Alessio Brugnoli's Blog, page 36
March 27, 2021
Il Palazzo dei Normanni (Parte I)
Come citato altro volte, l’attuale palazzo dei Normanni sorge sul Castrum punico della Paleapolis, anche se non proprio corretto, possiamo paragonare all’acropoli delle città greche, che doveva essere il cuore amministrativo e commerciale della città.
Cartagine, tra l’altro, aveva un dominio molto lasco sulle sue colonie siciliane: i suffeti, gli equivalenti dei consoli romani, non erano nominati dalla città africana, ma eletti dal senato cittadino, il locale consiglio degli anziani, dei commercianti più ricchi e dei grandi proprietari terrieri.
In cambio della protezione militare essa garantiva a Cartagine soltanto un dazio del 5% sul valore delle merci che transitavano dal suo porto. Un porto dal quale passavano enormi quantità di prodotti africani (olio e vino, soprattutto), destinati al mercato interno ed all’esportazione, e dal quale partiva il grano, prodotto in abbondanza nell’entroterra, grazie anche al massiccio impiego di schiavia
L’arsenale, forse situato all’altezza del nostro palazzo Butera, era talmente attivo (le foreste dei dintorni erano allora ricchissime) che nel 406, durante la guerra contro Agrigento, insieme a Mozia poté apprestare una flotta di 40 triremi
I suffeti e il senato si riunivano forse in una sorta di Bouleuteria, per usare un termine greco, un’aula rettangolare, in cui probabilmente i sedili di legno si disponevano lungo le pareti, e da un secondo ambiente che fungeva da archivio. Alcuni studiosi hanno ipotizzato come fosse la famigerata aula viridis, ma questa sembrerebbe essere stata di dimensione molto più ampia di un Bouleuteria, dato che nel Medioevo era utilizzata per le assemblee cittadine palermitane, che dalle cronache, sappiamo essere state assai frequentate.
A causa degli sbancamenti, delle demolizioni e delle ricostruzioni effettuate da Arabi, Normanni e Spagnoli, dei resti cartaginesi è rimasto ben poco: al piano inferiore delle Sale Duca di Montalto, in seguito ad una campagna archeologica effettuata nel 1984, sono tornati alla luce elementi architettonici appartenenti all’antica cinta muraria punica della città di Palermo, risalenti circa al V secolo a. C.; tra tali testimonianze spiccano una postierla che ha mantenuto inalterato il suo aspetto originario, i resti di una delle antiche porte della città e parte dei conci realizzati con cura e perfettamente squadrati.
Purtroppo, si sa poco della Panormos in età romana, alcuni accenni delle fonti coeve, tutti comunque di carattere per lo più economico e poco inerenti la topografia della città e qualche ritrovamento saltuario: però non è da escludere che vi sia stata una continuità di utilizzo del Palazzo dei Normanni, in cui poteva esservi la sede dei decurioni locali, i membri del consiglio dei municipi e delle colonie romane (ordo decurionum o anche senatus). In molte città il loro numero era nominalmente 100; la designazione avveniva generalmente da parte dei quinquennales, e la carica era a vita e conferiva onori e privilegi. La funzione del consiglio, in origine solo consultiva, divenne presto deliberativa. Dal 2° sec. d.C. l’istituzione incominciò a decadere, tanto che lo Stato ne impose l’obbligatorietà e l’ereditarietà delle cariche.
Dati i ritrovamenti delle domus ellenistiche e romane di Villa Bonanno, è possibile che l’area della Paleopoli, adiacente probabilmente al Foro e al Capitolium, dovette essere occupata da un quartiere di gran lusso, abitato dai ricchi commercianti, tra cui forse il curator portensis kalendarii, il funzionario curatore del porto cittadino, responsabile registro del traffico navale, dei dazi dovuti alla città di Palermo, dei prestiti marittimi concessi con fondi cittadini ad alto tasso ai naviganti, talmente prospero, da pagare di tasca sua le venationes nell’Anfiteatro locale, ancora non identificato dagli archeologi.
L’area fu parzialmente abbandonata a causa del terremoto cretese del 21 luglio 365 d.C., che Ammiano Marcellino, testimone oculare degli avvenimenti, chiamò il giorno dell’orrore. Fu il terremoto più forte registrato nel mar Mediterraneo con una magnitudo ricostruita compresa tra 8.3 e 8.5 e che provocò anche uno tsunami onde di 9 m di altezza sulla costa meridionale di Creta, che arrivarono fino a Cipro e in Palestina verso est, sulle coste della Calabria e della Sicilia verso ovest e che provocarono grandi danni verso sud in Tunisia, in Tripolitania a Leptis Magna e a Sabratha , in Cirenaica, ad Apollonia (con onde di 15 m di altezza), a Cirene e ad Alessandria d’Egitto (onde di 12 m che penetrarono nell’interno per almeno 2 km).
A titolo di curiosità, ecco la descrizione dello storico, che fa ancora venire i brividi
Il 21 Luglio improvvisamente orrendi fenomeni si verificarono in tutto il mondo, quali non sono descritte né nelle leggende né nelle opere degli storici degni di fede. Poco dopo il sorgere del giorno un terremoto scosse tutta la stabilità della terra, il mare si disperse lontano e si ritirò volgendo indietro le onde in modo che, scoperte le profondità del mare, apparvero alla vista vari tipi di animali conficcati nel fango ed estese valli e montagne che erano state relegate sotto immensi flutti dalla natura primigenia e che vedevano per la prima volta i raggi del sole. Molte navi si conficcarono sull’arida terra e moltissime persone si aggiravano liberamente tra quel che rimaneva delle onde del mare per catturare pesci ed altri animali simili. Ma in quel momento i flutti mugghianti del mare si sollevarono e scagliandosi violentemente su isole e tratti di terraferma spianarono numerosi edifici nelle città e ovunque si trovassero. La massa delle acque causò la morte di migliaia di uomini che rimasero sommersi. Alcune navi furono trovate circondate dal cadavere dei naufraghi. Altre navi, scagliate fuori dal mare, finirono sulla sommità dei tetti, come ad Alessandria. Altre furono scagliate fino a 2 miglia dentro la terra. Io stesso di passaggio in Messenia vidi una nave spartana in disfacimento per la lunga putrefazione
Benché la zona fosse utilizzata in parte come necropoli, le mura e il castrum dovette essere in qualche modo tenuto operativo e restaurato, tanto che Belisario preferì attaccare la città lato mare, dalla parte della Cala, almeno come racconta Procopio di Cesarea
Accorgendosi di non poter espugnare la città per via di terra, Belisario ordinò alla flotta di entrare nel porto giusto al di sotto delle possenti mura. Quando fu proprio sotto le mura gli uomini sugli spalti iniziarono ad urlargli contro. Accadde però che, invece di scappare, quelli iniziarono ad attaccare le navi. A quel punto Belisario fece riempire tutte le scialuppe di arcieri ed ordinò che fossero sollevate sopra gli alberi maestri, sicché gli arcieri tempestarono di frecce i difensori. A quel punto, avendo subito molte perdite ed essendo profondamente impauriti, cedettero la città a Belisario.
Il generale bizantino, oltre a restaurare la vecchia cattedrale, che sarà ricostruita dal vescovo Vittore nel 592, per poi diventare la grande moschea e tornare a essere poi la nostra Santa Maria Assunta, e fare erigere come ex voto Santa Maria la Pinta, mise mano al vecchio castrum, che ospiterà un presidio militare, e ai relativi edifici amministrativi, dato che la città, secondo Gregorio Magno, la cui mamma era palermitana e che ebbe parecchi mal di testa, a causa delle strampalate iniziative dei vescovi locali, era governata da due defensores, sempre eletti dai maggiorenti locali.
Le cose cambiarono con la conquista araba, i cui racconti, debbono però essere presi con le molle. Basti pensare che la prima narrazione è la storia scritta da Ibn al-Aṯir, che fu al servizio dei governatori di Aleppo e Mossul, be quattro secoli dopo. Si tratta sostanzialmente di un’opera di ta’rīḫ, cioè di un’opera annalistica scritta per la celebrazione del potere, dipendente da fonti a noi spesso non giunte e per di più non sempre citate dall’autore; la sua prima versione fu completata alla fine del XII secolo e rivista e aggiornata tra il 1223 e il 1231, in cui probabilmente le vicende siciliane servivano come metafora delle irrisolte questioni dell’epoca in Siria e Palestina.
Il nostro tardo cronista, con parecchia fantasia, così racconta
I musulmani si diressero allora contro la città di Palermo e la assediarono e la strinsero. Il principe (ṣāḥib) chiese allora la salvezza (’amān) per se stesso, per la sua gente e per i suoi beni, e avendola ottenuta, se ne andò per mare al paese dei rūm. I musulmani entrarono nella città nel mese di rağab dell’anno 216 [agosto-settembre 831] e non vi trovarono altro che tremila uomini, mentre ve ne erano stati durante l’assedio settantamila ed erano morti tutti. Ebbero luogo tra i musulmani di Ifrīqiya e quelli di al-Andalus dissensi e contestazioni, ma poi giunsero a un accordo e rimasero così sino all’anno duecentodiciannove [dal 16 gennaio 834 al gennaio 835]
I numeri citati sono di certo, per i dati archeologici, esagerati: probabilmente, i due defensores, appena si trovarono fuori dalle mura l’esercito musulmano, invece che combattere, decisero di evacuare la città, approfittando di un salvacondotto, facendo trasferire parte di cittadini nei territori ancora sotto il dominio dei rum, i rhomanoi, i romani, così si facevano chiamare i bizantini, lasciando gli arabi spagnoli e i berberi tunisini a scannarsi tra loro.
Palermo, Balarm o Madīna, la città per eccellenza, divenne subito il centro amministrativo della Ṣiqiliyya, tanto che nell’845, la sua zecca era già attiva: i governatori aglabiti, inizialmente, posero la loro dimora nel castrum, ma gliene incolse.
Balarm, città multietnica e multireligiosa, era ahimé, politicamente un manicomio: ai contrasti etnici tradizionali tra arabi e berberi, si aggiungero anche quelli con i burocrati bizantini che si erano convertiti, per non perdere la poltrona e che si sentivano, a torto o a ragione, discriminati. A questi si aggiungevano contrasti economici, i siciliani non volevano pagare le tasse a Tunisi e, ai tempi dei fatimidi, religiosi. Gli sciiti, pur avendo ottimi rapporti con cristiani ed ebrei, cacciarono a pedate i sunniti dall’isola, i quali si rifugiarono in massa nella Calabria bizantina, costringendo a tripli salti mortali i governatori di Rhegion, i quali in maniera pragmatica dovettero gestire problemi inaspettati relativi alla tolleranza religiosa e ai matrimoni misti.
Ora il fatto che nei trattati di pace tra Balarm e Rhegion si citasse la questione moschea nella città calabrese, non era per tentare di convertire i cristiani locali o per umiliarli, ma per imporre la dottrina sciita agli espatriati sunniti, che da questo orecchio non ci volevano proprio sentire, tanto che nelle guerre tra i due lati dello stretto di Messina, si schierano sempre dalla parte dei bizantini. Paradossalmente, l’esercito di invasione normanno era costituito, per una buona parte, di sunniti che volevano tornarsene a casa in Sicilia.
Per cui, a Balarm, ribellioni erano quotidiane: ora il castrum bizantino era ben difeso contro i nemici esterni, ma poco rispetto a quelli interni. Nel 909-910 i palermitani si ribellarono in massa contro l’emiro al-Hasan perché i suoi funzionari gravavano i cittadini di eccessive imposte. I cittadini si erano affollati intorno al palazzo incendiandone le porte, tanto che l’emiro, per salvarsi, si era gettato dal proprio edificio su quello di un vicino rompendosi una gamba. La facilità d’ingresso della popolazione e la caduta dell’emiro su una costruzione vicina lascia supporre la presenza di un palazzo emirale con circostanti edifici civili nella città vecchia, anche se non chiarisce dove esattamente ubicare questi edifici rispetto al successivo palazzo dei re normanni
.
Nell’autunno del 937 i Palermitani sollevatisi contro l’emiro Sàlim Ibn Rasid erano stati assediati nel Cassaro vecchio. Il luogotenente Halìl ‘ibn ‘Ishàq ‘ibn al-Ward, entrato in città con un grosso esercito, aveva ripristinato l’ordine e per risolvere il problema alla radice, fece costuire un nuovo palazzo alla Kalsa, meglio difeso.
Supposto che Palazzo dei Normanni fosse il centro del potere degli Aghlabiti (830-910) e dei primi Fatimiti, del periodo non è rimasto molto, se non i ritrovamenti di ceramiche con colori sovrapposti chiamate jaspé o splashed ware del X secolo, considerate le invetriate dipinte più antiche del mondo islamico.
Non ci sono neppure tracce del periodo successivo alla caduta dell’emirato kalbita, quando Balarm fu oggetto di un esperimento istituzionale unico, nel mondo arabo. Lo sciismo locale era ovviamente convinto che nell’attesa dell’epifania dell’ultimo Imam, nessun potere politico fosse pienamente legittimo.
Però, nel frattempo, qualcuno doveva pure governare, in questo basso mondo… Però, questo ingrato compito, piuttosto che a qualche più lontano discendente del profeta Muhammad, che la pace sia con lui, doveva toccare all’Umma dei fedeli, che avrebbero eletto i loro rappresentanti nel consiglio cittadino. Per cui, inizialmente, questi erano eletti dai maschi musulmani adulti: ora, però, le donne musulmane evidenziarono come anche loro fossero parte dell’Umma e che quindi avessero diritto di voto. Dopo qualche discussione, tale tesi fu accettata dagli imam locali.
Questo provocò un ulteriore problema: a Balarm i matrimoni misti erano comuni, tanto che i maschi ereditavano la religione del padre e le figlie quella madre. Ora le moglie cristiane ed ebree cominciarono a protestare vivacemente, sentendosi discriminate rispetto a quelle musulmani, evidentemente rompendo l’anima in quantità industriale ai loro mariti, che concessero anche a loro il diritto di voto. Ulteriore effetto valanga: i maschi cristiani ed ebrei si inalberarono, dicendo perché le donne possono votare e noi no ? Così, nacque in sistema elettorale complicatissimo, in cui c’era sì il suffragio universale, ma c’era un peso differente a seconda della categoria del votante.
Il voto del maschio musulmano valeva 1. Il voto di un maschio cristiano o ebreo e di una donna musulmana valeva 1/2. Il voto di una donna cristiana valeva un 1/4. Il voto di uno schiavo, un 1/8. Fortuna l’elettorato passivo era molto più semplice: per essere elegibile, dovevi essere uomo, musulmano e ricco.
Questo accrocco, oltre a concentrare il potere nelle mani di un consiglio (giamà‘a) di sceicchi (shuyùkh) costituito da imam, da giuristi e dai ricchi armatori che si dedicavano al commercio tra l’Italia e il Mediterraneo orientale, isolò Balarm dal resto del mondo islamico, che preferì vedere la città governata da infedeli, ma protettori dei sunniti, piuttosto da eretici e piuttosto strampalati sciiti.
Ora, nonostante la mancanza di resti, possiamo formulare delle ipotesi su come dovesse apparire il Palazzo dei Normanni all’epoca islamica, basandosi sia su edifici successivi, come la Zisa, la Cuba, la Torre Pisana, il palazzo degli emiri berberi ziriti ad Ashir e le contemporanee rovine della Qal’a dei Banu Hammàd in Algeria.
Edifici bassi, estesi in larghezza, con le pareti decorate con arcate cieche, i cui ambienti sono disposti secondo un asse di simmetria, che può essere longitudinale o latitudinale ne definisce sempre il rapporto gerarchico e cerimoniale, decorati con iu muqarnas, i quali non creano nessuna spaziale dilatazione illusionistica con la loro geometrica composizione tridimensionale a carattere essenzialmente isolante, ma provocano ricercati effetti di ambiguità materica e strutturale, uniti da portici e circondati da un ampio parco.
March 26, 2021
Il tempio di Apollo Cumano
Proseguendo la nostra visita sull’Acropoli di Cuma si sale uno scalone che conduce verso la sommità dell’acropoli e si arriva alle fortificazioni e alla cosiddetta Torre Bizantina, uno dei bastioni della porta monumentale dell’acropoli, così denominata perché l’aspetto che ha attualmente è frutto di una ristrutturazione del periodo bizantino, quando l’acropoli diventa castrum, in funzione della guerra Greco-Gotica (535-553 d.C.), che nelle sue ultime fasi si ambienta proprio a Cuma, quando i Goti si difesero con le unghie e con i denti.
Le fortificazioni che avvolgono l’intera acropoli sono realizzate già nel VI secolo a.C.: di questa fase cronologica restano ancora visibili alcune porzioni in grandi blocchi di tufo che sorreggono le basi della Torre. La porta subisce in seguito importanti interventi di ristrutturazione in età romana ma soprattutto, come già accennato, in età bizantina.
Salendo al livello superiore si gode di una visuale amplissima da una parte sul golfo e dall’altra sulla piana della città: la veduta a est si estende fino al confine della città greca, costituito dal Monte Grillo, tagliato nel varco dell’Arco Felice Vecchio, Porta orientale della città.
Oltrepassata la Torre, la terrazza panoramica del Belvedere, edificata sulle strutture di un’antica masseria che ingloba a sua volta importanti resti romani, offre un momento di piacevole sosta al visitatore e un osservatorio privilegiato delle isole di Ischia e Procida e del paesaggio a sud di Cuma, fino al lago Fusaro, a Torregaveta e, più oltre, fino a Miseno.
Questa ampia terrazza, situata sul fronte est della strada basolata che risale la collina fino alla sommità, ospita una serie di edifici sacri che nel complesso formavano un grande santuario dotato di un tempio principale, di un edificio circolare (tholos), di un naiskos e di una serie di strutture correlate, tra le quali la cosiddetta “cisterna greca” e alcune piccole vasche, forse funzionali all’utilizzo dell’acqua nel santuario.
Benché alcuni autori affermino il contrario, riferendo la leggenda secondo la quale Apollo abbia indicato, sotto forma di bianca colomba, la rotta ai coloni calcidesi e che quindi la dedica del complesso a tale dio risalga alle fondazione della colonia, l’archeologia sostiene una tesi differente.
Iscrizioni e materiale votivo indicano, infatti, come il tempo in origine fosse dedicato ad Hera. Questo edifici , aveva un orientamento nord-sud, era periptero in ordine ionico, con sei colonne sul fronte minore e poggiante su uno stereobate in tufo lungo trentaquattro metri e largo diciotto; durante la dominazione sannita, l’area sacra fu abbandonata, per essere ricostruito, per biechi motivi di propaganda, durante l’età augustea, quando per volere di Ottaviano tutti i luoghi ricordati nell’Eneide vennero restaurati.
Infatti, il buon Virgilio, parlando della visita a Cuma di Enea, si inventò una leggenda, legata alla presenza di Dedalo nella città, che avrebbe realizzato le porte bronzee del tempio, che il poeta, che il poeta, per arruffianarsi il princeps, attribuì ad Apollo.
Questo perchè Ottaviano, nella sua propaganda ufficiale, evidenziava la devozione a tale dio, tanto da proclamarsene figlio. Secondo il nostro solito Svetonio, Azia, madre di Ottaviano, figlia di Marco Azio Balbo e della sorella di Gaio Giulio Cesare, Giulia minore, dopo essersi recata a una cerimonia in onore di Apollo, si appisolò nella cella del tempio, mentre le altre donne facevano ritorno a casa. Un serpente, allora, strisciò intorno alle sue membra, per poi andarsene.
Quando Azia si risvegliò, si accorse che sul suo corpo era rimasta una macchia a forma di serpente. Nove mesi dopo quell’insolito evento, nacque Ottaviano, che da allora fu considerato figlio di Apollo. La sera prima delle doglie, si dice che Azia sognò che le sue viscere si estendevano fino alle stelle, coprendo tutto lo spazio tra terra e cielo, mentre Gaio Ottavio, padre di Ottaviano, la stessa sera sognò che dal ventre di Azia nasceva un raggio di sole, simbolo di Apollo.
Questa fake news ebbe talmente tanto successo, da entrare nel design, chiamiamolo così, degli oggetti d’arredamento di lusso delle domus romane, come il cosiddetto vaso Portland, più famoso esempio di vetro a cammeo dell’antichità, che tra l’altro, ebbe una vita alquanto avventurosa: da strumento di propaganda dell’età dell’oro augustea, regalato da un membro della gens Iulio-Claudia a un ricco senatore, si trasformò in un dono di nozze, per poi diventare parte del corredo funebre dell’imperatore Alessandro Severo.
In realtà, la storia del legame tra Augusto e Apollo è molto più terra terra: Antonio, come ho raccontato nel mio romanzo Io,Druso, per la prestanza fisica si identificava con Ercole e per il suo desiderio di conquistare l’Oriente, con Dioniso. Secondo il mito, questo dio, dopo avere sconfitto i Titani in Egitto si diresse in oriente, verso l’India, sconfiggendo numerosi avversari lungo il suo cammino (tra cui il re di Damasco, che scorticò vivo) e fondando numerose città: dopo aver sconfitto il re indiano Deriade, Dioniso ottenne l’immortalità.
Durante la guerra civile, Ottaviano, sempre in termini di propaganda, contrappose a questa identificazione di Antonio la sua con Apollo, sia perché il dio rappresentava l’ordine e la ratio in opposizione alla superstitio dionisiaca, sia perché, aveva sconfitto Ercole in una disputa sul possesso dell’oracolo di Delfi. Per cui, quando la sua ascesa al potere fu completata, come ex voto cominciò a riempiere Roma e province di templi dedicati al suo protettore, tra cui quello sul Palatino, che fungeva anche da accesso monumentale alla sua domus.
L’invenzione di Virgilio, oltre ad assecondare questa mania di Ottaviano, rafforzava l’immagine di Cuma e della sua Sibilla come corrispettivo italico dell’oracolo di Delfi. Proprio per ribadire l’antichità di questo culto oracolare, il poeta inventò anche una seconda storiella, quella di Dedalo, di cui cito i versi nella traduzione di Annibal Caro.
Quando avanti di marmo ornato e d’oro
il bel tempio si vide. È fama antica
Che Dedalo, di Creta allor fuggendo
Ch’ebbe ardimento di levarsi a volo
Con più felici e con più destre penne
Che ’l suo figlio non mosse, il freddo polo
Vide più presso; e per sentier non dato
A l’uman seme, a questo monte alfine
Del Calcidico seno il corso volse.
Qui giunto e fermo, a te, Febo, de l’ali
L’ordigno appese, e ’l tuo gran tempio eresse,
Ne le cui porte era da l’un de’ lati
D’Andrògëo la morte, e quella pena
Che di Cècrope i figli a dar costrinse
Sette lor corpi a l’empio mostro ogn’anno:
Miserabil tributo! e v’era l’urna,
Onde a sorte eran tratti. Eravi Creta
Da l’altro lato, alto dal mar levata,
Ch’avea del tauro istorïata intorno
E di Pasífe il bestïale amore,
E la bestia di lor nata biforme,
Di sì nefando ardor memoria infame.
Eravi l’intricato laberinto:
Eravi il filo, onde gl’intrighi suoi
E le sue cieche vie Dedalo stesso,
Per pietà ch’ebbe a la regina, aperse.
E tu, se ’l pianto del tuo padre e ’l duolo
Nol contendea, saresti, Icaro, a parte
Di sì nobil lavoro. Ma due volte
Tentò ritrarti in oro, ed altrettante
Sì l’abborrì, che l’opera e lo stile
Di man gli cadde
Secondo il mito originale, Dedalo era ateniese di nascita. I genitori che la tradizione gli attribuisce segnalano tutti il suo intimo legame con la sfera delle téchnai: come padre si ricordano Metion, che richiama nel nome la metis, l’intelligenza pratica e astuta, ovvero Eupalamos (= ‘quello dalle mani buone’), che richiama l’arte manuale; come madre si ricorda Iphinoe (= ‘quella dai forti pensieri’) , Metiadousa (= ‘quella che ama la metis’) o Phrasimede (= ‘quella che concepisce piani’). Sarebbe stato cugino di Teseo. La tradizione ateniese ne cita il nipote e allievo Talos, figlio di una sorella nota in qualche tradizione anche lei come Perdix.
L’attività ateniese di Dedalo è soprattutto legata alla scultura: Socrate, figlio di uno scultore, provocatoriamente si riteneva discendente di Dedalo, ma di fatto apparteneva al demo attico dei Daidalidai, propriamente ‘i discendenti di Dedalo’, di cui appunto Dedalo era l’eponimo. Dedalo, peraltro, era noto per la costruzione di statue semoventi, veri e propri automi (autómatoi), come quelli che costruiva il dio Efesto.
Un’altra caratteristica eccezionale che si manifesta ad Atene è l’invenzione degli strumenti che lo aiutano nella sua opera di scultore e carpentiere e di cui Plinio il Vecchio dà un elenco:
Dedalo fu inventore degli strumenti che consentono di lavorare la materia, tra cui la sega, l’ascia, il filo di piombo, il trapano, la colla, la colla di pesce
Dedalo ben presto si trova a dover competere con il nipote che a sua volta inventa il compasso e la ruota da vasaio. Non può farsi a meno di notare la complementarità delle rispettive invenzioni: quella dello zio-maestro Dedalo insiste sulla nozione della linearità, quelle del nipote-allievo sulla nozione della circolarità. Lo scontro è inevitabile quando il nipote, ispirandosi alla mascella di un serpente, inventa la sega per tagliare il legno tenero. L’invidia dello zio lo spinge a una reazione spropositata: una mattina Dedalo si reca con Talos sull’Acropoli, sul tetto del Tempio di Atena e lo spinge giù dal cornicione.
Dopo aver spinto il ragazzo nel vuoto, Dedalo si precipita ai piedi dell’Acropoli e chiude il cadavere in un grosso sacco, proponendosi di seppellirlo in un luogo deserto. Gli ateniesi, nel vederlo trasportare tale peso, ne sono incuriositi, ma per sviarne i sospetti, l’inventore risponde di avere raccolto un serpente morto, come previsto dalla legge. Ben presto sul sacco appaiono macchie di sangue ed il folle delitto è scoperto e nessuno crede alla bugia di Dedalo, di una caduta accidentale del nipote.
Così, tre generazioni prima di Oreste, Dedalo è giudicato dall’Areopago e da questo condannato all’esilio; per questo si trasferisce a Creta, al servizio di Minosse, dove conosce e sposa Naucrate, da cui avrà Icaro, e dove costruisce sia il Labirinto, e un gigantesco automa di bronzo, a cui da il nome del nipote ucciso.
Talos è incaricato da Minosse di sorvegliare l’isola, mettendo in fuga i nemici che tentano di sbarcarvi, o di fermare i cittadini senza il consenso del re. Ogni giorno fa il giro dell’isola armato e pronto per scagliare enormi pietre e non esita a buttarsi nel fuoco fino ad una elevatissima temperatura per poi schiantarsi sui suoi nemici stritolandoli e bruciandoli.
L’automa è invincibile, tranne in un punto della caviglia, dove era visibile l’unica vena che contiene il suo sangue. La leggenda vuole che quando la spedizione degli Argonauti giungr sull’isola, sia reso pazzo da Medea ed ucciso dall’argonauta Peante che trafigge la sua vena con un colpo di freccia.
Però Dedalo, su richiesta di Arianna, figlia di Minosse, decide di aiutare il cugino Teseo contro il Minotauro: per cui, come punizione di questo tradimento, lui e Icaro sono imprigionati nel Labirinto. Per evadere, Dedalo costruisce due paia di ali, uno per sé e l’altro per il figlio. Si raccomanda con Icaro di restargli sempre dietro durante il volo, di non strafare e soprattutto di stare attento a non avvicinarsi troppo ai raggi del sole perché, le ali, attaccate alle spalle con della cera, possono staccarsi. Come non detto, Icaro durante il volo, non gli da retta, precipitando in mare e affogando.
Secondo la versione originale del mito, Dedalo atterra ad Agrigento, dove è ospite del re sicano Cocalo. Al suo servizio Dedalo gli costruisce una diga, fortica una cittadella per proteggere i tesori del re, edifica su una roccia a picco le fondamenta di un tempio ad Afrodite, installa uno stabilimento termale. Questo racconto, probabilmente, serviva ai coloni greci a spiegarsi le somiglianze, che di certo avevano notato, tra le tholos micenee e le tombe della cultura di Thapsos.
Minosse, venuto a conoscenza della fuga di Dedalo in Sicilia, organizza una spedizione e sbarca a Minoa, e per trovare Dedalo si serve del suo particolare stratagemma: promette una grossa ricompensa a chi riesce a far passare un filo attraverso le spirali di una conchiglia di una chiocciola.
Cocalo allettato dall’oro, propone la soluzione a Dedalo che lega il filo ad una formica spingendola in quel nuovo labirinto. Quando Cocalo fa portare la conchiglia a Minosse, questo capisce che Dedalo deve essere nei paraggi e invia degli ambasciatori al re sicano, per ottenere la restituzione del fuggitivo.
Però Dedalo aveva sposato una delle figlie di Cocalo: il loro figlio, Iapyx, diventerà re in Puglia, dove tutti i popoli, dal Salento fino alla Daunia, sarebbero stati chiamati, dal suo nome, Iapigi. Per cui Cocalo, tutt’altro che intenzionato a perdere tale genero, invita Minosse e, dopo aver promesso di assecondare le sue richieste, concede l’uso delle sue terme, costruite da Dedalo a Minosse, ma mentre il re cretese, per nulla insospettito, si lava servito, secondo il costume di quei tempi, dalle figlie di Cocalo, le cognate di Dedalo, violando le leggi dell’ospitalità, lo affogano.
Per espiare questa colpa, Dedalo entra al servizio del mitico Iolao, figlio di Ificle e nipote di Eracle, per fondare in Sardegna una colonia greca: le nuraghe furono considerati dai greci come resti di questo mitico stanziamento. Mito che serviva a giustificare le velleitarie rivendicazioni coloniali sull’isola, saldo possesso punico.
Virgilio, ovviamente, butta via tutta questa parte del mito, in cui Dedalo fa la parte dell’intrigante e che rivendica il ruolo demiurgico della technè: secondo il poeta, ricordiamolo, Dedalo sarebbe arrivato direttamente sulla rocca di Cuma, dove avrebbe dedicato le ali ad Apollo e in suo onore avrebbe eretto un immenso tempio, sulle cui porte d’oro aveva istoriato la sua storia, particolarmente il suo soggiorno cretese, la sua opera tecnica a favore di Minosse e della regina Pasifae, l’aiuto fornito ad Arianna innamorata; abortiti per il dolore e la commozione erano i tentativi di rievocare la triste vicenda di Icaro.
Nei versi virgiliani prevale un Dedalo pius, corrispettivo di Enea, rispettoso della divinità e visceralmente legato al ricordo straziante di suo figlio caduto; la sua abilità tecnica è solo sullo sfondo della sua amara e tragica esperienza cretese; il prodotto ultimo e straordinario della sua “scienza”, le ali umane, non avvia un progresso, non celebra una riuscita, ma rimanda prevalentemente a un doloroso insuccesso patito dal figlio. Sulla rocca di Cuma c’è Dedalo solitario che, proprio quando recupera la fede in un dio, denuncia l’inanità e la pericolosità della scienza e del progresso, mostrando i pregiudizi di un poeta che in fondo, non voleva essere nulla più che un piccolo proprietario terriero, con i suoi tre o quattro schiavi e la sua vita comoda e abitudinaria, lontana dalle diavolerie della res novae.
In ogni caso, l’Eneide, come accennato, convinse Augusto ad aprire i cordoni della borsa e a ricostruire il complesso templare di Cuma. Viene ricavata, tagliando parte delle fortificazioni greche, una grande rampa di accesso alla terrazza dal piazzale appena oltre la porta dell’acropoli; il tempio stesso viene demolito fino al basamento e riedificato con l’aggiunta di un monumentale pronao sul lato lungo, simile a quello del tempio della Concordia a Roma, che prospettava sulla città bassa ed era così imponente da potersi vedere da ogni punto della piana cumana.
Il nuovo tempio, a differente del precedente, aveva un orientamento est-ovest: il pronao presentava delle colonne doriche, eccetto quelle agli angoli che avevano una particolare forma trilobata. Tutte le colonne erano in laterizio rivestite in stucco, che in parte ancora si conserva, poggianti su basi attiche e sormontate da capitelli ionici; la trabeazione, di cui sono stati ritrovati alcuni frammenti, era decorata in terrecotte, raffiguranti elementi zoomorfi ed antropomorfi. La cella, realizzata in opus reticolatum ma di cui non rimane alcun rivestimento murario, misurava ventidue metri di lunghezza e nove di larghezza con ingresso sul lato orientale ornato da due colonne in laterizi: internamente era divisa in tre navate con aperture ai lati intercalati da pilastri in trachite e doveva contenere una grossa statua raffigurante Apollo. A completare il tutto, la pavimentazione dell’intera struttura era in travertino.
Tra il VI ed l’VIII secolo il tempio venne trasformato in basilica cristiana, ritornando paradossalmente all’orientamento arcaico, con la conseguente costruzione di un fonte battesimale e di alcune tombe nel pavimento: venne quindi abbandonato a seguito dello spopolamento della città di Cuma nel XIII secolo e ritrovato solamente nel 1912, immediatamente identificato tramite un’epigrafe in marmo che faceva chiaro riferimento all’Apollo Cumano
March 25, 2021
Baccanali
Come detto altre volte, il culto di Dioniso risale all’età del Bronzo e all’antica religiose elladica. Il suo nome appare nelle tavolette in Lineare B di Tebe, come Di-wo-nu-so. Se noi consideriamo la sua forma in genitivo, Di-wo-nu-so-jo, sembrerebbe come il nome sia in realtà una sorta di appellativo, riconducibile a giovane figlio di Zeus.
Se partiamo dall’ipotesi che Minoici e Micenei adorassero una sorta di triade divina, costituita dalla Potnia Theron, la Natura nelle sue diverse forme, il suo consorte divino, i cui attributi di signore del Cielo, dell’Abisso e del regno dei Morti, portarono all’età classica alla nascita delle figure di Zeus, Poseidone ed Ade, e da un fanciullo, il cui mito di nascita e morte simboleggiava il Divenire e lo scorrere dello stagione, allora Dioniso è riconducibile a tale figura.
A riprova di tale tesi, vi sono diversi indizi. Negli Inni Orfici, che sono una rappresentazione razionalizzata dell’antica religiosità arcaica, Dioniso è definito
l’ultimo re degli dei, investito da Zeus; il padre lo pone sul trono regale, gli dà lo scettro e lo fa re di tutti gli dei
proprio ad evidenziare la sua natura di erede divino. Vi è poi l’incertezza dei mito classico della sua paternità: a seconda delle versioni, viene considerato o figlio di Giove o di Ade, incertezza risolvibile se si considerano le due figure come diverse manifestazioni di un’unica divinità originaria, che rappresentava il principio maschile.
Infine, vi è il mito di Zagreo. Zeus aveva deciso di fare di tale divinità il suo successore nel dominio del mondo, provocando così l’ira di sua moglie Era: così, per evitare problemi affidò il piccolo ai Cureti affinché lo allevassero. Allora Era si rivolse ai Titani, i quali attirarono il piccolo Zagreo offrendogli giochi, lo rapirono, lo fecero a pezzi e divorarono le sue carni. Le parti rimanenti del corpo di Zagreo furono raccolte da Apollo, che le seppellì sul monte Parnaso; Atena invece trovò il cuore ancora palpitante del piccolo e lo portò a Zeus, che lo fece rinascere come Dioniso e punì i Titani fulminandoli, e dal fumo uscito dai loro corpi in fiamme sarebbero nati gli uomini.
Mito, che come accennato all’inizio, rispecchia questa idea ciclica del Tempo. L’arcaicità di Dioniso è testimoniata anche dal suo culto, che incorporava l’antica ritualità sciamanica, dall’uso delle maschere, che simboleggiava il trasformarsi in altro e l’ebbrezza, provocata dal vino e dall’uso di sostanze psicotrope, in modo da ottenere un mutamento dello stato di coscienza e trasformarsi in entheos, in “pieni di dio”, identificandosi con la divinità.
Questo complesso mondo religioso, dati i contatti abbastanza stretti tra micenei e civiltà appennica, arrivò in Italia nella tarda età del Bronzo e fu riadattato al contesto locale: il ciclo temporale legato all’attività agricola fu sostituito a quello della transumanza, accentuando così la componente sessuale del rito. Un’ulteriore fu aggiunta dagli etruschi che forse nel culto introdussero forme più o meno velate, di sacrifici umani. Nacquerò così i Baccanali, poco graditi al Senato Romano, viste le vicende del 186 a.C.
Per raccontarle, ci affidiamo al buon Tito Livio, il quale sostiene che la prima forma della festività era aperta alle sole donne e si svolgeva durante tre giorni dell’anno, alla luce del giorno; mentre nella vicina Etruria, a nord di Roma, un “greco di umili origini, versato nei sacrifici e negli auguri” aveva stabilito una versione notturna che comprendeva celebrazioni che facevano uso di vino, il che acquisì un seguito entusiasta di donne e uomini.
Sempre secondo lo storico, in questa versione notturna dei baccanali, quando il vino e la mescolanza dei sessi creavano una miscela propria alla dissolutezza, avvenivano anche omicidi sacri. Il periodo dei baccanali sarebbe stato, secondo Livio, il momento migliore per commettere delitti per il fatto che le molte grida e il suono degli strumenti facilitavano nascondere un crimine.
Continuando con la sua narrazione, lo storico padovano riferisce di un grave incidente politico che coinvolse Paculla Annia, una sacerdotessa campana di Bacco, fondatrice di un culto privato e non ufficiale dei baccanali a Roma, con sede presso il boschetto di Stimula, laddove il versante occidentale dell’Aventino scende verso il Tevere.
L’Aventino era un quartiere etnicamente misto, fortemente identificato con la classe plebea di Roma e che era la porta d’entrata privilegiata di nuovi culti forestieri. Il dio del vino e della fertilità Liber Pater, divino patrono dei diritti dei plebei, delle libertà e degli auspici, aveva un culto ufficiale consolidato da tempo nel vicino tempio che condivideva con Cerere e Proserpina e viene descritto da molte fonti come l’equivalente di Dioniso e Bacco a Roma. Paculla aveva modificato il culto, avvicinandolo a quello praticato in Etruria, aumentò la loro frequenza a cinque al mese, li aprì a tutte le classi sociali e ad entrambi i sessi – a cominciare dai suoi stessi figli, Minio ed Errenio Cerrino – e favorì l’abuso di vino e la promiscuità sessuale fra gli iniziati, al grido
“Il male non esiste”
Gli uomini, come in preda ad un’inspiegabile follia, davano oracoli, mentre le matrone, in abiti succinti, correvano al Tevere per spengere nelle sue acque fiaccole accese: poiché impregnati di zolfo e calce, i lumi tornavano a galla ancora fiammanti.
Livio racconta come un giovane chiamato Ebuzio fosse innamorato di una liberta, Ispala Fecenia, nota per aver esercitato il meretricio. Il patrigno del ragazzo, uno scialacquatore, voleva eliminarlo o assoggettarlo al suo volere con qualunque mezzo. La madre degenere, pronta ad assecondare il marito, decise per la via più breve: introdurre il figlio al culto di Dioniso.
Con fare materno disse al ragazzo che, quando era stato ammalato, aveva formulato per la sua pronta guarigione un voto al dio del vino. Una volta cessato il male, la donna aveva promesso che, per ringraziamento, lo avrebbe iniziato al suo culto. Ebuzio doveva astenersi per dieci giorni da rapporti sessuali e, dopo una cena ed un bagno purificatorio, sarebbe stato condotto al sacrario di Bacco. Il giovane informò l’amata di tale decisione, ma Ispala lo ammonì a non farlo, poiché conosceva quel luogo come “l’officina di ogni depravazione”. La giovane gli spiegò quel che sapeva.
Era stata lì da schiava, dovendo accompagnare la sua padrona. Da quando era stata liberata non vi era più entrata, ma conosceva bene la sorte degli sventurati che vi si recavano: appena introdotto al suo interno, il nuovo adepto era consegnato come una vittima nelle mani dei sacerdoti. Questi lo accompagnavano in un locale che risuonava di ululati, canti e del fracasso di timpani e cembali, l’unico modo per nascondere le urla disperate ed imploranti di chi veniva violentato. Ebuzio, sconvolto, su consiglio di una zia decise di denunciare tutto al console Postumio che prese gli opportuni provvedimenti.
Gli accusati furono ben 7000, fra uomini e donne; capi della setta risultarono due plebei romani, Marco e Gaio Atinio, un Lucio Opiterio di Falerii e il campano Minio Cerrinio; coloro che furono riconosciuti soltanto iniziati ai misteri, ma innocenti di qualunque altra turpitudine o delitto, furono lasciati in prigione, quelli invece – e furono i più – che si erano macchiati di stupri, di omicidi, o di frodi, furono puniti di pena capitale, non escluse le donne.
Racconto affascinante, peccato che probabilmente Livio si sia inventato buona parte della storia: la vicenda di Ispala ed Ebuzio ricorda troppo le vicende di una commedia plautina, a sua volta scopiazzate senza ritegno dalla Commedia Nuova dell’Attica. Contestualizziamo il tutto: siamo in piena restaurazione augustea, in cui il Princeps negli antichi dei e nel loro culto voleva trovare il sostegno per dare legittimità al suo potere. Per cui bisognava ribadire ad ogni costo la bontà del mos maiorum e allontanare i cives dalle suggestioni di strani culti orientali, che cominciavano ad andare di moda, e che ne minavano le basi ideologiche e dovevano essere delegittimati. Per cui, Livio, in buona fede, costruì un exempla utile a tale causa, usando la questione Baccanali, gonfiando i numeri e calcando tinte e toni. Tra l’altro, se ci fate caso, le stesse nefandezze dei seguaci di Dioniso furono attribuite anche ai primi cristiani.
Il dato certo, è la repressione del Senato. La religione romana, politeista e universalista, cercava per quanto possibile, di integrare nel suo universo rituale le divinità dei popoli sconfitti, sia per integrarli meglio, sia perché, in fondo, nella vita non si sa mai: meglio un sacrificio in più, che trovarsi un a che fare con il pessimo umore di un dio poco noto.
Perciò, anche se gli dei stranieri non erano considerati altrettanto potenti, tutti erano considerati veri e quindi degni di essere rispettati e venerati. Questa concezione politeista e multi religiosa dello ius sacrum Romanum è ben sintetizzata da Cicerone quando afferma che “sua cuique civitati religio …est, nostra nobis”
Il limite di tale tolleranza era nella superstitio, la religione che comportavano un eccessivo timore degli dei e suscitavano emozioni eccessive (morbus animi), soprattutto i fedeli si riunivano in privato o di notte. Per i Romani tutto doveva avvenire alla luce del sole e tramite riti codificati: essi avevano un sacro terrore per tutto quello che essi non potevano controllare, dato che, se non fossero rispettate le opportune formalità, si sarebbe violata la pax deorum e scatenato il caos nel mondo.
Il culto dionisiaco era proprio, secondo la mentalità romana, la superstitio per eccellenza… A questo aggiungiamoci due fattori contingenti: il primo, è che il Senatore medio romano dell’epoca, avrebbe visto con il fumo negli occhi qualsiasi riunione segreta di plebei, che poteva avere anche risvolti politici. Il secondo è che Catone il Censore aveva preso sul personale la questione repressione Baccanali, per cui, per farlo stare zitto e buono, sempre il senatore medio avrebbe approvato qualsiasi sua proposta, anche la più strampalata.
Così fu promulgato il Senatus consultum de Bacchanalibus, di cui è stata ritrovata una copia in latino arcaico risalente al 186 a.C., ritrovata nel 1640 a Tiriolo, in provincia di Catanzaro e ora conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Questa è la sua traduzione in italiano
I consoli Q. Marcio figlio di Lucio e S. Postumio figlio di Lucio hanno consultato il senato alle none di Ottobre presso il tempio di Bellona. Hanno svolto le funzioni di segretari M. Claudio, figlio di Marco, L. Valerio, figlio di Publio, Q. Minucio, figlio di Gaio. (I senatori) hanno consigliato che bisognava emettere un editto a quelli che nell’ambito dei Baccanali avessero fatto accordi tra di loro con queste disposizioni: Nessuno di loro volesse tenere un baccanale; nel caso vi fossero alcuni che affermassero che fosse necessario mantenere un baccanale, (hanno consigliato) che essi venissero a Roma dal pretore urbano e su tali questioni decidesse il senato, dopo aver ascoltato le loro parole, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venisse discussa. Nessun uomo volesse avvicinarsi alle baccanti, né un cittadino romano, né uno di diritto latino né un alleato, se non si fosse presentato dal pretore urbano ed egli avesse dato l’autorizzazione, conforme al parere del senato, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venisse discussa. Nessun uomo fosse sacerdote. Nessun uomo o donna fosse capo. Nessuno di loro fosse tesoriere di denaro comune né volesse nominare uomo o donna magistrato o vice magistrato. Né d’ora in poi volesse vincolarsi con giuramenti, con voti, con promesse, con obblighi, né volesse stabilire rapporti reciproci di fiducia. Nessuno volesse celebrare riti sacri in segreto. Nessuno volesse celebrare riti sacri né in pubblico né in privato né fuori città, se non si fosse presentato dal pretore urbano ed egli avesse dato l’autorizzazione conforme al parere del senato, purché fossero presenti non meno di cento senatori, quando tale questione venga discussa. Hanno deciso. Nessuno volesse celebrare riti sacri se fossero presenti più di cinque persone, uomini e donne, e tra di essi non volessero essere presenti più di due uomini e più di tre donne, qualora non vi fosse l’autorizzazione del pretore urbano e del senato, come sopra è stato scritto.
La loro decisione è stata questa, che rendiate pubbliche queste decisioni nell’assemblea di non meno di tre mercati consecutivi e conosceste il parere del senato: “Se vi fosse qualcuno che agisse in modo contrario a queste prescrizioni, nei limiti di quanto è stato scritto sopra, hanno deciso che bisognasse intentare loro un processo capitale”. Il senato ha giustamente deciso che incideste questo decreto su una tavola di bronzo, e che lo facciate affiggere dove con molta facilità possa essere conosciuto e che, come sopra è stato scritto, facciate rimuovere, entro dieci giorni dalla consegna delle tavolette, i baccanali, se ve n’è qualcuno, tranne quelli in cui c’è qualcosa di venerabile.
Ovviamente, questa normalizzazione cambiò la natura dei Baccanali, che si formalizzarono, acquisendo forme rituali analoghe a quelle degli altri culti, con libagioni e offerte di frittelle al miele, che furono ereditate nella nostra festa di San Giuseppe
March 24, 2021
La casa del Jazz
Molti romani amanti della musica conoscono la Casa del Jazz, per i concerti di grande qualità che vi si tengono: molto meno nota, però la sua storia di gran fascino, a cominciare dal committente, Arturo Osio, uno dei fondatori del Partito Popolare italiano e uno dei padri nobili del movimento cooperativo.
Nel 1924 Arturo conosce un personaggio diversissimo da lui per cultura, carattere e ideologia, il famigerato Roberto Farinacci e stranamente i due diventano amici, tanto che il ras di Cremona fa stalking a Mussolini, per nominare il nostro eroe direttore generale dell’Istituto nazionale di credito per la cooperazione, un ente pubblico voluto da Luigi Luzzatti e Francesco Saverio Nitti che dal 1913 opera nel campo del credito cooperativo, che era in crisi a causa dell’impossibilità di recuperare i crediti per decine di milioni di lire, a causa della crisi economica provocata sia dalla riconversione dell’economia di guerra, sia dall’epidemia di Spagnola, che anche se trascurata dagli storici, ebbe impatti molto simili alla nostra pandemia.
In teoria, Arturo, scelto per tranquillizzare il Vaticano, che aveva fornito parecchi soldi nel Credito Cooperativo, avrebbe dovuto guidare l’istituto verso una liquidazione “morbida”, a tutela dei maggiori investitori.
Però, in collaborazione con Farinacci, Arturo fa partire un’azione di lobbying su Mussolini, che porta nella riforma del credito attuata nel 1926, una serie di decreti poi riuniti nella prima legge bancaria italiana che, pur mantenendo il modello tedesco della banca mista, introduce la differenziazione tra “azienda di credito” (la banca di depositi, erogatrice di credito a breve termine), e “istituto di credito” (la banca di affari che finanzia piccola e grande industria e investe al medio e lungo periodo); la prima è la tradizionale banca dei piccoli risparmiatori, che in base alla nuova normativa reinveste i depositi in operazioni a basso rischio di breve durata e ha l’obbligo di accantonare un fondo di riserva per poter restituire in qualsiasi momento il denaro depositato dai clienti.
Arturo sfrutta al meglio questa opportunità legislativa, assicurando i clienti che i propri capitali non sono immobilizzati in imprese industriali col rischio di sfumare in caso di fallimento, bensì impiegati per finanziare operazioni di sicuro ritorno come le produzioni cinematografiche, una delle fissazioni del fascismo, il piccolo artigianato, l’agricoltura e le casse di mutuo soccorso per categorie di lavoratori. La sicurezza di poter riavere in ogni momento il proprio denaro, senza i problemi frapposti dalle banche miste che si trovano spesso a corto di liquidità, fa crescere l’istituto a danno di queste ultime al punto che dopo poco meno di due anni, nel 1929, il ministero delle finanze accorda la costituzione della Banca Nazionale del Lavoro e della Cooperazione e la fondamentale qualifica di Istituto di Credito di Diritto Pubblico (ICDP), sotto il diretto controllo del Ministero del Tesoro, che sancisce la nascita della prima grande banca di depositi italiana slegata dal settore dell’industria. Nel “nuovo” istituto confluiscono undici piccole banche cattoliche che si uniscono nella Banca delle Marche e degli Abruzzi (le regioni in cui operano), controllata al 100% dalla BNLC, che nel decennio degli anni ’30 conosce una tale espansione da farla diventare la prima banca di credito italiana per numero e valore dei depositi.
La crescita di quella che sarà la nostra BNL e la sua opposizione alla svolta filo tedesca della politica mussoliniana, porta prima a una campagna di denigrazione nei suoi confronti, accusandolo
uomo più che corruttibile, corruttore, chiacchierone e depravato, nonché il tacito, sollecito e pressante finanziatore di bagordi e di orge a cui volutamente riusciva a farvi partecipare gerarchi e personalità
e poi alla sua epurazione. Per consolarsi di questa progressiva eclissi, Arturo si dedicò alla sua villa romana in viale di Porta Ardeatina 55. Nel 1936, infatti, aveva comprato a prezzo di favore un vecchio casale seicentesco abbandonato: per ristrutturarlo, diede l’incarico all’ingegner Cesare Pascoletti, lo strutturalista di Piacentini, progettista del ponte Testaccio, le più importanti sedi della Banca Nazionale del Lavoro a Roma e in Italia e del Museo della Civiltà romana, che prima op poi riaprirà e direttore dei lavori della demolizione della Spina di Borgo.
Cesare, utilizzando materiali e accostamenti cromatici della tradizione romana antica, ideò un edificio di struttura sobria ed elegante, dal corpo allungato, scandito sul lato orientale da un portico d’ingresso ad archi. La decorazione degli interni fu affidata a Amerigo Bartoli, amico di Bottai, all’epoca pittore assai alla moda, che dipinse una veduta di Piazza Navona, mentre all’esterno, rimangono di incerta attribuzione i rivestimenti pavimentali del portico posteriore, a mosaico bianco e nero, con soggetti marini tratti dal repertorio romano di età imperiale.
Nel 1939 l’architetto paesaggista Pietro Porcinai, all’epoca non ancora famoso, riprendendo l’impianto planimetrico presentato nel progetto di Pascoletti del 1937, propose per la sistemazione del giardino schemi di piantagioni con essenze arboree e arbustive che delimitavano il perimetro dell’intero complesso e accompagnavano i percorsi nella villa.
A fine anni Settanta, la villa fu comprata da Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana, er Secco di Romanzo Criminale. Benché, nel curare il suo look, Enrico fosse ancora più fissato der Dandy, era solito vestirsi di bianco dal panama alle scarpe, utilizzando anche un bastone come appoggio, i suoi gusti in termini di architettura e decorazione erano mediocri, tanto che la villa divenne un tempio del pacchiano e del pessimo gusto, insomma, cringe, per usare un termine che sta andando tanto di moda sui social.
Villa Osio è stata confiscata e nel 2001 assegnata al Comune di Roma grazie alla legge 109/96, la legge Pio La Torre che regola le disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati alle mafie. Una lapide con i nomi delle vittime di mafia è ben in vista all’ingresso a testimonianza della vittoria rappresentata dalla restituzione del bene ai cittadini.
L’inaugurazione avviene nell’aprile del 2005, la direzione è affidata a Luciano Linzi e la gestione all’Azienda speciale Palaexpo, che in nome e per conto del Comune di Roma gestisce inoltre le Scuderie del Quirinale, il palazzo delle Esposizioni e la Casa del cinema, trasformandola nella nostra Casa de Jazz, che, certo, l’amministrazione Raggi potrebbe curare un poco meglio.
All’interno della villa patronale si trova un auditorium multifunzionale da 150 posti, progettato per concerti, proiezioni, guide all’ascolto e conferenze; un sistema di registrazione consente di salvare e diffondere gli eventi in programmazione. Nella stessa struttura vi sono una mediateca ed una biblioteca aperte al pubblico, una libreria e una caffetteria. I due edifici secondari ospitano sale di prova e registrazione, una foresteria a disposizione dei musicisti e un ristorante.
March 23, 2021
La scuola ideale di Boncompagno da Signa
Come molti sanno, la più antica università occidentale è quella di Bologna. Secondo un comitato di storici istituito e guidato dal famoso poeta Giosuè Carducci lo Studium nacque nell’anno 1088, quando gli studendi che seguivano i corsi dei famosi giuristi Pepone e Irnerio detto “lucerna iuris”, i primi a studiare approfonditamente il codice di Giustiniano, per semplificarsi la vita, si organizzarono in una serie di associazioni su base etnica, le nationes, i cui membri erano legati tra loro da un giuramento d’appartenenza, i quali si dotavano di capi riconosciuti definiti rectores. Ognuna di queste nationes, forniva ai propri membri varie forme di protezione e privilegi ed era incaricata del processo di reclutamento dei docenti e al loro pagamento, con una offerta detta collectio, poiché la cultura essendo dono di Dio non poteva essere pagata.
I capo delle nationes assumevano il titolo di rectores: le nationes erano due, i citramontani (quelli che provenivano dal di qua delle Alpi, ovvero dalle regioni della penisola italiana) e gli ultramontani, provenienti da oltralpe (ad esempio, gli studenti da territori come le attuali nazioni di Germania e Francia). Allo stesso modo, ognuna delle nationes era suddivisa in sub-nazioni, rispettivamente 17 per gli intramontani e 14 per gli ultramontani. A testimonianza di tutto ciò, nel palazzo dell’Archiginnasio, la storica sede dell’Università, è presente un complesso araldico di quasi 6000 stemmi studenteschi e iscrizioni in onore dei professori.
Parigi, invece, nacque come universitas magistrorum ossia come associazione dei maestri, i quali si occupavano di regolare gli studi dei propri scolari ponendosi come principali interlocutori presso le istituzioni del periodo.
In entrambi i casi, però, a differenza dell’attuale Università, gli Studium non avevano una sede fissa, con aule dedicate all’insegnamento: le lezioni si tenevano dove capitava. A Bologna, i magistri gli antichi dottori tenevano le loro letture nelle proprie Case o in sale prese in affitto dal Comune o nella Chiesa di San Procolo.
Ovviamente, tenere dentro il salone di casa un’orda di goliardi vocianti e cialtroni non era la massima aspirazione di un dotto medievale: per cui fin da subito, si cominciò a sognare e a ipotizzare la nascita di un edificio specifico per l’insegnamento e lo studio
Uno dei primi ad affrontare il problema, nella sua Rethorica Novissima del 1235 fu quel pazzo scriteriato di Boncompagno da Signa, grammatico, scrittore e filosofo, uno dei primi autori a scrivere in lingua volgare.
Così descriveva il suo sogno d’Università ai suoi colleghi, a cui probabilmente brillavano gli occhi nell’ascoltarlo, mentre maledicevano i loro studenti.
Un edificio scolastico deve essere costruito in un luogo aperto, dove ci sia aria pura. Deve essere lontano dai luoghi frequentati dalle donne, dai clamori della piazza, dallo strepito dei cavalli, dai canali, dai cani che abbiano, dai rumori nocivi, dal cigolio e dal cattivo odore. La larghezza e la lunghezza dell’edificio devono avere le stesse dimensioni.
Circa le finestre devono essere né più né meno di quante ne occorrono per una corretta illuminazione. E’ bene che l’alloggio stia al piano superiore. Il soffitto non deve essere né troppo alto, né incombere sul pavimento, perché in entrambi i casi le capacità della memoria diminuiscono. La scuola va pulita dalla polvere e da qualsiasi sporcizia. Va tenuta sgombra da immagini e da pitture a meno che non siano particolarmente efficaci per l’esercizio della memoria nelle varie materie studiate dai ragazzi.
Tutte le pareti vanno dipinte esclusivamente di verde, ci deve essere un solo ingresso e le scale non devono essere faticose da salire. Il professore sieda più in alto degli studenti, a un altezza tale che possa controllare chi entra. Si dispongano due o tre finestre attraverso le quali di tanto in tanto, specialmente quando è bel tempo, il professore possa guardare fuori e ammirare gli alberi, gli orti e i giardini: la vista delle cose gradevoli rafforza la memoria.
Bisogna disporre i posti degli studenti in ordine, così si possono ricordare i loro nomi, e anche in modo che tutti riescano a vedere il viso del professore. Gli studenti nobili e di rango elevato siano messi a sedere nei posti migliori. Tutti quelli di una stessa provincia o di una stessa nazione siedano insieme, ma nel rispetto dell’onore che si deve tributare a ciascuno secondo le cariche, la nobiltà e i meriti personali. Non si cambi mai l’ordine dei posti e nessuno osi prendere il posto di un altro, ma ciascuno si tenga quello che gli è stato assegnato.
Io non ho mai avuto una scuola così e non credo che da qualche parte ne esita una simile. Ma forse, un giorno, questi consigli saranno utili ai posteri
March 22, 2021
Atene contro Siracusa (Parte X)
Come si può facilmente immaginare, il discorso di Ermocrate scatenò una ridda di reazioni, che trasformarono l’assemblea cittadina di Siracusa in una sorta di colossale pollaio
Qui Ermocrate concluse il suo discorso. All’assemblea in Siracusa le fazioni opposte si fronteggiarono con violente polemiche: chi sconfessava con energia che ci fosse possibilità per gli Ateniesi di una invasione in Sicilia, attribuendo ad Ermocrate tutta una serie di menzogne; chi poi si domandava, supponiamo che passino, che offese potrà infliggere quest’attacco senza subirne di più serie in cambio? Per qualche altro non era neppure il caso di considerare l’evenienza di un’invasione, e tutto finiva in ridere senz’altro. In pochi l’avviso di Ermocrate suscitava credito e il futuro apprensione. Finché si fece innanzi Atenagora, personalità del partito popolare e, di quei tempi, la voce più ascoltata.
Il portavoce di perplessi dinanzi alle tesi del leader dei popolari Atenagora, il cui discorso è stato spesso frainteso e ridotto a una semplice dichiarazione di scetticismo, nei confronti dell’invasione ateniese, quando invece è molto più complesso, nella sua analisi sia strategica, sia politica.
Poichè, una guerra, non cambia solo i rapporti di forza al di fuori dello Stato, ma anche al suo interno. La propaganda, la paura del nemico, la militarizzazione spinta della società sono uno dei veleni della Democrazia. Una guerra, anche se vincente, mina lo spirito stesso della collettività, favorendo l’interessi di pochi, a scapito del bene comune: nulla potrà mai rimanere come prima
Ecco i suoi argomenti:
Quanto agli Ateniesi, chi non desidera che agiscano spinti da una tale follia e vengano qui spontaneamente a gettarsi nelle nostre mani, o è un codardo, o è un pessimo soggetto, sleale verso la propria città. Quanto a coloro che vanno diffondendo avvertimenti di quella specie, con il proposito di provocare in voi uno stato di allarme, non mi sorprende la loro fiducia di non vedersi infine, strappata la maschera. Gente che sul proprio conto ha la coscienza poco limpida e preferisce seminare in città lo sgomento per occultare meglio il proprio all’ombra del pubblico spavento. E hanno proprio questo senso le notizie di cui ci si riferisce, non sorte da sole ma contraffatte ad arte dai soliti che hanno la passione di sconvolgere con questi mezzucci la vita politica cittadina.
Per prima cosa, con parecchio buon senso, Atenagora riteneva un’eventuale azione in Sicilia come contraria ai concreti interessi strategici ateniesi, sprecando risorse che sarebbero state molto più utili per concludere lo scontro con Sparta… Ovviamente aveva sopravvalutato la polis attica.
Quanto a voi, se delibererete con preveggenza, non trarrete le conseguenze dell’analisi dei dati forniti da costoro, ma prevedendo con esame approfondito quale potrebbe essere la tattica futura di gente abile, politici consumati quali personalmente stimo gli Ateniesi. Poiché è inconcepibile che lasciandosi alle spalle i nemici del Peloponneso e quel teatro d’operazioni, con un conflitto non ancora giunto a una svolta risolutiva, costoro si dispongano spontaneamente ad aprire un secondo fronte non meno ampio e infuocato. Se fossi in loro mi direi piuttosto soddisfatto di non essere ancora esposto al nostro
urto, di un’intesa così numerosa di città potenti.
Nel caso gli ateniesi fossero stati così ottusi da non sapere riconoscere i loro effettivi interessi strategici, non era il caso di preoccuparsi troppo: Atenagora, sin da subito, aveva chiari i limiti tattici, la mancanza di una cavalleria, che avrebbe garantito copertura e mobilità a supporto dei opliti e logistici della spedizione ateniese, che l’avrebbe portata alla rovina
E se proprio venissero, e le novità fossero vere, ritengo che la Sicilia sia, più del Peloponneso, adatta a sgominarli del tutto. Essa, in ogni campo strategico, possiede risorse più efficienti. Da sola la nostra città è militarmente molto più preparata della spedizione ateniese che le ultime notizie darebbero come ormai prossima al suo bersaglio, anche se comparisse con forze doppie. Mi pare certo che gli Ateniesi non possano far passare qui al loro seguito la cavalleria, né che, una volta sbarcati, sarà loro facile procurarsene, se eccettuiamo i pochi reparti che fornirà Segesta. Neppure saranno in grado di trasportare fanterie pesanti di potenza numerica pari alle nostre, almeno impiegando la marina (poiché una traversata così lunga verso la Sicilia sarebbe di per sé, con bastimenti senza carico, un’impresa critica): problemi analoghi per tutto il resto dell’armamento pesante, il cui utilizzo è indispensabile se si intende offendere un paese agguerrito come il nostro. Cosicché (di tanto in tanto differisce il mio giudizio) mi parrebbe già singolare, pur nell’ipotesi che l’invasore vibri l’offensiva da una città potente quanto Siracusa, sita alle nostre frontiere e a sua disposizione, che possa sottrarsi a un totale disastro: sorte cui non sfuggirà certamente, quando vedrà irta d’armi e unanime la Sicilia (che farà quadrato), e premuto in quel suo campo eretto con il materiale di bordo, confinato dalle incursioni della nostra cavalleria dovrà ridurre a brevissimo raggio le puntate all’esterno delle sue tende di fortuna e delle sue fortificazioni sommarie. Insomma io credo che sul nostro suolo gli riuscirà impossibile anche il puro sbarco: di tanto stimo superiore l’apparato protettivo di cui disponiamo.
In ogni caso, oltre al nemico esterno, la democrazia deve tutelarsi dal nemico interno, che per ambizione e sete di potere, mira prima a svuotare di senso, poi ad abbattere le sue istituzioni, sfruttando lo stato di emergenza.
Ma, come ripeto, di questi particolari tecnici gli Ateniesi sono maestri e sono del tutto tranquillo sul fatto che sanno egregiamente tutelare i propri interessi, mentre tra noi c’è gente che spaccia fantasie astratte, prive della minima consistenza. Li conosco bene: non è la prima provocazione che mettono in atto; aspirano da anni con avvertimenti dello stesso timbro minaccioso, anzi anche più catastrofici, e con i fatti a disorientare voi, il nerbo della cittadinanza, per dominare lo stato. Perciò non mi sento sereno; tenta oggi, tenta domani, un giorno o l’altro il colpo può riuscire.
Ma noi siamo troppo vili per premunirci con tempestivo vigore, prima di cadere vittime del loro intrigo e, scopertolo, per perseguirne fino all’ultimo gli artefici. Realmente è di costoro la colpa se la nostra città non gode mai la pace, squarciata da frequenti scosse, in armi più spesso contro se stessa che per respingere nemici esterni, più di una volta preda di tiranni e di colpevoli oligarchie. Basta che voi mi assecondiate, e io mi prodigherò per soffocare la rinascita, ai nostri giorni, di questo triste fenomeno, esigendo da voi, che siete l’elemento più forte della compagine cittadina, il castigo immediato di chi muove le redini del complotto, non solo se sorpreso in flagrante (è rara la fortuna di coglierli) ma anche per quanto concerta sott’acqua, e non ha ancora il potere di convertire in realtà (poi ché è doveroso non limitarsi a spezzare le iniziative già in atto di un avversario, ma precorrerne con risolutezza i disegni: se non ci si mette in guardia a tempo si è i primi ad accusare il colpo).
In quanto alle frange oligarchiche m’impegno a confonderle, a tenerle d’occhio, talvolta a toccarle con un avvertimento: mi pare la condotta più consigliabile per dissuadere costoro da ogni perfida tentazione. E invero, tra me e me, ho formulato spesso questa domanda: gioventù, che pretendete adesso? Subito il potere? Vietato per legge. E la legge s’è stabilita più in previdenza della vostra inettitudine ad esercitarlo, che per spogliarvi di un diritto, nell’ipotesi che foste adatti. Sicché non vi piace spartire con la maggioranza gli identici privilegi? È giustizia secondo voi che tra uguali non siano comuni anche le posizioni sociali?
Così Atenagora se ne uscì con un elogio della democrazia, degno di Pericle, in cui questa forma di governo non garantisce solo l’uguaglianza politica dei cittadini, ma anche sociale, favorendo un’equa distribuzione delle risorse.
Mi si contesterà che il governo popolare non obbedisce alla ragione, e non è equanime, mentre chi possiede i capitali è anche il più idoneo a praticare il potere. E io obietto: in primo luogo, con il termine popolo s’intende la collettività statale, con oligarchia un solo ramo di essa; secondariamente, i possidenti sono senza dubbio gli amministratori più adatti ma del potere finanziario; mentre la politica più avveduta è privilegio di chi usa il cervello, e la più adatta a distinguere i propositi di più alta utilità è la maggioranza, dopo che su di essi ha seguito il dibattito, infine queste tre componenti della vita politica cittadina godono senza distinzioni, sia singolarmente considerate sia in seno all’organismo della comunità, la perfetta uguaglianza di diritti che è peculiare dei regimi democratici.
Per contro l’oligarchia trascina con sé la maggioranza nei pericoli, mentre dei profitti non solo inghiotte la miglior parte, ma se li appropria in blocco, e non li cede. E tra voi s’inebriano, alla speranza di questo regime, i facoltosi e i giovani: esso però non si potrà mai imporre in una città popolosa. Ma tuttora, o gente la più scriteriata del mondo, se vi ostinate a non capire che questo vuol dire mettervi di puntiglio per rovinarvi, o siete i Greci più incoscienti che io sappia, o i più abietti, se, pur capendolo ve la sentite di insistere con il vecchio contegno.
Ebbene no, ora è tempo o di notare i fatti con mente realistica o di rivedere le vostre risoluzioni, per elevare i destini della città, a comune beneficio di tutti. Considerate che, tra voi, agli onesti ne toccherà una fetta uguale o anche più ricca in confronto alla moltitudine dell’altra cittadinanza; se covate propositi diversi, pesate il rischio di una perdita integrale. Delle solite profezie, vi dico solo: tagliate corto, che s’è capito dove mirate, e state in pace che vi manderemo a vuoto l’idea. Poiché questa città, l’assalgano pure gli Ateniesi, potrà sempre opporre una replica degna di sé: disponiamo dei nostri strateghi che vorranno ben provvedere. Se poi nulla è vero di queste voci, ed io ne dubito fieramente, Siracusa non diverrà preda dello sconforto ai vostri annunci, né sperate che consegnandovi il potere curvi il capo spontaneamente al giogo. Porrà da se stessa oculato riparo alle minacce e vedrà di giudicare il rumore da voi diffuso come se avesse valore di un vero e concreto attentato: né si lascerà strappare, da poche voci correnti, la libertà di cui ora va fiera, ma si adoprerà a preservarla, vigile per sventare le vostre trame, con l’energia più strenua.
Di fatto Atenagora, viste le successive vicende di Ermocrate e di Dioniso, fu facile profeta. Siracusa fu una sorta di Weimar dell’antichità, la cui democrazia fu travolta dalla sfida della guerra, prima contro Atene, poi contro Cartagine.
Dinanzi a questo confronto, gli strateghi siracusani, pur evitando di sbattere al gabbio Ermocrate come potenziale golpista, considerarono il suo piano troppo avventato, accettando l’approccio più cauto di Atenagora, nella convinzione di sconfiggere gli invasori giocando in casa, con il vantattio di agire per linee interne
Sostanzialmente Atenagora espresse queste idee. A questo punto uno degli strateghi si levò e vietando ormai a chiunque la parola, si pronunciò sulle circostanze con avvertimenti di questo tenore:
«Non è saggio scagliarsi l’un l’altro attacchi di questa forza, né per voi pubblico, prestarvi orecchio. Meglio concentrarsi sulle notizie che continuano ad arrivare, e prepararsi, ciascuno nel suo piccolo e la città come corpo unitario, a respingere con efficacia gli invasori. Se più avanti, non ci sarà urgenza, non vedo il danno se lo stato si sarà provvisto di cavalli e armamenti e d’ogni altra attrezzatura che fa l’orgoglio della guerra. Sarà cura di noi strateghi organizzare e ispezionare le forze, e inviare nelle varie città, a scopo d’indagine o per gli altri uffici che parranno utili i nostri agenti. Del resto, parte dell’operazione difensiva s’è già messa a punto: quando disporremo di accertamenti più completi, ve li renderemo noti.»
Dopo questi concisi chiarimenti dello stratego, l’assemblea siracusana si sciolse
March 21, 2021
Io e il Solarpunk
Ultimamente, la fantascienza italiana si sta confrontando sempre di più con la sfida intellettuale e narrativa del Solarpunk. Per chi non lo conoscesse, questo movimento culturale e artistico, utilizzando una definizione vaga e sotto tanti aspetti imprecisa promuove una visione ottimista e progressista del futuro, in cui le nuove tecnologie e l’utilizzo diffuso delle energie rinnovabili permettono l’implementazione di nuovi modelli sociali, basati sull’equilibrio tra Natura e Cultura.
Il termine “solarpunk” è stato coniato su Internet ed è stato utilizzato per la prima volta nel 2008, diffondendosi inizialmente in blog e discussioni on-line. È diventato però popolare solo negli anni successivi, in particolare dopo la pubblicazione nel 2011 di Innovation Starvation, un articolo dello scrittore di fantascienza Neal Stephenson nel quale viene criticata la situazione di stallo in cui si trova la scienza moderna; devo confessare, che l’impressione che ho avuto, leggendo l’articolo è che Stephenson abbia una visione molto settoriale e ridotta di come siamo messi dal punto di vista tecnologico e scientifico. E’ vero, in alcuni campi siamo in ritardo nel realizzare i sogni ingenui della fantascienza classica: ma in altri, invece, molto più importanti nel quotidiano, penso alla telco, al cloud, all’intelligenza artificiale allo stesso quantum computing, siamo molto più avanti rispetto alle previsioni degli anni Sessanta, dato che queste tecnologie cambiano in maniera esponenziale il nostro quotidiano. Il fatto che non ce ne rendiamo conto, dimostra la capacità di resilienza psicologica dell’essere umano.
Tornando a Innovation Starvation, Stephenson sottolinea come la mancanza di iniziativa da parte della società, soprattutto nel campo delle energie rinnovabili, si sia progressivamente riflessa anche nella letteratura fantascientifica degli ultimi anni, sempre più caratterizzata da visioni distopiche e pessimiste. Lo scrittore parla inoltre della Hieroglyph Theory, termine coniato durante un evento a cui aveva preso parte, che sostiene che i concetti scientifici alla base delle grandi storie di fantascienza del secolo scorso, ad esempio i robot di Isaac Asimov o il cyberspazio di William Gibson, abbiano svolto un ruolo importante nel progresso scientifico in passato, poiché presentavano innovazioni tecnologiche con una logica interna che hanno influenzato la comunità scientifica dell’epoca.
Da marxista, qualche dubbio, ce l’ho su questa interpretazione: soprattutto Gibson, ha contribuito a creare e diffondere il linguaggio tecnico che oggi usiamo comunemente nell’informatica, però questo è stato effetto, non causa dei cambiamenti della Struttura. Ogni nuova forma che assume il sistema di produzione capitalista, provoca la nascita di un’ideologia formale che ne garantisce la legittimità. La fantascienza classica era conseguenza della terza industrializzazione, la transistor and chip economy, mentre il cyberpunk della quarta, quella che sarebbe diventata l’internet economy. A loro volta, le visioni distopiche sono frutto di un periodo di crisi e di ristrutturazione del capitalismo, dovuto alla globalizzazione, all’automazione, ai digital twins e alla diffusione dell’intelligenza artificiale, che dura da fine anni Novanta.
Dato che sospetto che parlare di zio Karl Marx in America, sia come bestemmiare in chiesa, le tesi di Stephenson, che, ribadisco, nascono da una rappresentazione parziale della Struttura e invertono causa ed effetto, ebbero subito successo, tanto che il suo articolo ha ispirato nel 2011 il progetto Hieroglyph, in collaborazione con la Arizona State University, che si pone come obiettivo la pubblicazione di storie di fantascienza più ottimiste, in modo da poter ispirare e indirizzare la comunità scientifica verso le tecnologie ecosostenibili.
Nel 2012 viene pubblicata in Brasile la prima antologia di storie solarpunk, Solarpunk: Histórias ecológicas e fantásticas em um mundo sustentável di Gerson Lodi-Ribeiro. Nel 2014 è stato pubblicata la prima raccolta di racconti nell’ambito del progetto, con il titolo Hieroglyph: Stories and Visions for a Better Future. Nel settembre dello stesso anno Adam Flynn ha pubblicato l’articolo Solarpunk: Notes toward a manifesto sul sito del progetto Hieroglyph, descrivendo le caratteristiche principali del movimento. In Italia, con un poco di ritardo, nel 2020 cominciano ad apparire le prime antologie Solarpunk: Come ho imparato ad amare il futuro, a cura di Fabio Fernandes e Francesco Verso e Assalto al sole. La prima antologia solarpunk di autori italiani a cura di Franco Ricciardiello, a cui è seguita da pochi giorni la collana Atlantis di Delos.
Citando Wikipedia
Il suffisso “-punk” indica in questo caso la ribellione contro il sistema capitalista moderno caratterizzato da oppressione delle minoranze etniche e di genere, sessismo, eternormatività, sfruttamento delle classi lavoratrici, individualismo, maltrattamento degli animali e politiche contro la salvaguardia dell’ambiente. Il prefisso “solar”, invece, fa riferimento all’energia solare, una fonte di energia sostenibile, presente in abbondanza e accessibile a tutti, ma anche alla luce e al calore, elementi che vengono spesso associati, nelle opere appartenenti al genere, alla vita, alla rinascita e al senso di comunità.
Ovviamente, il movimento non si limita allo scrivere romanzi basati “sul pannelli solari, meno petrolio”, ma a proporre una narrazione incentrata sullo sviluppo di una società equa e accessibile per tutti, dove ogni minoranza è riconosciuta e rappresentata, in un’ottica propositiva, orientata al mutamento della società: il bieco marxista che in me, tenderebbe a definire il tutto come una giustificazione ideologica della “green economy”, con tutte le sue contraddizioni e il nascondere i problemi sotto il tappeto, ma sarebbe limitativo.
In verità, nonostante goda dell’ingiusta fama di avere una posizione critica nei confronti del solarpunk, io non ho nulla contro tale movimento. Anzi, sino ad oggi, sto apprezzando moltissimo le opere degli autori italiani, che più o meno sono riusciti a non cadere nella tentazione della facile morale e della lezioncina sul come essere più bravi, buoni ed ecologici.
Le mie perplessità, per quel poco che valgono, sono come dire, di tipo terminologico e filosofico. Ora definire cosa sia stato il punk è un’impresa improba, dato in quel movimento c’era tutto e il contrario di tutto: però, nel mio piccolo, sospetto che tutte le sue differenti declinazioni erano accomunate dall’essere anti anti sistema, individualista, anti ideologico e nichilista. Posizioni che più o meno direttamente, erano migrate nel primo cyberpunk, in cui le storie, prigioniere di un eterno presente, escludevano il divenire, quindi qualsiasi mutamento sociale, i cui personaggi, tratti dall’hard boiled, erano degli sconfitti dalla vita e schiacciati dal peso di esistere, in cui ribellismo era fine a se stesso e in cui la tecnologia, a differenza del transumanesimo, non aveva nessun valore salvifico.
Con La Macchina della Realtà di William Gibson e Bruce Sterling, che in fondo era solo un tentativo ironico di spostare le problematiche del ciberpunk all’età vittoriana, nasce lo steampunk: ma un contesto diverso, ha generato una narrazione differente. I problemi ottocenteschi, la globalizzazione, la Singolarità provocata dalla Prima Rivoluzione Industriale, l’Imperialismo, il razzismo implicito nel “fardello dell’uomo bianco”, la crisi del proletariato, erano potenti metafore della nostra società attuale, che gli scrittori del genere, più o meno implicitamente, hanno utilizzato. Per cui, il punk ha perso il suo valore semantico originale, per trasformarsi in un suffisso generico, per identificare il retrofuturismo. Lo stesso discorso vale per il Peplumpunk, che rappresenta il postmoderno liquido e multiculturale con le contraddizione della società greco romana.
Il Solarpunk, con la sua dimensione consolatoria, è l’estremo annacquamento del punk, che i Sex Pistols non avrebbero compreso. Tra l’altro, in un periodo di crisi come l’attuale, sono il primo a considerare come utile una fantascienza consolatoria ed utopica, però per mio gusto personale e formazione culturale, avrei difficoltà a scriverla.
Badate bene, con consolatoria non vuol dire, fantascienza con lieto fine e in cui tutto andrà bene, perché sarebbe riduttivo e ingiusto nei confronti del Solarpunk. La dimensione consolatoria di tale nasce invece da altri due fattori: l’affermazione della centralità dell’Uomo nell’Universo, con l’illusione che le sue scelte possano avere un impatto globale sul Reale e il ruolo salvifico della tecnica, cosa che, in fondo, è l’estremizzazione del pensiero positivista di Comte.
Sulla centralità dell’Uomo nell’Universo, purtroppo, io la penso come Leopardi. Il nostro ruolo di bipedi implumi, con i suoi successi e fallimenti, è estremamente sopravvalutato, in un’ottica cosmologica. Come dice bene la Natura all’Islandese
Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
Non costruiamo una società migliore per salvare la Terra, in fondo la sua biosfera è sopravvissuta a parecchie estinzioni di massa e la nostra non farà differenza, ma per sopravvivere a una Natura matrigna. Se non ci riusciremo, l’Universo rimarrà indifferente.
E soprattutto, come diceva Emanuele Severino, la Tecnologia non ha un valore salvifico, ma è uno sorta di Leviatano, che si autoalimenta. Per citare un saggio sul tema di Christian Fuschetto
Gli strumenti di cui l’uomo dispone – scrive Severino – hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale. L’insieme degli strumenti delle società avanzate diventa lo scopo fondamentale di queste società. Nel senso che esse mirano soprattutto ad accrescere la potenza dei propri strumenti. Già gli antichi sapevano che se lo scopo della ricchezza è di vivere bene, può però anche accadere che come scopo della vita ci si proponga la ricchezza. In questo modo la ricchezza, che inizialmente funziona come mezzo, strumento, diventa scopo, fine» (p. 38). La tecnica, come la ricchezza per l’uomo dissennato, perde dunque per l’uomo del XX e del XXI secolo la sua natura “strumentale” e diventa lo scopo di ogni suo agire. Ogni progetto, ogni politica, ogni speranza, dice il filosofo bresciano, può oggi acquistare un senso solo al cospetto dell’“Apparato tecnico-scientifico”, vale a dire dell’integrazione tra campi tutti i campi del sapere in nome della scienza e della tecnologia. «Capitalismo e socialismo reali (e anche il cristianesimo e la democrazia liberale) intendono certamente assegnare i propri scopi all’Apparato: e da parte sua la scienza dichiara ancora di non poter essere che neutrale rispetto ai propri fini. Ma l’efficacia dell’Apparato non è determinata dal fine assegnatogli. Qualunque possa essere il fine assegnato dall’esterno all’Apparato, quest’ultimo possiede di per sé stesso un fine supremo: quello di riprodursi e di accrescere indefinitamente la propria capacità di realizzare fini» (p. 40). La tendenza del nostro tempo è quella per cui la tecnica non è più chiamata a servire l’ideologia del profitto, dell’amore cristiano, della società degli eguali, e così via, ma è quella per cui l’organizzazione ideologica della tecnica lascia sempre di più il passo alla sua organizzazione scientifico-tecnologica. L’Apparato, suggerisce Severino, diventa la forma suprema dell’agire; di più: diventa la forma entro cui ogni azione umana appare possibile e sensata. Ciò perché l’Apparato assume contorni “gloriosi”: «Dire che l’Apparato scientifico-tecnologico subordina a sé tutte le forme di potenza apparse lungo la storia dell’uomo, significa dunque dire che la potenza della scienza ottiene un riconoscimento sociale che non è più ottenuto dalla magia, dalla religione, dalla politica, ecc. Ma anche per la scienza moderna la potenza sul mondo esiste solo se la totalità dei gruppi umani riconosce l’esistenza di tale potenza. La scienza è inseparabile dalla propria “gloria”» (p. 76).
La dimensione “gloriosa” della scienza è tuttavia solo il portato di una preliminare ermeneutica dell’essere. Alla base della volontà di potenza di cui l’Apparato si farebbe latore c’è un’ulteriore e più essenziale volontà, vale a dire una volontà interpretante, «ossia la volontà che decide che una certa configurazione del mondo sia la potenza, il dominio, il successo della scienza e delle altre forze che si contendono il mondo. La scienza – precisa Severino – vuole il dominio , non solo nel senso più familiare che il dominio è lo scopo che la scienza vuole realizzare, ma anche in un senso estremamente più radicale e più nascosto: nel senso appunto che è la stessa volontà di potenza a volere che il dato al quale conduce l’agire scientifico sia la realizzazione degli scopi che tale agire si propone» (p. 78). Per dirla in altri termini, la scienza non solo aspirerebbe al dominio dell’ente ma deciderebbe al contempo in cosa effettivamente tale dominio consista. Per questo il tempo che viviamo è «il tempo che ha fede nella potenza della scienza», perché è il tempo animato da un’etica strutturata dalla scienza, un’etica cioè voluta dalla scienza (i più si illudono invece di pensare l’etica della scienza come se il genitivo in questione potesse essere inteso in senso soggettivo), un’etica cioè al cui fondamento non c’è nient’altro che la volontà di dare al mondo il senso voluto dall’Apparato.
La riflessione di Severino tocca a questo punto quello che è forse il nucleo centrale non solo del testo ma della sua intera impresa filosofica, vale a dire la questione dell’essere e del divenire, degli enti e del niente. «La riflessione greca sul senso dell’essere e del niente, cioè l’ontologia, è lo spessore che dà significato al linguaggio e alla pratica della scienza» (p. 84). Come è noto, secondo il filosofo la riflessione greca sarebbe all’origine del Nichilismo, anzi, all’origine «dell’Occidente come storia del Nichilismo» (un intero saggio del volume, tra i più utili, è dedicato all’analisi di questa storia: pp. 167-185) ci sarebbe la fede (greca) nell’esistenza del divenire del mondo: «La volontà di potenza dell’Occidente, che culmina nella volontà di potenza dell’Apparato scientifico-tecnologico, raggiunge la radicalità estrema, perché è il senso greco del divenire a raggiungere la radicalità estrema» (ibid.)
La tecnica e la scienza non salveranno la Natura, ma la ingloberanno: quando questo processo sarà terminato, avverrà la Singolarità.
March 20, 2021
Le sfince di San Giuseppe
Il tutto il mondo San Giuseppe è il falegname, ma da in giù Roma è anche il ‘frittellaro’. Secondo una leggenda, abbastanza improbabile a dire la verità, San Giuseppe in Terra Santa per mantenere la famiglia si mise anche a vendere frittelle. Da qui la tradizione di celebrare la festa con bignè e zeppole, in tutte le varianti possibili, tanto che il grande poeta romanesco Checco Durante, dedicò una preghiera al santo frittellaro, il cui incipit è
San Giuseppe frittellaro
tanto bbono e ttanto caro,
tu cche ssei così ppotente
da ajutà la pora ggente,
tutti pieni de speranza
te spedimo quest’istanza…
In realtà, l’abitudine di mangiare dolci fritti, in prossimità dell’equinozio di Primavera, è uno dei tanti retaggi pagani assorbiti dal cattolicesimo: derivano dall’offerta di frittelle condite con il miele, che i romani offrivano in sacrificio a Bacco, in occasione della sua festa, che si svolgeva il 16 e il 17 marzo e che ebbe una storia alquanto travagliata, di cui parlerò in un prossimo post.
Ovviamente, anche a Palermo, per celebrare il santo, si mangiavano piatti particolari: la “pasta con le sarde e i finocchietti”, i carciofi in tegame con il tappo, meglio conosciuti come carciofi “cà tappa ‘e l’uovo” e le cosiddette sfincie di San Giuseppe, un dolce tipico, il cui nome ricorda quello dello sfincione.
Infatti, la radice etimologica è sempre l’arabo isfang, spugna, a ricordare la particolare consistenza dell’impasto sia della focaccia salata, sia di questo dolce, che fu inventato, secondo la tradizione dalle monache del Monastero delle Stimmate.
Questo fu fondato fu fondato nel 1602 su iniziativa di donna Imara Branciforti, figlia di don Fabrizio Branciforti, principe di Butera, e di donna Caterina Barresi. Alla coppia di coniugi benefattori si aggregarono donna Giovanna e donna Lucia Settimo, marchesi di Giarratana. Per l’edificazione fu investita la favolosa dote della nobile donzella e la comunità fu nel tempo dotata di consistenti rendite e ricchissime donazioni. Abbandonato il monastero della Pietà per problemi di salute, donna Imara volle proseguire la sua vita religiosa, pertanto la madre donna Caterina per esaudire il desiderio della figlia, provvide a comprare dei fabbricati nei pressi di Porta Maqueda e fondare una nuova istituzione religiosa.
I lavori del piccolo aggregato monastero – chiesetta ebbero inizio nel 1602. Il 18 agosto 1603 a costruzione completata, Papa Clemente VIII sancì la fondazione con bolla pontificia secondo la regola delle clarisse di Santa Chiara assegnando il titolo delle «Stimmate di San Francesco». Sin dall’inizio fu l’istituzione favorita dalle donzelle appartenenti alle classi nobili della città. Erano ammesse soltanto 50 novizie, che provenivano esclusivamente dall’aristocrazia palermitana, per questo motivo era anche conosciuto come monastero delle Dame.
Questa ricchezza era testimoniata dalle opere presenti nella chiesa del monastero, dedicata a San Francesco: vi erano quadri di Borremans, di Durer, di Mattia Preti. Uno splendido apparato decorativo in stucchi ornava le prime due cappelle prossime l’ingresso, realizzato da Giacomo Serpotta, che comprendeva statue allegoriche, come quelle della Purezza e della Fortezza, putti e medaglioni con teatrini, rendendole simili ai suoi oratori. Di tutto ciò, non esiste più nulla.
Nel settembre 1866, durante i moti insurrezionali noti come rivolta del 7 e mezzo, il monastero fu preso d’assalto dagli insorti che lo utilizzarono come fortino contro l’esercito del Regno d’Italia, tumulti scoppiati col pretesto dell’avversità alla coscrizione obbligatoria e della denuncia dello spettro della miseria sempre incombente. Infine nel 1875, il convento fu demolito per fare spazio alla costruzione del Teatro Massimo.
Secondo la leggenda, la demolizione della cripta delle Stimmate, non fu gradita all’ultima occupante, tanto che il suo spirito, detto la Monachella per la sua bassa statura, infesterebbe il teatro palermitano, portando pure iella.
Ora, la versione originale delle sfince, prevedeva solo il condimento con il miele e della zuccata, la zucca candita, che veniva preparata da una cucurbitacea dal frutto a forma di tromba, la “virmiciddara” Famosa quella preparata dalle suore del convento della “Badia del Cancelliere” di Palermo. Essendo diventata di pubblico dominio la ricetta, i pasticceri locali la arricchirono con crema di ricotta, con canditi, cioccolata e granella di pistacchio.
Sì, ma come prepararla ? Gli ingredienti sono per 8 sfinci grandi: 250 ml di acqua, 250 g di strutto, 5 g di sale, 250 g di farina, 7 uova, 500 g di ricotta fresca di pecora, 150 g di zucchero, 100 g di cioccolato fondente, ciliegie candite, scorze d’arancia, granella di pistacchi. Fate bollire strutto, acqua e sale. Successivamente incorporate la farina, aggiungete le uova e mescolate fino a ottenere un impasto denso e liscio. Cuocete dei pugni d’impasto nell’olio di semi di girasole a 180 °C per 10-15 minuti, successivamente cuocete a 220 °C fino a ottenere una pasta croccante e dorata. Lasciate raffreddare e riposare per un paio d’ore. Intanto setacciate la ricotta, mescolatela con lo zucchero, aggiungete il cioccolato a scaglie. Riempite la sfincia raffreddata con circa 80 g di ricotta. Utilizzando un cucchiaio, ricopritela esternamente con la ricotta. Infine decorate con ciliegie candite, scorze d’arancia candita e pistacchi.
Se invece non vi va di faticare, ottime se ne trovano al bar Alba, a Piazza Don Bosco, e soprattutto a quel tempio della dolcezza che è la pasticceria Costa: io per pura comodità, mi servo nella sede di via D’Annunzio
March 19, 2021
L’antro della Sibilla
L’Antro della Sibilla è forse il monumento più famoso del Parco Archeologico di Cuma, dedicato alle memoria dell’antica profetessa italica, che ispirata da Apollo, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture della grotta dove aveva le visioni, rendendo i vaticini difficili e incerti da interpretare.
La tradizione tramanda il nome di alcune di queste Sibille, come ad Amaltea, Demofila, Appenninica, Deifobe e Amphrysia e il fatto che godessero di una vita lunghissima. A tal proposito Ovidio, nel libro XIV delle Metamorfosi racconta come la Sibilla Cumana narrasse ad Enea del dono ricevuto da Apollo, di tanti anni di vita quanti i granelli di sabbia che era possibile stringere nella propria mano; dimenticando tuttavia di richiedere l’eterna giovinezza, la Sibilla era destinata a un’interminabile vecchiaia.
Secondo un’altra leggenda, dopo centinaia e centinaia di anni, il suo corpo divenne piccolo e consumato come quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce.
Nell’Eneide di Virgilio, la Sibilla Cumana funge prima da veggente: si rifugia nell’antro “dalle cento porte” e viene invasata da Apollo, cambiando aspetto e timbro di voce. Ivi sollecita le domande di un impaurito Enea e risponde con oscuri vaticini, promettendogli l’arrivo alla meta, ma con nuove sanguinose battaglie e un nuovo Achille (Turno), ma anche un soccorso da una città greca (Evandro). La sibilla poi consiglia Enea di seppellire il compagno morto (Palinuro) e di procurasi un magico ramo d’oro nel bosco sacro, da offrire a Proserpina regina dell’Ade. Con questo mitico lasciapassare, gli farà da guida nel Regno dell’Oltretomba, fino al ritorno.
Un’altra leggenda che la riguarda è quella dei libri sibillini, così narrata da Servio Mario Onorato, uno degli interlocutori nell’opera Saturnalia di Macrobio, grammatico tardo antico e commentatore di Virgilio
I responsi Sibillini che, come prima abbiamo detto, è incerto da quale Sibilla siano stati scritti, sebbene Virgilio li attribuisca alla Cumana, Varrone, invece, all’Eritrea. Ma consta che sotto il regno di Tarquinio una donna, di nome Amaltea, abbia offerto al re stesso nove libri, nei quali erano scritti i fati e i rimedi di Roma, ed abbia preteso per questi libri trecento filippi, che allora erano preziose monete auree. Costei respinta, dopo averne bruciato tre, ritornò un altro giorno e chiese altrettanto, ed egualmente il terzo giorno, dopo averne bruciati altri tre, ritornò con gli ultimi tre e ricevette quanto aveva chiesto, poiché il re era stato impressionato da questa stessa vicenda, cioè dal fatto che il prezzo restava immutato. Allora la donna non apparve all’improvviso. Quei libri si conservavano nel tempio di Apollo, né soltanto quelli, ma anche quelli dei Marci e della ninfa Vegoe che aveva scritto presso gli Etruschi i libri fulgurales: per cui aggiunse solo tuas sortes arcanaque fata. E ciò riferisce il poeta.
I libri sibillini furono quindi affidati alla custodia di due membri patrizi (duumviri sacris faciundis), che in seguito furono aumentati fino ad un numero di quindici, comprendendo fra essi anche cinque rappresentanti del popolo. Il loro ruolo consisteva nel consultare gli oracoli su richiesta del Senato (i lectisternia), per evitare di contrariare gli dèi con nuove imprese. I libri venivano conservati in una camera scavata sotto il tempio di Giove Capitolino.
I libri bruciarono in un incendio nell’83 a.C. e si tentò di ricostruirli cercandone i testi presso altri templi e santuari. Queste nuove raccolte furono ricollocate nel tempio di Apollo Palatino grazie all’interessamento dell’imperatore Augusto. Secondo quanto racconta Svetonio
Postquam vero pontificatum maximum, quem numquam vivo Lepido auferre sustinuerat, mortuo demum suscepit, quidquid fatidicorum librorum Graeci Latinique generis nullis vel parum idoneis auctoribus vulgo ferebatur, supra duo milia contracta undique cremavit ac solos retinuit Sibyllinos, bos quoque dilectu habito; condiditque duobus forulis auratis sub Palatini Apollinis basi
ossia
Quando divenne sommo pontefice, dopo la morte di Lepido, cui da vivo non aveva mai voluto togliere quella carica, raggruppò tutte le profezie greche e latine che, senza autorità alcuna o per lo meno non sufficiente, correvano tra il popolo, circa duemila, raccolte da ogni parte e le fece bruciare. Conservò soltanto i libri sibillini, ed anche questi dopo aver provveduto ad una cernita, e li ripose in due armadi dorati ai piedi della statua di Apollo Palatino
Rimasero presso il tempio di Apollo Palatino fino al V secolo, dopo di che se ne persero le tracce. Rutilio Namaziano nel suo poema De Reditu suo accusa aspramente il generale Stilicone di averli bruciati nel 408.
Ora sappiamo come le antiche popolazione italiche adorassero la dea Mefite, colei che è nel mezzo, colei che media tra il mondo dei morti e dei vivi, che aveva tra l’altro un tempio (aedes Mefitis) ed un boschetto sacro (lucus Mefitis) all’Esquilino: questa divinità era connessa sia alle attività vulcaniche e alle sorgenti sulfuree, sia alle profezie. Per cui, in origine, la Sibilla forse era una sacerdotessa di questa divinità, che entrava in tranche aspirando i vapori vulcani emesse dalle fumarole, contenenti un mix di acido solfidrico, anidride carbonica e idrocarburi leggeri, capaci di avere di avere effetti psicotropi.
Fumarole, che in una zona vulcanica come quella dei Campi Flegrei, dovevano abbondare: i coloni greci, come avvenuto a Delfi, sostituirono il culto della divinità femminile con Apollo. Ora l’Antro della Sibilla, crollato nella parte iniziale, è interamente scavato nel tufo ed ha un andamento perfettamente rettilineo, anche se tende a scendere verso la parte terminale: ha una forma trapezoidale nella parte superiore, stratagemma antisismico utilizzato dai greci, e rettangolare in quella inferiore; l’intera struttura è quindi lunga centotrentuno metri, alta cinque e larga due e mezzo.
Lungo la parete ovest, ad intervalli regolari, con la stessa forma dell’antro, furono realizzate dai romani nove aperture, di cui tre murate, con lo scopo di illuminare l’ambiente, per permettere il ricambio dell’aria; sulla parete est si apre una stanza che dà accesso a sua volta a tre ambienti.
Lungo lo stesso lato è una piccola stanza, con un sedile in pietra, anche se a causa del soffitto ribassato è impossibile sedersi e la sua funzione rimane quindi sconosciuta. L’antro termina con una sala con volta piatta, nella quale si aprono tre nicchie: quella sul lato est serve per illuminare l’ambiente, quella sul lato sud è a fondo cieco e quella sul lato ovest ha le dimensioni di un cubicolo, con forma tripartita e preceduta da un vestibolo probabilmente protetto da un cancello di cui si notano ancora i fori degli stipiti nella parete.
Purtroppo, l’Antro non ha nulla a che vedere con l’antica profetessa: probabilmente si trattava di il monumento come galleria militare scavata nel tufo a protezione del costone sud-occidentale dell’acropoli in età sannitica, tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. Inizialmente di forma trapezoidale, in seguito, in età romana, assume la forma attuale con un abbassamento del piano di calpestio. L’utilizzo militare è anche testimoniato da numerosi indizi.
Le nove aperture permettevano di raggiungere la terrazza in cui erano situate, sino all’epoca bizantina, catapulte e altre macchine da guerra: i tre ambienti laterali erano cisterne, che raccoglievano le acque piovane attraverso un sistema di canalizzazione. In età paleocristiana la cosiddetta camera terminale fu riutilizzata come luogo di culto e le cisterne come luogo di sepoltura, finché durante la guerra gotica, fu ripristinato il loro utilizzo originale.
Di questa struttura, con il tempo se ne perse la memoria, tanto che il presunto Antro fu identificato con la Crypta Romana di Cocceio, equivoco risolto solo con gli scavi degli anni Venti. Solo nel 1932 fu ritrovato ed esplorato dall’archeologo Amedeo Maiuri, che raccontò la sua esperienza nel celebre articolo Come ho scoperto l’antro della Sibilla di Cuma, pubblicato, come altre vicende cumane e cronache puteolane sul «Corriere della Sera» nel 1937, e raccolto, quindi, nel volume Vita di archeologo.
Ma il vero Antro della Sibilla, quindi dove é? Essendo in qualche modo legato all’attività vulcanica secondaria, probabilmente a ricercato nella parte bassa di Cuma, a oriente del colle, dove storicamente si sono verificati questi fenomeni…
March 18, 2021
La nascita delle dispense universitarie
Uno degli incubi peggiori di quando andavo all’Università, spero francamente che le cose siano cambiate, era la caccia alle dispense: un professore, per per n motivi non aveva voglia di stampare un libro, raccoglieva alla meno peggio lucidi e appunti, alcuni persino illeggibili, e li affidava alla copisteria di turno, che riforniva il malcapitato studente con quantità industriali di fogli volanti, che a volte si vendevano a chili, invece che a pagine.
Temo che alcune di queste dispense stiano ancora ingombrando spazio a casa dei miei: confesso, che, quando mi capita di non digerire la cena, alcune volte ancora tormentano i miei incubi, specie quelle di Teoria dell’Informazione e dei Codici.
Ebbene, questa consolidata abitudine è tanto vecchia quanto l’Università stessa. Nell’Alto Medioevo, in cui gli alfabetizzati, per ragioni di culto, erano essenzialmente gli ecclesiastici, la produzione, la circolazione e la lettura dei libri erano confinate all’interno dei monasteri. Il libro, destinato alle lettura collettiva ad alta voce, per esigenze di preghiera o di meditazione, che avvenivano o nel chiostro o nel refettorio, durante i pasti, aveva il valore di bene di lusso e di status symbol: il produrlo e donarlo era indicativo del potere e della ricchezza del convento.
Questo ovviamente, portava a una produzione non standardizzata, ogni libro era un oggetto unico, in cui predominava l’aspetto estetico, rispetto alle leggibilità: per cui i fogli erano spesso scritti a piena pagina, con ampi spazi tra una riga e l’altra, con gli spazi tra le parole inesistenti e con miniature di ogni genere e risma.
Le cose cambiano con la nascita delle Università che da una parte moltiplicano esponenzialmente il numero dei lettori, gli studenti, anche svogliati, su qualcosa dovevano studiare, dall’altra impone l’esigenza della standardizzazione, dato che tutti i testi, in qualche modo dovevano essere tutti uguali, per evitare fraintendimenti e libere interpretazione da parte dei goliardi.
Inoltre, dovevano massimizzare la leggibilità, sia ridurre il più possibile il costo del singolo libro. Queste esigenze, oltre a fare nascere gli scriptoria laici, cambiarono sia i meccanismi editoriali, sia la forma stessa del libro, trasformandolo da bene di lusso a oggetto di consumo.
Le dispense nacquero proprio per semplificare la riproduzione dei libri: all’epoca, però si chiamavano in differente, ossia pecie. Questa parola, alquanto bislacca, dal latino medievale petia, pezza, era in origine il foglio di pergamena che, ripiegato, formava il fascicolo del manoscritto. Il termine era collegato all’attività conciaria e definiva il pezzo più grande ottenibile da una pelle preparata per la scrittura, una volta eliminate le parti inutilizzabili. La pecia era quindi l’unità di misura redazionale per eseguire il lavoro di copiatura.
A Bologna e a Parigi, nel XIII secolo, qualche professore ebbe l’idea di utilizzare le pecie per standardizzare la produzione libraria. Il sistema della pecia consisteva in sostanza nella copia simultanea di fascicoli sciolti, ognuno comprendente un numero predefinito di pecie, di un testo universitario. Una commissione di petiarii nominata dall’università ed eletta all’inizio di ogni anno accademico, aveva il compito di verificare la correttezza testuale di un’opera, il cui exemplar (modello) suddiviso in “pezzi” veniva depositato presso le botteghe degli stationarii (librai) ufficiali delle università dove, dietro pagamento di una tariffa prestabilita, poteva essere preso in affitto per essere copiato; la commissione era la sola autorizzata ad approvare l’exemplar, sottoposto ad un controllo periodico, a deciderne il prezzo di affitto (taxatio), a pubblicare la lista dei testi scelti approvati dall’università.
Allo stazionario, responsabile dello stato di conservazione delle opere affidategli, spettava esporre la lista degli exemplaria, con l’indicazione del numero di pecie per ciascuna opera e la tariffa della locazione, e, alla richiesta di un cliente, si occupava di distribuire i “pezzi” sciolti allo scriptor perché li copiasse e li riconsegnasse in modo da renderli disponibili per un’altra copiatura a rotazione. Era così possibile realizzare più copie nel tempo generalmente necessario per una sola.
I copisti, solitamente laici, anche donne o studenti, annotavano spesso il numero progressivo di ogni pecia che esemplavano. Per velocizzare il loro lavoro, l’aspetto del libro era standardizzato, con il testo distribuito su due colonne, con ampi margini destinati agli appunti e alle note dello studente, con la divisione del testo in paragrafi, distinti spesso da titoli in rosso, le rubricae, con le parole scandite da un’opportuna spaziatura e la decorazione ridotta all’osso, funzionale ai contenuti del testo.
Nonostante la razionalizzazione di questo ciclo produttivo, la domanda di libri era sempre superiore all’offerta. In più, essendo umani, i copisti accumulavano errori su errori nella riproduzione del testo. A volte capitava che il copista, finita la trascrizione di una pecia, non trovasse la successiva nella bottega dello stationarius, perché magari un concorrente l’aveva preso in affitto prima.
Per risolvere il problema, il copista stimava le dimensioni della pecia mancante e lasciava nel testo le pagine bianche utili a ricopiarla in un momento successivo. Però, ottenuta la pecia prima non disponibile, poteva anche accorgersi di avere sbagliato la stima, con lo spazio bianco troppo o troppo poco. Così o aumentava le dimensioni della sua scrittura o la riduceva, beccandosi gli accidenti del committente.
Di conseguenza, il processo aveva la necessità di essere ulteriormente ottimizzato: esigenza di cui si rese conto Gutenberg, durante i suoi studi universitari a Erfurt. Inizialmente, si pensò di sostituire il tutto con la xilografia, ma le matrici di stampa, ricavate da un unico pezzo di legno, potevano essere impiegato solo per stampare sempre la stessa pagina, finché non si rompeva la matrice, cosa che accadeva molto spesso.
Per risolvere questo problema, Gutenberg, che aveva lavorato come orafo e coniatore, inventò i caratteri mobili, che nonostante la sua personale iella, ebbero un successo strepitoso: già nel 1480 in Germania e in Italia vi erano stamperie in ben 40 città. Il primo libro stampato fuori della Germania fu realizzato nel monastero di Santa Scolastica a Subiaco (tra Lazio e Abruzzo). Fu opera di Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz (il primo della diocesi di Magonza e il secondo di quella di Colonia). Giunti nella penisola presumibilmente su invito del cardinal Nicola Cusano, tra il 1465 e il 1467 pubblicarono: un Donato minore ovvero Donatus pro puerulis (una grammatica latina per fanciulli, ora disperso), il De oratore di Cicerone, il De Civitate Dei di Sant’Agostino e tre opere di Lattanzio: tutti con una tiratura di 275 copie.
Nello stesso periodo veniva impiantata la prima stamperia a Roma, proprio all’Esquilino, nel monastero di Sant’Eusebio, di cui, nonostante la testimonianza dell’Armellini
È noto che sotto Sisto IV in quel monastero fu stabilita una delle prime stamperie di Roma, forse da Giorgio Laner, ove furono impresse le opere di s. Giovanni Crisostomo con le note di Francesco Aretino.
non è rimasto nessun incunabulo
Alessio Brugnoli's Blog

