Michele Orti Manara's Blog, page 2

May 20, 2024

mentire e nascondermi un po’

Naturalmente il descrivere è un processo di puro e semplice ricordare: non serve a impedire che le cose accadano una seconda volta; dagli stati d’angoscia, attraverso il tentativo di accostarvisi con formulazioni il più possibile precise, si ricava solo un piccolo piacere: dalla beatitudine dell’orrore la beatitudine del ricordo.

Di giorno ho spesso la sensazione di essere osservato. Apro le porte e guardo. Sul momento ogni rumore mi sembra un attentato contro di me.

Scrivendo questa storia mi capitava, a volte, di averne abbastanza della sua sincerità e della sua onestà e di aver voglia di tornare presto a scrivere qualcosa in cui potessi mentire e nascondermi un po’, un lavoro teatrale, per esempio.

Peter Handke
Infelicità senza desideri
Traduzione di Bruna Bianchi
Guanda, 2023

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Published on May 20, 2024 00:48

April 30, 2024

Cuuut!

Oggi nella rubrica Translate Tuesday di «Asymptote» c’è Your Drowning Father (aka Tuo padre che affoga il primo racconto di Cose da fare per farsi del male), magnificamente tradotto da Brian Moore.

Screenshot

qui

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Published on April 30, 2024 06:31

April 5, 2024

I’d like to see, how you all would bleed for me

Per la mia generazione, che non aveva vissuto quelle degli altri appartenenti al Club 27, la morte di Kurt Cobain è stata uno spartiacque. Ha insegnato (ricordato) a torme di adolescenti con capelli lunghi e camicioni di flanella che anche gli idoli muoiono, e spesso non di vecchiaia. Un evento traumatico, amplificato dallo stesso meccanismo mediatico che probabilmente l’aveva in parte causato.
Prima le foto del cadavere, o almeno quelle della sua parte rimasta integra, con i mozziconi di sigaretta sparsi sul pavimento, la scatola con il kit per bucarsi, poi le immagini di una specie di funerale diffuso in varie città del mondo, e infine le teorie complottiste, i retroscena: tutto questo ha trasformato il suicidio di Cobain nell’ultimo banchetto che i media hanno preteso da un ventisettenne che a quello spettacolo forse non aveva mai chiesto di partecipare, e che una volta invitato e intrappolato a tavola non aveva trovato altra via di fuga che imbracciare un fucile e puntarselo alla testa.
«Meglio andarsene con una fiammata che spegnersi lentamente»: è la frase di Neil Young che Cobain citava nella lettera di addio. C’è poco da aggiungere, mi pare.
A fare da controcanto a quella morte, così eclatante e urlata, ce n’è stata un’altra, di certo meno mediatica, forse meno universalmente sentita, ma che per alcuni della mia generazione (di sicuro: per me) è stata forse anche più sottilmente inquietante.
Sono passati otto anni dalla scomparsa di Cobain, e a morire stavolta è Layne Staley, cantante di quegli Alice in Chains che con i Nirvana hanno condiviso in parte la fama, ma soprattutto l’etichetta – imprecisa, come tutte le tassonomie giornalistiche – di grunge.
La particolarità della morte di Staley, quello che la rende per certi versi speculare a quella di Cobain, è che è silenziosa. Quando il cadavere viene trovato, nella vasca da bagno di un appartamento in un anonimo condominio di Seattle, è difficile dire da quanto tempo sia lì. Pesa 39 chili, per il riconoscimento tocca affidarsi alle impronte dentali, e vista l’avanzata decomposizione la morte viene retrodatata a due settimane prima del ritrovamento.
Al 5 aprile, lo stesso giorno di Cobain.
Potrei sbagliare, ma a quel che mi ricordo stavolta non ci sono giornalisti senza scrupoli che si inzaccherano le suole con i resti della rockstar, stavolta non ci sono cordoni di polizia a tenere lontani i curiosi. In rete si trova l’annuncio della morte dell’epoca dato su MTV. Non è affidato, come nel caso di Cobain, alla voce cavernosa e al tono patibolare di Kurt Loder, ma a un veejay che non ricordo di aver mai visto. Parla di un centinaio di fan che si sono ritrovati a Seattle per ricordare il cantante, in uno spezzone filmato ne vediamo una ventina davanti a una fila di candele.
E un centinaio sembra siano state anche le persone, tra fan e amici, che hanno partecipano alla cerimonia funebre pubblica del 20 aprile 2002, sempre a Seattle.
Una morte intima: nessun complottismo, nessuna battaglia legale, solo un junkie che si è spento – lentamente? – nella vasca da bagno di casa sua, senza che nessuno se ne sia reso conto, per ore, e giorni, e settimane.
Che cantasse come un dio, a quel punto, non aveva più nessuna importanza.

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Published on April 05, 2024 09:08

March 25, 2024

più interessante del vero

Una storiella dietro le quinte di Cose da fare per farsi del male.
Credo fosse il 2018, o giù di lì. Vado a un concerto di Ghemon, e poco prima che il concerto inizi noto una coppia attempata, in un angolo della sala. Se ne stanno in disparte, un po’ rattrappiti, non troppo a loro agio. Quando il concerto inizia, risulta evidente che sono lì per qualche motivo, ma che probabilmente il motivo non è la musica, o almeno: non in senso stretto. Passo buona parte della serata a chiedermi che cosa ci facciano lì, e l’unica risposta sensata che riesco a darmi è che siano venuti per ragioni affettive. Per esempio, che siano parenti di chi sta sul palco.
Me ne potrei dimenticare appena il concerto finisce, ma per qualche motivo quei due mi si piantano in testa, e il risultato è che pochi giorni dopo finiscono come personaggi in un racconto che si intitola, guarda un po’, Che ci faccio qui.
Un racconto in cui c’è un cantante sul palco, che però non ha nulla a che fare con Ghemon. Un racconto in cui il padre del cantante fa molta fatica ad accettare il successo del figlio – per ragioni così intime che non osa confessarle nemmeno a sé stesso.

Quando qualcuno mi chiede da dove vengano le idee per un racconto, questa potrebbe essere una risposta: da due sconosciuti in un angolo di un locale, dai due mojito che bevo mentre non riesco a fare a meno di osservarli, dal fantasticare su chi sono fino a farli diventare qualcosa che quasi di sicuro non corrisponde al vero – ma che sulla pagina, almeno per me, all’improvviso diventa più interessante del vero.

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Published on March 25, 2024 02:01

March 21, 2024

caso

In Nessuno è come qualcun altro dell’immensa Amy Hempel c’è un racconto di due pagine che si intitola Arcobaleno lunare, in cui una donna che ha appena seppellito il suo amato cane si vede arrivare un orso nel giardino di casa, e intuisce che tra le due cose potrebbe essersi un legame.

In Cose da fare per farsi del male del sottoscritto c’è un racconto di dieci pagine che si intitola La voce del lago, in cui una donna che ha appena seppellito il marito si vede arrivare nel giardino di casa un grosso cane, e intuisce che tra le due cose potrebbe esserci un legame.

Chi li legga entrambi potrebbe pensare che io mi sia ispirato – o peggio, che io abbia spudoratamente copiato. Il fatto è che ho letto Arcobaleno lunare un anno abbondante dopo aver finito di scrivere La voce del lago, e sono abbastanza certo di non averne sentito parlare prima. Quindi le innegabili somiglianze mi mettono addosso una sensazione un poco strana, ma non del tutto spiacevole. Se fossi un po’ più spirituale, chissà come me lo spiegherei. Ma non lo sono, quindi lo chiamo: caso.

Comunque: leggete Amy Hempel.
E se vi va, leggete pure il sottoscritto, grazie grazie, ma prego, ci mancherebbe.

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Published on March 21, 2024 06:24

March 19, 2024

paura di questa paura

Se non voglio vedere nessuno, neanche quelli del rifornimento, è perché ho paura di non essere ragionevole. Paura che mi venga la tentazione. Paura di questa paura di me stesso di cui ho già parlato. E ho fatto proprio bene a chiudermi a doppia mandata nella camera di guardia e a gettare la chiave dalla finestra quando sono arrivati, perché sin dall’alba Cordouan mi martellava le tempie. Mi aveva fatto uscire pazzo, pazzo al punto da sudare come non mai, da avere male dappertutto fin nelle ossa, da vedermi passare davanti agli occhi immagini di carogne, da sentire le sirene acutissime di un battello faro più pericoloso del faro stesso, da dovermi imbavagliare per non urlare, da sbattere la testa contro l’armadio prendendo la precauzione, in uno sprazzo di lucidità, di mettere una coperta fra la mia testa e il legno, da punire i miei avambracci a colpi netti e precisi di bisturi manico numero tre lama numero dieci, per poi finire accovacciato nel mio piscio mugolando come un grongo epilettico.

Vincent de Swarte, Il re di Atlantide
Traduzione di Giorgio Pinotti
Adelphi, 2000

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Published on March 19, 2024 08:08

March 15, 2024

la maledizione del calzino penico

Il 21 ottobre 1995 io e alcuni amici – belli e giovani come dèi, forti come puma – si va a vedere il concerto dei Red Hot Chili Peppers a Milano. Non ricordo come, ma abbiamo sgraffignato dei biglietti omaggio; c’è scritto sopra Tribuna stampa, ma noi disobbediamo e scendiamo in platea. Perché siamo rock. Comunque, è il tour di One Hot Minute, non c’è Frusciante che è disperso da qualche parte, al suo posto c’è Dave Navarro. La sbornia di Blood Sugar Sex Magik forse è un po’ scemata, ma c’è un pubblico bello tosto. A fare da spalla, un giovane dee jay, che parte un poco timido e ha la malaugurata idea di proporre musica che potremmo a spanne definire dance. Immaginatevi il pubblico rock come la prende, la cosa più carina che lo smilzo dee jay si sente dire è: Vattene pezzo di merda! E lui, mogio mogio, finisce il set e se ne va. Escono i RHCP, il palazzetto esplode (di concerti ne ho visti, ma in quanto a pogo selvaggio quello è stato uno dei più crudi), suonano per un’oretta, vanno dietro le quinte. Quando tornano indossano il tradizionale calzino sulle pudenda (potrei sbagliare, ma Flea forse non ha neanche quello ed è vestito solo del basso). Ora, il dee jay nel frattempo si sarà leccato le ferite, avrà forse maledetto questi stronzi italiani che lo hanno cacciato, tutto potrebbe finire lì. E invece no, perché contagiato dall’entusiasmo anche lui indossa il calzino penico, ed esce a saltare sul palco. Mal gliene incolse: di nuovo insulti, pernacchie, Vattene pezzo di merda.
Lì per lì, devo dire, mi fa molta pena.
Poi passa qualche anno e me lo ritrovo in testa più o meno a tutte le classifiche planetarie. Non escludo che ogni tanto ripensi agli stronzi italiani, e dica tra sé: chi è che fischia adesso, eh? EH? Il dee jay si chiama Richard Melville Hall, in arte: Moby.
La morale di questa storia? Non ne ho la più pallida idea.

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Published on March 15, 2024 02:50

February 5, 2024

una presentazione

La presentazione di Cose da fare per farsi del male, con Antonello Saiz

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Published on February 05, 2024 06:00

January 23, 2024

il trafelato presente

Io… non capisco bene perché ti racconto tutto questo. Risale talmente indietro nel mio viaggio nel tempo. Le tappe di un viaggio non contano se il viaggio in sé è privo di meta e ha solo una fine. Sulle strade le donne ticchettano-scandiscono il passare del loro tempo… E tutto successo, ma ora sta succedendo questo. Come Vera che si è dileguata, anche il passato è morto e sepolto. Il futuro può prendere questa strada, o quell’altra. Le azioni del futuro non hanno mai avuto una quotazione cosí incerta. Non puntarci i tuoi soldi. Ascolta il mio consiglio e rimani attaccato al presente. E l’unica cosa vera, l’unica realtà, non c’è altro, solo il presente, il trafelato presente

Martin Amis, Money
trad. it. di Susanna Basso
Einaudi, 1999

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Published on January 23, 2024 02:49

January 19, 2024

da oggi in libreria

Da oggi è in libreria Cose da fare per farsi del male (Giulio Perrone Editore) una raccolta di 12 racconti scritti da me medesimo.
Quando un libro esce smette di essere del suo autore, diventa dei lettori, e… Ma a chi la racconto, è mio, MIO, e se lo maltrattate la mia vendetta sarà implacabile. 😬

Qui trovate una specie di diario di scrittura del libro, e questa di seguito è una playlist che fa da colonna sonora. Buona lettura, buon ascolto, buon tutto.

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Published on January 19, 2024 03:41