Alessio Brugnoli's Blog, page 143
July 17, 2018
Dall’India alla Grecia (Parte I)
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La leggenda di sant’Alessio è un interessante esempio di come le storie mutino forma e pelle. Il suo originale, risalente ai tempi di Aśoka Maurya il Grande, parla di un discepolo del Buddha, che rinuncia al matrimonio e alla ricchezza per dedicarsi alla penitenza e alla meditazione. Intorno al 350 d.C. un fedele manicheo, la tradusse in persiano, rendendola una metafora del dovere dell’uomo sarà quello di tenere il proprio corpo puro da ogni corruzione fisica, praticando l’abnegazione ed impegnandosi nel grande lavoro di purificazione cosmica.
Nel 400 d.C. anno più, anno meno, la versione manichea di questa storia si diffonde in Siria, dove, nei pressi di Edessa, viene cristianizzata, parlando così di un giovane e ricco abitante della nuova Roma cioè Costantinopoli, il quale la sera delle nozze si era allontanato di nascosto imbarcandosi per l’Oriente. Giunto ad Edessa, si mise a chiedere l’elemosina con altri mendicanti sull’uscio della chiesa.Quello che raccoglieva di giorno, lo distribuiva di sera ai poveri della città, per il suo ascetismo venne chiamato Mar-Riscia (uomo di Dio); persone incaricate dal padre di ritrovarlo, giunti anche ad Edessa, non riuscirono ad identificarlo in quel mendicante lacero ed emaciato.
Dopo 17 anni, quando si sentì morire, il giovane mendicante rivelò al sacrestano della chiesa la sua vera identità ed origine, il quale una mattina lo trovò morto sul sagrato. Il sacrestano si precipitò dal vescovo Rabula (412-435) e lo supplicò di non far confondere nella fossa comune, il corpo di quel santo uomo, il vescovo allora si recò al cimitero per esumarlo, ma trovò solo le misere vesti, il corpo era scomparso.
Nel secolo IX comparve documentata la leggenda greca o bizantina, la quale trasformava significativamente quella siriaca. Prima di tutto dava un nome al giovane chiamandolo Aléxios (Alessio) che significa “difensore” o “protettore”, situando la sua nascita a Roma e non più in Oriente e datando la sua morte al 17 luglio, al tempo degli imperatori fratelli Arcadio e Onorio (395-408). La leggenda narra che un’icona della Vergine Maria nella chiesa di Edessa (oggi secondo la tradizione, venerata nella chiesa romana di Sant’Alessio sull’Aventino), ordinò al sacrestano di far entrare in chiesa quel mendicante da considerarsi un santo, la voce si diffuse rapidamente fra il popolo dei fedeli, che presero a venerarlo. Alessio cui non piacevano gli onori, fuggì imbarcandosi per Tarso, ma i venti prodigiosamente lo fecero approdare sulle coste italiane ad Ostia; questo fatto fu preso da Alessio come un’indicazione divina, pertanto decise di farsi ospitare come uno straniero povero nella casa paterna a Roma.
Il padre memore del figlio lontano e in difficoltà, senza riconoscerlo lo accolse con benevolenza in casa, dove Alessio rimase per 17 anni, dormendo in un sottoscala fra le umiliazioni e gli scherni dei servi.Quando Alessio sentì che la sua fine era vicina, decise di scrivere le avventure e le origini della sua vita su un rotolo, quando morì le campane di Roma si misero a suonare a festa e fu udita una voce divina che diceva: “Cercate l’uomo di Dio affinché egli preghi per Roma”, così fu scoperto il corpo del santo, ancora con il rotolo in mano, che solo gli imperatori Arcadio ed Onorio riuscirono a sfilarglielo e leggere.
Della leggenda latina non si hanno documentazioni prima del secolo X, comparve prima in Spagna e verso l’ultimo quarto del secolo a Roma.Qui il culto fu diffuso dall’arcivescovo metropolita di Damasco Sergio, il quale costretto a fuggire a seguito dell’invasione dei Saraceni, si stabilì presso la chiesa di San Bonifacio sull’Aventino, qui fondò una comunità monastica mista, dove i greci osservavano la Regola di s. Basilio e i latini quella di s. Benedetto.
Le diversità apportate nella leggenda latina sono: la chiesa dove Alessio si sarebbe dovuto sposare divenne la stessa basilica dove il santo sarebbe stato sepolto; la mancata sposa, che la sera precedente le nozze accettò di vivere in castità, si chiamò chi sa perché Adriatica; il rotolo con scritta la sua vita, fu tolto di mano non dagli imperatori, ma dal papa stesso, presenti gli straziati genitori Eufemiano e Aglae, che finalmente seppero che quel mendicante in abiti da pellegrino, vissuto nella loro casa, era l’amato figlio.
Ai tempi del Barocco, nel 1625, quando bisognava inventarsi in fretta e furia una biografia per Santa Rosalia, fu usata come traccia, cambiando ovviamente il sesso e la location, propria la versione latina della leggenda di Sant’Alessio.
Ora, tutti questi mutamenti che possono fare inorridire noi moderni, in realtà si pongono in linea con una lunga e antica tradizione di scambi culturali tra Occidente e India, che cominciano ai tempi dell’antica Grecia, antecedente ad Alessandro Magno.
Cito alcuni nomi. Il primo è Scilace di Carianda (VI-V sec. a.C.), un navigatore che partecipò alla spedizione voluta da Dario I,re di Persia, con lo scopo di esplorare l’oceano indiano e il fiume Indo. Compilò un resoconto dal titolo Periplo, ora perduto (rimangono 5 frammenti, di cui 4 sull’India).
Segue poi Ecateo di Mileto (550-476 a.C.). A lui è attribuito un testo noto con il titolo di Periegesis (Giro della terra), frutto dei suoi numerosi viaggi (Agatemero, Abbozzo di geografia 1.1; III sec. d.C.) e di riflessioni contenute in testi già circolanti all’epoca (probabilmente Scilace). Ci restano in tutto 374 frammenti, di cui solo 7 sull’India. Tuttavia, è da escludere che egli abbia raggiunto l’India e le sue conoscenze in materia devono quindi essere derivate da fonti a lui precedenti.
Terzo è il più famoso, Erodoto di Alicarnasso (484-425 a.C.), il padre della Storia, Nel suo testo Storie egli espone alcune notizie relative all’India (3.98-106). Questo è il primo resoconto antico sull’India che ci resta completo, che mi diverto a riportare
[98] Questa grande quantità d’oro, di cui portano al Re la suddetta polvere, gli Indiani se lo procurano in tale modo. La parte del territorio indiano rivolta verso il sorgere del sole è una distesa di sabbia; tra quelli che conosciamo, infatti, di cui si ha qualche notizia sicura, gli Indiani sono i primi che abitano verso l’aurora e il sole nascente fra i popoli d’Asia: a Oriente degli Indiani, infatti, c’è un deserto di sabbia.
Vi sono molte tribù di Indiani e non parlano la stessa lingua; alcune sono nomadi, altre no; altre ancora abitano nelle paludi del fiume e si nutrono di pesce crudo, che catturano servendosi di barche di canna: ogni barchetta è costituita da un tronco di canna fra due nodi. Costoro fra gli Indiani, dunque, portano vestiti intessuti di giunchi: colta una canna dal fiume e battutala a puntino, la intrecciano poi a mo’ di stuoia e lo indossano [99] come fosse una corazza.
Altri Indiani, che abitano a Oriente di questi, sono nomadi, si cibano di carne cruda e si chiamano Padei. Si dice che abbiano abitudini di questo genere: quando un cittadino, donna o uomo che sia, cade ammalato, se è un uomo, gli uomini che sono a lui più vicini per parentela lo uccidono, sostenendo che, una volta logorato dalla malattia, le sue carni vanno in putrefazione; quello, dal canto suo, nega di essere ammalato, ma quelli, non prestandogli ascolto, dopo averlo ucciso, banchettano con le sue carni. Se ad ammalarsi è una donna, allo stesso modo, le donne a lei più prossime le riservano lo stesso trattamento usato sugli uomini. Essi fanno anche banchetto, immolando chi ha raggiunto la vecchiaia, ma sono ben pochi quelli che giungono a contare tanti anni, dal momento che, prima di ciò, [100] chiunque cada ammalato viene ucciso.
Altri Indiani hanno quest’altra usanza: non uccidono alcun essere vivente, non seminano nulla, né sono soliti avere case, ma si nutrono di erbe; hanno un certo legume grosso quanto un grano di miglio, avvolto in un involucro, che cresce spontaneo dalla terra e che essi, dopo averlo raccolto, lo fanno cuocere con l’involucro stesso e lo mangiano. Chi tra loro cade ammalato, dopo essere andato nel deserto, vi rimane: nessuno [101] si preoccupa di lui, né dopo che è morto, né prima mentre soffre. I rapporti sessuali di tutti questi Indiani che ho elencato avvengono in pubblico, proprio come le bestie, e hanno tutti lo stesso colore di pelle, molto simile a quello degli Etiopi. Il loro seme, che emettono nelle donne, non è affatto bianco come per gli altri uomini, ma scuro come la loro pelle: tale è anche il seme genitale degli Etiopi.
Tra gli Indiani questi sono quelli che abitano più lontano dai Persiani, verso il vento di Noto, [102] e non sono mai stati sudditi del re Dario. Altri Indiani, invece, confinano con la città di Caspatiro e con il territorio dei Pattii; sono stanziati, rispetto agli altri Indiani, verso l’Orsa e il vento di Borea, e conducono uno stile di vita simile a quello dei Battriani. Costoro sono i più bellicosi fra gli Indiani e sono questi ad andare alla ricerca dell’oro: in questa regione, infatti, si trova un deserto di sabbia.
Ebbene, in questo deserto e nella sabbia vivono formiche di taglia inferiore a quella dei cani e maggiore di quella delle volpi; di queste ve ne sono anche presso il Re dei Persiani, catturate proprio lì. Queste formiche, dunque, scavandosi la propria tana sottoterra, portano in superficie la sabbia proprio come le formiche che si trovano presso i Greci (proprio alla stessa maniera) e anche nell’aspetto sono estremamente simili ad esse: ma la polvere che sollevano è aurifera. Proprio per impadronirsi di questa sabbia gli Indiani fanno delle spedizioni nel deserto, dopo aver aggiogato ciascuno tre cammelli, due maschi ai lati a tirare, legati con una fune, e una femmina in mezzo. Il cammelliere monta sopra quest’ultima, assicurandosi di aggiogarla dopo averla allontanata dai cuccioli quanto più piccoli possibile. I loro cammelli, infatti, quanto a velocità non sono inferiori ai cavalli e, oltre a ciò, [103] sono molto più resistenti nel portare carichi pesanti. Non descrivo l’aspetto del cammello, dal momento che i Greci lo conoscono; dirò invece ciò che i Greci non sanno: il cammello, nelle zampe posteriori, ha quattro ossa femorali e quattro ginocchia; il membro tra le zampe posteriori è rivolto [104] verso la coda.
Gli Indiani, quindi, in questa maniera e avvalendosi di questo modo di aggiogare gli animali, si spingono alla ricerca dell’oro, dopo aver calcolato per farne rapina, quando il caldo è più ardente: a causa del caldo, infatti, le formiche stanno nascoste sottoterra. Per queste persone il sole più caldo è quello del mattino, non già, come per gli altri, quello di mezzogiorno, ma dal suo sorgere fino allo sgombero del mercato: durante questo lasso di tempo il sole brucia molto di più che in Grecia a mezzogiorno, tanto che si dice che in quelle ore la gente se ne sta ammollo in acqua; a mezzogiorno, dunque, brucia press’a poco allo stesso modo gli Indiani e gli altri uomini; sul far del pomeriggio, il sole diventa per loro come per gli altri quello del mattino, e a mano a mano che dal meriggio si allontana concede sempre maggior refrigerio, finché, al tramonto, fa [105] oltremodo fresco.
Dopo esser giunti sul luogo con dei sacchi, gli Indiani, non appena li hanno riempiti di sabbia, tornano indietro il più velocemente possibile: infatti, le formiche, avvertendo immediatamente il loro odore, a quanto dicono i Persiani, si lanciano all’inseguimento. Nessun altro essere ha una velocità pari alla loro, sicché, se gli Indiani non prendessero vantaggio nella corsa, mentre le formiche vanno raccogliendosi, nessuno di loro troverebbe scampo. I maschi dei cammelli, vista la loro inferiorità nella corsa, quando iniziano a farsi trascinare, vengono slegati, uno dopo l’altro; mentre le femmine, ricordandosi dei piccoli che hanno abbandonato, non danno segno di fiacchezza. Gli Indiani, dunque, a detta dei Persiani, si procurano in questo modo la maggior parte dell’oro; altro oro, seppure in quantità minore, viene estratto dal sottosuolo.
L’ultimo è Ctesia di Cnido (V-IV sec. a.C.). Fu medico alla corte persiana di Artaserse II.Scrisse una storia della persia (tà Persikà) e una sorta di addendum relativo all’India (tà Indikà). Di queste opere ci restano solo frammenti, nondimeno ne sopravvive un’epitome approntata da Fozio (IX sec. d.C.), patriarca di Costantinopoli, e inserita della sua raccolta titolata Biblioteca
A prima vista, tutti i racconti del logagrafi, come quello di Erodoto, paiono un’accozzaglia senza capo né coda di favolette, su cui si baserà un un immaginario favoloso, che ci porteremo dietro sino al Medioevo inoltrato. Ad esempio Ctesia cita come popoli reali i Monocoli (che avrebbero una sola gamba), i Macrocefali (dalla lunga testa),gli Otolicni (che userebbero le loro enormi orecchie come coperte), i Monoftalmi(con un occhio solo), i Cinocefali (dalla testa di cane)
Se però si da una letta alle fonti sanscrite, saltano fuori tutti questi esseri favolosi: significa che da Oriente a Occidente, non circolavano solo merci ed esperienze concrete, ma Storie, assimilate e riscritte, come quelle di Sant’Alessio, secondo le specifiche esigenze di chi le ascoltava e le tramandava. Esigenze che ai tempi dell’Ellade, erano legate alla necessità di ipotizzare un luogo, denso di meraviglia dove governo e società non si conformano al Logos, alla Ragione artificiale, ma alla nomos katà physin, dìkaion physikon (“legge secondo natura, giusto naturale”) la legge intrinseca alla Mondo Naturale
L’azione educatrice di Alessandro
di Plutarch, De Alexandri Magni fortuna aut virtute, in F. Cole Babbitt (ed.), Plutarch, Moralia, Cambridge-London, HUP, 1936, pp. 393-397.
Lisimaco di Tracia. Tetradramma, Magnesia al Menandro 305-281 a.C. ca. Ar. 17, 19 gr. Recto: testa diademata di Alessandro divinizzato, con le corna di Ammone.
Plut. De Alex. I 5, 328 b – 329 a
[b] καὶ πρῶτον τὸ παραδοξότατον, εἰ βούλει, σκόπει, τοὺς Ἀλεξάνδρου μαθητὰς τοῖς Πλάτωνος, τοῖς Σωκράτους ἀντιπαραβάλλων. εὐφυεῖς οὗτοι καὶ ὁμογλώσσους ἐπαίδευον, εἰ μηδὲν ἄλλο, φωνῆς [c] Ἑλληνίδος συνιέντας· καὶ πολλοὺς οὐκ ἔπεισαν· ἀλλὰ Κριτίαι καὶ Ἀλκιβιάδαι καὶ Κλειτοφῶντες, ὥσπερ χαλινὸν τὸν λόγον ἐκπτύσαντες, ἄλλῃ πη παρετράπησαν. τὴν δ᾽ Ἀλεξάνδρου παιδείαν ἂν ἐπιβλέπῃς, Ὑρκανοὺς γαμεῖν ἐπαίδευσε καὶ γεωργεῖν ἐδίδαξεν Ἀραχωσίους, καὶ Σογδιανοὺς ἔπεισε πατέρας τρέφειν καὶ μὴ φονεύειν, καὶ Πέρσας σέβεσθαι μητέρας ἀλλὰ μὴ γαμεῖν. ὢ θαυμαστῆς φιλοσοφίας, δι᾽ ἣν Ἰνδοὶ θεοὺς Ἑλληνικοὺς προσκυνοῦσι, Σκύθαι θάπτουσι τοὺς ἀποθανόντας οὐ κατεσθίουσι. Θαυμάζομεν [d]
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La documentazione ufficiale dell’ENEA relativa alle vibrazioni rilevate sulla struttura del cd Tempio di Minerva Medica
L’Associazione Abitanti Via Giolitti – Esquilino mette a disposizione di tutti lo “Studio e Monitoraggio della struttura del Tempio di Minerva Medica- Roma, eseguito dall’ENEA.
Chi vorrà potrà leggerlo e studiarlo con attenzione, con la mente sgombra da teorie preconcette o patetiche nostalgie, solamente comprenderlo, rispettando l’impegno e le competenze di chi ha studiato in scienza e coscienza le condizioni in cui versa il Monumento.
Gli Abitanti di Via Giolitti hanno trovato conferme alle preoccupazioni e agli allarmi lanciati, finora inutilmente, sulla necessità di trovare soluzioni a breve, medio e lungo termine.
Pertanto torniamo a ribadire che è necessario intervenire subito fermando il treno a scartamento ridotto Laziali – Centocelle a Porta Maggiore.
Pubblichiamo anche i dati rilevati nel mese di giugno 2018 dal lunedì al venerdì del numero dei passeggeri del trenino da Porta Maggiore alle Laziali e dalle Laziali a Porta Maggiore, conteggio eseguito alla fermata di…
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July 16, 2018
I paradossi della ricerca in Italia
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Da qualunque punto di vista si consideri la questione, i finanziamenti per la Ricerca in Italia appaiono drammaticamente inadeguati: il nostro paese investe assai meno dei partner europei, un 1,33% del PIL nel 2015 contro una media pari a 2,03% ha un numero inferiore di ricercatori rapportato alla popolazione, con un percentuale dei ricercatori ogni mille occupati in Italia era pari al 4,73% contro una media del 7,40%.
A fronte di questi numeri, che sarebbero ridicoli, stupisce invece la profittabilità della ricerca, misurabile in termini di brevetti richiesti all’EPO, Italia si piazza al sesto posto tra i Paesi membri EPO, dopo Francia, Svizzera, Paesi Bassi e Regno Unito: le richieste depositate nel 2017 da inventori residenti in Italia sono state 4.312, il 4,3% in più dell’anno precedente. Si tratta di un tasso di crescita annuale sensibilmente più alto della media dei Paesi EPO, che si attesta al 2,8%. Se poi si considerano solo i Paesi che hanno depositato più di 4.000 richieste, l’Italia è lo Stato che è cresciuto di più in assoluto, seguito dal Giappone, con un aumento annuale del 3,5%
I numeri, se si considerassero i brevetti reali del Paese e non quelli sviluppati altrove, ma registrati nel paese in cui ha il quartier generale la Multinazionale che ha finanziato la ricerca, l’Italia diviene seconda, subito dopo la Germania.A titolo di curiosità a farla da padrone sono le grande imprese, responsabili del 69% delle richieste, seguono le piccole e medie imprese e i singoli inventori con il 24%, arrivano infine le università e gli istituti di ricerca con il 7%
La movimentazione è il settore da cui proviene il maggior numero di richieste di brevetto indirizzate allo European Patent Office, seguito dai trasporti e dalle tecnologie medicali. Tra le aziende italiane quella ad aver depositato più brevetti nel 2017 è la Ansaldo Energia, seguita dalla G.D., che realizza macchine per la produzione e il confezionamento di sigarette, produzione di filtri e altri prodotti del tabacco, e dalla Fiat Chrysler Automobile. La tanto bistrattato TIM ha un dignitosissimo settimo posto, con 28 brevetti, a fronte degli 0 a livello internazionale dei diretti concorrenti che, a quanto pare, sono tanto innovativi nelle chiacchiere pubblicitarie, quanto inconsistenti nei fatti concreti.
Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle richieste provenienti dall’Italia nel 2017, si conferma al primo posto la Lombardia, con 1.424 richieste, seguita, anche se con grande distacco, da Emilia Romagna (698), Veneto (585), Piemonte (490), Toscana (325), Lazio (214), Trentino Alto Adige (112), Friuli Venezia Giulia (107) e Liguria (102). Le altre regioni hanno depositato meno di 100 richieste di brevetto nel 2017, ma vale la pena menzionare la Basilicata, che è passata da una richiesta nel 2016 a 7 richieste nel 2017, la Calabria, da 9 a 18 richieste, la Sardegna, da 10 a 15 richieste. Per quanto riguarda le città, Milano ancora la città a maggiore potenziale innovativo (890 richieste nel 2017). Seguono Torino (322), Bologna (284) e Roma (187).
Se considerassimo come unità di misura la produzione di articoli scientifici, i risultati sarebbero analoghi: Quali sono i motivi di questa apparente contraddizione ? Ora, evitando di scomodare la trita e ritrita retorica sul genio italico e sull’arte di arrangiarsi, vi sono almeno tre cause.
La prima causa è figlia della scarsità di finanziamenti pubblici: consideriamo come esempio il CNR, Più dell’80% dei circa 500 milioni di euro che l’Italia investe nel suo più grande ente di ricerca, al momento vanno in stipendi, mentre Il restante 20% è costituito da spese di funzionamento (energia elettrica, riscaldamento, buoni pasto per i dipendenti). E come diavolo si fa ricerca ? Grazie ai grant che che i ricercatori riescono ad ottenere in modo competitivo da fondazioni private e/o da agenzie pubbliche non Italiane. Finanziamenti selettivi, che quindi costringono i ricercatori ad essere fortemente orientati al risultato e destinati alla ricerca applicata, orientate alla produzione dei brevetti.
La seconda è conseguenza delle stranezza dei bilanci delle aziende private italiane, in cui i finanziamenti alla ricerca sono sottostimati: in pratica, in tale ambito specifico questa gode di risorse reali ben più ampie di quelle che appaiono nelle statistiche: per cui il 61,4% degli investimenti totali del settore privato sono ben più ampi
La terza è legata al fatto che le Università, in Italia, per capitalizzare la propria Knowledge, si sono buttate anima e corpo nell’attività di incubatori di start-up, generatrici di brevetti. Sono circa 40 gli atenei che si sono dotati di un incubatore, o che hanno fatto rete con altre istituzioni per poter fornire ai propri studenti e dottorandi servizi di questo tipo. Benché, con grande soddisfazione, abbia collaborato con loro, manca ancora però uno studio organico sul numero di startup create, sul loro valore economico, sui finanziamenti ricevuti e anche sul tasso di fallimento e sull’impatto dell’introduzione da loro introdotta…. Ad esempio, parte della quota del 24% del brevetti in carico alle PMI, sarebbe in realtà a carico alle Università.
Insomma, lo Stato per migliorare la situazione, dovrebbe aumentare le risorse, focalizzandole alia ricerca non orientata (blue sky) che, pur non essendo immediatamente applicabile, genera nel tempo i grandi cambiamenti, ma che non è coperta dai meccanismi di mercato descritti in precedenze e introdurre per gli investimenti nella ricerca una normativa fiscale analoga a quella dell’Industria 4.0… Ma con l’ignoranza al Potere, dubito che le cose cambino rapidamente
July 15, 2018
De Amore
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E sappi che i dodici principali comandamenti d’amore sono i seguenti:
Fuggi come peste nociva l’avidità e ricerca il suo contrario.
Conserva la castità per l’amante.
Non cercare volutamente di turbare la donna legata all’amore di un altro.
Non scegliere l’amore di quella donna con la quale il naturale pudore ti impedisce
di contrarre nozze.
Ricordati di evitare soprattutto le menzogne.
Non confidare il tuo amore a troppe persone.
Segui gli insegnamenti delle donne e legati sempre alla cavalleria d’amore.
Nel dare e nel ricevere piaceri d’amore mai deve mancare il senso di pudore.
Non essere maldicente.
Non spubblicare gli amanti.
Sii sempre cortese e civile.
Nei piaceri d’amore non sopraffare la volontà dell’amante
E’ un brano del De Amore di Andrea Cappellano, citato anche dal buon vecchio Stendhal, un libro definito a torto “il codice più completo dell’amore quale si trova in atto nei romanzi cortesi ” in lingua d’ oil.
Di Andrea, ahimè, sappiamo assai poco: gli studiosi, dato che egli stesso si qualifica nella sua opera ” cappellanus regius Francorum “, tendono a identificarlo con un Andrea vissuto tra il 1185 e il 1187 alla corte di Francia, cappellano della contessa Maria di Champagne, figlia di Luigi VII e della regina Eleonora, nipote di Guglielmo IX d’Aquitania, il primo trovatore, colui che adattò gli stilemi della poesia d’amore araba alla cultura occitanica.
È noto che proprio Eleonora importa nella Francia del Nord la lirica trobadorica inaugurata dal suo grande avo, provocandone la diffusione ben oltre l’ambiente che parlava la lingua d’oc e rendendola una delle componenti fondamentali della cultura europea. Gli studi più recenti, ma siamo sempre in ambito di ipotesi aleatorie, tendono a postulare che Andrea, vissuto tra il 1185 e il 1287, non sia parigino ma che arrivi a Parigi passando da Troyes alla corte del fratellastro di Maria di Champagne.
E proprio questa nebbia sulla vita, sulla personalità e sulla cultura di Andrea, rende problematica l’interpretazione del suo trattato, che si compone in due parti, secondo il modello ovidiano: la prima (i libri I e II) pro amore e la seconda (il libro III) contra amorem.
Nei primi capitoli del primo libro si ha una definizione di “amore” che sembra ricondursi all’amore cortese, inteso però come amore passionale, concreto e carnale; il resto del primo libro presenta, invece,una serie di casi e sul modo in cui ci si deve comportare, a seconda del tipo di rapporto amoroso e della classe sociale di appartenenza.
Nel secondo libro si articolano e si definiscono una serie di questioni riguardante il rapporto amoroso: come si conserva, come accrescerlo, come diminuisce e come termina. Oltre a ciò, si trattano diversi temi che sono spesso dibattuti nelle corti e si conclude con l’elencazione di una serie di regulae d’amore.
I primi due libri sono di fatto una sorta di antologia di quasi tutti i generi letterari romanzi (partiment, joc partit, romanzo arturiano, pastorella, debat), senza considerare i temi della grande stagione dellacanso provenzale .Tutto questo materiale è amalgamato, o meglio ‘complicato’, da una ben orchestrata struttura dialettica e retorica, da un apparato argomentativo di tipo scolastico, dalla presenza di una forte componente morale di stampo cristiano.
Componente morale, che diventa il tema dominante del terzo libro, intitolato De reprobatione amoris – ovvero “La condanna dell’amore” – che rappresenta una sorta di p a l i n o d i a di quanto aveva sostenuto in precedenza. Andrea prende le distanze da quanto scritto nei primi due libri, elogiando invece l’amore matrimoniale e l’amicizia tra uomo e donna.
E questa apparente contraddizione spiazza i lettori moderni… In realtà se ci mettiamo nell’ottica che Andrea sia un prete, intriso della cultura scolastica dell’epoca, che amava le diatribe dialettiche, il confronto tra tesi antitetiche, pensiamo al Sic e Non di Abelardo, e teniamo conto del fatto che i suoi contemporanei non leggevano l’opera come un’ ars amatoria, ma come un trattato morale, le cose diventano lievemente più chiare.
Il De Amore è uno dei tanti testi ironici, di provenienza clericale, così diffusi nel Medioevo, che condannano l’amore profano, basato sulla cupiditas, forza e strumento del diavolo;, e al contempo esaltano come il vero re d’Amore è Dio, l’unico e solo nostro Signore.
Il problema è che Andrea fu assai più abile come scrittore e retore, nella pars distruendi, il pro amore profano, che nella costruendi, il contra amore profanum e pro amore divino; e indipendentemente dalla sua volontà, dato che ogni libro è un’opera aperta, i lettori successivi si concentrarono più sulla prima, che sulla seconda parta.
E questo mutamento avvenne a Palermo, nella Magna Curia di Federico II: abbiamo numerosi indizi sul fatto che lo Stupor Mundi abbia ricevuto in omaggio, assieme ad altri codici di poesia trobadorica, il De Amore dal famigerato Ezzellino da Romano. Così, l’opera di Andrea su letta, commentata e integrata dai suoi poeti cortigiani che da una parte arricchirono la poesia francese di tanti termini e tematiche, tratte dalla cultura laica dell’epoca, dall’ambito giuridico a quello medico, dall’altra recuperarono le forme sensuali delle radici arabe di tale poesia.
Così la prima parte del De Amore, divenne una sorta di manifesto culturale laico e naturalistico, non solo dell’Amore, ma della forme e relazioni sociali dell’epoca, a cui veniva tolta ogni base religiosa e trascendente: proprio questo materialismo, l’epicureismo di cui fu accusato Federico II e suoi seguaci, tanto che Dante lo piazzò all’Inferno, causò la condanna delle gerarchie ecclesiastiche al trattato di Andrea, culminata nel nel 1277, quando il vescovo di Parigi Stefano Tempier, facendo seguito a una bolla di papa Giovanni XXI, pronuncia contro il libro di Andrea Cappellano una solenne condanna, che ne accomuna le dottrine ad altre tesi naturalistiche e razionalistiche nonché, significativamente, alla dottrina della doppia verità…
Marciapiedi che si innalzano all’Esquilino, fenomeni di bradisismo? No, solo alberi senza manutenzione
Che le radici degli alberi da tempo immemore siano la causa dei numerosissimi dissesti sui marciapiedi dell’Esquilino è cosa risaputa
Ma che si arrivasse addirittura ad un innalzamento del piano del marciapiede in alcuni tratti di viale Manzoni ha dell’incredibile!
Innanzitutto che cos’è il bradisismo; riportiamo una definizione per spiegarlo:
Il bradisismo (dal greco βραδύς bradýs, “lento” e σεισμός seismós, “scossa”) è un fenomeno legato al vulcanismo consistente in un periodico abbassamento (bradisismo positivo) o innalzamento (bradisismo negativo) del livello del suolo
Ora, chiariamo subito, per quanti problemi possa avere il Rione, fenomeni vulcanici, almeno per ora, non ci sembra che si siano mai manifestati, ma che in alcuni tratti di viale Manzoni il piano del marciapiede si sia notevolmente rialzato (si vede ad occhio nudo e sono diversi centimetri) per colpa delle radici degli alberi è incontestabile.
Quello che non sopportiamo più è…
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July 14, 2018
A caccia di esopianeti
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Uno dei grandi successi dell’astronomia di questi ani è stato l’individuare e censire i pianeti extrasolari. Il primo transito esoplanetario fu individuato nel 1999. Dopo una decina d’anni eravamo a quota 100 e ora siamo arrivati a circa 4000 transiti. La maggior parte derivano dalla missione Kepler della Nasa, che dovrebbe concludersi quest’anno, la quale quale dal 2009 al 2013 ha monitorato senza sosta la variazione di luminosità di 150.000 stelle, comprese tra le costellazioni del Cigno e della Lira.
Dal 2013 in poi, per un guasto meccanico, Kepler ha dovuto puntare un altro settore cosmico, continuando però nelle sue scoperte, utilizzando il metodo del transito, che consiste nel rilevare la diminuzione di luminosità della curva di luce di una stella quando un pianeta gli transita davanti, causando un’eclisse. La diminuzione è correlata alla dimensione relativa della stella madre, del pianeta e della sua orbita.
Per ovvi motivi, più un pianeta è grande, più è facile da rilevare: parlando di casa nostra, se il transito di Giove davanti al Sole provoca un calo di luminosità dell’1%, quello causato dalla nostra cara e vecchia Terra è appena dello 0,01%. Per cui, dei 5000 possibili pianeti identificati da Kepler, di cui 3500 confermati, abbiamo per questa distorsione nel selezionare i dati, la seguente distribuzione statistica:
il 19% di dimensione minore a 1,25 volte il raggio terrestre;
il 31% di dimensione compresa tra 1,25 e 2 volte il raggio terrestre, le cosiddette super Terre;
il 42% di dimensione compresa tra 2 e 6 volte il raggio terrestre, i cosiddetti Nettuniani;
il 6% di dimensione compresa tra 6 e 15 volte il raggio terrestre, i cosiddetti Gioviani;
il 2% di pianeti con dimensione superiore a 15 volte il raggio terrestre, i cosiddetti Supergioviani.
Alcune osservazioni di Kepler stanno rimettendo in discussione la teoria standard della formazione dei pianeti, basata sull’assunto che tutti i sistemi solari potessero essere simili al nostro. In realtà è probabile che noi siamo più un’eccezione, che una regola. Se scegliamo a caso uno dei sistemi extrasolari, ad esempio, abbiamo il 50% delle possibilità che abbia almeno un pianeta più grande della Terra in un’orbita più ravvicinata rispetto al nostro Mercurio, cosa su cui, prima del 1999 nessuno avrebbe scommesso un centesimo.
Ora che il buon vecchio Kepler sta per chiudere bottega, come procederà la ricerca. Il primo passo è il progetto TESS della Nasa, presentato dal Massachusetts Institute of Technology e sponsorizzato anche da Google, il cui lancio, utilizzando un Falcon 9 v1.1 della SpaceX , è avvenuto il 18 aprile. TESS valuterà nei due anni di ricerca previsti circa 500.000 stelle i classe spettrale G e K, ossia nane gialle e arancioni, con magnitudine apparente tra 5 e 12, catalogando almeno 3.000 pianeti, di cui circa 500 dalle dimensioni simili alla Terra o super Terre.
L’esplorazione sarà suddivisa in 26 settori di osservazione di 24° x 96° , con una sovrapposizione ai poli eclittici per aumentare la sensibilità nei confronti di esopianeti caratterizzati da masse più piccole e periodi orbitali più lunghi. Ogni settore sarà osservato per due orbite, ognuna delle quali durerà 13,7 giorni, mappando durante il primo anno l’emisfero sud e quello nord durante il secondo.
Ognuna delle lenti del TESS acquisirà immagini con una cadenza di due minuti alla ricerca di diminuzioni di luminosità causate da pianeti in transito, con immagini full frame acquisite ogni 30 minuti in grado di offrire informazioni fotometriche per più di venti milioni di stelle nell’arco di sessioni di osservazione di diverse settimane, che offriranno anche l’opportunità di rilevare altri fenomeni di transito, quali lampi di raggi gamma. Un approccio quantitativo, basato sulla forza bruta, che però si integrerà con strumenti, come dire, più qualitativi, come
Automated Planet Finder (APF) un telescopio ottico di 2,4 metri di diametro situato presso l’Osservatorio Lick, ad una quota di 1280 metri s.l.m. sul monte Hamilton, circa 20 km a est di San Jose in California, progettato per la ricerca per la ricerca di pianeti extrasolari di massa compresa tra 5 e 20 volte quella della Terra, ed entrato pienamente in funzione in gennaio 2014
HARPS (High Accuracy Radial velocity Planet Searcher) spettrografo per velocità radiali di tipo Echelle di grande precisione installato nel 2002 sul telescopio di 3,6 metri di diametro dell’ESO posto all’Osservatorio di La Silla, in Cile, diventato operativo a febbraio 2003, basato sul principio della variazione della velocità radiale di una stella soggetta a forze gravitazionali di corpi ruotanti attorno ad essa
ESPRESSO (Echelle SPectrograph for Rocky Exoplanet and Stable Spectroscopic Observations), spettrografo Echelle per esopianeti rocciosi ed osservazioni stabili[ è uno spettrografo di tipo Echelle di terza generazione a dispersione incrociata e connesso mediante fibra ottica installato al Very Large Telescope (VLT) dell’European Southern Observatory.
Cheops, che uno dei troppo trascurati successi della ricerca scientifica italiana
Cheops, il cui acronimo sta per CHaracterizing ExOplanet Satellite, ed è la prima delle missioni di classe Small, ossia a basso costo del programma “Cosmic Vision 2015-2025” dell’Agenzia spaziale Europea (Esa). Il piccolo satellite, dal peso di 250 kg, inizierà la sua missione con un lancio del razzo Soyuz dalla base europea di Kourou, Guyana Francese, che lo porterà in un’orbita a 700 km di altezza con un’inclinazione di 98° rispetto all’equatore, dove opererà per almeno quattro anni. Il payload scientifico di Cheops è un telescopio molto compatto, poco più di 30 cm di diametro e di lunghezza, che dedicherà le sue osservazioni alla misura della luce che giunge da stelle i cui pianeti sono stati individuati da altri strumenti, da terra o dallo spazio.
Il telescopio è stato realizzato completamente in Italia nei laboratori della Leonardo SpA. di Firenze, con la collaborazione di Thales Alenia Space di Torino e dell’azienda Media Lario di Bosisio Parini, in provincia di Lecco, sotto la guida dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). In termini pratici, se TESS trovasse indizio che potessero fare pensare a un pianeta simile alla Terra, saranno attivati gli scienziati che lavorano su Cheops o sugli altri strumento, per incominciare un’analisi più approfondita.
E questo potrà anche permettere di monitorare le caratteristiche della sua atmosfera; durante il transito del pianeta davanti alla stella, le molecole e atomi dell’atmosfera assorbono parte delle lunghezze d’onde della luce, modificandone lo spettro. Con un poco di attenzione, possiamo misurare le differenze tra spettro in condizioni normali e di transito, identificando le caratteristiche dell’atmosfera planetaria; se vi identificassimo quantità significativi di ossigeno, avremmo un importante indizio sulla presenza della Vita.
Ora, TESS e Cheops sono il primo passo di per una nuova campagna di esplorazione spaziale, che vedrà collaborare il James Webb Space Telescope, l’erede di Hubble con strumenti dedicati, come FINESSE della NASA e ARIEL dell’ESA che analizzeranno la infrarossa proveniente dai sistemi extrasolari, che permette di identificare con maggiore facilità molecome come acqua e anidride carbonica.
Per poi culminare nella missione PLATO del 2026, che prevede il lancio satellite tecnologicamente molto sofisticato, composto da una batteria di 26 piccoli telescopi caratterizzati da un campo di vista simile a quello dell’occhio umano, anche questi progettati nei laboratori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) di Padova, Catania e Milano, e saranno costruiti nei laboratori della Leonardo di Firenze. PLATO di fatto, scrutando tutta la volta celeste, unirà la potenza di fuoco di TESS, con la precisione e la capacità di analisi di Cheops…
July 13, 2018
Tlachtli
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Pochi ricordano Christoph Weiditz, se non qualche raro erudito… Eppure questo pittore e gioielliere tedesco, capitato per caso in Spagna, dove, in attesa di qualche commissione da parte di Carlo V, si dilettava a disegnare i ritratti di nobili e popolani spagnoli, ebbe la fortuna di vivere un evento che tanti scrittori di fantascienza cercano di discrivere nelle loro pagine: l’incontro con una cultura totalmente diversa ed aliena.
All’epoca la Corona Spagnola aveva deciso di ridurre i poteri dei conquistadores nelle Americhe, per controllare direttamente le nuove conquiste: per questo spedì in Messico una pletora di burocrati e magistrati, che a torto o ragione, accusarono Hernan Cortés di essersi intascato buona parte dei proventi della Conquista.
Cortès, quindi, per evitare di finire al gabbio prese armi e bagagli e se tornò in Spagna, per difendersi dalle accuse: per stupire e fare bella figura con Carlo V, si portò dietro un ampio seguito di meraviglie del Nuovo Mondo. Christoph ebbe la fortuna di assistere proprio all’arrivo a corte del conquistador: come un fotoreporter, nel suo taccuino rappresentò l’evento con particolare attenzione agli usi e costumi degli indios.
Nei suoi disegni, infatti, da una parte traspare lo stupore dinanzi a una Realtà totalmente diversa da quella con cui si confrontava abitualmente, dall’altra di ricondurre l’alieno e l’ignoto alla suo quotidiano, per tenderlo comprensibile e accettabile all’uomo comune del Cinquecento.
Tra le tante cose, l’immaginazione del tedesco fu colpita dal Tlachtli, ossia la versione nahual del gioco della palla mesoamericano, diffuso dal Nicaragua all’Arizona e di origine antichissima: come racconta l’archeologo Davide Dominici, dell’Università di Bologna:
Le più antiche palle di gomma, realizzate aggomitolando una lunga striscia di caucciù sono state rinvenute in una laguna nel sito olmeco di El Manatí (Veracruz), dove tra il 1700 e il 1600 a.C. vennero depositate delle offerte dedicate alle divinità sotterranee delle acque e della fertilità. Di un paio di secoli più tardi è invece il più antico campo da gioco oggi noto, scoperto nel sito di Paso de la Amada (Chiapas) e costituito da due monticoli in terra disposti parallelamente a delimitare uno spazio rettangolare, lungo 78 metri e largo 7. Significativamente, questo campo da gioco fu eretto su un lato di una piazza sulla quale si affacciava anche quella che è oggi considerata la più antica abitazione signorile della Mesoamerica
Eppure nonostante le tante testimonianze archeologiche e le descrizioni dei conquistadores, tra cui lo stesso Cortés, continuiamo ad avere le idee poco chiare su come si giocasse effettivamente: è assai probabile che ne esistessero diverse versioni.
Alcune statuine rappresentano infatti giocatori che afferrano una piccola palla con le mani o che tengono in mano mazze, analoghe a quelle del nostro cricket. In numerosi vasi, diffusi sopratutto in area maya, i giocatori arricchivano il loro cinturone protettivo con un elemento verticale, detto “‘palma”, impugnando poi degli oggetti chiamati convenzionalmente “asce”. Di entrambi, si ignora la funzione.
Del Tlachtli, grazie a Cortés, sappiamo qualche dettaglio in più: si basava sul fatto che, in un rettangolo di circa 45×18, due squadre di 10 giocatori si passassero la palla senza mai farla cadere a terra usando soltanto cosce, spalle, il bacino e la testa. Se poi una squadra faceva passare il pallone all’interno di uno stretto cerchio di pietra posto a metà del campo in una posizione sopraelevata, allora quella squadra era dichiarata vincitrice.
Cortés ci informa che non era, tuttavia, la squadra a vincere ma solo il fortunato giocatore che aveva fatto passare il pallone nel cerchio e che egli poteva esigere dal pubblico o dalla squadra sconfitta ogni genere di denaro, gioielli e cibo. Se poi a vincere era il capitano, allora a lui si dovevano attribuire i massimi onori e non di rado i giocatori della squadra sconfitta venivano sacrificati al dio del gioco Xolotl, per placarne la collera, per poi essere cotti alla griglia e serviti in pasto rituale ai tifosi.
Sempre Cortés evidenzia come fossero frequentissime le escoriazioni, le ferite e, in certi casi, vere e proprie mutilazioni, questo anche a causa del pallone molto pesante, che poteva raggiungere anche i 5 chili… Le gare erano anche accompagnate da un grande giro di scommesse. Secondo il frate domenicano Diego Durán
ogni volta in cui i nobili aztechi giocavano, essi scommettevano gioielli, schiavi, pietre preziose, mantelli e vesti da guerra e abiti femminili
Fino a quando l’albero della gomma Castilla elastica non fu trovato nelle terre alte del loro impero, gli aztechi ricevevano le palle di gomma e questo materiale in generale come tributo dalle popolazioni che abitavano le terre basse in cui invece l’albero cresceva. Il Codice Mendocino riporta un numero di 16000 pani di gomma grezza importati a Tenochtitlan dalle province del sud ogni sei mesi, non tutti
ovviamente venivano utilizzati per fabbricare palle.
Tutte queste versioni del gioco, però, erano accomunate dall’associare la dimensione ludica e sportiva a una religiosa e cosmologica, rendendo le partite una sorta di dramma sacro. Nel mondo Maya, il gioco è legato al mito del Dio del Mais Hun Ixim e dei suoi figli gemelli Hun Ajaw, Venere, e Yax Bahlam, il Sole.
Hun Ixim e suo fratello cominciarono a giocare accanto a palla vicino al mondo sotterraneo, Xibalba, facendo così tanto chiasso, da disturbare i suoi abitanti; i loro capi Una Morte e Sette Morti, per dormire in santa pace, inviano dei gufi per invitare Hun Ixim e suo fratello a trasferirsi nel campo da gioco di Xibalba, situato all’estremità ovest del mondo sotterraneo. È un viaggio pericoloso e lungo e a un certo punto, i due per la stanchezza cadono addormentati.
Così, l’invito si rivela per ciò che è: una trappola. Una Morte e Sette Morti si fiondano addosso ai due fratelli, li catturano e li sacrificano, decapitandoli, agli dei del sonno e del riposo, per poi seppellirli, per sfregio, nel campo di gioco. In più, come massima forma di disprezzo, la testa di Hun Ixim è appesa ad un albero, che frutterà la prima zucca calabash. La testa di Hun Ixim, però, mai doma, sputa nelle mani di una dea che passava di lì, e la dea concepisce e genera gli eroi gemelli, i suddetti Hun Ajaw e Yax Bahlam.
Gli eroi gemelli alla fine trovano l’equipaggiamento da gioco nella casa paterna, e iniziano a giocare loro stessi, disturbando nuovamente i signori dell’oltremondo, che inducono anche i gemelli a praticare il gioco attraverso prove e pericoli. In uno di questi episodi, Hun Ajaw viene decapitato da un bastone. Il fratello allora usa una zucca per sostituire la testa di Hun Ajaw finché non riesce a ritrovare quella vera, che ora è usata dai signori di Xibalba come palla, e può restituirla al suo proprietario.
Finalmente i gemelli giocano contro gli dei di Xibalba, e riescono a batterli, tuttavia falliscono nel tentativo di riportare in vita il loro genitore e lo lasciano sepolto nel campo da gioco di Xibalba, da cui nasce il mais, che comincia a diffondersi sulla Terra.
Un mito che celebra l’istituzione della regalità e il ciclo di vita del mais, decapitato, quando la sua pannocchia è spiccata dalla pianta, che muore e rinasce, in un tempo scandito dal ripetersi ciclico delle stagioni e delle fasi di Venere, i principi fondanti del calendario Maya. Gli Aztechi vedevano nel gioco la lotta tra le forze della notte, capeggiate dalla luna e dalle stelle (rappresentate dalla dea Coyolxauhqui e dai suoi fratelli, i 400 Centzonuitznaua), e il sole, personificato da Huitzilopochtli.
Detto questo, come finì la storia di Cortés ? Il conquistador fu assolto da tutte accuse e nominato Marchese della Valle di Oaxaca, mantenendo il titolo capitano onorario generale, perdendo però ogni ruolo attivo di governo… Ora se sappiamo dalle cronache spagnole dell’epoca, di come i cortigiani di Carlo V fossero stupiti dall’abilità dei giocatori aztechi e dallo strano materiale con cui era costruita la palla, pagherei oro per avere un’idea di cosa passasse in testa agli indios, durante il loro esibirsi dinanzi a tanti, impettiti hidalgos…
July 12, 2018
Ricordando Gio Ponti
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L’edificio che mi piace di più è forse quello che gli architetti realizzeranno per il Futuro
In questa frase di Gio Ponti, è racchiuso tutto il suo essere visionario, il suo considerarsi come una sentinella, che sull’estremo limite del promontorio del suo Tempo, osava sognare e guardare oltre l’orizzonte, con l’accortezza che l’amore per la Modernità non era fine a se stesso. La Modernità, infatti era, lo strumento affinché l’Uomo potesse tornare misura di tutte le cose, dagli oggetti del quotidiano alla Città.
Un umanesimo, quindi, basato sui pilasti dell’Euritmia, della Bellezza e della Funzionalità, in cui il Design, l’Architettura e l’Urbanistica si fondevano, affinché noi tutti, bene vivendo e bene pensando, recuperassimo la pienezza del nostro ruolo di Persone e di Cives.
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Utopia, forse, che Ponti, come tutti i grandi uomini, ha saputo declinare in azioni concrete, a cominciare dal Primo Palazzo Montecatini, all’angolo tra Via della Moscova e Via Turati; palazzo in cui tutto sembra nascere da banali esigenze funzionali.
La pianta ad H, per esprimere la centralità degli uffici dirigenziali, l’ampio parcheggio nella corte centrale aperta, il modulo costruttivo, su cui l’edificio si fonda (assi di m 4,20) nasce dalla distribuzione delle scrivanie (tutte metalliche, e di dimensioni costanti.
Il tutto, come dice bene Fulvio Irace, sembra generare la casa perfetta per lavorare, precisa come un orologio, netta e funzionale come una macchina.
Eppure, a questo Ponti, quasi preannunciando Calvino, contrappone il primato della Leggerezza, liberando l’edificio dal peso della materia, grazie a una facciata che sublima il marmo, rendendolo complementare al luminoso disegno delle ampie vetrate sostenute dai sottili infissi di alluminio. Così il lavoro non è più fonte di alienazione, ma strumento affinché si realizzi la completezza dell’Uomo, centrata sul suo essere artefice
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Lo stesso principio che vive nel Pirellone, realizzato con l’aiuto di un altro grande, Pier Luigi Nervi: edificio in cui la pianta poligonale dona slancio all’edificio visto di tre quarti e ne dissimula la larghezza alla visione frontale, donandogli armonia ed eleganza.
Anche questo in caso, il tutto nasce ancora da specifiche esigenze funzionali: i corridoi che dal centro servono le ali dell’edificio si rastremano perché servono progressivamente un numero minore di spazi. E proprio da questo, nasce la sua forma a diamante, con la sua fame di luce e il suo slancio verso l’Assoluto
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Stesso slancio che vive nelle sue architetture sacre, dalle facciate piegate come origami barocchi, che all’improvviso esplodono, abbracciando il fedele, a cominciare dalla chiesa di San Francesco d’Assisi al Fopponino, che riscrive in chiave moderna l’invenzione del colonnato berniniano, e che raggiunge il suo culmine nella concattedrale di Taranto Gran Madre di Dio.
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Concattedrale la cui facciata è composta da due parti: quella anteriore è lunga 87 e larga 35 metri, quella posteriore, arretrata di 50 metri rispetto alla prima, è costituita da un doppio muro traforato alto 40 metri, che sostituisce la cupola tradizionale e rievoca la leggerezza di una vela, su cui, secondo Ponti, gli angeli potessero sostare.
Alla sua inaugurazione, Gio Ponti cosi parlò:
Ho pensato due facciate. La minore, salendo la scalinata, con le porte per accedere alla chiesa. La maggiore. accessibile solo allo sguardo e al vento: una facciata per l’aria con ottanta finestre aperte sull’immenso, che è la dimensione del mistero.
Mistero che una volta era amplificato dal riflettersi della facciata sui tre specchi d’acqua antistanti, simboli del mare e della Trinità…
A ricordarci ciò che predicava San Paolo ai Corinzi
Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum
July 11, 2018
Come Don Chisciotte
Il cavaliere dell’eterna gioventù
seguì, verso la cinquantina,
la legge che batteva nel suo cuore.
Partì un bel mattino di luglio
per conquistare, il bello, il vero, il giusto.
Davanti a lui c’era il mondo
con i suoi giganti assurdi e abbietti
sotto di lui Ronzinante
triste ed eroico.
Lo so quando si è presi da questa passione
e il cuore ha un peso rispettabile
non c’è niente da fare, Don Chisciotte,
niente da fare
è necessario battersi
contro i mulini a vento.
Hai ragione tu, Dulcinea
é la donna più bella del mondo
certo
bisognava gridarlo in faccia
ai bottegai
certo
dovevano buttartisi addosso
e coprirti di botte
ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati
tu continuerai a vivere come una fiamma
nel tuo pesante guscio di ferro
e Dulcinea
sarà ogni giorno più bella.
E’ una poesia del grande Hikmet, dedicata al sublime Don Chisciotte, il re dei folli e dei sapienti, che ci ha insegnato come non sia mai troppo tardi per cominciare a inseguire i sogni e ribellarsi contro le crudeli ipocrisie del quotidiano.
Don Chisciotte è il nume tutelare de Le danze di Piazza Vittorio: come lui, ascoltiamo il cuore, che ci invita ad amare il bello e il buono, a rimettersi in discussioni, superando le timidezze e le paure con cui la società costruisce le catene con cui ci imprigiona, a guardare oltre le apparenze, vedendo il diverso non come un pericolo, ma come un’occasione.
Comei El Ingenioso hidalgo, anche se gli altri ci prendono per pazzi, non abbiamo paura a lottare e prendere posizioni contro i soprusi di qualunque Potere: perché è la nostra paura, non la sua forza, ciò che lo rende invincibile. In fondo, per citare il buon Unamuno
Meglio che investigare se son mulini o giganti quelli che ci appaiono paurosi e malvagi, è seguire la voce del cuore e assaltarli, ché ogni generoso slancio trascende il sogno della vita. Dalle nostre azioni e non dalle nostre contemplazioni trarremo saggezza.
Ed è questo, in fondo ciò che ho imparato da Le Danze:non a ballare, tanto sempre un ciocco rimango, non a suonare, non a cantare, stonato rimarrò per sempre, ma a essere più umano…
Alessio Brugnoli's Blog

