Marco Manicardi's Blog, page 40

June 18, 2020

Zamboni (2)

E in un libro che si chiama La macchia mongolica, del 2020, Massimo Zamboni dice che pur essendo cresciuto culturalmente in una generazione che doveva «essere» e non «avere», lui comincia a trovare asfissiante questo obbligo di essere, allo stesso modo dell’avere. E che negli anni gli è venuto più naturale sostituirli con il verbo «fare».


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Published on June 18, 2020 13:23

June 16, 2020

Delle cose che proprio non ci riesco (2)

Tipo accettare il fatto che Groucho Marx non avesse davvero i baffi.


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Published on June 16, 2020 09:44

June 15, 2020

Salinger (4)

E nell’esergo di un libro che si chiama Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzionedel 1963, Jerome David Salinger dice che se in tutto il mondo è rimasto ancora un lettore che legga per il gusto di leggere – o che comunque dopo aver letto se ne vada per i fatti suoi – gli chiede o le chiede, con indicibile affetto e gratitudine, di dividere la dedica di quel libro in quattro parti con sua moglie (di Salinger) e i suoi bambini (sempre di Salinger).


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Published on June 15, 2020 11:08

June 12, 2020

Delle cose che proprio non ci riesco

Tipo smettere di dire Sàlingher.

Un po’ come Gei Mèscis.


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Published on June 12, 2020 06:30

June 11, 2020

Salinger (3)

E in un racconto lungo intitolato Zooey, dentro a un libro che si chiama Franny e Zooey, del 1961, di Jerome David Salinger, il protagonista Zachary Martin Glass, detto Zooey, dice che, accidenti, ce ne sono di cose belle al mondo. E che quando dice belle intende belle. E che siamo degli idioti a svicolare sempre dalle cose. Sempre, sempre, sempre lì ad annotare tutti gli accidenti che capitano al nostro piccolo e schifoso io.


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Published on June 11, 2020 05:26

June 8, 2020

Sul muro

E sul muro di una casa di un paese che si chiama Santarcangelo di Romagna, in provincia di Rimini, c’è una lapide che dice così:


Germano era calzolaio e assaggiatore di vino e acqua per conto di amici.

Andava a piedi lungo il fiume e sulla groppa delle colline a cercare del Sangiovese con l’odore delle viole e l’acqua dei pozzi contadini che sapesse di menta.

Germano è morto che aveva 94 anni povero com’era sempre vissuto. I parenti hanno trovato un libretto di banca carico di soldi che lui si è sempre rifiutato di toccare. Erano gli assegni che da trent’anni gli arrivavano mensilmente per la morte nella Grande Guerra del giovane figlio ufficiale d’artiglieria.


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Published on June 08, 2020 09:04

June 7, 2020

Trentatré anni fa

Era il 7 giugno del 1987, avevo otto anni e dormivo dai nonni insieme a mio papà. Erano le quattro o le cinque del mattino, mi ero svegliato perché c’era del trambusto che veniva dal piano di sotto. Ero sceso dal letto, mi ero infilato le ciabattine e affacciandomi alle scale avevo visto mio papà che, vestito per uscire, stava prendendo le chiavi della macchina.

«Papà, posso venire anch’io?» gli avevo chiesto.

«No,» aveva risposto papà, «devi andare a scuola, torna a letto.»

Qualche ora dopo ero in classe, in seconda elementare, erano gli ultimi giorni poi sarebbero iniziate le vacanze. Avevo aspettato che la maestra finisse di fare l’appello, poi avevo alzato la mano.

«Marco, cosa c’è?» aveva chiesto la maestra.

«Devo dire una cosa,» avevo risposto.

«Va bene, dilla pure.»

«Stanotte è nata mia sorella.»

E tutta la classe, mi ricordo, si era messa ad applaudire.



Dopo, al pomeriggio, mio papà era tornato a casa, aveva mangiato qualcosa, mi aveva caricato in macchina e mi aveva portato all’ospedale di Carpi. C’era da attraversare un corridoio che mi ricordo molto lungo, poi si entrava in una stanza divisa a metà da un vetro. Dall’altra parte del vetro c’erano due o tre incubatrici con dentro dei bambini molto ma molto piccoli. Io arrivavo a vederli solo in punta di piedi, e mentre ero lì che guardavo senza saper bene come stare e che cosa fare, mio papà con un dito mi aveva indicato una delle incubatrici.

«È quella lì.»


Allora non avevo ben capito il perché fossero tutti così in ansia, invece adesso, che sono papà anch’io, quando ci ripenso mi viene un po’ il magone. Mia sorella era un cosino tutto scuro, quasi violaceo, rannicchiato a occhi chiusi dentro una teca di vetro, era nata prima del previsto, un po’ troppo per poter essere fuori pericolo, e per qualche settimana andavamo là tutte le sere per vedere se tutto procedeva come doveva procedere.

In parole povere, andavamo a vedere se era ancora viva.


E adesso mia sorella compie trentatré anni.

Io ne ho quarantuno e pian piano va a finire che diventiamo coetanei.

Ci penso e mi viene solo da dire una cosa banale, ma che comunque è abbastanza vera, e cioè: «vacca d’un cane, come passa il tempo.»


Auguri, sorellina.

Avanti così.


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Published on June 07, 2020 00:48

June 6, 2020

Ortolani

E nel numero 91, intitolato La discesadel 2012, di un fumetto che si chiama Rat-Man, Leonardo Ortolani, detto Leo, dice che andare all’inferno è facile. C’è una scala. Scendi il primo gradino. Poi scendi il secondo. Poi scivoli.


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Published on June 06, 2020 06:37

June 5, 2020

Ramone

E in un libro che si chiama Blitzkrieg punk. Sopravvivere ai Ramones, del 1998, Douglas Glenn Colvin, conosciuto ai più Dee Dee Ramone, morto diciotto anni fa, il 5 di giugno del 2002, a Hollywood, California, dice che chi entra a far parte di un gruppo come i Ramones non proviene da situazioni familiari particolarmente stabili, né si può dire che il punk rock sia una forma d’arte granché ricercata, ma nasce dalla rabbia di ragazzini in vena di creatività. E che loro dei Ramones, per esempio, eravamo conosciuti perché buttavamo i televisori dai tetti delle case.


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Published on June 05, 2020 03:48

June 2, 2020

Coates (2)

E sempre in un libro che si chiama Una lotta meravigliosa, del 2008, Ta-Nehisi Paul Coates racconta un episodio di quando era giovane e andava a scuola a Mondawmin, un quartiere di Baltimora, e che dice così:



[…] Con questi pensieri che mi frullavano per la testa entrai in classe, sperando di uscirne il prima possibile, magari con una scusa. Invece di sedermi al mio posto come tutti gli altri, rimasi in piedi vicino alla porta con un amico a dire stupidaggini. L’insegnante mi chiese di sedermi più volte, finché a un certo punto perse la pazienza e mi rimproverò davanti a tutti. Non ricordo le parole esatte, ma aveva alzato la voce, e non potevo fargliela passare liscia.

Gli afferrai la faccia con forza e gli dissi: «Non urlarmi mai più addosso. Mai. Chiaro?»

Mi ordinò con calma di uscire, poi chiamò la vigilanza. Ero così sovraeccitato dall’ego e dall’idea di me stesso in pubblico che mi misi a urlare anche contro il sorvegliante, così alla fine mi mise le manette e mi portò nel suo ufficio per stilare un rapporto. Fui sospeso con effetto immediato e la minaccia incombente dell’espulsione. Mi dissero di non tornare se non accompagnato da un genitore. Presi il 33 da solo, e mentre tornavo a casa mi resi conto di quello che avevo combinato. Mi ero sempre defilato, ma adesso ero stufo. Quella era la mia affermazione di rispetto, dei confini da non superare. Ma ci sarebbe stato un prezzo da pagare, e mio padre era il mercante che l’avrebbe stabilito. Mi aspettava sulla porta, come al solito a casa nei momenti peggiori. Era con mia madre e Jovett, con un mezzo sorriso di stupore e collera insieme stampato sulla faccia. Quando Jovett lasciò la stanza il primo colpo si abbatté su di me con una forza tale da sbattermi a terra.

Mia madre si mise in mezzo: «Paul! Paul!»

Lui la spinse via: «Donna, lasciami stare».

Da lì cominciò a darmele con una forza sovrumana, con la potenza trasmessa di generazione in generazione da madri e padri che cercano di proteggere i figli dalla frusta del padrone, dal linciaggio, dall’impiccagione, dagli sceriffi grassi pronti a darti fuoco. Mio padre me le dava con la forza di un’armata di schiavi in rivolta, come se avesse paura che il mondo lo stesse mettendo all’angolo, come se dovesse salvarmi la vita. Mentre ero in camera mia a piangere tutte le mie lacrime i miei tennero una breve consultazione in cucina. C’era solo una cosa da dire: «Cheryl, preferisci che lo faccia io o la polizia?»

Più tardi parlai con mia madre, seduti in cucina. Cercò di spiegarmi cosa sentiva, ma si mise a piangere quasi subito. Sapeva che non mi rendevo conto di quanto fossi vicino all’abisso, con che facilità ragazzi come me venivano cancellati dalla faccia della Terra senza ragione, in modi assurdi. Un attimo prima sei lì a lanciare palle di neve sui taxi che passano, a scherzare davanti a un 7-Eleven o a correre per la strada, e subito dopo eccoti circondato da poliziotti in posizione da tiro, pronti a sparare al minimo movimento. Per tutta la vita sarebbe stato lo stesso, sempre a un passo dall’essere ammazzato, sempre con un coltello puntato alla gola.


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Published on June 02, 2020 23:25