Alessio Brugnoli's Blog, page 144

July 10, 2018

La sonata della Chacarera

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Stasera dalle 19.00 in poi, alla solita panchina, nuova sonata estiva de Le danze di Piazza Vittorio: stavolta, dato che noi consideriamo la musica e la danza come ponti per dialogare con il Mondo, sarà dedicata alla Chacarera.


Per chi non lo conoscesse, questa è una danza del folclore sud americano: rimango nel generico, perché ci sono infinite discussioni sul fatto che sia nata nel Nord dell’Argentina o in Bolivia… Data la nazionalità del nostro presidente, è facile indovinare la posizione de Le danze nella disputa.


Nella sua versione più tradizionale, la Chacarera viene suonata utilizzando chitarra, tamburo e violino ed è accompagnato da canti in spagnolo o in quechua, l’antica lingua inca.Il ballo avviene in coppia però la coreografia si svolge all’interno di un gruppo di altri ballerin


Il suo nome di questo ballo deriva dal vocabolo “chacarero”, ossia contadino, perchè generalmente si ballava nelle zone di campagna; in particolare, le sue zone di origine, qualunque sia la loro nazione, sono caratterizzate da un clima arido, con con grandi distese di terra polverosa. Questo dettaglio è importante per immaginarsi e capire una parte molto importante della chacarera, el zapateo, dove l’uomo con dei movimenti al limite della slogatura delle caviglie e delle ginocchia, colpisce violentemente la terra con l’interno e l’esterno del piede


Stasera, avremo la possibilità di imparare la Chacharera da un artista di fama mondiale… Per cui, vi aspettiamo numerosi ! E mi raccomando, diffidate dalle imitazioni !

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Published on July 10, 2018 04:05

July 9, 2018

Euristiche

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Come già detto altre volte, ciò che chiamiamo Ragione non è nulla di più di uno sgabuzzino disordinato di euristiche, sopravvissute casualmente alla Selezione Naturale, per creare dei modelli semplificati del Reale, che permettono di rendere più veloci ed efficaci i nostri processi decisionali.


Il prezzo di tali euristiche è la nostra fallibilità: perché questi meccanismi cognitivi, che filtrano i dati, riducendo la complessità, introducono un errore sistematico, che distorce sistematicamente la nostra percezione del Reale.


Errore sistematico che consiste nei cosiddetti bias cognitivi. Ne provo ad elencare i più noti:


Bias di ancoraggio: diamo molta più importanza alle prime, limitate informazoni che ci capitano sotto mano, rispetto a quelle che troviamo successivamente.


Bias di disponibilità: tendiamo a dare più importanza e risalto alle sole informazioni che abbiamo a disposizione nella nostra mente, rispetto alle altre, sovrastimando la nostra conoscenza.


Bias del carro del vincitore: siamo più inclini a sviluppare una credenza in base del numero delle persone accanto a noi che abbracciano la stessa convinzione.


Bias dell’autoesaltazione: condividiamo e valutiamo più i nostri successi che i nostri fallimenti.


Bias della frequenza: tendiamo a interpretare e vedere ovunque conferme di quanto abbiamo appreso recentemente.


Bias dello schema: tendiamo ad associare schemi predefiniti a qualsiasi evento accada accanto a noi.


Bias di conferma: diamo maggiore importanza alle informazioni in grado di confermare le nostre tesi, rispetto a quelle che le mettono in dubbio.


Bias di struzzo: tendiamo a rifiutare i dati che contrastano con le nostre convinzioni.


Bias della scelta solidale: tendiamo a razionalizzare le scelte fatte, anche se impulsive o basate su gravi lacune informative, per giustificare il nostro essere razionali.


Bias dell’angolo cieco: ci illudiamo di essere immuni dai bias, più lucidi e razionali di quanto in realtà siamo.


Per cui, tirando le somme, siamo Umani non perchè siamo razionali, ma per il fatto che siamo fallibili.

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Published on July 09, 2018 11:49

La festa per i 130 anni di Piazza Vittorio, immagini e filmati

Esquilino's Weblog


Immagini e filmati della festa dei 130 anni di Piazza Vittorio





Il Coro di Piazza Vittorio






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Published on July 09, 2018 02:53

July 8, 2018

Erasmo da Gattamelata

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Come molti sanno, la prossima settimana traslocherò nella nuova sede di via Erasmo Gattamelata, al Pigneto… Dato che qualche colleguccio, più esperto di router Cisco che di Storia, continua a storpiare il nome o con massima onestà, ammette pubblicamente di non avere la più pallida idea di chi sia il buon Erasmo, approfitto di una domenica pomeriggio priva di partite del Mondiale, per raccontare la vita, alquanto interessante, di questo capitano di ventura.


Per prima cosa, il buon Erasmo, nato intorno al 1370 a Narni da Paolo, di professione fornaio, detto lo Strenuo, per il suo essere un instancabile lavoratore e da Melania Gattelli, entrambi originari di Todi,

in realtà si chiamava Stefano, per onorare uno zio ricco. Ma dato che alla mamma tale nome non piaceva affatto, fu fin da piccolo chiamato con il nome con cui è passato alla storia.


Ora, sappiamo ben poco della sua infanzia: è probabile che a un certo punto l’impresa di famiglia dovette fallire e per non fare la fame, si dedicò alla vita militare di basso rango, al servizio di Ceccolo Broglia, un capitano di ventura originario di Trino Vercellese, avventuriero cupido e spietato, che tra il 1398 e il 1400, quando morì di peste ad Empoli, si trovò signore d’Assisi.


Nonostante la sua pessima fama, Ceccolo era formidabile e coraggioso uomo d’arme e uno straordinario maestro: ebbe come allievi Facino Cane, Ottobuono Terzi, il Carmagnola e il Tartaglia. Per cui, con il suo talento nel giudicare e valorizzare i soldati, capì come in quell’ex fornaretto di Narni potesse nascondersi un ottimo comandante.


Erasmo, così, cominciò a fare carriera, adottando quasi subito il suo misterioso nome di battaglia, Gattamelata: per alcuni, un anagramma del nome della madre, per il suo biografo, Giovanni Eroli, che però ne scrisse nell’Ottocento, dando fondo alla sua fantasia, il suo nomignolo derivò


dolcezza dè suoi modi congiunta a grande furberia, di cui giovossi molto in guerra a uccellare e corre in agguato i mal cauti nemici e pel suo parlare accorto e mite dolce e soave


E’ probabile che in realtà il motivo fosse alquanto banale: essendo un morto di fame, pare che, promosso Lancia Spezzata, non avesse un’armatura adatta al nuovo rango. Per cui Ceccolo Broglia, impietosito, gli regalò una sua vecchia armatura, il cui cimiero aveva la forma di una gatta dal colore miele. Erasmo, essendo un sentimentale o convinto che gli portasse fortuna, la indossò sempre.


Tra il 1400, anno della morte di Ceccolo e il luglio 1416, non abbiamo la più pallida idea di cosa faccia Erasmo per campare: riappare dopo la presa di Perugia, al servizio del grande Braccio da Montone, che non solo gli consentì di indossare i suoi colori, abitudine che Erasmo mantenne sino alla morte, ma lo nominò anche prefetto della cavalleria, ed ebbe come commilitone Brandolino Conte Brandolini, che per lungo tempo fu suo inseparabile compagno d’armi e socio in affari.


Da quel momento in poi, Erasmo partecipa con entusiasmo e dedizione al tentativo di Braccio di crearsi una signoria in Umbria: al suo servizio conquista Todi, Rieti, Narni, Terni e Spoleto e nel giugno 1417, guida l’effimera occupazione di Roma.


Nel giugno 1419 partecipò alla battaglia di Viterbo nella quale i Bracceschi sconfissero Muzio Attendolo Sforza; quest’ultimo – a capo delle schiere di Giovanna II d’Angiò, scesa in campo per soccorrere il

pontefice Martino V nel suo tentativo di recuperare le terre sottratte al dominio della Chiesa durante lo scisma – nell’ottobre successivo catturò Erasmo e il Brandolini, di guardia al castello di Capitone,

presso Amelia. In quell’occasione i due vennero riscattati da Braccio.


Le tormentate e complesse vicende di quegli anni ebbero esito conclusivo nella battaglia dell’Aquila del giugno 1424. I Bracceschi, alleati di Alfonso d’Aragona, assediavano la città, e contro di essi si mossero prima Muzio Attendolo Sforza (che perì proprio durante la campagna, il 4 gennaio 1424, dalle parti di Pescara) e poi il figlio Francesco Sforza, sempre per conto di Giovanna II. Prima dello scontro decisivo Braccio, il 25 maggio, pensò di dividere le proprie forze in quindici squadre, una delle quali affidò a Erasmo, e convocò in consiglio tutti i suoi ufficiali.


Erasmo, noto per il temperamento assai prudente, Piccinino lo paragonava a Fabio Massimo il Temporeggiatore, propose di assaltare l’accampamento nemico e di sorvegliare le colline nei pressi della città, per impedire l’arrivo dei rinforzi agli sforzeschi. Braccio non gli diede retta, accettando lo scontro in campo aperto, dove fu ucciso. Lo stesso Erasmo si salvò per il rotto della cuffia. Ora, per non rimanere

disoccupato, assieme a Niccolò Piccinino e Oddo, figlio di Braccio, raccolse i superstiti bracceschi della battaglia, li organizzò alla meno peggio e si mise al servizio della Repubblica di Firenze, impegnata contro il duca di Milano, Filippo Maria Visconti.


Però, la società durò assai poco: Erasmo e Piccinino poco si prendevano come carattere e soltanto la pazienza e la diplomazia di Oddo impediva ogni giorno che si saltassero entrambi alla gola. In più Piccinino, in gran segreto, cominciò a tramare coni Visconti. Nel 1425 nei pressi di Marradi, nella Valle del Lamone, durante una battaglia, diede ordine alle sue schiere di allontanarsi dal campo e Oddo, trovatosi circondato dai nemici, fu barbaramente ucciso.


Piccinino, approfittando dell’evento si proclamò generalissimo dei Bracceschi e presi armi e bagagli, passò al servizio dei Visconti. Erasmo, furioso per il tradimento e desideroso di vendicare Oddo, invece, con le poche truppe rimastegli fedeli, rimase al servizio di Firenze.


Ora Braccio da Montone, non è che fosse un uomo molto religioso: così racconta un cronista dell’epoca


Questo Braccio fu de vita impio ed heretico; non credeva né a Dio né a Santi; disprezzava le ceremonie ed officj ecclesiastici; non udiva mai Messa e fu crudelissimo. Una volta fe’ gettare un corriero dentro il bullicame (‘sorgente termale bollente’) di Viterbo e quello se raccomandaje a Santo Antonio e se ne ritornò salvo; ed ordinò fosse buttato la seconda volta e fe’ il medesimo; e per ordine suo fu buttato la terza volta e pur miracolosamente uscìo, onde la gente, che viddero questo, lo pregaro li perdonasse ed esso, confuso di vergogna, li perdonò. Un’altra volta sei frati minori stavano sopra un campanile a cantare in sol fa; li fe buttare in terra e morsero. E mille altre cose atrocissime; ma nel suo esercito era leale e valente


Al contrario Erasmo, almeno formalmente, ci teneva ad apparire un devoto figlio di Santa Madre Chiesa: così nel 1427 papa Martino V lo volle con il Brandolini al suo servizio e lo utilizzò inizialmente proprio per recuperare le terre sottratte alla Chiesa da Braccio, e ora tenute dalla vedova, Niccola da Varano. Erasmo si unì così, con 200 cavalli, a Pietro Donà, vescovo di Castello e allora governatore di Perugia, e marciò contro Montone e Città di Castello. Quest’ultima cedette solo nel dicembre 1428, senza peraltro che Eeramo partecipasse alla conquista, avendo nel frattempo ricevuto l’ordine di recarsi

a sedare altre rivolte scoppiate nello Stato pontificio. Si ribellavano infatti, a causa degli intrighi viscontei Imola, Forlì, Perugia e Bologna. In quest’ultima città, nell’agosto 1428, la famiglia Canetoli aveva con un colpo di mano assunto il potere e decretato la Repubblica.


Sotto l’azione congiunta di Erasmo, del legato di Romagna Domenico Capranica e degli altri capitani, Antonio Bentivoglio, Attendolo da Cotignola e Niccolò da Tolentino, il 30 agosto Bologna si arrendeva. Da quel momento in poi, il compito principale di Erasmo divenne quello di mantenere l’ordine pubblico nell’inquieta Emilia Romagna: lavoro neppure troppo complicato, ma con un enorme problema.


Il Papa Re era assai poco propenso a pagare la condotta, tanto che arriviò ad accumulare, nei confronti di Erasmo, un debito di 10000 ducati. Per cui, se da una parte Erasmo voleva trovare un datore di

lavoro un poco più puntuale nello stipendio, dall’altra pretendeva, prima di andarsene, che questo debito fosse saldato, arrivando a minacciare lo sciopero generale delle sue truppe.


A risolvere questa intricata situazione, ci pensò la Serenissima: Venezia, infatti, per il comando delle sue truppe, cercava un onesto professionista, che fosse affidabile e non cambiasse bandiera ogni due per tre e che non avesse strani grilli per la testa, come quello di mettere su una sua signoria. Erasmo sembrava rispondere a tutti questi requisiti.


La trattativa fu complessa e coinvolse l’oratore della Serenissima a Firenze Antonio Contarini (nel gennaio 1434) e il vicentino Belpetro Manelmi, ed ebbe esito positivo nel febbraio, grazie anche all’intervento di Flavio Biondo notaio di Camera e segretario apostolico, inviato da Eugenio IV a Venezia proprio per favorire tale ingaggio, in modo da scaricare i debiti sulla Serenissima.


L’11 aprile il Senato veneziano ratificò l’assunzione di Erasmo, che asssieme a Brandolini, veniva assoldato con 400 lance e 3 cavalli per lancia e 400 fanti; dopo sei mesi anche i rispettivi figli sarebbero stati arruolati con altre 50 lance. Venezia si impegnava a pagare i 10.000 ducati del debito pontificio; come garanzia dell’effettivo pagamento, era assicurato a entrambi i condottieri il possesso di Castelfranco d’Emilia. La Repubblica veneta lasciava peraltro i due ancora per un anno al servizio del papa perché sedassero le rivolte che continuavano ad agitare le terre di Romagna.


Riprendeva nel frattempo la guerra tra Milano e la lega che vedeva uniti assieme al papa Veneziani e Fiorentini. I Viscontei inizialmente dilagarono inducendo nel maggio alla rivolta la città di Roma, e così provocando la fuga precipitosa di Eugenio IV che si trovò costretto a rifugiarsi a Firenze. Il centro dello scontro fu in Romagna, dove operò Erasmo, cui Venezia ordinò di difendere Bologna e di agire come se ancora fosse stipendiato dal papa. La città era minacciata da Gaspare Canetoli, per combattere il quale Erasmo chiese a Venezia un rinforzo di 8.000 tra cavalleggeri e fanti. Ne ottenne assai meno, ma riuscì ugualmente a liberare San Giovanni in Persiceto assediata dai nemici, catturando in quest’occasione Battista Canetoli.


Gaspare riuscì invece a provocare l’ennesima ribellione bolognese e ad imprigionare a sua volta il governatore cittadino e l’oratore veneto. Erasmo rispose recuperando Castel San Pietro, Castelbolognese e Sant’Agata e reprimendo infine il tentativo bolognese del Canetoli; non riuscì, invece, ad entrare in Imola, città strenuamente difesa dai Viscontei; parte della cittadinanza gli presentò comunque offerta di dedizione.


Visti i successi della lega, il Visconti inviò in quei luoghi il Piccinino, il quale era ben desideroso di chiudere la faida con il suo antico rivale. La prima mossa fu però d’Erasmo, che fece cadere le truppe milanesi in un imboscata a Sant’Ilario; Piccinino, però non gettò la spugna e Castelbolognese, approfittando della superiorità numerica, diede una sonora batosta al Gattamelata, conquistando Bologna. Vista la malaparata, Venezia decise di mandare a Erasmo i tanti sospirati rinforzi, guidati da Francesco Sforza, ma visti i procedenti, i due passarono più tempo a litigare tra loro, che a combattere i viscontei


La pace di Ferrara dell’agosto dello stesso anno pose fine alle ostilità senza peraltro creare i presupposti per equilibri più saldi; negli stessi giorni in cui si concludeva la pace Filippo Maria Visconti, insieme con i Genovesi, distruggeva presso l’isola di Ponza la flotta di Alfonso d’Aragona, aspirante al Regno napoletano. Ciò poneva le premesse per nuovi tentativi di supremazia del duca milanese, e l’accordo di Ferrara ebbe breve vita: gli avvenimenti successivi ancora videro Eresmo al fianco dello Sforza, nelle Marche e quindi in Toscana, nel Pisano e nel Lucchese.


Il 17 febbraio 1436 Erasmo e Brandolini chiesero a Venezia la conferma della propria condotta. Ottennero un contratto biennale che ridusse le lance da 500 a 400 e i fanti da 400 a 200; in più ebbero però l’investitura della contea di Valmareno con piena giurisdizione. La concessione divise immediatamente i due che trovarono poi un accordo che venne ratificato il 30 novembre 1437: in cambio del possesso a pieno titolo di Valmareno, il Brandolini avrebbe pagato 3.000 ducati a Erasmo e si sarebbe ritirato dalla professione militare.


Le strategie della lega antiviscontea portavano intanto la guerra a Settentrione. I Veneziani, che avevano destinato alla guida delle loro schiere il marchese di Mantova Giovan Francesco Gonzaga, nell’aprile del 1437 meditarono il progetto di varcare l’Adda al fine di invadere il Milanese. Fu Erasmo, l’unico in quella gazzarra a capire un poco di logistica, a preparare e a condurre poi di fatto il tentativo: di notte, partito da Medolago, varcò il fiume dopo aver allestito un ponte. Una bufera lo isolò però sulla sponda nemica, e all’alba, nel timore di un attacco, fu costretto con i suoi a fuggire a nuoto.


Non sfuggirono però a Erasmo gli abboccamenti del Gonzaga con i Milanesi, che apprese dall’interrogatorio di un infiltrato del nemico che i suoi erano riusciti a catturare, e li denunciò a Venezia senza, peraltro, in un primo momento, essere reputato credibile. Quando l’infedele atteggiamento del marchese mantovano si rivelò infine con tutta evidenza, Venezia decise di sostituirlo proprio con Erasmo, il 5 diembre. 1437, con il titolo di governatore generale e lo stipendio di 300 ducati al mese, nomina che il buon Gattamelata accettò prontamente.


Lo scontro con i Milanesi nel territorio bresciano, lì dove il conflitto avrebbe assunto maggiore intensità negli anni seguenti, aveva peraltro già avuto inizio da qualche mese con una serie di scaramucce. Il 5 ottobre 1437 i Milanesi avevano conquistato Urgnano e poi Quinzano e si erano quindi fermati a Pralboino ed Asola per svernare. Erasmo si ritirò con le proprie forze a Bagnolo, badando anzitutto, dopo il fallito tentativo di contenere il primo assalto, a mantenere indenne l’esercito.


Fu nel luglio dell’anno seguente che la guerra assunse contorni più aspri. Il Piccinino varcò l’Oglio tra il 2 e il 3 luglio (dopo aver fatto credere di voler passare il Po per invadere il Veronese da quel lato), il suo seguito dilagò per tutta la pianura bresciana. Mentre Erasmo organizzava la resistenza a Brescia, Bina, Pontevico, Gottolengo, Ostiano ed altri luoghi finivano in mano milanese. Il Piccinino si spinse poi fino al Garda, rafforzato dai 4.000 armigeri che aveva recato il marchese di Mantova. Da Brescia Erasmo tentò di controbattere scendendo presso Gavardo dopo avervi fatto confluire quante più forze possibile anche dalla Val Trompia, Val Sabbia e Franciacorta. Sconfitto a Gavardo e Rovato, infine, Erasmo fu costretto a ritirarsi nuovamente entro Brescia. Alla fine di agosto la quasi totalità del territorio bresciano era in mano viscontea e la città stessa si trovava sottoposta ad uno stretto assedio.


In questa situazione maturò la più grande impresa di Erasmo, la sua anabasi: giunto da Venezia l’ordine di ripiegare nel Veronese per consentirne il rafforzamento, per alleviare l’annona bresciana e preparare una nuova sortita più efficace, il 5 settembre 1438, tentò il passaggio sul Mincio per la via di Lonato. Ricacciato indietro dal Gonzaga, il 24 settembre si accinse a provare il passaggio a settentrione, per la via dei monti, peraltro anch’essi controllati dai Viscontei e dai loro alleati.


Partì con 4.000 cavalli e 1.000 fanti, dopo aver lasciato in Brescia, sotto la guida di Taddeo d’Este, 600 cavalli e altri 1.000 fanti. L’esercito attraversò la Val Sabbia, poi senza danni le terre dei Lodrone, grazie all’accordo che Erasmo riuscì a stipulare con Parisio. Più difficile fu valicare i possedimenti sui quali i conti d’Arco avevano giurisdizione. Fallita la via negoziale, i signori di Arco, Vinciguerra e Antonio, catturarono l’emissario designato da Erasmo, Leonardo Martinengo e altri del suo seguito, tra cui la moglie di Bartolomeo Colleoni, e l’esercito veneto dovette farsi strada con le armi. Anche il vescovo di Trento oppose resistenza, ma, attraverso la Val d’Ampolo e la Val di Ledro, le sue truppe riuscirono a superare anche l’ostacolo rappresentato dal castello di Tenno. Sul fiume Sarca, ingrossato dalle piogge, le schiere veneziane furono quindi assalite dai Viscontei guidati da Luigi Dal Verme. Erasmo fu salvato da una rovinosa sconfitta solo grazie all’intervento di Piloso d’Aquila che attaccò i nemici in Val di Sarca costringendoli al ritiro.


Varcato il passo di Peneda e la Valle di Sant’Andrea, attraversata la Val d’Adige presso Mori o Rovereto, le truppe venete raggiunsero infine Sant’Ambrogio di Valpolicella e poi San Pietro Incariano e Parona, ed entrarono in Verona tra la sera del 28 settembre e la mattina seguente.


La Repubblica veneta riconobbe il successo del proprio condottiero e il 1º ottobre mandò oratori a Verona perché annunciassero la notizia della nomina di Erasmo a capitano generale delle forze venete con condotta di 3.000 cavalli e 500 fanti e uno stipendio mensile di 500 ducati, e rendessero pubblica la donazione a suo favore del palazzo veneziano già di Luigi Dal Verme in calle Corner a S. Polo. Si mormorava però già di trattative veneziane con lo Sforza, e queste voci indispettirono non poco Erasmo nel momento del trionfo.


Il Piccinino si accaniva intanto su Brescia, che resisteva, mentre a Verona Erasmo discuteva la futura strategia con i veneziani Federico Contarini e Marco Foscari. Si decisero incursioni nel Mantovano e soprattutto il recupero del ponte di Valeggio sul Mincio, passo essenziale della strada che da Verona recava a Mantova; e si deliberò inoltre di inviare navigli sul Garda per la via dell’Adige.


Nel novembre 1438 Erasmp con 500 cavalleggeri sconfisse i nemici a Nogara, e nel frattempo Venezia lo autorizzava, mentre si preparava a rientrare in Brescia, a combattere chiunque gli si fosse opposto sulla via: specificamente veniva nominato il vescovo di Trento. Erasmo si mosse da Verona il 12 genn. 1439, e subito il Piccinino e il Gonzaga fecero irruzione, il 15 gennaio, in Val Sabbia, inviando per di più il condottiero Taliano Furlano, con 600 cavalli e 1.000 fanti, a Riva del Garda, per frenare i Veneti. Il tentativo in un primo momento non riuscì, poi Taliano sbaragliò le truppe di Erasmo in Val di Ledro. Il visconteo fu a sua volta sconfitto a Castel Romano in Valdi Sarca dagli 800 fanti di Parisio da Lodrone guidati dal provveditore veneto Gherardo Dandolo (il 22 gennaio).


Il Piccinino attaccò quindi Parisio di Lodrone nei suoi stessi territori, mentre Erasmo., dopo aver compiuto scorrerie nel Mantovano, si recava a Torbole, per partecipare all’ardito tentativo di trasportare navigli via terra dall’Adige al Garda.


L’impresa riuscì, in quindici giorni, nel febbraio 1439, ma le 80 imbarcazioni, tra cui almeno due galere da guerra, che erano state trascinate per 5 miglia da 120 buoi, vennero poco dopo annientate dai Milanesi. Non fu comunque Erasmo a progettare l’impresa: il disegno venne allestito dal cretese Niccolò Brondolo, e il condottiero assicurò solo la protezione militare.


La nuova iniziativa viscontea nella pianura veronese, tra la fine di aprile e quella di maggio, travolse i Veneti. Invano Erasmo tentò di impedire al nemico il guado dell’Adige, nel quale i Milanesi e i Mantovani erano riusciti a far penetrare una flotta per mezzo di un canale scavato tra Panego e il fiume (aprile 1439); in pochi giorni il Piccinino e il Gonzaga prendevano Legnago, Porto, Lonigo, Castelbaldo, Brendola, Montecchio Maggiore, Arzignano, Montorso, Valdagno e infine Soave (il 23 maggio).


Il controllo di questi importanti centri della pianura veronese e vicentina consentì poi loro di assalire a ranghi completi Verona. La disfatta veneta fu gravissima, ed Erasmo subì numerose critiche. Pare invece accertato che la responsabilità fosse soprattutto di Andrea Donà, podestà di Padova e provveditore veneziano nell’emergenza, il quale volle dividere le truppe sui vari fronti finendo con l’indebolirle, e che, soprattutto, pensò di salvare la incolumità del grosso dell’armata ordinando ad Erasmo di ritirarsi tra Este e Montagnana. E. non disobbedì agli ordini del Donà, genero del doge Francesco Foscari, ma informò Venezia del proprio dissenso dalle decisioni di quello.


Viste le batoste subite, Venezia trattava intanto apertamente con Francesco Sforza, trovandosi così alle prese con la delicata situazione di coinvolgere nel conflitto quel condottiero senza urtare la suscettibilità di Erasmo che era pur sempre il comandante dell’esercito. Il problema venne risolto deputando lo Sforza a capitano generale della lega che vedeva alleati ai Veneziani i Fiorentini e il papa, ed affiancando a quello Erasmo con l’incarico, peraltro già suo, di capitano delle armi venete. I due si incontrarono nel Padovano nel luogo di Conche il 20 giugno 1439, e il 23 successivo cominciarono la marcia verso Verona con 14.000 cavalli e 8.000 fanti.


Insieme, in quello stesso 23 giugno, emanarono un regolamento militare che prescriveva le norme che dovevano regolare la conduzione dell’esercito congiunto: le forze guidate dallo Sforza e quelle di Erasmo dovevano alternarsi con cadenza quotidiana alla testa del convoglio e chi guidava la marcia doveva assicurare la sicurezza della colonna; venivano quindi emanati altri provvedimenti relativi alla amministrazione del campo comune. Il giorno 27 presero Lonigo e poi Brendola e Montecchio Maggiore, poi effettuarono una diversione per raggiungere Verona da settentrione, ancora per la via dei monti. Passando per la Val d’Alpone, occuparono San Giovanni Ilarione il 9 luglio. Puntarono poi decisamente verso Verona, nella quale riuscirono a rientrare senza difficoltà. Il 10 luglio il Senato veneziano aggregò Erasmo al patriziato.


Il conflitto proseguiva frattanto cruento nel Bresciano: un tentativo della lega di occupare la riviera di Salò venne bloccato a fine agosto da una epidemia che colpì duramente l’esercito, poi le truppe venete riuscirono per breve tempo a occupare la Val Sabbia. La reazione viscontea li ricacciò indietro, e i Milanesi riuscirono anche ad occupare le terre dei Lodrone.


Furono gli ultimi successi milanesi: la Val Trompia se ne liberò con l’aiuto di Brescia, mentre il 2 novembre Sforza ed Erasmo radunarono tutte le forze ad Arco per ritentare la via dei monti onde raggiungere Brescia. Passarono Tenno e Riva (il 9 novembre) per avviarsi in Val di Ledro; ma il Piccinino, che si era salvato a Tenno fuggendo da quel castello nascosto in un sacco, attaccò subitaneamente Verona, impadronendosi in breve della cittadella (il 17 novembre). I due capitani della lega tornarono così all’assalto della città, che tra il 19 e il 20 novembre riuscirono a liberare.


La cittadinanza veronese – pare in realtà spinta a ciò soprattutto dal provveditore veneziano Andrea Donà – volle premiare i due condottieri, promettendo 10.000 ducati allo Sforza e 3.000 ad Erasmo (nel novembre 1441 quest’ultimo ancora reclamava quei soldi che non aveva mai effettivamente ricevuto). Il 24 novembre il Senato veneziano stanziò 15.000 ducati da distribuire tra le proprie schiere qualora avessero riportato la definitiva vittoria.L’esercito poteva ora marciare su Brescia e nei preparativi dell’impresa Erasmo si recò a Torbole per dirigere l’allestimento di una flotta sul Garda. Qui il 2 gennaio 1440 fu colpito da una emorragia cerebrale: fu portato per l’Adige fino a Verona e poi a Padova dove giunse il successivo 26 gennaio; il 15 febbraio era in cura ai bagni di Montegrotto; poi chiese licenza per trasferirsi a quelli di Petriolo, presso Siena.


Parve in un primo tempo riprendersi perché sembra fosse a Brescia nel luglio di quell’anno, poi una ripresa del male lo riportò a Petriolo, assistito dal medico padovano Giovanni Benedetti. Il 26 novembre 1440 il Senato veneziano gli assegnò 1.000 ducati annui di provvisione (in caso di guarigione avrebbe ripreso la capitaneria) e, di fronte alle maggiori richieste che Erasmo subito avanzò, gli accordò, per il 1441, e per un solo anno, la metà del soldo che gli sarebbe spettato se fosse rimasto in servizio.


Il 4 aprile 1441, in considerazione dei suoi meriti, otteneva una nuova condotta per l’anno corrente e per un altro anno di “rispetto” con 450 lance e 350 fanti e uno stipendio mensile di 250 ducati. La concessione era più che altro di riguardo: se Erasmo, come risultava peraltro evidente che sarebbe stato, non avesse prestato effettivamente servizio nell’anno corrente, nel successivo avrebbe avuto solo un vitalizio di 1.000 ducati. Se avesse invece recuperato le forze fisiche e ripreso il servizio avrebbe avuto una nuova condotta di 2.000 cavalli e 400 fanti, con 500 ducati al mese di stipendio.


Il 30 giugno 1441 Erasmo dettò il proprio testamento nella sua casa padovana di via del Duomo. Lasciava erede universale il figlio Gianantonio e indicava la sua volontà di essere tumulato in una cappella da erigersi nella chiesa del Santo a Padova; i suoi esecutori testamentari, la moglie Giacoma, Gentile da Leonessa e il suo cancelliere Michele da Foce, avrebbero potuto spendere per ciò da 500 a 700 ducati d’oro (la cappella fu poi costruita solo undici anni dopo la sua morte).


Il 16 novembre 1441 Venezia confermò a Erasmo la condotta, per l’anno di “rispetto” (dal 1º gennaio 1442), con la sola provvisione vitalizia di 1.000 ducati e 500 fanti.Poi Erasmo preferì mutare gli accordi, volendo favorire Gentile da Leonessa – suo vecchio compagno d’armi e parente, non perché fratello della moglie, come afferma l’Eroli, ma perché sposo di una nipote di questa – e il figlio Gianantonio, e chiese che il rinnovo della ferma venisse questa volta compiuto a loro nome, conservando lui il solo titolo di capitano generale. Il desiderio fu esaudito solo il 9 febbraio 1443. Le compagnie dei “gatteschi” – tale rimase il loro nome anche dopo la morte di Erasmo -sarebbero poi state inserite dalla Repubblica veneta nel 1456, morto Gentile nel 1450 e inabilitato da una grave ferita Gianantonio, tra le “lanze spezzate” con il nome ufficiale di Società di S. Marco.


E. morì a Padova il 16 gennaio 1443.


Nell’occasione dei suoi funerali padovani Venezia stanziò 250 ducati. Fu Lauro Querini a tenere l’orazione funebre (in un rito successivo, sempre a Padova, fu Giovanni Pontano, bergamasco, a declamarla), mentre pare accertato, contro la testimonianza di Marin Sanuto che afferma essere stata la Serenissima a provvedervi, che la famosa statua equestre raffigurante Erasmo, ancora oggi di fronte alla basilica padovana di S. Antonio, sia stata commissionata a Donatello – che la terminò nel 1453 – dal figlio Gianantonio, per 1650 ducati d’oro . L’Eroli riporta anche la notizia di un’opera pittorica del Mantegna dedicata alla morte di Erasmo.


Monumento equestre, quello di Donatello, in cui l’artista fiorentino si ispirò sia a Marco Aurelio, sia al Regisole di Pavia, attualizzandole: ad esempio, rispetto agli originali romani, introdusse le staffe o sostituì, per dare l’idea del trotto, il cagnolino della statua lombarda con una più moderna palla di cannone.


Il cavallo, ispirato a quelli di San Marco e che le malelingue venete identificarono on quello con cui Erasmo era solito fuggire dalle battaglie, appare orgoglioso e selvaggio: eppure il condottiero domina l’animale con calma sovranità, senza fatica apparente, come testimonia la mano leggera che non ha bisogno nemmeno di tirare le redini. Il messaggio che si trasmette allo spettatore è quello della vittoria del Gattamelata, che è la vittoria di un uomo grazie alla sua intelligenza.


Per testimoniare l’amore della cultura di Erasmo, Donatello gli fa indossare un’armatura all’antica: al contempo, Gttamelata avanza a volto scoperto: la presenza di un elmo a coprirne i lineamenti avrebbe reso il guerriero nulla più di una macchina da guerra, governata da una volontà superiore come quella divina caratterizzante il Medioevo. Il suo volto concentrato esprime invece la determinazione di chi affronta la battaglia seguendo uno schema mentale vittorioso perché lungamente meditato.


Volto, che pur idealizzato, è un ritratto di Erasmo, ispirato a una delle tante medaglie che Venezia fece coniare in suo onore: un uomo esperto, che tanto ha visto nella Vita, che nulla teme grazie alla sua razionalità e integrità morale…


 


 

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Published on July 08, 2018 07:36

Leonardo disegna Pavia


di Giovanni Giovannetti



Quale cavallo di battaglia per indurre lo sciame di Expo a visitare anche Pavia oltre alla Certosa, ora si ipotizzano le necrofile ceneri di Colombo (Cristoforo). E i cavalli di Leonardo da Vinci? Sanno i pavesi che parte del vinciano Manoscritto B fu vergato a Pavia? Sanno i nostri pubblici amministratori e in Università che a Milano, Parigi e Londra si conservano leonardeschi disegni su Regisole, chiese, castello e altro dal territorio pavese? Pare di no. E dire che di tutto questo si dà notizia in numerosi studi vinciani, e a Pavia già ne scrisse nel 1911 Edmondo Solmi cui fra gli altri ha fatto eco, nel 1995, Gianni Carlo Sciolla.





Nel 1490 Leonardo da Vinci soggiornò alcuni giorni a Pavia, per poi tornarvi ripetutamente, l’ultima volta nel 1513. Accompagnato dall’architetto senese Francesco di Giorgio Martini, l’8 giugno 1490 Leonardo era in visita ai lavori del nuovo…


841 altre parole

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Published on July 08, 2018 07:11

July 7, 2018

Il signor Grande Cthulhu

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Un breve raccontino satirico, ispirato alle italiche vicende di questi mesi. Come sempre riferimenti a persone ed eventi sono puramente casuali e non voluti

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Published on July 07, 2018 12:47

July 6, 2018

Hoc habeo quodcumque dedi


Pochi lo sanno, ma il buon D’Annunzio compose, tra il 1886 e il 1927, tre poesie in dialetto pescarese: La purchetta d’oro (o A Giacumìne Acerbe), 1927; A Galdine Sabatine, 1926; Alla sorella Anna, 1886.


Cosa che spiazza un poco, visto che il Vate è associato a una poesia alquanto aulica, ma che in realtà, è in linea con la sua sperimentazione linguistica e con buona parte della sua produzione in prosa, in cui uno dei fili conduttori è anche l’amor per la sua terra.


Basti pensare a Terra Vergine e nelle Novelle della Pescara in cui celebra il fiume e i suoi paesaggi dei luoghi in cui ha trascorso; nella Figlia di Iorio, ambientata nella Maiella, il cui secondo atto si svolge nella Grotta del Cavallone a Lama dei Peligni; nella Fiaccola sotto il Moggio, che ha come scenario le Gole del Sagittario e Anversa degli Abruzzi; nel Trionfo della Morte, ambientato a San Vito Chietino e sulla Costa dei Trabocchi e dove è presente una bellissima descrizione dell’abbazia di San Clemente a Casauria.


Così, quasi per gioco, mi diverto a mostrare anche questo lato, poco noto, di D’Annunzio, che in modi alquanto inaspettati, tende spesso a fare capolino nei miei romanzi… Comincio da il Trionfo della Morte. Per chi non se lo ricordasse, è un suo romanzo del 1894: racconta di Giorgio Aurispa, un giovane abruzzese di Guardiagrele, paesino della Maiella; come il Vate, Giorgio è colto e raffinato e ha abbandonato il paese natìo per trasferirsi a Roma, scevro da qualsiasi impiego, grazie all’eredità lasciatagli dalla morte del suicida zio Demetrio. Intesse una relazione con una donna sposata, Ippolita

Sanzio, che deciderà poi di abbandonare il marito in favore del protagonista.


Giorgio, però, è inquieto e decide di tornarsene in vacanza a casa: non l’avesse mai fatto !!! Trova la famiglia a ramengo, con il padre che si sta mangiando tutto a prostitute… In più, con la puzza sotto al naso, dovuta alla sua frequentazione dell’Urbe, fa pure lo scandalizzato dinanzi agli usi e costumi dei suoi compaesani, che considera incivili e superstiziosi. Della serie, bestie vi ho lasciato, trogloditi v’ho ritrovato.


Alla fine, mica scemo, lascia la Maiella per andarsene a bisbocciare con l’amante al mare; una persona comune si sarebbe goduto le ferie, ma dato che in quel momento D’Annunzio era ubriaco di Nietzsche, invece di far passare il tempo a Giorgio tra pennichelle, bagni, arrosticini e fritture di pesce, lo rende campione mondiale di onanismo mentale. Così, mentre il nostro eroe, si fa la punta al cervello sulla vita ancora pastorale e primitiva abruzzese, la sua amante Ippolita invece ne è affascinata, specialmente quando assiste ad un esorcismo di una bambina.


Così Giorgio diventa sempre più irrequieto e malinconico, e la sua follia esplode durante un pellegrinaggio alla Madonna dei Miracoli di Casalbordino, dove assiste anziché ad uno scenario di carità cristiana, ad uno spettacolo macabro di malati e poveracci in condizioni disumane. Poiché Ippolita si è mostrata molto meravigliata e attratta dalla vita pastorale locale, Giorgio vede distrutti il suo rapporto ed equilibrio, decidendo il suicidio assieme alla sua amata.


Nonostante questa trama da pessima telenovela sud americana, nel Trionfo della Morte, quando parla del suo Abruzzo, il Vate raggiunge picchi di straordinaria bellezza, specie quando parla del Trabocco del Turchino.


Per chi non fosse amante della pesca, il trabocco è un’imponente costruzione realizzata in legno strutturale che consta di una piattaforma protesa sul mare ancorata alla roccia da grossi tronchi di pino d’Aleppo, dalla quale si allungano, sospesi a qualche metro dall’acqua, due (o più) lunghi bracci, detti antenne, che sostengono un’enorme rete a maglie strette detta trabocchetto; quello di punta Turchino, posto costa di San Vito, situato in località Portelle, è tra i più belli esistenti.


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Così lo descrive il Vate


Trovò l’Eremo a San Vito, nel paese delle ginestre, su l’Adriatico. Trovò l’Eremo ideale: una casa construita in un pianoro, a mezzo del colle, tra gli aranci e gli olivi, affacciata su una piccola baia che chiudevano due promontorii.


Era una casa d’una architettura primitiva. Una scala scoperta saliva a una loggia su cui si aprivano le quattro porte delle quattro uniche stanze. Ciascuna stanza aveva quella porta e una finestra dalla parte opposta, a riscontro, guardante su l’oliveto. Alla loggia superiore corrispondeva una loggia inferiore; ma le stanze terrene, tranne una, erano inservibili. La casa confinava da un lato con un abituro basso dove stavano i contadini proprietarii. Due querci enormi, che la perseveranza del grecale aveva piegate verso il colle, ombreggiavano lo spiazzo, proteggevano certe mense di pietra adatte alle cene estive. Limitava lo spiazzo un parapetto anche di pietra, che superavano le robinie cariche di grappoli odorosi, delicate ed eleganti su lo sfondo del mare.


La casa non ad altro serviva che ad albergare forestieri nella stagione dei bagni, secondo l’industria comune del contado di San Vito, lungo la costa. Distava circa due miglia dal borgo, all’estremo confine d’una contrada detta delle Portelle, in una solitudine raccolta e benigna come un grembo. Ciascuno dei due promontorii era traforato; e si scorgevano dalla casa le aperture delle due gallerie. La strada ferrata correva dall’una all’altra, in prossimità del lido, per una lunghezza di cinque o sei cento metri, in linea retta. Dall’estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli, si protendeva un Trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale.


Per poi continuare la sua sinfonia di immagini e suoni con un


La macchina pareva vivere di una vita propria, avere un’aria e un’effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava le sue fibre….. si sfaldava, si consumava, si faceva candido come un tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce, acquistava una impronta distinta come quella d’una persona su cui la vecchiaia e la sofferenza avessero compiuta la loro opera crudele


E finire con l’assolo finale


Alle estremità forcute delle quattro antenne pendevano le carrucole con i canapi corrispondenti agli angoli della rete quadrata. Altri canapi passavano per le carrucole in cima a travi minori; fin negli scogli  più lontani eran conficcati pali a sostegno de cordami di rinforzo; innumerevoli assicelle erano inchiodate su per i tronchi a confortarne i punti deboli. La lunga e pertinace lotta contro la furia e l’insidia del flutto pareva scritta su la gran cassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quelli ordigni. La macchina pareva vivere d’una vita propria, avere un’aria e un’effigie di corpo animato.


Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e tutti i suoi nocchi, rivelava tutte le particolarità resistenti della sua struttura, si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce, acquistava un carattere e una significazione cui la vecchiaia e la sofferenza avesser compiuta la loro opera crudele. L’argano strideva girando per l’impulso delle quattro leve; e tutta la macchina tremava e scricchiolava allo sforzo, la vasta rete emergendo a poco a poco su dalla profondità verde con un luccichio aurino


Sempre ne il Trionfo della Morte, come accennavo, vi è la descrizione dell’abbazia di San Clemente a Casauria, una delle più belle e affascinanti d’Abruzzo,costruita dall’imperatore Ludovico II, pronipote di Carlo Magno, nell’871 a causa di un voto fatto durante la sua prigionia nel ducato di Benevento. Inizialmente dedicata alla Santissima Trinità, fu poi intitolata a san Clemente quando, nell’872, vi si traslarono i suoi resti.


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Così, possiamo goderci il lusso di un D’Annunzio, in versione guida turistica


E si ricordò dell’abbazia di San Clemente a Casauria, veduta in un giorno lontano dell’adolescenza; e si ricordò di averla veduta in compagnia di Demetrio. Come tutti i ricordi legati all’immagine del consanguineo, anche quello era lucido e preciso quasi fosse del giorno innanzi. Bastò ch’egli gli raccogliesse per rivivere quell’ora, per risuscitare i fantasmi di tutte le sensazioni. – Scendevano, egli e Demetrio, giù per un tratturo verso l’abbazia che ancora gli alberi nascondevano. Una calma infinita era intorno, su i luoghi solitari e grandiosi, su quell’ampia via d’erbe e di pietre deserta, ineguale, come stampata d’orme gigantesche, tacita, la ci origine si perdeva nel mistero delle montagne lontane e sacre.


Un sentimento di santità primitiva eravi ancor diffuso, quasi che d recente l’erbe e le pietre fossero state premute da una lunga migrazione di greggi patriarcali cercanti l’orizzonte marittimo. In fondo, nel piano, appariva la basilica: quasi una rovina. Tutto il suo a torno era ingombro di macerie e di sterpi; frammenti di pietra scolpita erano ammucchiati contro i pilastri; da tutte le fenditure pendevano erbe selvagge; costruzioni recenti, di mattone e di calce, chiudevano le ampie aperture delle arcate di fianco; le porte cadevano. E una compagnia di pellegrini meriggiava nell’atrio bestialmente, sotto il nobilissimo portico eretto dal magnifico Leonate.


Ma quei tre archi, intatti, sorgevano di su i capitelli diversi con una eleganza così altera e il sole di settembre dava a quella dolce pietra bionda un’apparenza così preziosa che ambedue, egli e Demetrio, sentivano d’essere al cospetto d’una sovrana bellezza. Infatti, come più la loro contemplazione diveniva attenta, l’armonia composta da quelle linee diveniva più chiara e più pura; e a poco a poco da quel non mai veduto accordo audace d’archi a tutto sesto, d’archi acuti e d’archi a ferro di cavallo e da quelle sagome, da quei fregi varissimi degli archivolti, dai rombi, dalle losanghe, dalle palme, dalle rosette ricorrenti, dai fogliami sinuosi, dai mostri simbolici, da tutte le particolarità dell’opera, andavasi rivelando per gli occhi allo spirito l’unica assoluta legge ritmica, che le grandi masse e i piccoli ornati concordemente seguivano.


E la segreta forza di quel ritmo era tale che riusciva infine a vincere tutte le discordanze circostanti e a dare la visione fantastica della intera opera quale era sorta nel secolo XII, per l’alta volontà dell’abate Leonate, in un’isola fertile abbracciata e nutrita da un fiume possente. Ambedue portavano quella visione allontanandosi. Era di settembre; e il paese a torno in quella morte dell’estate aveva un aspetto misto di grazia e di severità, quasi una rispondenza occulta con lo spirito del monumento cristiano. Cingevano la valle quieta due corone: la prima di colli tutti a vigne e ad olivi, la seconda di rocce nude ed aguzze.


Ed era nello spettacolo, secondo il detto di Demetrio, qualche cosa di simile al sentimento oscuro che anima quella tela di Leonardo, ove sopra un fondo di rupi desolate ride una donna affascinante. Ed anche, a rendere più acuta l’ambiguità che li turbava entrambi, sorgeva da una vigna remota un canto, preludio della vendemmia precoce; e dietro di loro rispondeva la litania dei pellegrini che riprendevano il viaggio. E le due cadenze, la sacra e la profana, si confondevano… Affascinato dal ricordo, il superstite non ebbe che un desiderio chimerico: tornare la giù, rivedere la basilica, occuparla per salvarla dalla ruina, restituirla nella bellezza primitiva, ristabilirvi il gran culto, dopo un così lungo intervallo di abbandono e di oblio rinnovellare il Chronicon casauriense. Non era quello, veramente, il più glorioso tempio della terra d’Abruzzi, edificato in un’isola del fiume padre, antichissima sede di potenza temporale e spirituale, centro d’una vasta e fiera vita per molti secoli? l’anima clementina vi permaneva ancora, profonda; e in quel lontano pomeriggio estivo


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Invece, in Terra Vergine, in cui D’Annunzio, all’epoca quotata firma nei gornali mondani e riviste letterarie (quali il «Fanfulla della Domenica», il «Capitan Fracassa», la «Tribuna» o la «Cronaca bizantina») per farsi un nome come letterato si mise a fare il verso a Verga, che all’epoca si vendeva come il pane, calcando il piede sul primitivo, ogni tanto appaiono piccole gemme, in cui il Vate mostra tutta l’amore per le sue radici, come in questa descrizione del fiume Pescara


Dall’umidità estuosa del terreno pullulava, scoppiava una forza giovine ed aspra di tronchi, di virgulti, di steli, simili a colonne di malachite, striscianti in basso, attorcigliantisi con spire di rettili, abbracciantisi in impeti di lotta per un’ occhiata di sole. Le orchidee gialle turchine vermiglie, i rosolacci sanguigni, i ranuncoli aurei screziavano tutta quella vivente verzura avida di umore; le edere, i caprifogli si slanciavano tra fusto e fusto, si stringevano in volute inestricabili d’intorno alle scorze; dai frutici chiusi le bacche pendevano a corimbi; ed era al vento una tempesta immensa, era come un respirare, un alenare di petti umani; e un effluvio agro di linfe si spandeva per l’ ombre; e in mezzo a quel trionfo di vita vegetativa squillavano altre due giovinezze, fremevano altri amori, passavano Fiora e Tulespre inseguendosi a precipizio verso la Pescara. Giunsero in fondo, per mezzo alle fratte, ai bronchi, alle ortiche, ai canneti, con le vesti lacere, con mani e piedi sanguinanti, con i polmoni dilatati, tutti in sudore: un buffo di polviscolo acqueo li spruzzò d’improvviso. Il fiume là innanzi si frangeva contro i massi in un nembo di schiuma, in un meraviglioso nembo di bianchezza e di freschezza, sotto l’aridità disperata della montagna battuta dal solleone; l’acqua irrompente si apriva mille vie attraverso la pietra, tumultuava contro gli argini, spariva sotto a uno strato d’erbe secche facendolo, palpitare come il ventre di un anfibio sommerso, riappariva gorgogliante fra i giunchi, tumultuava ancora. Nelle rocce di sopra, a picco, non un filo di verde, non un lembo di ombra: erto, come solcate da arterie di argento, terribilmente belle ed ignude incontro al cielo


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Stessa cosa in Prima Vere, dove invece imitava Carducci, dove però ricordava con malinconia la pineta dove è cresciuto


“Ah sì, le calme de’l tuo ciel divine

mi fecero poeta,

i sorrisi d’un mar senza confine

là tra la mia pineta:

tra la pineta mia dov’ho passati

i momenti più belli,

dove ho goduto i miei sogni dorati

e i canti de gli uccelli


Sentimenti che ci rendono D’Annunzio più vicino e umano..

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Published on July 06, 2018 13:36

July 5, 2018

Rileggendo Frazer

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Il buon vecchio Frazer ne “Il ramo d’oro” analizzava tre fasi distinte di costruzione sociale della verità nella storia umana, ponendole in successione cronologica:la prima è la Magia, in cui l’Uomo vuole manipolare la Natura, con delle leggi che, pur dotate di una forte logica interna, su una falsa concezione di regolarità dei processi di causa-effetto.


La seconda è la Religione, in cui la manipolazione degli eventi e dei fenomeni viene attribuita ad esseri superiori e divinità e dove l’Uomo perde il potere sulla realtà circostante, affidandosi al volere divino, tentando attraverso diverse pratiche di accattivarsene la simpatia e il favore.


La terza e l’ultima è la Scienza, a cui Frazer assegna il ruolo di una alternativa valida ai fini conoscitivi, fondata sull’uso del metodo scientifico e della stratificazione delle conoscenze acquisite storicamente, attraverso meccanismi di corroborazione e confutazione.


Un approccio evoluzionista, figlio del Positivismo, che è stato spernacchiato in ogni dove, ma che in fondo non è così scemo: sotto molti aspetto il pensiero magico è alla base del nostro approccio al Reale.


Pensiamo ai bambini: è comune tra loro la credenza che, con il pensiero si possa influire sulla realtà, sino a determinarla, gestendo e contenendo così le loro ansie e paure. Crescendo, a questo approccio diviene strumentale: al pensiero si sostituiscono le azioni e gli oggetti; però in angolo, continuiamo ad avere necessità di credenze che riducano la complessità percepita del Reale, che abbiano un ruolo terapeutico nell’esorcizzare lo smarrimento dovuto a eventi inquietanti e insoliti e che rafforzino, nei momenti di difficoltà, il tessuto sociale, che altrimenti rischierebbe di sfilacciarsi.


Questo è il senso del Sacro, ben descritto da Durkheim… E tutto, in fondo, nasce dal fatto che ciò che chiamiamo Ragione, non è che l’inviluppo di tanti piccoli meccanismi euristici, stratagemmi computazionali, frutto casuale dell’evoluzione che servono a semplificare la nostra visione del Mondo e a rendere semplice e veloce il prendere una decisioni, a cui cerchiamo, per costruirci un’identità, a dare un apparente senso compiuto…


E Pensieri Magici, Religiosi e Scientifici di Frazer non sono che sottoinsiemi, più o meno strutturati, di tali euristiche, che coesistono e collaborano nella nostra mente, aiutandoci assieme a tirare avanti ogni giorno

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Published on July 05, 2018 14:13

July 4, 2018

Gaudenzio Ferrari

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E’ difficile parlare di Gaudenzio Ferrari: per molti è l’antesignano del realismo lombardo, centrato sull’attenzione al dato ottico, sulla narrazione della complessità del sentimento e alla mutevole esperienza del divenire, che raggiungerà il suo culmine con il Caravaggio.


Eppure racchiuderlo in questa nicchia, senza dubbio nobile e fondata, è forse un fargli un gran torto: Gaudenzio è un qualcosa di un abile e curioso trascrittore del Reale: è un pittore colto, capace di gestire un’ampia bottega e di rimettersi continuamente in discussione, adeguando il suo linguaggio alle esigenze di una committenza, varia quanto la vita, capace di andare dal vivace e immaginifico fra Cipolla di provincia al raffinato, ma barboso nobile milanese, illuso di somigliare a un hidalgo spagnolo.


Benché la sua arte sia tanto figlia della Natura, quanto della Cultura, nella sua lunga carriera si confronterà creativamente con il Bramantino, con la sovrabbondante cricca dei leonardeschi lombardi, con il Quattrocento toscano e umbro, con Tiziano e i suoi discepoli, chiamarlo protomanierista è come definire la Luna un satellite come tanti; cosa che è sicuramente vera e incontestabile, ma che gli toglie gran parte della sua suggestiva poesia.


Gaudenzio è un Giano bifronte: da una parte guarda a quello che il buon Huizinga definiva l’Autunno del Medioevo. Per lui, come diceva il gran fiammingo


L’arte, in quei tempi, è ancora strettamente connessa con la vita e la vita si svolge secondo norme salde. Essa riceve ordine e ritmo dai sacramenti della Chiesa, dalle feste dell’anno e dalle ore canoniche. Lavoro e gioia hanno la loro forma determinata: religione, cavalleria e amor cortese forniscono le forme più importanti della vita. È compito dell’arte di adornare di bellezza le forme in cui si svolge la vita. Ciò che si cerca, non è l’arte per se stessa, ma la vita bella. Non è come in tempi posteriori, quando si evade da una routine quotidiana, per trovare conforto ed elevazione nella solitaria contemplazione delle opere d’arte; l’arte viene, al contrario, inserita nella vita stessa, per dar a questa un maggior splendore. Essa è destinata a partecipare ai momenti culminanti della vita, agli slanci sublimi della pietà, come al superbo godimento dei piaceri del mondo


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E per adornare la vita, insegue il sogno dell’arte totale, mischiando linguaggi e per usare una parolona cara a noi moderni, media differenti dalla pittura alla scultura; per ribadire l’universalità del suo linguaggio, nelle sue macchine sceniche mischia, l’uno accanto all’altro, il gozzuto (figura molto diffusa nelle vallate alpine) e la nobildonna, il valligiano e il ricco mercante , l’anziano sdentato e il cavaliere.


Perché in fondo, e questa è la sua straordinaria modernità, che lo proietta ben oltre il Rinascimento, è fermamente convinto che tutto il Mondo sia Teatro e che ognuno di noi reciti, con maggiore o minore talento, una parte, assegnata a caso. Dimensione teatrale che non si vede solo nel Sacro Monte di Varallo, in cui domina la scultura, ma anche nella cupola di Saronno, in cui invece regna la pittura.


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Gaudenzio, nella città dell’amaretto, non fa che catturare un istante, rendendolo eterno, di un “Miracolo”, uno di quei tanti spettacoli teatrali a tema sacro, che all’epoca andavano tanto di moda nella Pianura Padana, in cui il soggetto prendeva spunto dai temi dell’Annunciazione, della Caduta degli angeli ribelli, dell’Assunzione.


In queste rappresentazioni venivano calate dall’alto complesse macchine a forma di nuvole che trasportavano i personaggi sacri della rappresentazione, il Cristo o la Madonna, verso l’alto, accompagnati da canti e musiche eseguite da musicisti, vestiti da angeli, che apparivano improvvisamente durante la rappresentazione, quando il drappo appeso sotto la cupola si squarciava, lasciando a bocca aperta gli spettatori. Un esempio, che continua sino ad oggi, è il rito della Nivola nel Duomo di Milano.



Per catturare questo stupore, Gaudenzio costruisce un vortice di figure, in cui la statua della Beata Vergine posta sul bordo del tamburo della cupola e affiancata da due puttini e quella del Dio Padre, con le braccia aperte, posto al centro della cupola, non sono che ancelle di un concerto angelico, accentuandolo con una serie di effetti speciali, basati sul colore, che vanno dalla pura macchia quasi disapore impressionistico a uno sfumato che modella le forme, dalle leggere velature dei volti, definiti a tratteggio, alla pennellata densa e corposa dei manti.


Gioca poi con colori squillanti, spesso tra loro complementari, in cui spiccano differenti tonalità di bianco per creare un più intensa luminosità.Infine Gaudenzio, forse memore di Pinturiccho applica la foglia d’oro con spessori di cera agli strumenti di ottone, alle aureole, alle bordure e ai ricami delle vesti e dei mantelli; una pratica costante nei suoi affreschi, e decora a pastiglia i tamburi, gli organi e gli antifonari.


E noi rimaniamo a bocca aperta, drogati dal colore e non vorremmo mai smettere di guardare…


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Piccola nota a margine, dedicata ai tanti musicisti de Le danze di Piazza Vittorio: Gaudenzio Ferrari fu anche un abile suonatore di lira da braccio, l’antenata della lira calabrese e di liuto, come ci tramanda Giovan Paolo Lomazzo, nel suo Tempio della pittura (1590).


Nella cupola di Saronno l’artista non si limita ad enumerare, come in una sorta di catalogo, tutti gli strumenti in uso al suo tempo, insieme ad altri scaturiti dalla sua fantasia, ma li dipinge con esattezza filologica tanto nella loro rappresentazione quanto nel modo in cui venivano suonati.


Di quelli allora conosciuti non ne manca nessuno: dall’alpenhorn (corno delle Alpi), all’altobasso; dall’arpa alla bombarda; dai cimballini (o piccoli piatti), alla cornamusa; dal cornetto, al flauto (dolce e traverso); dal flauto di Pan (o siringa), alla ghironda; dalla lira da braccio, al liuto; dalla nyastaranga, all’organo portativo; dalla ribeca , alla viella; dal salterio (o cetra), al tamburo e al tamburello; dai timpani, al triangolo; dalla tromba, alla viola.


Cosa curiosa, in nessuno di essi sono disegnate le corde, per simboleggiare come la musica trascenda i limiti dei mezzi di noi miseri umani…

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Published on July 04, 2018 12:45

July 3, 2018

A Pescara nel Cinquecento

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Il 5 novembre del 1574, Padre Serafino Razzi nel suo libro “I viaggi in Abruzzo” descrive così la sua vacanza pescarese…


Alli 5 di Novembre, detta la Santa Messa, ci partimmo da civita di Chieti, e cen’andammo per la via del monte, e più lunga e più fallareccia, ma più ariosa e più asciutta verso la nominata fortezza, e Marchesato di Pescara, posta su la foce di detto fiume, e su la marina, quasi propugnacolo, a difesa di tutto l’Abruzzi. Sono da Chieti a Pescara intorno a otto miglia. E’ Pescara una fortezza, fatta a disegno militare, e di mura e di sito quasi inespugnabile, bagnandola da un lato, anzi partendola per mezzo il rapidissimo detto fiume da cui ella tiene il nome, e da un’altra il mare. E se ben ella è del marchese di lei e del Vasto, il presidio non di meno è di spagnuoli. E per esservi l’aere cattivo, non è abitata per la maggior parte, se non da forestieri, che ci vengono d’altre provincie, e ci guadagnano assai quando ci stanno sani per la commodità del mare.


Da questa fortezza – che deve essere di giro circa mezzo miglio, che vien divisa dal predetto fiume in due parti e dall’una delle quali si passa all’altra da un ponte stretto di legno -, havendo bevuto fuori a una osteria, e vedute alcune barche e navili che levavano botti d’olio, partimmo verso civita Sant’Angelo. E pigliando il viaggio accanto alla marina, per quattro o vero cinque miglia di pianura fino alla foce del fiume Salina, havemmo dilettevole andare.


Imperocchè pascevamo gli occhi di vaga verdura di mortella, e di pini selvatichi, che facevano quasi festoni alla riva del mare. Pascevasi ancora il gusto con la dolcezza della legorizia, che assai copiosa nasce in quella riviera, e ne portammo alcune grosse radici con noi, né ci fu malagevole di haverle, essendo state da uno aratore col vomero nel campo scoperte. L’udito parimente egli ancora havea l’atto suo secondo, e la operazione o sensazione, con ciò fosse cosa che il mare alquanto sdegnoso, con le sue spumose onde percotendo il litto si faceva da noi con non molto molesto mormorio.


Insomma, nulla di nuovo sotto il sole..

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Published on July 03, 2018 00:51

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
Alessio Brugnoli isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
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