiscono nella domanda finale: cosa vogliamo lasciare ai nostri figli? In questo caso, figli non ce ne sono, ma questo è sufficiente a scoraggiare qualsiasi parvenza di costrutto sociale? La consapevolezza di un futuro, l'idea che qualcuno continuerà a occupare il mondo dopo di noi è l'unica cosa su cui si regge la civiltà?
Interessante anche notare come questo scenario appaia come l'opposto di quello auspicato dal VHEMT. Il Movimento per l'Estinzione Umana Volontaria promuove una lenta e serena eutanasia della nostra specie, senza clamore e costrzioni. Se l'assenza di nuove nascite fosse una scelta ragionata e profonda dell'umanità, potremmo davvero pensare di andarcene senza rendere infernali le vite degli ultimi umani? Pensiamoci, seriamente.
Come nota finale, devo rilevare che il doppiaggio finale è davvero insostenibile per il personaggio (tutt'altro che secondario) della ragazza madre. Forse nel tentativo di farla percepire come un'immigrata, la parlata inespressiva da vucumprà rovina completamente l'immersione. Si sarebbero potute trovare soluzioni molto più eleganti.
La premessa su cui si basa è abbastanza semplice, e per la verità non particolarmente originale nell'ambito della fantascienza apocalittica: per qualche ragione sconosciuta, l'umanità non sono più in grado di concepire. Le donne non fanno più figli, e quando la cosa diventa evidente ormai è troppo tardi per trovare una soluzione, il mondo si sta già avviando al collasso. Senza una prospettiva per il futuro, la società sta vacillando, gran parte delle nazioni sono cadute a causa delle ribellioni e sono poche le isole di civiltà ancora abitabili. Tra queste spicca il Regno Unito, che come in V per Vendetta è riuscito a mantenersi calmo and carry on. Questo fa dell'UK la meta preferita dei profughi, in fuga dalle devastazioni in corso nel resto del mondo, pertanto il governo inglese ha dovuto mettere in atto forti misure restrittive nei confronti dell'immigrazione. Seguiamo la storia di un burocrate qualsiasi, che si trova a dover accompagnare una ragazza incinta (profuga anche lei), forse l'unica al mondo e possibile via di salvezza/sopravvivenza per tutta l'umanità. Ma proprio per questo, sono in molti a volersi impossessare di lei e del nascituro, e la bontà delle intenzioni di ognuno è difficile da valutare.I figli degli uomini è un film crudo, con una regia frenetica, simile a un reportage di guerra, e non a caso. Attentati, posti di blocco e sparatorie sono la norma in questo mondo preapocalittico. Le città sono posti relativamente sicuri ma sottoposti a severi controlli, al tempo stesso la deportazione degli immigrati irregolari è una costante. Il film è uscito nel 2006, e rivedendolo a dieci anni di distanza, in piena "emergenza migranti" fa un certo effetto. Le cause del fenomeno sono diverse, ma sembra quasi che in Europa ci stiamo avviando su una strada simile, a dimostrazione di come alla fine dei conti l'odio ha bisogno solo di un pretesto per potersi esprimere. Le riflessioni che il film suscita sono parecchie, ma tutte confluiscono nella domanda finale: cosa vogliamo lasciare ai nostri figli? In questo caso, figli non ce ne sono, ma questo è sufficiente a scoraggiare qualsiasi parvenza di costrutto sociale? La consapevolezza di un futuro, l'idea che qualcuno continuerà a occupare il mondo dopo di noi è l'unica cosa su cui si regge la civiltà?
Interessante anche notare come questo scenario appaia come l'opposto di quello auspicato dal VHEMT. Il Movimento per l'Estinzione Umana Volontaria promuove una lenta e serena eutanasia della nostra specie, senza clamore e costrzioni. Se l'assenza di nuove nascite fosse una scelta ragionata e profonda dell'umanità, potremmo davvero pensare di andarcene senza rendere infernali le vite degli ultimi umani? Pensiamoci, seriamente.
Come nota finale, devo rilevare che il doppiaggio finale è davvero insostenibile per il personaggio (tutt'altro che secondario) della ragazza madre. Forse nel tentativo di farla percepire come un'immigrata, la parlata inespressiva da vucumprà rovina completamente l'immersione. Si sarebbero potute trovare soluzioni molto più eleganti.
Published on March 09, 2017 09:33
Unknown to Millions
Il blog di Andrea Viscusi since 2010
Libri, fantascienza, serie tv, Futurama, Doctor Who
Libri, fantascienza, serie tv, Futurama, Doctor Who
- Andrea Viscusi's profile
- 81 followers

