Andrea Indini's Blog, page 153

March 24, 2014

Irpef, il gioco delle tre carte: niente tagli, spunta il bonus

Dalle promesse ora il premier Matteo Renzi deve passare ai fatti. E deve far trovare quegli 80 euro extra da far saltar fuori nel cedolino di maggio. Perché, come lui stesso ha detto, sul taglio delle tasse si gioca la faccia. Peccato che il taglio all’Irpef da maggio a dicembre costa 6,6 miliardi di euro. Cifra non facile da reperire e sulla quale i tecnici del Tesoro stanno lavorando, notte e giorno, in vista della messa a punto del Def, il documento di economia e finanza che dovrebbe essere presentato al Consiglio dei ministri e al parlamento entro i primi giorni di aprile. Secondo fonti vicine a Palazzo Chigi sentite da Repubblica, non è detto che gli 80 euro arrivino dalle detrazioni Irpef. Al vaglio l'ipotesi di "un sistema di contributi da rendere evidenti e visibili tra le voci dello stipendio". Insomma, una sorta di bonus.


"Subito deopo il Def arriveranno i decreti", assicurano da Palazzo Chgi. È una corsa contro il tempo. Non solo per far avere agli italiani con reddito basso gli 80 euro promessi, ma per inviare a Bruxelles, entro il 15 aprile, i compiti fatt. E fatti bene. Perché il nodo sulle coperture economiche resta, non è stato ancora risolto. Le ipotesi sul tappeto per reperire la cifra sono diverse, anche se alcune di difficile attuazione. Come ad esempio le voci indicate nella Spending review dal commissario Carlo Cottarelli. Sul contributo pensioni, che avrebbe un impatto di poco più di un miliardo di euro, Renzi ha già frenato. "Questo anche perché - spiegano fonti di governo - l’effetto di alcune misure della spending sarebbe dilatato nel tempo mentre l’impegno è tagliare già dalle buste paga che arriveranno ai dipendenti martedì 27 maggio". E i tempi sono lunghi anche per far rientrare i capitali dall'estero e per avere in cassa i soldi che arriveranno dal calo degli interessi pagati sui titoli pubblici.


Metà della cifra necessaria potrebbe, tuttavia, "liberarsi" in modo quasi "automatico". E senza "danni" a livello europeo. Se infatti, come calcolano anche all’interno del governo, le misure annunciate da Renzi fossero attuate si stima un "beneficio" in termini di maggior crescita di 0,5 punti di pil. Che aggiunti agli 0,6 già stimati dall’esecutivo porterebbero la crescita quest’anno all’1,1%. L’effetto positivo si trasmetterebbe al rapporto tra deficit e pil che calerebbe a sua volta di 0,2 punti. Si libererebbero così 3,2 miliardi rimanendo decisamente lontani dal limite del 3% ed evitando di dover contrattare con la Commissione Ue che si è già mostrata decisamente "fredda" all’ipotesi.


Altro capitolo è il taglio dell'Irap che, attraverso un decreto contestuale a quello per gli 80 euro in busta paga, dovrebbe essere operativo già dal 10 maggio. Anche il questo caso la dead line è dietro l'angolo. D'accordo con Renzi, il Tesoro vorrebbe finanziarlo con l'aumento dell'aliquota sulle rendite finanziarie diverse dai titoli di Stato. Portando l'aliquota dal 20 al 26%, i tecnici di via XX Settembre prevedono infatti un extra gettito di 2,6 miliardi di euro. Tutte le ipotesi, almeno per il momento, vagano nel regno delle possibilità. Di scritto non c'è niente. E, stando ai mugugni di palazzo, la partita è tutt'altro che in discesa.


Al vaglio del Tesoro le coperture per tagliare l'Irpef: difficile trovare 6,6 miliardi. Ma è corsa contro il tempo: entro il 15 aprile Renzi dovrà illustrare le misure all'Ue





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Andrea Indini



Renzi non ha i soldi per fare i tagli / BrunettaLa spending di Cottarelli è pura ideologia / Forte
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Published on March 24, 2014 03:37

March 23, 2014

Renzi avvisa i manager pubblici: "Presto i tagli, giustizia sociale"

Il dibattito sugli stipendi dei manager pubblici si fa sempre più infuocato. Il premier Matteo Renzi non cambia idea e chiede che si torni a "un principio di giustizia sociale": "Non è possibile che l’ad di una società guadagni mille volte in più dell’ultimo operaio". E lo scontro a distanza con l’ad delle Fs Mauro Moretti, che ha minacciato il governo di lasciare l'incarico in caso di un'ulteriore decurtazione del compenso, si allarga a macchia d'olio coinvolgendo anche sindacati e società civile. "Se vogliamo davvero cambiare l’Italia e riportare al centro dell’attenzione gli interessi ed i bisogni dei cittadini e non quelli delle vecchie corporazioni - ha tuonato Diego Della Valle, patron di Tod’s e socio di Ntv - gente come Moretti deve essere mandata a casa subito e con determinazione". Una posizione dura che, però, fa l'eco all'ultimatum lanciato ieri sera dal ministro dei Trasporti Maurizio Lupi: "Se un manager ha voglia di andare via è libero di trovare sul mercato chi lo assume a uno stipendio maggiore".


Ormai il refrain degli "anti casta" è sempre lo stesso: si inizi a tagliare dagli stipendi dei manager pubblici. A fare da capro espiatorio è, suo malgrado, Moretti che nel 2012 ha percepito poco più di 870mila euro. Uno stipendio da invidiare, certo, ma che, ha fatto notare lo stesso ad di Ferrovie, è comunque meno di quanto porta a casa Michele Santoro. E, in ogni caso, è già stato decurtato dopo un primo intervento di spending review. Di più, però, Moretti non è disposto a scendere: "Prendo la metà del mio predecessore che ha lasciato due miliardi di perdite mentre io le Ferrovie le ho riportate in utile: 450 milioni di utile". Il renziano Della Valle, però, non è d'accordo. "Se Moretti avesse il coraggio e la dignità di andarsene, troverebbe milioni di Italiani pronti ad accompagnarlo a casa - ha tuonato il socio di Ntv, la società del treno Italo - sono tutti i viaggiatori costretti a viaggiare con tanti disagi sui treni delle ferrovie Italiane, costretti a subire ritardi ingiustificati, a viaggiare su treni vecchi, ad usare stazioni decrepite e poco sicure, senza nessun rispetto per la loro dignità". Più che un attacco nel merito della spending review, quello del patron di Tod's suona più come una stroncatura della gestione di Ferrovie dello Stato: "Bisogna fare chiarezza su tutti i rapporti che intercorrono fra le Ferrovie, Moretti e i politici che, tranne qualche rara eccezione, sono completamente appiattiti su di lui, permettendogli di fare tutto quello che vuole".


Anche la politica, però, non si è affatto dimostrata tenera con Moretti. Per Lupi, unica voce del governo a intervenire nella baruffa, Moretti resta un "manager efficiente" che ha sempre "lavorato bene". "Ma se il padrone, in questo caso lo Stato, decide che rispetto a quello stipendio bisogna dare un segnale anche nella direzione dei cittadini - ha fatto presente il ministro dei Trasporti - giustamente siamo in un mercato libero e credo che se Moretti ha altre offerte, lo può fare tranquillamente". Eppure i numeri sono dalla parte di Moretti: al suo arrivo il gruppo Fs aveva 2,1 miliardi di perdite su un fatturato di 6,7 miliardi di euro; nel 2013, con il sesto bilancio positivo consecutivo, si annunciano utili per 450 milioni e miliardi di investimenti in autofinanziamento. Non gli resta che scalare il monte debiti da 10 miliardi accumulato prima del suo arrivo. Insomma, c'è ancora tanta strada da fare. Resta il fatto che Fs non è certo un altro carrozzone come Alitalia. Per questo i tagli dei compensi non possono essere punitivi. Altrimenti, quando fra qualche settimana ci sarà trovare uomini capaci di guidare colossi come Eni, Enel o Finmeccanica, Renzi farà fatica a cavar fuori dal cilindro bravi manager.


Renzi: "Torniamo ad un principio di giustizia sociale". Della Valle, patron di Tod's e socio di Ntv, a gamba tesa su Moretti: "Se ne vada". Ma i bilanci sono dalla parte dell'ad di Fs





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Andrea Indini



Tetto agli stipendi pubblici, il flop dei tagli di Monti
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Published on March 23, 2014 13:06

La Guzzanti non perde il vizio

Sabina Guzzanti, il viziaccio femminista, proprio non lo perde. Un'odio livido e invidioso trabocca ogni qual volta tra i banchi del governo siede una ministra bella che non fa niente per censurare la propria femminilità. Che le lady siano berlusconiane o renziane poco importa. Se non castigano la femminilità, se non nascondono le curve, se usano la propria avvenenza come un plus rispetto alla bravura, ecco che la comica le scarica addosso palate di insulti. È la versione peggiore delle lotte sessantottine, è l'assioma sinistrorso per cui dietro a un viso d'angelo non può albergare anche l'intelligenza, è il femminismo spinto che nelle ultime settimane si è riversato contro il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. Anche a lei deve aver pensato la Guzzanti quando, intervistata da Maria Latella sul tema donne e media, ha duramente attaccato la squadra di Matteo Renzi: "Il nuovo governo è mostruoso e le nuove ministre sono donne immagine".


Ha voluto un governo per metà in rosa, eppure su Renzi piovono le critiche delle femministe più agguerrite. Un fronte che si è aperto all'indomani del giuramento, con l'intellighenzia rossa a mugugnare sul tailleur strizzato e sui tacchi vertiginosi della Boschi, e che ora trova il suo apogeo negli attacchi della Guzzanti. "Sono giovani, come possono avere le competenze necessarie per essere ministri? Si scelgono giovani inesperte che poi fanno leggi a favore degli imprenditori senza neanche accorgersene. Marianna Madia è un esempio di donna al potere per raccomandazione", ha tuonato da Madonna di Campiglio, alla seconda e penultima giornata di incontri dal titolo Il potere delle donne. Dietro alle scelte di Renzi, però, la Guzzanti vede ancora una volta lo zampino del berlusconismo a cui rinfaccia di aver trasformato la questione femminile in "pornografia". "I media in Italia offrono un’immagine debole della donna - ha spiegato - c'è bisogno di cambiare la cultura, riconoscendo alla donna autorevolezza e non facendo della donna solo una questione di ordine pubblico".


La Guzzanti non è certo nuova a certe sparate. Nel 2008, in occasione del "No Cav Day" organizzato in piazza Navona, aveva addirittura intonato una canzone contro l'allora ministro Mara Carfagna: "Osteria delle ministre, le ministre son maestre e se a letto son portento figuriamoci in parlamento, dammela a me Carfagna, pari opportunità". Per quelle oscenità, che né la sinistra né le femministe ebbero mai a stigmatizzare, sarà condannata dal tribunale di Roma a versare alla Carfagna 40mila euro di danni morali. Con toni meno beceri l'attrice è tornata alla carica incarnando un'opinione tacitamente condivisa dalla sinistra radicale che a Renzi rinfaccia una gestione "berlusconiana" del Pd. Senza saperlo la Boschi ha già risposto - indirettamente - qualche giorno fa: "Non credo bisogna mortificare la propria femminilità per essere più credibili e per sembrare più serie. Vorrei essere giudicata per le riforme, non per le forme". Un appello diretto più agli italiani che alle Guzzanti di turno.


L'attrice: "Il governo è mostruoso e le sue ministre sono donne immagine". E accusa: "Colpa del berlusconismo"





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Andrea Indini

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Published on March 23, 2014 12:28

March 22, 2014

Le privatizzazioni di Padoan: Poste, Ferrovie e Fincantieri

"Non abbiamo alternative. Dobbiamo crescere, recuperare competitività, creare buona occupazione, senza mettere a rischio i conti pubblici". Intervenendo al XV Forum di Confcommercio a Cernobbio, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan traccia l'orizzonte delle misure economiche e delle riforme che il governo Renzi è chiamato ad attuare nel medio termine. Perché, sebbene nel secondo trimestre del 2013 siano stati sensibili miglioramenti, il quadro congiunturale resta "fragile e ancora esposto a molti rischi". In Italia persiste infatti un rischio crescente di disagio sociale che, stando agli indicatori del Tesoro, potrebbe colpire il 30% della popolazione. Su questi pende, come una spada di Damocle, un debito colossale che frena gli investimenti e abbisogna di una pressione fiscale sempre maggiore.


L'obiettivo di Padoan è tornare a crescere combinando misure di intervento immediato con misure strutturali e, roprattutto, "senza mettere a rischio i conti pubblici". Perché questo sia possibile il governo non ha altra alternativa che prendere in mano le cesoie e iniziare a fare tagli permanenti. Proprio per questo oltre al Jobs Act, su cui il premier Matteo Renzi intende giocarsi la faccia per far ripartire l'occupazione, e allo sblocco dei fondi per pagare i debiti della pubblica amministrazione è in dirittura d'arrivo un piano di privatizzazioni che vanta il duplice obiettivo di accrescere l’efficienza delle imprese e ridurre "in modo consistente" il debito pubblico. Il governo ha "concrete ipotesi" di dismissione di partecipazioni in società come le Poste, le Ferrovie delle Stato e Fincantieri. "C’è un attenzione crescente del mercato che va sfruttata nel migliore dei modi", ha detto Padoan ricordando che lo Stato è azionista di controllo di trenta società e azionista di riferimento di molte quotate. Insomma, c'è spazio per "una riduzione del ruolo dell’operatore pubblico".


Accanto alle privatizzazioni, che serviranno sicuramente a fare cassa, il governo si appresta a mettere in cantiere riforme costosissime per cui il Tesoro dovrà trovare coperture solide. "Il finanziamento di queste riforme - ha spiegato Padoan - deve essere fuori discussione e deve essere sostenibile, altrimenti misure oggi che non sono credibilmente finanziate, non sono solo risorse sprecate ma sono politiche che danneggiano la credibilità dell’azione". La situazione italiana richiede, infatti una strategia incentrata su misure strutturali capaci di incidere sia su meccanismi di creazione della domanda interna sia sulla competitività. I risultati potranno dare frutto solo nel medio periodo. C'è tempo, quindi. Nella fase di entrata a regime delle misure Padoan conta di "sostenere la ripresa e combinare le misure di intervento immediato con misure di carattere strutturale". Intanto andrà avanti a studiare. Non vuole essere considerato come il Signor No. "Io sto imparando il mestiere, anche a spingere i bottoni - ha concluso - ma ritengo che il vocabolario del ministro debba essere più ampio di questa singola parola".


Padoan annuncia: "Misure per la crescita ma senza mettere a rischio i conti". E promette: "Non sarò più il signor No". In arrivo un piano di privatizzazioni





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Andrea Indini

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Published on March 22, 2014 13:37

March 21, 2014

Ora al Pd piacciono i "partiti personali": alle europee il nome di Renzi nel simbolo

"Il Pd vuole giocarsi la faccia". Sebbene non abbia alcuna intenzione di candidarsi alle elezioni europee, Matteo Renzi sta puntando molto sulla tornata di maggio. I sondaggi, almeno per il momento, sono dalla sua. Anche se la coalizione di centrodestra lo marca stretto e i partiti antieuro rischiano di rubargli una fetta consistente di voti. Prendere una batosta alle urne, indebolirebbe il governo. Lo sa molto bene Beppe Grillo che, in una intervista al Corriere del Mezzogiorno, ha lanciato la sfida al premier: "Vinceremo se metteremo un parlamentare in più del Partito democratico". Qualora dovessero farcela, i Cinque Stelle chiederebbero immediatamente la crisi di governo. Al quartier generale piddì già corrono ai ripari. E, in barba alle sparate contro i "partiti personali" tanto odiati dalla vecchia guardia post comunista, serpeggia l'ipotesi di usare il marchio Matteo Renzi anche alle europee. Ipotesi poi stroncata dallo stesso segretario.


Anche al Pd pacerebbe avere il nome del proprio leader sul simbolo elettorale. Il banco di prova avrebbe potuto essere il voto per le europee, se solo la proposta del vice presidente dei democratici Matteo Ricci non fosse stata subito stoppata dallo stesso segretario. "Proporrò il nome di Renzi sul simbolo del Pd per le Europee. Sarebbe un valore aggiunto", ha detto l'esponente piddino ai microfoni di Agorà. La proposta rompe anni di crociate contro il centrodestra che ha sempre scritto "Berlusconi presidente" all'interno del simbolo. Anche alle ultime elezioni politiche, quando il candidato premier per il Pd era Pier Luigi Bersani, i democrat si erano strenuamente opposti ad aggiungere il nome all'interno del simbolo. E proprio Bersani, in piena campagna elettorale, aveva sferrato un durissimo affondo contro quella che con un'immagine forte aveva descritto come il "cancro della politica". "Io sono l'unico candidato che non mette il proprio nome sul simbolo - aveva rivendicato l'allora segretario del Pd - pur essendo stato scelto da 3 milioni e 200mila persone non metto il nome sul simbolo. Nel Pd Bersani c'è per un po' ma il Pd ci sarà tra 20-50-100 anni". Non era certo l'unico a rivendicarlo. Qualche mese dopo lo stesso attacco era arrivato da Guglielmo Epifani, che nel frattempo aveva succeduto Bersani alla guida del partito. "Tolto il Pd, in Italia sono tutti partiti personali - aveva tuonato - i partiti personali sono per definizione partiti antidemocratici, che rispondono al capo, vivono del leader e muoiono con il leader. È questa la grande mancanza di una destra europea che abbiamo, che ci costringe a essere responsabili quando gli altri non lo fanno".


In realtà non sarebbe la prima volta che il centrosinistra si presenta con il nome del candidato nel simbolo. Nel 2001, er esempio, la sinistra si presentò alle urne con il logo "L'Ulivo per Rutelli - insieme per l'Italia". E le elezioni furono un vero disastro. Sconfitta bissata nel 2008 da Walter Veltroni che corse con il proprio nome nel simbolo. L'intellighenzia rossa non perse l'occasione di attaccarlo per l'eccessivo "personalismo" della candidatura. Va detto, d'altra parte, che Romano Prodi non volle mai il proprio nome nel simbolo, tanto con l'Ulivo nel 1996 quanto dieci anni dopo con l'Unione. Ora pare che il nome del leader potrebbe tornare nel simbolo del partito. Peccato che stavolta Renzi non sia nemmeno candidato.


Renzi non si candida. Ma i dem vogliono ugualmente mettere il suo nome nel simbolo del partito. E pensare che fino a ieri la sinistra criticava i "partiti personali"





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Andrea Indini



Renzi: "No al mio nome nel simbolo del Pd"Dal Pds al Pd, vent'anni di loghi rossi
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Published on March 21, 2014 07:50

March 18, 2014

Renzi a braccetto con D'Alema: "Insieme cambieremo l'Europa"

Le elezioni europee si avvicinano e Matteo Renzi finge di mordere alla gola Bruxelles per evitare al Pd il flop alle urne. "O l’Unione europea è una sfida politica e richiama la politica alla dignità del suo ruolo o noi perdiamo". È uno slogan che da settimane va ripetendo in ogni occasione. "C’è uno spread tra le aspettative dei cittadini e il rapporto con l’Europa, uno scollamento incredibile come dimostrano i sondaggi devastanti, uno tsunami", spiega in occasione della presentazione del libro di Massimo D’Alema Non solo euro. A preoccuparlo sono i sondaggi che danno i partiti anti euro in testa in mezza Europa. Tanto che sembra disposto a siglare una tregua armata con D'Alema a cui, solo alcuni mesi fa, augurava di trascorrere le giornate ai giardinetti.


All’indomani dell’incontro con la cancelliera tedesca Angela Merkel, Renzi torna a parlare di Europa e moneta unica. Lo fa al Tempio di Adriano, in una sala piena di storici big del Pci. In sala ci sono, infatti, Beppe Vacca, Alfredo Reichlin, Franca Chiaromonte e Walter Veltroni. Come già spiegato nelle scorse settimane, il presidente del Consiglio ribadisce che "l'Europa basata solo sulla stretta aderenza ai parametri tecnocratici allontana sempre di più i cittadini". I toni sono molto affini a certi euroscettici che di poco si distanziano dagli antieuro. D'altra parte le elezioni sono alle porte. E le urne per l'europarlamento rischiano di trasformarsi in una prima battuta per il Pd a guida Renzi. "In vista delle europee - spiega - se noi saremo in grado di raccontare che tipo di Europa immaginiamo forse sconfiggeremo i populismi che in Italia hanno le sembianze di Grillo e della Lega". Eppure in Francia, Gran Bretagna e Austria i partiti con più consensi sono proprio quelli che vogliono uscire dalla moneta unica. E in Italia il panorama non è affatto diferso: Cinque Stelle, Carroccio e Fratelli d'Italia rappresenteranno oltre il 30% degli italiani. Non solo. Il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, ha già fatto sapere che formerà un gruppo parlamentare insieme alla leader del Front National Marine Le Pen e agli altri partiti anti euro. Un confronto a cui il Pd non intende partecipare. D'altra parte, senza far troppi giri di parole, D'Alema bolla il referendum per uscire dall’euro come una "bischerata".


Per anni il Pd ha difeso a oltranza l'Europa dei tecnocrati, la moneta unica e le politiche di austerità della Merkel. Sebbene anche Renzi si sia sbracciato per ingraziarsi la cancelliera tedesca, almeno nei discorsi ha cambiato toni. "Dobbiamo uscire dalla sudditanza per cui in Europa andiamo a fare gli esami - avverte - gli esami li fanno i cittadini non le grandi istituzioni europee". Ricordando la forza del settore manifatturiero e l'avanzo primario del Belpaese, rimarca quindi che l'Italia non è "l’ultima ruota del carro" del Vecchio Continente. Tuttavia, spiega, "anni di dichiarazioni che avremmo fatto la fine della Grecia hanno raggrinzito le ambizioni di un Paese". Il capo del governo promette, quindi, il rispetto del vincolo del 3% a patto che Bruxelles mantenga gli impegni presi: "La partita non si gioca sulle misure economiche ma nel mostrare ai partner che le riforme le facciamo sul serio, in tempi certi, senza scadenza di legislatura e avendo il coraggio di mettere in discussione tabù che per trent'anni non sono stati toccati". E questa partita D'Alema e Renzi sembrano volerla giocare insieme. "Facciamo parte della stessa squadra", dicono. Non a caso l'ex premier regala al neo premier la maglia della Roma, numero 10, quella di Francesco Totti. E non a caso il neo premier glissa su un'eventuale candidatura dell'ex premier a Bruxelles.


Il premier alla presentazione del libro di Baffino bacchetta gli anti euro. E glissa sulla candidatura di D'Alema a Bruxelles





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Renzi: "Bruxelles rispetti i cittadini"Renzi: "O l'Ue è sfida politica o perderemo"Renzi: "Non andiamo a Bruxelles a fare gli esami"Renzi: "Preoccupanti analogie con D'Alema"
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Published on March 18, 2014 12:55

Statali, la cura di Cottarelli: "In arrivo 85mila esuberi"

Nel 2014, se si fosse iniziato a tagliare già a gennaio, il risparmio massimo raggiungibile sarebbe stato di circa 7 miliardi di euro. Il lassismo dell'ex premier Enrico Letta e la successiva crisi di governo hanno, tuttavia, fatto passare i mesi senza nessuno mettesse mano alle cesoie. Per questo il processo di spending review sarà inevitabilmente più magro. "Sugli ultimi otto mesi, più o meno, si arriva a 5 miliardi - ha spiegato il commissario straordinario Carlo Cottarelli, nel corso di una audizione in Senato - c’è comunque un margine, dipende dallo sforzo e dalle decisioni che si prendono". In questo margine di azione si pongono anche l'esubero di 85mila stataliil contributo di solidarietà sulle pensioni oltre i 3mila euro proposto nei giorni scorsi dallo stesso Cottarelli. "Queste sono scelte politiche - ha detto oggi - si può anche pensare che è un comparto che non si vuole toccare".


Tagli all'Arma, ai Comuni e alle Regioni e alla politica. Il documento definitivo sulla spending review sarà presentato con il Def, ma sin da ore appare chiaro che il piano preparato dal commissario alla Revisione della spesa è molto di più dei tagli agli F-35 annunciati due giorni fa dal ministra della Difesa Roberta Pinotti e molto di meno del malloppo su cui Matteo Renzi spera di mettere le mani per riuscire a fare le riforme promesse agli italiani. Mentre il premier aveva parlato di 7 miliardi a disposizione per coprire il taglio del costo del lavoro, Cottarelli ha abbassato l'asticella a massimo 5 miliardi lasciando, tuttavia, intendere che i 2 miliardi di differenza potrebbero essere portati a casa attraverso "scelte politiche" che competono appunto al governo. Il documento ha, quindi, una linea molto prudenziale per cercare di recuperare quegli ottanta euro al mese in più in busta paga a chi percepisce uno stipendio inferiore ai 1500 euro. Si tratta di "proposte per una revisione della spesa pubblica" nel triennio 2014-2016 che, in teoria, sfrutteranno "risparmi lordi massimi" per 7 miliardi su base annua: 2,2 miliardi saranno recuperati dall'efficientamento diretto (800 milioni da iniziative su beni e servizi, 200 dalla pubblicazione telematica degli appalti pubblici, 100 da consulenze e auto blu, 500 dagli stipendi dei dirigenti della pubblica amministrazione, 100 da corsi di formazione, 100 dall'illuminazione pubblica, 400 da proposte varie); 200 milioni dalla riforma delle Province e dalle spese degli enti pubblici; 400 dai costi della politica; 2 miliardi dai trasferimenti a imprese e famiglie e 2,2 miliardi dalle spese settoriali. 


Della cura Cottarelli a creare maggiori attriti, soprattutto dalla Cgil che ha denunciato "l’ennesimo attacco al sistema pubblico e del welfare", è il piano sugli esuberi. Si tratterebbe di un taglio netto di 85mila unità entro il 2016. Ma Cottarelli rifiuta qualsiasi allarmismo: "È una prima stima di massima che va affinata in base alle effettive riforme che dovranno essere chiarite nel corso del 2014". Nel mirino anche il turn over, cioè il meccanismo che fa scattare un'assunzione per ogni dipendente che va in pensione. Al vaglio del commissario l'ipotesi di passare al blocco totale dall'attuale processo che congela il ricambio generazionale per l'80%. E anche in tema di pensioni c'è poco da sorridere. Il contributo partirebbe da "pochi euro al mese andando poi a crescere" in base al reddito. "Dipende dal tipo di scenario che si vuole avere, sono scelte politiche - ha evidenziato - si può anche decidere che non si devono toccare". In ogni caso, "per gli scaglioni più bassi il contributo era molto basso", quindi anche "se si partisse da più in alto i risparmi non sarebbero compromessi". Sull’intero anno la misura varrebbe 1,4 miliardi di euro, poco più della metà se il taglio partisse da maggio. Ma questa è una scelta che spetterà soltanto a Renzi.


Le previsioni sui tagli alla spesa ridimensionano le aspettative di Renzi. Ballano 2 miliardi che possono saltar fuori solo con "scelte politiche"





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Andrea Indini

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Published on March 18, 2014 11:46

March 17, 2014

Scontro alla procura di Milano: sotto accusa lo strapotere di Md

Nervi tesissimi alla procura di Milano. È in atto un braccio di ferro senza precedenti tra il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e il "suo" vice Alfredo Robledo. Al centro di questa lotta tra bande c'è l'indiscusso strapotere di Magistratura democratica. Robledo ha, infatti, denunciato al Consiglio superiore della magistratura una serie di "non più episodici comportamenti" con i quali Bruti Liberati "ha turbato e turba la regolarità e la normale conduzione dell’ufficio" svuotando il pool anticorruzione. Una denuncia politica per mettere in dubbio la tentacolare gestione di quella magistratura rossa che negli ultimi anni ha messo le mani su fascicoli scottanti come il Rubygate e il fallimento dell'ospedale San Raffaele.


Alla procura di Milano non si era mai visto uno scontro tanto duro. Come riporta il Corriere della Sera, Robledo ha denunciato al Csm Bruti Liberato accusandolo di violare "i criteri di organizzazione vigenti nell'ufficio sulla competenza interna" assegnando i fascicoli più delicati agli aggiunti Ilda Bocassini e Francesco Greco. Dal Rubygate, che il 14 gennaio 2011 portò all'iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati per concussione e prostituzione minorile, al fallimento dell'ospedale San Raffaele, che dall'accusa di bancarotta a Pierangelo Daccò è finito nel processo per corruzione all'allora presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. E ancora: l'asta Sea-Comune di Milano che, dopo l'intercettazione di Vito Gamberale, aveva fatto ipotizzare ai pm di Firenze un bando su misura per il fondo F2I. Al punto che Robledo, con un’ iniziativa senza precedenti nella procura che fu di Borrelli e D’Ambrosio, giunge a denunciare l’asserita "violazione dei criteri di organizzazione vigenti nell’ufficio sulla competenza interna" al Csm.


Dietro alla denuncia di Robledo, che accusa il capo di aver svuotato il pool reati contro la pubblica amministrazione, c'è uno scontro durissimo tra correnti. O meglio: tra chi ne fa partee chi, invece, vorrebbe combatterle. "Le correnti della magistratura sono diventate soffocanti - aveva denunciato il viceprocruratore capo in una intervista all'Espresso - al di là delle buone intenzioni di tanti giudici onesti e capaci, hanno esaurito la loro spinta propulsiva alla partecipazione. Oggi purtroppo la struttura preponderante è una macchina da nomine. In una società liquida, in piena crisi di valori, servirebbe una nuova idea di giustizia". Basta dare un'occhiata ai fascicoli costestati a Bruti Liberati per capire che alla procura di Milano la gestione delle inchieste è prettamente politica. Adesso la parola passa al Csm di Michele Vietti. Che subito ha messo le mani avanti: "Al Consiglio non risulta pervenuto, allo stato, nessun esposto".


Robledo al Csm: "Irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli". Secondo l'esposto, il procuratore capo Bruti Liberati avrebbe privilegiato i pool di Boccassini e Greco





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Quella faida che divide la procura di Milano / L. Fazzo
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Published on March 17, 2014 07:46

March 14, 2014

A cena con Napolitano e Clio: così nacque il governo Renzi

Giorgio Napolitano se ne sta in disparte. "Resta al Quirinale perché vuole che si faccia la riforma elettorale - spiega in un'intervista all'Espresso Emanuele Macaluso, storico dirigente del Pci e vecchio amico di Re Giorgio - ma ritengo che manterrà fede a quello che ha detto in parlamento al momento della rielezione. Approvata la legge elettorale se ne andrà prima". Da che tirava i fili degli ultimi due governi, sembra essersi rinchiuso al Quirinale in attesa che da lì passi la prossima vittima: Matteo Renzi. Perché, come è già stato per Enrico Letta, anche l'ex sindaco di Firenze altro non è che un'alchimia di Palazzo, un magheggio firmato Napolitano, una mossa studiata a tavolino per evitare le elezioni. Un'operazione politica che nacque un lunedì sera, a cena. Era il 10 febbraio e al desco di Giorgio e Clio, anziché far accomodare l'allora premier Letta, fu invitato l'allora segretario del Pd Renzi. Una cena ufficiosa, all'oscuro delle segreterie presidenziali, che pose le basi per la nascita del nuovo governo.


Il retroscena della cena a tre e le ore che hanno preceduto l'ascesa di Renzi a Palazzo Chigi sono raccontate in La volta buona, un libro scritto a otto mani dal vicedirettore di Europa Mario Lavia, dai cronisti politici dell'Huffington Post Angela Mauro e Alessandro De Angelis e da Ettore Maria Colombo, primo biografo dell'ex segretario piddì Pier Luigi Bersani. Nel giro di poche settimane Renzi, al tempo primo cittadino di Firenze, prende prima il Partito democratico, quindi mette le mani sulla presidenza del Consiglio. Letta quasi non se ne accorge: tutto impelagato a mettere insieme uno straccio di patto di coalizione che Napolitano si affretta a dargli il ben servito. L'operazione, però, è già in atto da tempo. A maggio dello scorso anno la scalata frulla nella testa dell'ex rottamatore. "Matteo, perché non ce lo prendiamo il partito?". Matteo Richetti, deputato piddì, gli risponde: "Ma hai visto come è andata con Bersani?". La bruciante sconfitta di Bersani è ancora sotto gli occhi di tutti: la mancata smacchiatura del giaguaro, la figuraccia nel faccia a faccia con Beppe Grillo e il flop nella candidatura di Prodi al Colle. Una trombata in pieno stile che porta anche la firma di Renzi. Che da quei giorni, però, è riuscito a portare dalla sua parte la nomenklatura di via del Nazareno. Ma, mentre Letta non fa altro che combinare disastri e perdere consensi, anche Napolitano si convince a far credito al sindaco di Firenze.


Sin dall'inizio i rapporti tra Renzi e Napolitano sono stati piuttosto freddi. "Quando nell’aprile 2013 Renzi fu a un passo da Palazzo Chigi, il veto di Berlusconi fece tirare un grande sospiro di sollievo al presidente timoroso di mettere in mano a un under 40 inesperto le chiavi della sgangherata macchina Italia - spiega l'Huffington Post - da allora molto è cambiato, la stracciante vittoria di Renzi alle Primarie è stato il primo passo: Napolitano ha capito di avere di fronte a se un leader vero, strutturato e per di più legittimato dal popolo". Il faccia a faccia con Silvio Berlusconi al Nazareno e l'intesa sulla riforma della legge elettorale serve, quindi, a siglare la definitiva vittoria di Renzi. Far cadere Letta, quindi, è solo l'ultimo tassello dell'ennesima operazione orchestrata dal capo dello Stato. Dopo Monti e Letta tocca a Renzi, il terzo presidente del Consiglio non eletto dagli italiani. Il rito del passaggio della campanella tra premier uscente e premier entrante la dice lunga sul fatto che il blitz è stato tutt'altro che indolore. Renzi e Letta non solo non si parlano, ma manco si guardano negli occhi. In disparte, il vero artefice del grande imbroglio: Giorgio Napolitano.


Svelato il retroscena sulla cena a tre che convinse Re Giorgio a scalzare Letta e dare Palazzo Chigi a Renzi





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Andrea Indini

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Published on March 14, 2014 10:03

Fidanza: "L'Ue protegga gli italiani in Crimea"

Sono circa 500 anime di origine italiana perdute nei venti di guerra della Crimea. E hanno paura, hanno paura della guerra che potrebbe scoppiare. "Se cominceranno a sparare, come ai tempi della nostra deportazione nel 1942, i primi che verranno a cercare saranno le minoranze indifese", ha raccontato Giulia Giacchetti Boico, la presidente della comunità italiana della Crimea, a Fausto Biloslavo che per Gli occhi della guerra ha documentato i timori dei nostri compatrioti. Gli italiani di Crimea, emigrati nella penisola oltre 200 anni fa, furono deportati in Siberia e decimati da Stalin, che li considerava una spina nel fianco durante la seconda guerra mondiale. Oggi guardano con terrore i venti di guerra che soffiano in Ucraina.


"Ci appelliamo alla politica e al governo di Roma - ha continuato Giacchetti Boico - chiediamo solo un cenno di solidarietà e protezione. Un aiuto in questo momento drammatico". L'appello della presidente della comunità italiana della Crimea non è caduto nel vuoto. Carlo Fidanza, eurodeputato di Fratelli d'Italia, ha infatti deciso di spendersi in prima persona sia a Roma sia a Bruxelles. Da qui l'appello al neo ministro degli Esteri Federica Mogherini e all'Unione europea perché "si facciano carico della protezione di questi nostri connazionali".


Fidanza, cosa chiede alla Farnesina e all'Europarlamento?
"Per prima cosa permettetemi di ringraziare ilGiornale.it e l'ottimo Fausto Biloslavo per aver sollevato il caso. La comunità italiana in Crimea ha conosciuto le persecuzioni etniche e le purghe staliniane. Li chiamavano 'fascisti', erano solo italiani trovatisi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Rivolgo un appello al ministro Mogherini e un'interrogazione all'Ue perché l'Italia e l'Europa si facciano carico della protezione di questi nostri connazionali, che in caso di conflitto rischiano di subire ancora."


Qual è la posizione di Bruxelles sulla crisi ucraina?
"Tanto per cambiare l'atteggiamento dell'Ue sulla crisi ucraina è ambiguo. Solo cinque mesi fa condannava il partito nazionalista Svoboda e intimava alle altre forze anti-Yanukovich di non fare accordi con gli 'estremisti'. Ora li sostiene senza se e senza ma. L'Ue ha tifato per Maidan, ha illuso tanti ragazzi in buona fede e ora non sa che fare, perché in realtà l'Europa è debole e indecisa e fa fatica a confrontarsi con un avversario forte e deciso come la Russia di Putin."


E Putin?
"Putin si è sentito tradito dall'Occidente e dall'Europa. Si è impegnato per favorire il passo indietro di Yanukovich e ventiquattro ore dopo si è trovato un governo nemico alle porte di casa e una legge parlamentare che vietava il russo. Questo non lo giustifica ma ne spiega l'irritazione. I russi sono sempre russi ma l'Occidente non può dare lezioni, Kosovo docet."


I cecchini che hanno fatto una strage in piazza Maidan provocando la fuga e caduta del regime del deposto presidente Viktor Yanukovich avrebbero sparato sia sui rivoluzionari che sulla polizia. Una strategia della tensione che secondo la telefonata intercettata fra il rappresentante della politica estera Ue Catherine Ashton e il ministro egli Esteri estone nasconde lo zampino della stessa opposizione ucraina. Cosa c'è dietro?
"La sensazione che ci sia stata una mano esterna nell'ultimo massacro di civili trova sempre maggiori conferme. Il regime di Yanukovich ha avuto certamente molte responsabilità, ma probabilmente non quella che ne ha decretato la fine. La degenerazione delle 'rivoluzioni democratiche' sostenute dall'Occidente, come le famigerate primavere arabe, deve essere da monito."


Come si pone l'Italia davanti a questo braccio di ferro?
"L'Ue darà all'Ucraina 11 miliardi di aiuti. Di questi un paio arrivano dalle casse dell'Italia. L'equivalente di mezzo anno di Imu prima casa o di sette punti di Irap. Una cifra ingente data in piena crisi e senza garanzie di vero contrasto alla corruzione dilagante. A ciò si aggiungano visti facili con conseguenti flussi migratori verso l'Europa e meno dazi per le esportazioni, col rischio di vedere i nostri mercati invasi di ulteriori merci a basso costo. Senza contare le conseguenze energetiche dell'intera vicenda. Eppure il governo italiano pare ignorare tutto ciò e si accoda supino alle scelte di Obama o della Merkel."


Dopo il reportage de ilGiornale.it, Fidanza inchioda la Ue: "Si faccia carico della protezione dei nostri connazionali"


Speciale: Crisi ucraina


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Andrea Indini



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Published on March 14, 2014 08:38

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Andrea Indini
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