Giovanni De Matteo's Blog: Holonomikon, page 8
November 26, 2020
Il primo caso di Perry Mason
Perry Mason è probabilmente l’avvocato per eccellenza a cui finiamo per associare la nostra idea di legal drama in formato televisivo, quelle serie TV a sfondo giudiziario in cui avvocati e studi legali giocano un ruolo centrale. Per i più giovani, Law & Order, The Practice e Suits forniranno degli utili termini di paragone, ma almeno tre generazioni di spettatori non potranno fare a meno di pensare al faccione di Raymond Burr, che ha iconicamente legato alle proprie fattezze il volto dell’avvocato più famoso d’America (e probabilmente non solo), prima attraverso la serie originale della CBS (1957-1966) e poi con una striscia di 30 film trasmessi dalla NBC tra il 1985 e il 1995.
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Creato nel 1933 da Erle Stanley Gardner (1889-1970), avvocato californiano che dal ’23 collaborava assiduamente a Black Mask, il più importante periodico di crime fiction dell’epoca, Perry Mason è stato protagonista di qualcosa come ottantadue romanzi e quattro racconti, praticamente tutti basati sulla stessa formula narrativa: Mason difende un innocente ingiustamente accusato di un reato, scagionandolo in sede di udienza preliminare o di processo a costo di mettere la giustizia davanti alla legge, e smascherando il vero colpevole.
Memore di questo meccanismo, ammetto di essermi avvicinato alla nuova serie televisiva prodotta nel 2020 dalla HBO e trasmessa a partire da settembre da Sky Atlantic con ben più di un pregiudizio. E altrettanto sinceramente, riconosco che l’approccio dell’operazione mi ha positivamente sorpreso e smentito con un risultato di assoluta efficacia e di fascino immediato.
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Prodotto tra gli altri da Robert Downey Jr e da sua moglie Susan Downey, la nuova serie è stata sviluppata e sceneggiata da Rolin Jones e Ron Fitzgerald dopo l’abbandono di Nic Pizzolatto, originariamente accostato al progetto e poi allontanatosene per dedicarsi alla terza stagione di True Detective. La regia, affidata al veterano Tim Van Patten (già regista, oltre a The Wire e The Pacific, anche di diversi episodi de I Soprano e di Boardwalk Empire, di cui è stato anche produttore esecutivo, e con cui è stato ripetutamente nominato per gli Emmy Award) e alla giovane regista turca naturalizzata francese Deniz Gamze Ergüven (classe 1978, con all’attivo due film impegnati accolti molto bene dalla critica come Mustang e Kings, e alcuni episodi della terza stagione di The Handmaid’s Tale), segue le peripezie di un giovane Perry Mason, veterano traumatizzato dagli orrori della Grande Guerra interpretato dal gallese Matthew Rhys (vincitore dell’Emmy Award per The Americans), nella Los Angeles della Grande Depressione.
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L’arco narrativo si sviluppa in otto puntate (o, per meglio dire, riprendendo i titoli della produzione, “capitoli”) tra gli ultimi giorni del 1931 e i primi mesi del 1932, a partire dal ritrovamento del cadavere di un neonato vittima di un efferato omicidio fino al processo imbastito dall’ufficio del procuratore distrettuale contro sua madre, rea agli occhi della stampa e dell’opinione pubblica di aver intrattenuto una relazione extraconiugale con uno dei rapitori. Perry Mason e il suo socio Pete Strickland (Shea Whigham) vengono incaricati dall’avvocato E. B. Johnson (John Lithgow) di indagare sul caso per raccogliere le prove che scagionino la donna, ma quando il suo mentore e datore di lavoro è costretto a una drammatica uscita di scena toccherà a Mason, coadiuvato dall’associata Della Street (Juliet Rylance) e dal detective di quartiere Paul Drake (Chris Chalk), sbrogliare il caso anche in aula e dimostrare, in quello che diverrà il suo battesimo del fuoco in tribunale, l’innocenza della donna.
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La trama si dipana tra predicatrici invasate (degna di nota la prova di Tatiana Maslany nel ruolo di Sorella Alice) e poliziotti corrotti, cercando come sempre di far emergere la verità attraverso la coltre fumosa sollevata dal procuratore distrettuale per ritorcere i pregiudizi morali della giuria contro l’accusata, mentre masse di fedeli impoveriti dalla crisi pendono dalle labbra di Sorella Alice e dalle promesse di redenzione della sua Radiosa Assemblea di Dio per trovare una via d’uscita dalla miseria delle strade di L.A. e del suo hinterland sconfinato.
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La serie, originariamente pensata come autoconclusiva ma già confermata dalla HBO per una seconda stagione, si segnala oltre che per la precisione del meccanismo narrativo, requisito indispensabile per la riuscita di ogni dramma giudiziario, anche per l’ammaliante atmosfera noir ricreata dalla messa in scena di John P. Goldsmith e dalla fotografia di Darran Tiernan, coadiuvati dalla costumista Emma Potter.
Perry Mason è un prodotto di classe, che tiene incollati dal primo all’ultimo capitolo e che scioglie tutti i nodi di una trama intricata, dimostrandosi al contempo anche un mirabile esempio di un modo nuovo e consapevole di fare cinema e televisione (la linea di separazione tra i due ambiti, come sappiamo, si fa ogni giorno più tenue) di qualità.
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November 21, 2020
Viaggio nel paese senza tempo
[Questo pezzo è rimasto in bozza per quasi quattro anni. A volte, nel corso di questi mille e passa giorni, mi sono ripromesso di riprenderlo, ma poi non mi sono mai deciso a sistemarlo come mi sarebbe piaciuto. Ogni volta che parlo del mio paese e della mia terra, parlo indirettamente dei miei amici, della mia famiglia, e – come è facile verificare dai contenuti del blog – ho sempre cercato di conservare una netta separazione tra pubblico e privato. In più, per me, come credo per molti, parlare della mia terra è come parlare di una storia d’amore che va avanti da decenni, tra alti e bassi… non ne parli, se non ti ci trovi proprio costretto. Ogni volta che l’ho fatto in passato (potete consultare gli archivi dello Strano Attrattore), mi sono pentito un istante dopo aver premuto il tasto invio: sono cose che ancora oggi mi sembrano patetiche, un effetto che detesto. Ma a volte non ne puoi proprio fare a meno. Il pretesto di questo post scaturiva da un articolo apparso nel gennaio del 2017 sull’Espresso, un articolo che parlava del paese in cui sono cresciuto, presentandolo come “il paese cancellato per sempre”. Messa così, non poteva non costringermi a prendere una posizione. Risale così a quei giorni questa mia sorta di replica, che di sicuro non aggiunge granché al dibattito sulla ricorrenza che cadrà domani per i 40 anni dal Terremoto in Irpinia. Ma che dà forma a pensieri meditati a lungo e finora sempre silenziati.]
Castelnuovo non è un paese cancellato per sempre. Non è un museo delle porte chiuse. Non è nemmeno un paese da salvare. È difficile definire davvero cosa sia e forse qualsiasi tentativo in questa direzione sarà invariabilmente destinato a scontrarsi con la frustrazione. Ma anche per questo è tanto più importante cominciare a stabilire quel che non è.
Ovviamente, questa sua mancanza di definizione, lascia un po’ interdetti. Lascia interdetto persino chi come me ci è nato o cresciuto, chi per anni ha vagheggiato di andarsene per poi, una volta lontano, abbracciare l’attesa di segno opposto del ritorno. Figuriamoci chi ci arriva da fuori e si trova davanti questa manciata di case sparse sul fianco di una montagna, nemmeno poi così alta da spiccare ed evitare di finire stritolata tra le montagne che la circondano da questa e dall’altra parte della valle del Sele. Lo capisco. Capisco mia moglie che a distanza di qualche anno dalla prima volta che ce l’ho portata continua ancora a chiedersi quale segreta attrazione possa esercitare questa terra su chi la ha abitata (capisco meno ma mi riempie di irrazionale euforia sentirne parlare il più grande dei nostri figli, che dopo averci messo piede non più di quattro volte ne parla come di un posto mitologico se non fiabesco), quindi comprendo lo spirito dell’articolo di Franco Arminio, che vi giunge da un paese non tanto distante e che nel tempo ha sfiorato il rango di cittadina, per poi ricadere nella dimensione del borgo.
In effetti, Castelnuovo forse non è nemmeno un paese. Bensì, come minimo, un trittico di paesi: c’è il centro storico, ricostruito per intero dopo essere stato raso al suolo dal terremoto del 1980, e che con le facciate colorate delle sue case riproduce sullo sperone roccioso su cui sorge l’andamento dei tetti del paese scomparso; c’è l’insediamento provvisorio dei prefabbricati in cui furono alloggiate le famiglie in attesa della Ricostruzione, e che non è mai stato smantellato ma continua ad alloggiare ancora oggi famiglie d’inverno ed emigranti d’estate, oltre a quella che di fatto è diventata la piazza principale del paese; e infine c’è il paese ricostruito, il piano di zona, che non ha una sua personalità ben precisa e, come gran parte dei paesi ricostruiti a seguito del sisma, assomiglia a uno strano incrocio tra una stazione antartica di ricerca e una base militare: ordinato, pulito, ma in fondo anonimo. La monotonia è interrotta da un campo sportivo degno di una compagine semiprofessionale, sovrastato da una chiesa dall’architettura assurda, che a vederla si fa anche un po’ fatica ad accettarla come luogo di culto, e forse per questo la accompagna un campanile monumentale che ricorda piuttosto un razzo pronto al decollo sulla rampa di lancio.
Il paese già così è quindi uno e trino e questa tripartizione è sempre stata un po’ fonte di confusione tra chi vi abita. Dove incontro oggi i miei amici? Alla piazza di sopra o alla piazza di sotto? E dove organizziamo quest’anno la festa patronale? Nel paese nuovo o nel centro storico o nella piazza dei prefabbricati? Capirete quindi dove si origina la mia dissociazione, e sicuramente anche quella di molti altri miei compaesani.
Con il tempo, è vero, in tanti siamo partiti. Chi per necessità, chi per disperazione, chi per mancanza di alternative. Pochi, credo, per il desiderio di scoprire il grande mondo là fuori. La maggior parte, malgrado tutto, controvoglia. Me compreso.
Già prima che me ne andassi, Castelnuovo di Conza era in proporzione il secondo comune in Italia con il peggior saldo di emigrazione. In pochi di quelli partiti sono tornati. Dopo il miraggio della Ricostruzione, che ha richiamato decine di famiglie dall’estero, l’esodo è ripreso, svuotando di nuovo le case e sprofondando le strade nel silenzio e nell’abbandono. Di questi tempi, purtroppo, chi parte non può confidare in un ritorno a breve. Si finisce per piantare le radici altrove e in un batter d’occhio il sogno di tornare si confonde con la promessa di un buen retiro per la pensione. E poi la pensione diventa un miraggio essa stessa.
Forse per senso di colpa o solo per spirito d’avventura, qualche anno fa ho provato anche a cimentarmi nella vita amministrativa. Il ruolo di consigliere comunale, in paesi come il mio, ha in fondo un alone romantico e a conti fatti si configura a pieno titolo come un’attività di volontariato. Ma consente di imparare alcune cose. Per esempio, cosa banale ma non scontata, che non è quasi mai sufficiente la buona volontà: un muro invisibile esclude la politica locale delle piccole comunità dai centri decisionali di stato e regioni. Oppure che ormai sono così tanti i vincoli posti all’iniziativa, da rischiare con facilità lo stallo amministrativo, al punto da dover combattere quotidianamente per il reperimento delle risorse necessarie all’autosostentamento. Figuriamoci allora pensare di intraprendere progetti di sviluppo, unica possibile ancora di salvezza per un comune che ha perso più di un terzo dei suoi abitanti dal 2001 al 2016.
Eppure, malgrado tutto questo, io e molti altri come me facciamo sempre un po’ fatica ad accettare il quadro a tinte fosche di questa minuscola realtà che periodicamente emerge da articoli come questo. Senza dubbio possiamo ricondurre un simile atteggiamento al legame emotivo che ci costringe al posto in cui siamo nati e cresciuti. E con il tempo mi vado convincendo che questa sia anche una parte del problema, perché in fondo nessuno di noi vorrebbe che il nostro paese cambiasse: né chi ci vive, perché magari è disposto ad accettare come un compromesso l’assenza di servizi e talvolta l’ostilità stessa dello stato, né chi è andato via, perché in fondo spera sempre di tornare e trovare lo stesso paese incantato che ha preservato intatto per così tanti anni nella memoria, quel paese delle meraviglie che probabilmente tanto meraviglioso non era per averlo spinto a partire… E quindi siamo un po’ tutti noi, con la nostra rassegnazione o il nostro egoismo, in ogni caso con la nostra personale mancanza d’iniziativa, a condannare questi posti all’immutabilità, quasi li volessimo conservare sotto una campana di vetro, congelati in una dimensione astratta, che poi non è nient’altro che la dimensione illusoria, fallace e parziale del nostro ricordo.
Tutto questo non dovrebbe tuttavia offuscarci la vista e impedirci di scorgere i difetti e la fallacia del quadro che ci viene ripetutamente presentato. Perché la condizione di Castelnuovo non è un’anomalia, ma è sempre più diffusa e riguarda un numero in crescita costante di paesi, di borghi, di comunità rurali, tagliati fuori da qualsiasi prospettiva di sviluppo, perfino la più timida. Centri che hanno perso in questi anni la stazione della ferrovia o l’ospedale, oppure le scuole primarie e poi anche le scuole materne. Paesi che proprio mentre il resto del mondo si muoveva verso l’integrazione e l’inclusione si sono visti esclusi da ogni circuito virtuoso, anche per colpa di quelle politiche nazionali che ci hanno portati dove siamo oggi: un’Italia incapace di valorizzare la sua ricchezza storica, paesaggistica, culturale, incapace di dotarsi di un piano energetico nazionale, incapace di pensare a concrete strategie di sviluppo, incapace di provvedere alla benché minima programmazione anche di fronte alla certezza di una seconda ondata della crisi globale di questo 2020. E dentro questa Italia vetrina dello sfascio, un’Italia tenuta nascosta, messa tanto male da non poter essere nemmeno esposta in vetrina con le sue vergogne più appariscenti. Un’Italia ancora più vulnerabile nell’Italia già malmessa, un paese parallelo, una nazione invisibile, una sorta di federazione che comprende tutte le terre marginali che si sono volute deliberatamente creare o negligentemente dimenticare.
In questa dimensione sospesa, possiamo trovare anche Castelnuovo. Che oltre a essere un paese uno e trino è quindi anche un paese senza tempo: senza passato, raschiato via dal terremoto; senza futuro, scongiurato dalle logiche del potere che in Bassitalia da sempre declinano le politiche nazionali; e soprattutto senza presente, incapace di offrire alcuna possibilità di attaccamento al di fuori della sfera emotiva (e se vi sembra insopportabile la prospettiva del lockdown in città, provate a immaginare come dev’essere in un paese di 600 abitanti con un’età media di cinquant’anni e un reddito pro capite di 5.894 euro, una media di due componenti per nucleo familiare, un quarto della popolazione sopra i 65 anni (fonte: Comuni-Italiani.it).
Anche se poi, a vedere le foto che corredano l’articolo ripreso sulle pagine di Doppiozero, che in realtà ritraggono l’isola-fortezza di Gunkanjima, l’isola-miniera-città al largo delle coste di Nagasaki, che fu della Mitsubishi e dopo l’esaurimento dei suoi giacimenti di carbone fu progressivamente abbandonata… il ricorso a immagini provenienti da un posto dall’altra parte del pianeta desta il sospetto che in fondo, malgrado tutto, Castelnuovo non se la passi poi così male.
[image error] Fonte: Wikipedia.
[image error] Foto di Newfotosud, Renato Esposito.
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[image error] Foto di Fabat.
November 19, 2020
Il cinema quantistico di Nolan
Che Tenet mi fosse piaciuto, per usare un eufemismo, non ne avevo fatto mistero. La settimana scorsa Quaderni d’Altri Tempi mi ha dato la possibilità di circostanziare meglio le mie impressioni e aggiungere alcuni argomenti alle considerazioni a caldo.
Si parla di monumenti cinematografici, di viaggi nel tempo e di icone pop, di spy story e fantascienza. Potete leggere la mia recensione cliccando qui. Buona lettura.
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November 17, 2020
Terminal Shock Redux
La gestazione di Terminal Shock è stata lunga, passando per riscritture, revisioni, sviluppi, almeno dal 2008 e fino all’uscita nel 2013, nella rimpianta collana Raggi curata da Luigi Acerbi per Mezzotints eBook. Quando la casa editrice ha chiuso i battenti, della novella (uscita come da politica editoriale della casa solo in formato elettronico) si sono perse le tracce, finché quest’anno Carmine Treanni non ha pensato di propormi una riedizione per CentoAutori.
Per me è stata l’occasione per fare un tuffo nel passato e, riprendendo in mano il testo, ho pensato di includere alcune «espansioni» per agevolare il senso dell’orientamento del lettore, che spero apprezzerà.
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Il libro è già in circolazione da alcune settimane, acquistabile un po’ ovunque online e ordinabile in libreria se già non disponibile. Non aggiungo altro. Solo la nuova quarta.
2023: un segnale di origine sconosciuta viene intercettato dal programma SETI. La Sequenza è di evidente natura artificiale, ma la sua origine è un enigma che sfida la scienza e la ragione. 2180: l’umanità è una civiltà interplanetaria e nelle turbolente fasi della sua espansione nello spazio si è scissa in numerose fazioni. La loro rivalità alimenta un clima da guerra fredda, ma la scoperta di una struttura artificiale nella nube di Oort rappresenta un valido motivo per unire le forze intorno all’interesse comune. Chi sono i costruttori di Terminus e dove sono adesso? Qual era lo scopo della misteriosa megastruttura spaziale che hanno abbandonato ai confini estremi del sistema solare? Quando la storica missione di contatto con la stazione aliena fallisce, la più potente astronave militare mai uscita dai cantieri orbitali scompare nel nulla.
Viene organizzata una spedizione di soccorso per scoprire cosa è andato storto. Questa è la sua storia.
November 15, 2020
La fantascienza italiana nella critica, su questa e sull’altra sponda dell’Atlantico
Parla di ciò che sai, è uno dei consigli che gli aspiranti scrittori si vedono rivolgere da colleghi più esperti o dai lettori che la sanno lunga. Ed è una delle prime cose che di solito mi salta alla mente quando mi capita di leggere, sentire o vedere interventi sulla fantascienza che provengono da non addetti ai lavori, in modo particolare in Italia. Per qualche ragione, di certo non del tutto estranea all’effetto Dunning-Kruger, qui da noi, quelle rare volte in cui la fantascienza emerge dal sommerso, succede di inciampare in articoli ospitati dalle più prestigiose testate, e scritti nel tono più solenne, che contenutisticamente tradiscono una ristrettezza di vedute a malapena conciliabile con un intervento poco più che amatoriale.
Scorrendo il blog, si potrebbe costruire una cronistoria di casi simili, ma mi limito a citare il più eclatante, che non più di sei anni fa coinvolse la rivista Nuovi Argomenti con un numero incentrato su una percezione della fantascienza italiana alquanto distorta e parziale.
[image error] Alessandro Bavari, Le Visioni di Lot: La Porta di Minosse (detail), NeXT, no. 17, 2012
L’ultimo caso, dei giorni scorsi, coinvolge nientemeno che il magazine dell’Istituto Treccani, con un articolo molto discusso in rete che propone un viaggio testuale in quello che viene definito Primo Corpus Fantascientifico Italiano e che, al di là della bontà dei titoli scelti (tutti meritevoli della massima attenzione), si ferma a qualcosa come una trentina d’anni fa, approfittando di una recente ristampa di Evangelisti (autore della saga di maggior successo della fantascienza italiana, non di certo per merito degli appassionati italiani del genere, che sono in numero esiguo) per fregiarsi di una conoscenza del panorama contemporaneo che dall’articolo non s’intuisce nemmeno da lontano.
Un atteggiamento di sufficienza che reitera, per l’ennesima volta, la vexata, aeterna quaestio, che non sto qui a riprendere. Quello che riprendo, invece, per confronto, è il lavoro che oltreoceano sta svolgendo Arielle Saiber, docente di lingue e letterature romanze al Bowdoin College di Brunswick (Maine), che da ormai un decennio dedica un’attenzione critica alla fantascienza italiana che negli ambienti accademici nostrani non è ancora stata eguagliata. Mi riferisco alla critica accademica e non a quella militante, anche se pure quest’ultima, a parte rare eccezioni (Salvatore Proietti e pochi altri), non se la passa certa meglio. Non che in questi anni non si siano fatti studi e scritti saggi sul genere, ma i casi in cui i nostri ricercatori si sono addentrati nella produzione di genere degli ultimi trenta o quarant’anni, per non dire del nuovo millennio, si possono forse contare davvero sulle dita di una mano, e non servirebbero nemmeno tutte.
Invece, nel lontanissimo Maine, a un oceano di distanza da noi, almeno dal 2011 la professoressa Saiber dedica un’attenzione costante alla produzione nostrana. Il suo è un lavoro che si nutre di una passione profonda e di una rara curiosità, fin dallo studio che la portò all’attenzione degli appassionati italiani (Flying Saucers Would Never Land in Lucca: The Fiction of Italian Science Fiction) e da un numero speciale di Science Fiction Studies curato con Umberto Rossi e Salvatore Proietti, per arrivare al suo ultimo intervento su Simultanea, rivista di media e cultura popolare in Italia, di solo pochi giorni fa: un’introduzione alle attività del collettivo connettivista.
Ora, sarebbe fin troppo facile rifugiarsi nell’antico adagio del nemo propheta in patria. Ben più amaro e motivo di disappunto, forse, è constatare invece che mentre da noi l’approssimazione è ormai la norma, al punto da ricadere periodicamente negli stessi errori, nelle stesse distorsioni, negli stessi vuoti di memoria, altrove un modo serio per fare critica, per parlare di fantascienza, perfino di fantascienza italiana, non solo è possibile, ma è ormai una consuetudine. Appunto, non è occasionale né estemporaneo, ma è il risultato di una pratica che richiede dedizione, studio, e sicuramente immersione. Che per farlo si debba andare a 6.500 chilometri di distanza, è una cosa che dovrebbe darci da pensare.
Lo spartiacque era in realtà un abisso
Sono trascorsi quasi due mesi dall’ultimo post, un lasso di tempo che ha inghiottito tutti i buoni propositi con cui ogni volta mi avvicinavo al blog, le rare volte in cui riuscivo a superare una sorta di blocco psicologico che quasi sempre mi impediva addirittura di aprire il link. Stati d’animo contrari, abbinati alla cronica assenza di tempo, sono state le cause principali della latitanza, mentre la mia testa era presa a rimuginare per tutta la durata di ottobre, masticando sensazioni stratificate nel tempo e indugiando in ricordi autunnali.
[image error] Foto di James Jordan: ”Night Station”.
Non hanno certo contribuito a migliorare l’umore le statistiche che hanno ripreso a delineare un nuovo stato emergenziale che sembravamo tutti aspettare, come sempre senza darci la pena di prepararci. Perché senza avanzare soluzioni da bacchetta magica, è dalla scorsa primavera che gli esperti prospettavano scenari e opportunità, ma ovviamente predicavano nel deserto perché intanto i politici, come sempre, erano troppo impegnati a rimirare il dito per concentrarsi anche sulla luna. E così già da maggio sapevamo che non sarebbe cambiato granché, e ovviamente che ci saremmo fatti trovare impreparati come la prima volta (ma senza le stesse puerili giustificazioni).
E lungi da me il voler giustificare l’ostinazione di un numero crescente di nostri concittadini a far finta di nulla, a resistere alle misure pensate dal governo per contenere il contagio, limitare i danni sociali e preservare il servizio di salute pubblica. Se la novità della prima volta aveva stimolato un senso di coesione, che aveva portato alle consuete celebrazioni patriottiche dell’italiano restio alla disciplina ma sempre pronto al sacrificio e alla solidarietà se le condizioni lo impongono, non è che le condizioni attuali richiedano meno sacrificio della prima volta, è solo che le crepe della narrazione già falsata della prima ondata si sono spalancate, aprendo voragini che stanno vomitando tutto il peggio che eravamo riusciti a nascondere sotto il tappeto o nell’armadio.
Ovviamente, le responsabilità sono equamente distribuite. 1. C’è l’incompetenza di una classe dirigente inadeguata, come dimostrano tuttora scandali che – specialmente dopo le sciaguratezze compiute in Lombardia – sarebbe bastata un minimo di attenzione per evitare. 2. C’è la vanità di una schiera crescente di scienziati che hanno pensato di poter approfittare della visibilità acquisita per imporre un nuovo culto dell’immagine, peccato che abbiano voluto far passare le proprie opinioni personali per verità incontrovertibili, come ben sottolineato da Carlo Rovelli nel corso della sua intervista andata in onda durante l’ultima puntata di Propaganda Live.
Carlo Rovelli ospite di #propagandalive @carlorovelli https://t.co/HKoRnjXg7p
— Propaganda Live (@welikeduel) November 13, 2020
3. C’è l’opportunismo ipocrita e sempre più miope di un giornalismo che sempre più ama rimestare nella confusione, più incline a massaggiare la pancia dell’opinione pubblica piuttosto che nutrire e confrontarsi con il suo cervello. 4. E ovviamente c’è la responsabilità dei cittadini, sempre meno responsabilizzati e a corto di senso civico, su cui tutte le altre cause già enumerate finiscono per prosperare.
Sul terzo punto, ha scritto parole largamente condivisibili Luca Sofri sul suo blog, che ci ricorda, adesso che i conteggi sono ultimati, quanto poco ci sia mancato perché il mondo imboccasse ancora una volta il peggiore dei sentieri possibili. Malgrado i proclami, il trumpismo si avvia a essere una parentesi di follia cripto-dittatoriale nella tradizione retorica della democrazia americana, benché il monocrate non si stia negando tutte le armi ormai spuntate del suo repertorio populista: la parata tra due ali di sostenitori inneggianti scesi per strada per rivendicare una vittoria immaginaria, mentre si dirige scortato dal sevizio d’ordine presidenziale verso i suoi campi da golf in Virginia, è la fotografia emblematica della sua uscita di scena, il congedo perfetto di questo quadriennio deleterio.
[image error] Credit: Il Post.
Se non rimpiangeremo Trump tra le cose che ci lasceremo dietro in questo anno nefasto, sono tante le perdite che conteremo una volta portata a termine la traversata. E non potrebbe essere diversamente: mentre scrivo, il conto dei casi di COVID-19 accertati nel mondo si appresta a superare i 55 milioni e le vittime sono ben 1.320.286. Paesi come USA, India e Brasile stanno pagando un prezzo altissimo, ma anche nella civilissima Europa, Francia, Spagna, UK e Italia (con un minimo di un milione e un massimo di due, e un numero di vittime compreso tra le quaranta e le cinquantamila) sono state messe in ginocchio dalla pandemia.
Ci sarà inevitabilmente un prima e un dopo questa crisi sanitaria globale. E se al momento ci sembra di essere tutti impegnati in un’impresa titanica che somiglia ogni giorno di più a una scalata lungo un percorso impervio, con la parete rocciosa del domani che ci impedisce di lanciare anche solo un fugace sguardo oltre l’ostacolo, a un certo punto ci sembrerà chiaro che questi mesi, più che uno spartiacque, sono stati in realtà un abisso, un baratro che ha inghiottito tutte le nostre certezze, dalla scala più larga alla dimensione più intima del nostro privato. Ma non illudiamoci con il mantra che niente sarà più come prima: non abbiamo imparato dai nostri errori finora, dubito che lo faremo anche stavolta. L’unica cosa che potremo dire, forse, sarà di aver imparato nuove scuse e nuovi alibi. Tutto il resto, lo troveremo ancora lì, la prossima volta che ci sarà bisogno di prendere decisioni vitali sul medio e lungo periodo.
Tutto, tranne molte delle cose che abbiamo amato pensare che sarebbero state per sempre.
September 27, 2020
La quintessenza della rappresentazione inclusiva
Un paio di settimane fa hanno fatto molto discutere i nuovi standard di rappresentazione e inclusione elaborati dall’Academy of Motion Pictures and Sciences per essere eleggibili nella categoria miglior film. L’iniziativa si prefigge di richiamare le major a uno sforzo minimo per valorizzare le diversità, le minoranze e in generale rendere in qualche modo “non premiante” le discriminazioni. Ma il coro di dissenso che si è sollevato all’annuncio delle nuove regole ha rivelato come quel minimo impegno di decenza non fosse solo importante, ma necessario e indispensabile.
Molti si sono scagliati contro la dittatura del politically correct, la politicizzazione dell’arte, lo snaturamento della purezza dell’intrattenimento e l’ingerenza esterna nella libertà dei processi creativi. Quanto siano infondate le preoccupazioni e del tutto immotivate le recriminazioni sulla morte della dimensione creativa, e fondamentalmente delle cazzate non meditate tutte le altre lamentazioni che hanno accompagnato la notizia, lo dimostrano serie televisive come True Detective (in particolare la terza stagione), o Watchmen, o Westworld, o Perry Mason, casualmente tutte prodotte da HBO.
Tre produzioni che sono la quintessenza della rappresentazione inclusiva e, senza la necessità di rispettare delle regole per concorrere nella categoria di miglior film per la notte degli Oscar, ne rispettano appieno i requisiti. Tre serie che probabilmente – non dico trenta e nemmeno venti, ma – dieci anni fa sarebbero state molto diverse. E con altrettanta probabilità non sarebbero state i capolavori memorabili che sono riuscite a essere grazie anche alla sensibilità che le ha ispirate.
Senza stare a farla troppo lunga, potete condividere o meno le ragioni che stanno dietro la mossa dell’Academy, ma se siete tra quelli che vi leggono la morte del cinema, dell’arte, della letteratura e della libertà d’ispirazione, sappiate che non siete solo parte del problema che giustifica queste iniziative, ma nella vostra fiera intransigenza avete pure torto marcio. Adesso non sgomitate per accaparrarvi gli ultimi posti, presto partiranno dei lavori di ampliamento degli scranni per farvi stare più comodi con gli altri della vostra orgogliosa maggioranza. Da quest’altra parte della sala, piccola e stretta come si confà all’angolo degli emarginati, continueremo a goderci storie magnifiche e a scoprire validi motivi per imparare le lezioni che emergono dalla diversità. Perché fondamentalmente, fuori dall’orizzonte confortevole delle vostre province mentali, la natura umana è così che funziona e produce quanto di meglio ha da offrire al mondo. Da alcune migliaia di anni.
September 20, 2020
La fantascienza modulabile di Hao Jingfang
Dopo alcuni mesi di latitanza dall’ultima apparizione, sono tornato nei giorni scorsi sulle pagine di Quaderni d’Altri Tempi con la recensione di un bel volume di racconti della scrittrice cinese Hao Jingfang, da poco dato alle stampe da add editore.
Hao Jingfang è sicuramente una delle figure di spicco di questa ondata di narratori cinesi a cui la fantascienza occidentale guarda con interesse crescente. E una volta letti i suoi racconti non si fatica a comprenderne la ragione: la sua scrittura coniuga brillantemente critica sociale (motivo per cui le sue pubblicazioni hanno incontrato diverse difficoltà in patria), e consapevolezza artistica, la padronanza dei temi di punta del genere con una sensibilità che sfocia in alcuni passaggi particolarmente lirici, sia per il richiamo a elementi facilmente associabili alla spiritualità orientale (in particolare il buddhismo, ma anche la dottrina morale e filosofica confuciana) che per l’inclinazione malinconica dei suoi personaggi.
Continua a leggere su Quaderni d’Altri Tempi .
September 1, 2020
10 buone ragioni più una per vedere TENET
Siccome Tenet è finalmente sbarcato nelle sale e tutti ne parlano, anche chi normalmente forse non lo farebbe ma invece adesso si sente in dovere dal momento che si tratta comunque del primo vero grande film distribuito dopo il lockdown, con tutto ciò che ne consegue, starete forse cercando di orientarvi nella giungla dei pareri discordi e vi starete probabilmente chiedendo se vale la pena andare a vederlo.
Ecco allora alcune buone ragioni per cui non dovreste prestare ascolto alle campane contrarie e dovreste precipitarvi al cinema prima che l’ondata di comportamenti scriteriati delle ultime settimane si traduca in una nuova serrata generale.
1. Perché, come ogni film di Christopher Nolan, dal più riuscito al più zoppicante, è garmonbozia per le vostre menti, in grado di tradurre le più macchinose e astruse contorsioni cerebrali in un senso di appagamento post-orgasmico. Alcune risposte ad alcune domande che vi sorgeranno durante la visione, potete trovarle qui (e in italiano qui). Ma cliccate su questi due link solo dopo aver visto il film, a meno che non siate già passati attraverso un tornello e passati attraverso un’inversione.
2. Perché Tenet è sia un film di spionaggio che un film di fantascienza, è un blockbuster tutto azione e colpi di scena e allo stesso tempo un esercizio filosofico sulla natura della realtà, un film alla vecchia maniera (vedi il punto 3) e un film del futuro (vedi sempre il punto 3).
3. Perché pochi registi come Nolan riescono a essere così efficaci nel coniugare il citazionismo (molti i modelli qui omaggiati, dalla spy story alla James Bond al western di Sergio Leone, dal solito Philip K. Dick al solito Christopher Priest) e l’autocitazionismo (l’assalto al teatro dell’Opera di Kiev nella sequenza di apertura è un condensato di tutte le più spettacolari operazioni di Bane in The Dark Knight Rises); così credibili nel sintetizzare la fedeltà a un’idea di spettacolo e una visione del cinema pronta a sfidare ogni volta nuovi limiti.
4. Perché Tenet è un gioco di prestigio e come ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata la promessa. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: una sequenza d’azione, un’operazione dei servizi segreti che finisce male, o un pezzo di metallo dalla forma strana. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare che sia davvero reale… sì, inalterato, normale. Ma ovviamente… è probabile che non lo sia. Il secondo atto è chiamato la svolta. L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario: il pezzo di metallo viaggia indietro nel tempo: vi salta in mano dal pavimento, si muove prima che lo tocchiate, rotola verso le vostre dita senza che nessuno lo abbia spinto. Ora voi state cercando il segreto… ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché mostrare qualcosa che sfida il nostro senso comune non è sufficiente; bisogna anche farci credere che sia possibile. O, ancora meglio, che sia inevitabile. Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo il prestigio. E Tenet fa tutte e tre queste cose meglio di qualsiasi altra cosa si sia vista al cinema, per lo mento dai tempi di The Prestige.
5. Perché a ogni nuovo film Nolan si ritaglia un posto nell’olimpo dei registi più grandi di tutti i tempi – quello, per intenderci, dove siedono Orson Welles e Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick e Akira Kurosawa, Andrej Tarkovskij e Sergio Leone, e continuate voi l’elenco. Dell’ultima generazione di cineasti, lui e il collega Denis Villeneuve sono i candidati più accreditati a unirsi alla schiera di cui sopra. E questo dovrebbe bastare per non lasciarsi scappare ogni nuovo parto delle loro menti.
6. Perché Tenet prosegue una riflessione sul tempo che accompagna Nolan fin dai suoi esordi, da Following e Memento fino a Interstellar e Dunkirk, passando per Insomnia e Inception, e mette insieme il gusto per i paradossi e la fascinazione della meccanica quantistica che già facevano capolino in The Prestige e Interstellar. E riesce a costruire due ore e mezza di spettacolo senza tregua a partire da uno schema di 5 parole:
S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S
7. Perché ci sono 5 attori in stato di grazia: John David Washington è già da BlacKkKlansman qualcosa di ben più di un “figlio d’arte” e non è quindi una sorpresa, come non lo sono Kenneth Branagh (qui alla seconda collaborazione con Nolan dopo Dunkirk) e ovviamente Michael Caine (a cui bastano pochi minuti per registrare l’ennesima interpretazione indimenticabile di una carriera straordinaria); ma sono state per me delle rivelazioni sia Robert Pattinson (su cui, malgrado la buona prova di Cosmopolis, ammetto il mio pregiudizio) che Elizabeth Debicki (che era anche nei Guardiani della Galassia Vol. 2, ma di cui non avevo visto altro prima di questo film).
8. Perché non credo che vi capiterà di vedere tanto presto qualcosa di simile o anche solo di lontanamente paragonabile. Per la molteplicità di livelli di lettura/visione (pellicola action, riflessione filosofica sulla realtà, operazione metanarrativa fin dal nome e dal ruolo eterodiretto del Protagonista… vedi il punto 2); e per la magistrale resa coreografica dello spettacolo, in grado di filmare qualcosa che sulla carta è per sua definizione non filmabile.
9. Perché forse lo avete già visto. E quindi dovete per forza rivederlo.
10. Perché Tenet è tutto questo e molto altro ancora e quindi, se non sono riuscito a convincervi, andate a vederlo per farvi un’idea vostra. E magari tornate da queste parti e riparliamone.
11. Perché viviamo in un mondo crepuscolare. Nessun amico al tramonto.
Buona visione!
August 11, 2020
Save Me: un congegno narrativo implacabile
There is a crack in everything
That’s how the light gets in.
Leonard Cohen, Anthem
Save Me è una miniserie britannica del 2018, prodotta da World Productions e Sky Atlantic e trasmessa in Italia quello stesso anno. Segue le peripezie tra i bassifondi londinesi, dipinti come gironi infernali sospesi tra inedia, squallore, violenza e piccola e grande criminalità, di una galleria di personaggi che ruota intorno al Palm Tree. Al centro delle vicende troviamo Nelly Rowe, interpretato da Lennie James (reduce da The Walking Dead e Fear the Walking Dead, ma visto anche in Blade Runner 2049), che la serie l’ha anche ideata e poi scritta in collaborazione con Daniel Fajemisin-Duncan e Marlon Smith.
Nelly è un perdigiorno che vive di espedienti tra le torri di Deptford (nella zona sudest di Londra) e bazzica il Palm Tree, il pub del suo quartiere, in cui è un po’ un’istituzione, nella misura in cui finiscono per esserlo tra i loro simili i nullafacenti che si crogiolano per tutta la vita, senza particolari pentimenti, nella loro inettitudine e inconcludenza. Finché un giorno sua figlia Jody McGory (Indeyarna Donaldson-Holness), che Nelly non vede da più di dieci anni e che è ormai un’adolescente, scompare nel nulla proprio mentre si suppone che stia andando da lui per conoscere il suo padre naturale. Nelly è il principale sospettato della polizia, ma si professa estraneo all’accaduto e, quando viene rimesso in libertà, decide di rintracciare Jody ricorrendo a tutte le risorse a sua disposizione, molte delle quali lo portano inevitabilmente a misurarsi con il lato nascosto del suo carattere, dei suoi amici, della nuova famiglia di Jody, ma non solo.
Comincia così un vortice di angoscia e sospetti, di inganni e paure, che finisce per coinvolgere altri personaggi che gravitano intorno al pub – spacciatori, spogliarelliste, travestiti, persone comuni che hanno un conto aperto con Nelly o con il fantasmi del loro passato – così come anche la madre della ragazza, Claire (Suranne Jones), e suo marito Barry McGory (Barry Ward), padre adottivo di Jody e gestore di un club che nasconde traffici non proprio cristallini. La ricerca diventa una corsa contro il tempo quando appare chiaro che la ragazza è in pericolo di vita e spingerà Nelly nei meandri in penombra che si snodano sulle rive del Tamigi, in cui i soldi possono comprare qualsiasi cosa e distruggere in un batter di ciglia le vite di chi finisce, per colpe proprie o altrui o anche – e non è questa la cosa peggiore? – senza nessun motivo particolare, nel grande tritacarne.
La storia raccontata da Save Me si snoda in appena sei puntate (da 50 minuti), ma sono cinque ore che ti vengono addosso come un treno, lasciandoti confuso e a corto di riferimenti. È una storia che non ammette compromessi, che ti ipnotizza dalle prime scene, tenendoti avvinto nella morsa del dubbio di quello che è successo davvero a Jody, oppure ti respinge senza tanti complimenti per la crudezza con cui dipinge la natura umana. Ma se la voce di Jody incisa nella segreteria del suo cellulare ti perseguita come uno spettro senza darti tregua, sarai pronto a seguire Nelly e Claire nel loro personale calvario, girone infernale dopo girone infernale, perché se c’è una cosa chiara da subito, a loro come allo spettatore, è che in nessun caso la dimensione dell’incubo in cui si accingono a sprofondare le loro vite potrà fermarsi alla superficie: dovremo sporcarci le mani, immergerci negli umori neri delle menti umane più abiette, e inabissarci con loro puntata dopo puntata verso profondità inesplorate.
Il ritmo serrato e le svolte improvvise di un intreccio perfetto diventano anche un modo per gettare luci nei lati oscuri dei personaggi: scoprendo i vuoti nascosti dietro le facciate più abbaglianti, illuminando le sorprese celate dietro le ombre più sospette. Save Me andrebbe fatta vedere a tutti quelli che sostengono l’inevitabilità di una separazione rigida da trama e psicologia, tra idee e introspezione, che riducono ogni cosa a uno schematismo di comodo (genere o mainstream?): il congegno messo a punto da James e dalla World Productions è micidiale e in questo senso sembra quasi sintetizzare la formula non solo dell’equilibrio perfetto, ma di un circolo virtuoso che si autoalimenta e che trae forza da ogni interazione tra i personaggi e gli eventi in cui vengono sbattuti.
Il finale, con la corsa contro il tempo che si risolve in un’atmosfera dilatata, perfino onirica (su cui non dirò niente di più per non dissiparne l’impatto emotivo), scandita dalle note di Doomed di Moses Sumney, giunge inesorabile a suggellare un thriller magistrale e senza traccia di sbavature. La seconda stagione, che arriva in Italia in questi giorni con il titolo di Save Me Too, riprende la storia di Nelly da dove l’aveva lasciata l’ultima puntata, credo con la consapevolezza che sia quasi certamente impossibile, già solo per il fatto che si sia pensato di farne un seguito, replicarne l’esito.
The holy dove
She will be caught again
bought and sold
and bought again
the dove is never free.
Leonard Cohen, Anthem