Alessio Brugnoli's Blog, page 136

September 20, 2018

Tutti a Poli


Oggi si festeggia Sant’Eustachio, la cui leggenda, affascinante e assai nota, è di fatto un mix di tre componenti differenti: un martirio, in cui si è assai romanzata una probabile base storica, una complessa vicenda di ielle familiari, derivata da una novella indiana, di ispirazione buddista, cristianizzata alla male e peggio e la vicenda della conversione, che drammatizzava un elemento comune dell’iconografia cristiana dei primi secoli, ossia il cervo, visto come simbolo del Cristo che combatte il demonio, a seguito della credenza, alimentata da molti scrittori dell’antichità, che il cervo fosse un avversario implacabile del serpente, metafora del Tentatore. cui darebbe la caccia stanandolo ed uccidendolo.


A testimonianza che le Storie sono più longeve e forti dei Fatti, da questa leggenda ne sono nate altre, tra cui quella che vuole Matera, che venera Eustachio come protettore, liberata dall’assedio saraceno grazie all’intervento miracoloso di Eustachio e dei suoi famigliari in veste di cavalieri.


Leggenda che questo fine settimana si celebra a Poli, luogo dei miei romanzi, con la festa dell’Ospitalità, quando ogni vicolo fa a gara per offrire ai visitatori ogni genere di cibo: festa che nasce dall’antica istituzione della Fiera di Sant’Eustachio, chiesta alla Camera Apostolica dal Duca di Poli Lotario II Conti e da suo figlio Torquato II Conti, il condottiero amico di Wallenstein, noto come il Diavolo della Pomerania, per la sua passione nel mettere a ferro e fuoco i villaggi di quella regione, Duca di Guadagnolo e concessa con diploma del cardinale Ippolito Aldobrandini, datato 20 maggio 1633.


La Fiera (che si svolse fino alla prima metà del 1800, poi sospesa sotto gli Sforza-Cesarini e i Torlonia,fu ripristinata nel 1894) era allietata da gare di lotta e di corsa e da corse di cavalli ed i premi consistevano in tessuti di damasco di vari colori, guarniti d’oro e d’argento. I Duchi di Poli usavano nominare il Cancelliere ed i l Governatore della Fiera, i quali dovevano farne osservare gli Statuti, composti di 32 articoli.


Di seguito il programma di quest’anno


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Ovviamente, Le danze di Piazza Vittorio non perderanno l’occasione di fare una bella gita, la prima delle tante mission folk, per scoprire e valorizzare la cultura e la musica popolare, di quest’anno



 

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Published on September 20, 2018 11:22

September 19, 2018

Alt! Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!




Come accennavo parlando del Congestion Charge, Stefanò e la Raggi non si sono si sono inventati nulla con il pedaggio d’accesso al centro storico: nell’Urbe infatti, dal V secolo in poi, per chiunque entrasse nelle porte delle mura Aureliane era d’uopo pagare un adeguato obolo… E dato che l’idea delle privatizzazione come panacea di tutti i mali della cattiva amministrazione è antica quanto Romolo, per lunghi periodi, la sua riscossione era affidata i qualche ricco possidente o appaltatore. In un documento del 1467 è riportato un bando che specifica le modalità di vendita all’asta delle porte cittadine per un periodo di un anno. Da un documento del 1474 salta invece fuori come il prezzo d’appalto per la porta Asinaria fosse pari a


”fiorini 74, sollidi 19, den. 6 per sextaria” (“rata semestrale”)


Si trattava di un prezzo abbastanza alto, e alto doveva quindi essere anche il traffico cittadino per quel passaggio, per poter assicurare un congruo guadagno all’appaltatore. Guadagno che era regolamentato da precise tabelle che riguardavano la tariffa di ogni tipo di merce e di viaggiatore, ma che era abbondantemente arrotondato da abusi di vario genere, a giudicare dalla quantità di gride, editti e minacce che venivano emessi.


Per cui, per ovviare alle continue lamentele dei contribuenti, il Papa Re da Sisto V in poi cominciò un progressivo processo di ristatalizzazione della riscossione dei pedaggio, estremamente lento a causa dell’opposizione, attiva e passiva, dei Conservatori, la magistratura deputata alla gestione economica e dell’ordine pubblico cittadini.


Opposizione dovuta non solo alle consistenti tangenti legate alla gestione degli appalti sulla riscossione dei pedaggi, ma soprattutto a motivi intrinsechi alla natura di tale carica. L’elezione a Conservatore attribuiva automaticamente alla famiglia dell’eletto il rango della nobiltà municipale o civica romana, quella che Paolo Giovio definì come nobiltà della seconda squadra, le le cui entrate sin dal XIV secolo, derivavano quasi esclusivamente dall’esercizio del bovattiere ossia dell’allevatore di bestiame o del mercante di campagna, dall’appalto delle gabelle, dalla mercatura e dal prestito di denaro o del lucroso commercio dei tessuti. Statalizzare la gestione dei pedaggi, quindi, significava attaccare la base economica del loro ceto sociale di provenienza.


Per cui tale processo terminò solo nel 1738, un decreto di Clemente XII. Il compito di esigere il pedaggio fu affidato alla la Dogana di Terra, presso Piazza Colonna, la quale, oltre a gestire l’apertura e la chiusura delle porte e l’esenzione dell’obolo ai viaggiatori a piedi, imponeva l’obbligo per corrieri e conducenti di portare tutte le merci in Dogana per i controlli di rito.


Per quanto venisse sancito che il principio


“tutti debbono pagare la gabella”,


molti erano gli esentati: i Cardinali, il Tribunale del Santo Offizio e vari Ordini ecclesiastici. Per cui il romano medio, sfruttava tali eccezioni, con una serie di biechi trucchi, false dichiarazioni e travestimenti per non pagare il dovuto.


Il Papa Re, conoscendo bene i suoi sudditi, per ricondurli sulle retta via, deliberò e soprattutto applicò una serie di poco simpatiche sanzioni. Qualora i vettori non presentassero al Ministro Custode delle Dogane le proprie vetture,con il carico di merci e viaggiatori, venivano puniti con tre tratti di corda, con la confisca delle merci e del mezzo di trasporto e con una penalità in denaro. L’infedele dichiarazione era sanzionata con una multa di cento scudi e le false attestazioni dei funzionari doganali con tre tratti di corda da subire in pubblico. In più, introdusse il meccanismo della delazione, adottato per facilitare la scoperta di casi di contrabbando, mancato pedaggio o di corruzione, da effettuarsi entro 24 ore dal fatto. Al segreto accusatore era destinato un premio di cento scudi….


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Published on September 19, 2018 06:31

September 18, 2018

Bilanci e buoni propositi

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Stavolta, poche immagini per l’ultima suonata di questa estate de Le danze di Piazza Vittorio: la colpa è ahimè del sottoscritto che, invece di scattare foto e girare video, ha passato la serata in call di lavoro, a insultare e blandire fornitori, per avere sconti.


Per cui, piuttosto che raccontare emozioni, per una volta sarò più noioso dedicandomi al tracciare bilanci e a parlare di progetti futuri.


Sul primo tema, c’è poco da dire. Le sonate di quest’anno, un viaggio tra gli strumenti musicali, alla ricerca delle radici che accomunano popoli e culture, ben oltre le apparenti differenze. Un viaggio che ci ha permesso di ritrovare vecchi amici e di scoprirne di nuovi e che ci ha reso più saggi e forse, almeno spero, meno ignoranti.


Ci ha fatto scoprire l’eleganza del flauto e della chitarra battente, la natura popolare del violino, l’energia della danza sud americana, le origini antiche della lira calabrese, l’infinita varietà di forme del tamburello e della zampogna…


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Sul secondo, beh, la macchina sta per partire. A breve cominceranno i laboratori invernali, l’ultimo mercoledì e venerdì di settembre (il 26 a Diritti al Cuore e il 28 alla Di Donato) faremo due serate di presentazione…


Già, perché quest’anno si raddoppia: oltre al tradizionale venerdì sera esquilino nella ben nota scuola i via Bixio, i laboratori si terranno anche il mercoledì sera, a via Federico Borromeo 75, zona Primavalle, nella sede di Diritti al cuore.


Per chi non la conoscesse, Diritti al cuore è una è una Onlus indipendente e autofinanziata, a carattere apartìtico e laica, che lavora per l’affermazione dei Diritti Umani, organizzando e promuovendo una serie di progetti in Italia e in Senegal, attraverso una rete solidale di volontari, finalizzati a migliorare le condizioni igienico sanitarie, sociali ed economiche nei paesi in via di sviluppo.


Da noi, invece, sono volti soprattutto alla formazione e informazione su tematiche quali la nonviolenza, la non discriminazione, i diritti umani, le migrazioni, la libera informazione e la cooperazione.


In particolare, tra i progetti che l’Associazione promuove in Senegal vi sono: il sostegno a distanza dei bambini di Camberene (Dakar) e il progetto Fatou studia, sostegno scolastico a studentesse di medicina ed infermieristica.


In Italia, invece porta avanti il il progetto Salute migrante, per garantire assistenza sanitaria a persone disagiate a Roma, inclusi i migranti transitanti e stanziali che si ritrovano senza assistenza. Insomma, sono nostri grandi amici e compagni di viaggio, che perseguono, con strumenti diversi, gli stessi scopi de Le danze di piazza Vittorio, riconducibili tutti in fondo al principio


L’Utopia non è un sogno, ma un obiettivo a portata di mano… Basta rimboccarsi le maniche..



Nella loro sede, oltre ai laboratori di tamburello e danze, proprio per esaltare questa dimensione di dialogo, ci sarà anche quello di Tamburi dal Mondo, tenuto buon Sherif Fares, che prima o poi ci spiegherà bene tutte le varianti di questo nobile strumento.


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Sempre il 26 sera, nella Sala Giuseppina nel Palazzo del Freddo di Giovanni Fassi, comincerà anche la nostra attività di presentazione di libri, con l’evento PULP non vuole morire, in cui non solo si presenterà una delle più vivaci e provocatorie riviste di letteratura italiane, ma sarà anche l’occasione di incontrare Luca Briasco e Paolo Simonetti, gran tifoso della Roma…


Entrambi sono tra i massimi esperti letteratura americana e più in generale del panorama editoriale italiano di oggi… Chi verrà non assisterà a una barbosa autocelebrazione, tornerà a casa con molti suggerimenti di letture, tanti titoli e parecchi nomi di autori e soprattutto con la voglia di sperimentare e di rimettersi in discussione…


Infine, alla faccia dei maligni e dei superbi, ricominceremo a lavorare ai progetti di street art, dedicati sia al completamento della facciata del Nuovo Mercato Esquilino e il recupero urbano di via Cappellini, senza curarci di menzogne e di meschini intrighi…


Perché noi, agli sproloqui, preferiamo i fatti, figli del continuo e faticoso impegno nel quotidiano…

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Published on September 18, 2018 14:56

September 17, 2018

La sonata della zampogna


Domani sera, nei giardini di Piazza Vittorio, dalle 19.00 sino a quando non saremo cacciati dalla vigilanza, ci sarà la nostra ultima sonata di questa estate, dedicata a uno strumento tanto affascinante, quanto sottovalutato, la zampogna. Strumento che ha una storia antichissima: ad esempio, In uno dei suoi Epigrammi, Marziale (40 ca, 104 d.C.), utilizzando un vocabolo composto di derivazione greca, menziona l’ascaules Cano: «…credis hoc Prisce? / voce ut loquatur psittacus coturnicis / et concupiscat esse Canus ascaules?» [Epigr. 3, 10]. Il sostantivo ascaules indica sicuramente uno zampognaro. In

greco, ascos sta per sacco e aulos per piffero ad ancia.


Il biografo latino Svetonio (70 ca, 140 ca), nel De vita Cesarum [Nero, 54], scrive che Nerone «sub exitu quidem vitae palam voverat, si sibi incolumis status permansisset, proditurum se partae victoriae ludis etiam hydraulam et choraulam et utricularium». Quindi, Nerone (37-68 d.C.) era in grado di suonare tre strumenti, sapen­do fare l’utricularius (zampognaro), cioè il suonatore di utriculus (zampogna). Anche Dione di Prusa (40 ca, dopo il 112 [115?]), in un passo riferito allo stesso Nerone [Orat. LXXI, 9], afferma come l’imperatore sapesse suonare la tibia e contemporaneamente comprimere

col braccio un sacco.


Strumento che ho imparato ad apprezzare nel mio riavvicinarmi Calabria, che sotto molti aspetti, con tutta la sua varietà di panorami, di culture e di lingue, oltre ai tanti dialetti locali, vi si parla il greco, l’albanese e il provenzale, è un perfetto specchio di quel mondo complesso e complicato che è l’Italia. D’altra parte, sempre per fare l’erudito e citare l’Accademia della Crusca e le parole di Carla Marcato


Italia è un nome di tradizione classica, in origine con riferimento all’estremità meridionale della Calabria; si estende poi alla penisola con l’avanzarsi della conquista romana. La sanzione ufficiale del nome si ha con Ottaviano nel 42 a.C., mentre l’unione amministrativa con le isole si ha con Diocleziano ( diocesi italiciana). Nei secoli il nome rimane di tradizione dotta (l’evoluzione popolare del latino Italia sarebbe stato Itaglia, Idaglia, a seconda delle zone). L’origine del nome è discussa e incerta. Alcuni suppongono che derivi da una forma di origine osca e corrisponda a Viteliu accostato all’umbro vitluf ‘vitello’, latino vitulus. Per altri avrebbe il senso di “terra degli Itali”, popolo che avrebbe come totem il vitello (italos), perciò la denominazione si fonderebbe sull’uso antichissimo di divinizzare l’animale totem della tribù; oppure “il paese della tribù degli Itali”, nome totemistico da *witaloi ‘figli del toro’. Non mancano le interpretazioni leggendarie, come quella del principe Italo, l’eroe eponimo che avrebbe dominato il Sud della penisola. Vi è poi il mito secondo il quale Eracle, nell’attraversare l’Italia per condurre in Grecia il gregge di Gerione, perde un capo di bestiame e lo cerca affannosamente; avendo saputo che nella lingua indigena la bestia si chiama vitulus, chiama Outalía tutta la regione


Insomma, in fondo, l’Italia non è che una grande Calabria, con tutti i suoi pregi e difetti. E tale varietà, si rispecchia anche nell’ambito della forme che assume proprio la zampogna, la ciarameddha o ciarammeddhra o ciaramida a seconda dei dialetti, che è usata per suonare motivi pastorali, sonate a ballu, fanfarre o canti ad aria. Da quanto mi dicono, ma non escludo di essermene persa qualcuna, in Calabria sono presenti almeno cinque tipologie di zampogne, ognuna con uno sproposito di varianti.


Le più nordiche che conosco meno, credo di averle sentite di sfuggita solo un paio di volte, sono Zampogna a chiave calabro-lucana diffusa in tutta l’area del Pollino e la surdulina, diffusa nelle province di Catanzaro, Cosenza e Crotone e caratteristica in particolare delle comunità albanesi, che la chiamano karamunxïa. Questa zampogna, a sentire gli esperti, è di dimensioni medio-piccole con 4 canne (raramente 5 o 6) con ance semplici con taglio dall’alto verso il basso. Le due canne melodiche (destra e manca o due mamme o cornette) sono di forma cilindrica, hanno 4 fori e sono lunghe uguali. Ci sono poi due bordoni: maggiore (trombone, trummuni, bufi o scuordo) e minore (terzino, fischietto, frischiettu, scandrigli).


Scendendo verso sud, invece si incontra la Zampogna a chiave delle Serre, che prende il nome dalla chiave metallica presente nella canna melodica denominata sinistra. Originaria dell’area delle Serre Calabresi, nata nell’Ottocento e diffusa nella Provincia di Vibo Valentia, in gran parte della Provincia di Catanzaro, nella parte settentrionale della Provincia di Reggio Calabria e in una piccola area intorno a Rogliano in Provincia di Cosenza. Questa zampogna è uno strumento di grandi dimensioni (lungh. 80-120 cm) ad ancia doppia, con 5 canne, di cui 4 coniche con campana e 1 cilindrica priva di campana

(bordone maggiore). Le canne melodiche sono fra loro di diverse dimensioni; la destra ha 4 fori digitali anteriori + 1 posteriore (alto), la sinistra ha 4 fori anteriori, di cui l’ultimo, distanziato dagli altri, viene azionato da una chiave metallica. Ambedue hanno fori di intonazione. I tre bordoni, di diverse misure sono, il minore e il medio, di dominante, il maggiore di tonica.



Infine, le ceramedde a paru e i ceramedde a moderna, tipiche di Reggio e della Grecanica. La zampogna a paru si chiama così per le due canne di canto di eguale lunghezza. Ha 4 o 5 canne, di cui 3-4 coniche con campana e 1 cilindrica priva di campana (bordone maggiore). Le canne melodiche sono fra loro di identiche dimensioni; la destra ha 4 fori digitali anteriori + 1 posteriore (alto), la sinistra ha 4 fori anteriori. Ambedue hanno vari fori di intonazione. I 2-3 bordoni di dominante sono di diverse misure


La zampogna a moderna, si distingue, invece, per le due canne di canto di differente lunghezza, cioè, la canna sinistra è più lunga della canna destra. Tale tipo di strumento nasce nell’Ottocento e viene definita a moderna per differenziarla dalla già esistente zampogna a paru; è anche probabile che sia stata così battezzata dai suonatori dell’area della Bovesia (Bova). Anche questa ha tre bordoni: basso “u zumbaco”, medio “a quarta“, acuto “u cardiddu”. L’accordatura cambia a secondo dei paesi. I suonatori di Bova e della vallata dell’Amendolea accordano il bordone basso in tonica, e gli atri bordoni (medio e acuto) in dominante, mentre nei paesi di Staiti, Pressocito, Brancaleone, Razzà di Brancaleone, e anche Cardeto i bordoni sono accordati tutti in dominante come nella zampogna a paru.


Oltre a queste, in Calabria vi sono tipologie meno diffuse, come la Stifette e le Cornette nell’area di Mesoraca, in Provincia di Crotone e i Terzaroli nell’area di diffusione della Zampogna a chiave delle Serre.Il legno usato nelle zampogne calabresi è l’Erika Arborea (bruvera) per i fusi delle canne, mentre per le campane si usano il Gelso, il melo, l’albicocco, mandorlo e vari alberi da frutto. La costruzione tradizionale avviene tramite tornio a balestra, dotato di un meccanismo a pedale, mentre per l’otre si utilizza utilizzata la pelle di una capretta di meno di un anno, mai figliata, in quanto la pelle offre migliori prestazioni ed affidabilità. Per estrarla intera, si ricorre a pastori o macellai esperti, quindi si tosa la peluria, si mette sotto sale per un certo tempo (concia) e poi si rivolta. E in Grecanica esiste anche una sorta di Stradivari delle zampogne, Lorenzo Trapani, “u turnaru”, che ai primi dell’Ottocento le costruiva col tornio a pedale nella sua abitazione di campagna in contrada Sporiscena nel comune di Roghùdi… Insomma, se volete approfondire la conoscenza di questo fascinoso strumento, ci vediamo tutti domani sera…

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Published on September 17, 2018 08:34

Pirro Ligorio e il Tempio di Minerva Medica

Esquilino's Weblog



Immagine 1: Pirro Ligorio – IL Tempio di Minerva Medica e la Schola Medicorum


Templum Minervae Medicae, altramente detto Pantheum. Fu dove oggidì è detto l’edificio delle Galluzze, di forma decagona, vicino de la via Praenestina, a man sinistra, nell’andare alla porta chiamata Maggiore della città, come si vede nel disegno impiedi posto nella Roma stampata. Lo quale tempio i moderni scrittori tirati dalla poca diligenza l’hanno posto per la Basilica di Caio e di Lucio, lo quale era nel Foro Boario, talché l’hanno poste le cose dell’oriente nell’occidentale sito della città. Ma per tacere le loro sciocchezze, diremo come Antonino Pio fu l’autore d’esso tempio, come si trova nella medaglia e nella sua vita, e quivi fu accanto la Schola de’ Medici, cioè la Schola Medicorum, dalla quale fu tolta la imagine di Aesculapio e posta nell’atrio Palatino da Marco Comodo imperatore



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Published on September 17, 2018 08:04

September 16, 2018

Congestion Charge alla matriciana

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Qualche settimana fa, si è parlato a Roma di reintrodurre, come ai tempi del Papa Re, il cosiddetto Congestion Charge, il pedaggio per entrare, dal lunedì al a venerdì, in orario di ufficio, con i mezzi di trasporto privati nel Centro Storico, che avrebbe riguardato un’area di circa 30 chilometri quadrati nella zona dell’anello ferroviario, la zona ZTL, circa 500 mila abitanti e oltre 450 mila veicoli.


Per entrare in centro con la propria auto, moto o scooter, ci sarebbero stati 21 punti di accesso, tra cui Lungotevere Vittoria, Via Gregorio VII, Trastevere, Piazza Risorgimento, Piazza Mazzini, Cristoforo Colombo, Piramide, via Marsala e Porta Pia.


Per quanto riguarda i costi si proponeva di un pedaggio di 2 euro per ogni ingresso, variabile in base al tipo di veicolo e alle funzioni: i più inquinanti avrebbero pagato di più, mentre sarebbero stati agevolati i residenti, le auto elettriche e ibride, quelle con almeno 3 persone a bordo – per favorire il carpooling.


Discussione che come spesso accade nella Roma della Raggi, dove le chiacchiere sembrano essere più importanti dei fatti, è scoppiata come una bolla di sapone: dinanzi alla paura di trovarsi sotto casa gli automobilisti romani con forconi, corda e sapone, i consiglieri comunali grillini hanno fatto melina, costringendo la giunta a ritirare la delibera.


L’ennesima figura da cioccolatari od occasione perduta, fate voi. Premesso che, avendo per scelta personale rinunciato alla dittatura dell’automobile, per cui il Congestion Charge alla matriciana mi impatta poco, però lo ritengo uno strumento utile, su cui discutere, e da implementare con gli opportuni accorgimenti.


Tra l’altro, essendo il Congestion Charge in giro dal 1975, quando fu adottato da Singapore, di dati a disposizione per valutare la bontà della scelta ce ne sono in abbondanza. In particolare, in Europa abbiamo diverse esperienze concrete:



Durham, Regno Unito: congestion charge su piccola scala (2002)
Londra, la pìù famosa, Regno Unito: congestion charge (2003)
Stoccolma, Svezia: Congestion Tax (2006)
Valletta, Malta (2007)
Milano, Italia: Area C (2012), evoluzione della “pollution charge” Ecopass (2008)
Gothenburg, Svezia (2013; revocata nel settembre 2014)
 In Norvegia, non è presente una vera e propria congestion charge, ma alcune misure di pedaggio stradale nelle città presentano analogie con la congestion charge

Paradossalmente, almeno in Gran Bretagna e in Nord Europa, l’adozione della congestion charge ha ben poco a che vedere con la salute dei cittadini e con l’inquinamento e molto con le finanze statali. La La principale motivazione che sta alla base della congestion charge è l’internalizzazione dei costi esterni . Il Dipartimento Britannico per i Trasporti ha stimato che circa metà dei chilometri percorsi nel Regno Unito hanno dei costi esterni marginali al di sotto dei 5 penny,mentre guidare nelle aree più congestionate del Regno Unito porta a costi marginali esterni estremamente alti e pari ad almeno 2.5

sterline per chilometro. Le imposte generali sui carburanti e sui veicoli non riescono a compensare questi costi esterni.


Ma quali sono gli impatti dell’introduzione di tale pedaggio?


Il primo, abbastanza banale, riguarda il traffico in entrata all’interno dell’area coinvolta dalle misure di pedaggio, che diminuisce sensibilmente: Il 21% a Londra, 28.5% a Milano e 29% a Stoccolma, con il picco del 85% a Durham. Valletta ha registrato un aumento del 34% delle soste “brevi” delle auto e una diminuzione del 60% delle soste “lunghe”. Al contempo, vi è un aumento della velocità del trasporto pubblico durante l’ora di punta associato a un incremento del loro utilizzo : per esempio a Milano, il caso peggiore, del 7% per i bus e 4% per i tram, mentre il numero degli utenti del trasporto pubblico è

incrementato del 12% sui trasporti di superficie e del 17%


Ovviamente, ciò ha causato una diminuzione degli incidenti automobilistici, sempre prendendo a riferimento la città meneghina, questi sono calati del 28% e un effetto paradossale. Per il minore numero di ingorghi e la maggiore disponibilità di parcheggi, il traffico tra i punti interni alla congestion area, specie nelle aree urbane più estese, è aumentato: sospetto, conoscendo la pigrizia di noi quiriti, che tale fenomeno di verifichi anche nella Città Eterna.


Ora, una delle critiche alla Congestion Charge, ossia l’aumento del traffico nelle aree esterne alla zona soggetta a pedaggio, si è dimostrato parzialmente infondato: dipende molto dalla struttura urbanistica della città. Nella maggior parte dei casi non si è verificato: l’eccezione è stata Gothenburg, in cui il problema è stato così drammatico, da provocare la revocare la revoca del provvedimento.. Personalmente ho che Roma, per motivi storici, rischi di avere problemi analoghi alla città svedese.


Il secondo, riguarda la salute pubblica: studi sugli effetti ambientali della congestion charge mostrano risultati contrastanti, ma in ogni caso sono state rilevate significative riduzioni delle emissioni di inquinanti atmosferici a Milano (CO2 -35% e PM10 -18%), a Londra (CO2 e PM10 -12%) e Stoccolma (PM10 -18%).


Il terzo, la gentrificazione dei centri storici: nonostante le paure dei commercianti, l’impatto della congestion charge sulle loro attività è stato neutrale. Questo perché, per come impostata, la congestion charge è una flat tax regressiva e ciò significa che i gruppi a basso reddito pagano una percentuale molto più alta del loro reddito rispetto ai più ricchi. Per cui le aree soggette a pedaggio si svuotano progressivamente dagli abitanti più poveri che vengono in parte sostituiti da nuovi arrivati a maggior reddito. I commercianti hanno così meno clienti, ma a maggior propensione alla spesa…


Nel caso di applicazione a Roma, nel caso non siano previste una serie di misure a favore dei residenti più poveri, la congestion charge potrebbe avere impatti abbastanza pesanti sull’Esquilino.


Partendo dall’esperienza di Londra, numerosi studi hanno mostrato che per rendere efficace l’implementazione della congestion charge servono: una forte volontà politica, coinvolgimento dei cittadini nel processo decisionale, nel miglioramento del trasporto pubblico e integrazione tariffaria, anche adottando le soluzioni tecnologiche del modello smart city… Tutte cose di cui, purtroppo, la Roma grillina è assai carente…

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Published on September 16, 2018 10:39

September 15, 2018

Il mausoleo di Centcelles

 








Alla morte di Costantino, nel maggio 337, l’impero fu sottoposto a una sorta di pseudo tetrarchia, essendo il potere suddiviso tra i tre figli dell’imperatore e suo nipote Flavio Dalmazio. Costantino II, regnava sulla parte occidentale dell’impero, meno Italia e Africa che erano sotto il controllo di Costante I, Flavio Dalmazio, aveva ricevuto la Grecia, e Costanzo II, a cui toccò la parte orientale.


Nel frattempo l’esercito, col beneplacito dei figli di Costantino, mise in atto una purga che eliminò tutti i membri maschi della dinastia, compreso Dalmazio, che potevano insidiare il potere di Costantino, Costanzo e Costante. I tre divennero imperatori il 9 settembre 337; l’elezione ad augusti avvenne in Pannonia, in un incontro in cui i tre fratelli si spartirono l’eredità del padre: Costantino II mantenne il territorio che aveva governato in qualità di cesare da Treviri, mentre Costante e Costanzo si spartirono il territorio di Dalmazio. Oltre alla Gallia, alla Britannia, alla Spagna e a parte dell’Africa, Costantino

ricevette anche la tutela sul giovanissimo fratello Costante


La situazione degenerò assai rapidamente: Costantino II, essendo l’augusto più anziano, pretendeva di coordinare l’amministrazione dell’Impero, cosa contestata da Costanzo II, che ne rifiutava, data il suo essere figlio illegittimo, la potestas. In più Costantino II considerava il fratello Costante un colossale idiota, buono più a fare il pecoraio, che l’imperatore e per limitarne le bislacche iniziative, cominciò a promulgare alcune leggi per le province africane, che cadevano sotto la giurisdizione di Costante, che non la prese molto bene,


I rapporti tra i due raggiunsero presto il punto di rottura: così nel 340 Costantino II invase l’Italia, imitando il padre nella sua marcia su Roma. Stavolta però, si trovò davanti dei generali assai più esperti di Massenzio, i quali, in attesa che Costante e Costanzo II intervenissero contro il ribelle, decisero di rallentarlo con la tecnica della guerriglia, con attacchi mordi e fuggi e rapide imboscate: in una di queste, nei pressi di Cervenianum all’inizio del mese di aprile, fu ucciso anche lo stesso Costantino II


Costante, dopo essersi autoproclamato, con parecchio ottimismo, Maximus Victor ac Triumphator, avere guerreggiato contro i Franchi e essere sbarcato in Britannia, per domare un moto secessionista dei dei seguaci di Costantino II, cominciò a litigare anche con Costanzo II, ufficialmente per motivi religiosi.Costante era seguace delle dottrine proclamate dal concilio di Nicea, mentre Costanzo II era filo ariano. In più, diciamola tutta, l’opinione di Costantino II sul fratello era purtroppo per l’Impero, fondata: benché Costante fosse un dignitoso generale, mostrava un profondo disprezzo per i suoi soldati.


Bisex, era famoso per gli eccessi dissoluti, tali da scandalizzare la società romana dell’epoca, tutt’altro che bigotta. In più, era di quei tizi, prodighi con se stessi e assai avari con gli altri. A questi difetti, che lo rendevano poco amato, si sommarono sia una corruzione imperante nell’amministrazione, sia una profonda crisi economica.Insomma, sarebbe bastata una scintilla per fare scoppiare l’incendio: scintilla che arrivò in maniera assai bizzarra.


Magnenzio, un laetus, uno dei barbari che avevano ricevuto il permesso di insediarsi sul territorio imperiale, ricevendo la proprietà delle zone occupate, in cambio dell’impegno a fornire reclute per l’esercito romano, residente in Gallia, era diventato comes (“comandante”) delle legioni degli Herculiani e degli Ioviani, due unità che fungevano da guardia del corpo dell’imperatore Costante I.


Nel 18 gennaio 350 Marcellino, comes rerum privatarum di Costante, una sorta di ministro delle finanze, organizzò una festa in occasione del compleanno dei propri figli, alla quale invitò molti dei funzionari e degli ufficiali superiori presenti in città. Durante la festa, Magnenzio finse di interpretare una rappresentazione teatrale, e si rivestì degli indumenti imperiali, facendosi chiamare augusto (imperatore) dagli ufficiali presenti. Le truppe presenti, sentendo le acclamazioni dei propri ufficiali, credettero che i comandanti stessero organizzando un colpo di Stato contro Costante, e sostennero

l’elevazione di Magnenzio a imperatore


Magnenzio, applicando il principio del dato che siamo in ballo, balliamo, accettò la proclamazione e ordinò la morte di Costante, il quale, a caccia presso Autun,visto la mala parata, si diede alla fuga, dietto verso la Spagna.Fu però raggiunto da Gaisone, generale di Magnenzio, che lo scovò nascosto in una chiesa ad oppidum Helena, una località dei Pirenei il cui nome era dedicato alla nonna di Costante, Elena, lo trascinò fuori dall’edificio e lo sgozzò.



Molti studiosi sostengono che sia stato sepolto nel mausoleo tardo-antico costruito nella villa di Centcelles presso Tarragona, luogo che, nonostante settanta e più anni di scavi, continua a fare discutere gli studiosi. Villa che, dopo una fase repubblicana poco nota, fu eretta nel I secolo d.C. come nucleo di un’azienda agraria al servizio di un ampio latifondo, di cui rimane solo la pars fructuaria , destinata alla lavorazione dei prodotti e alla loro conservazione nei dolia. Nel III secolo il complesso fu rinnovato, per poi essere abbandonato alla fine di quel secolo o all’inizio del successivo.


Nel IV secolo, in piena età tetrarchica il complesso fu completamente rinnovato, ridisponendolo in direzione est-ovest al di sopra delle strutture precedenti; il complesso tardo-imperiale aveva una facciata di 90 m e una pianta rettangolare includeva la zona termale e due sale coperte a cupola. La zona termale era collegata a un complesso di stanze insistenti su di una corte interna, a oriente della quale vi sono due sale a cupola, una quadrilobata, l’altra circolare.


All’improvviso, il progetto cambiò: a una delle due sale a cupola (diametro 10,70 m, altezza 13,60 m) fu aggiunta una cripta e la sala fu convertita a mausoleo (è questa l’unica delle due sale conservatasi), il complesso termale non fu terminato, ma fu sostituito in seguito con un complesso più piccolo. Tutto questo fa pensare come inizialmente fosse dedicato a un personaggio di notevole importanza, di

religione pagana, morto all’improvviso… Alcuni studiosi ipotizzino si tratti di Costanzo Cloro, il papà di Costantino e nonno di Costante, ma manca qualsiasi evidenza sia archeologica, sia documentale. Per di più è quasi certo che sia stato sepolto a Treviri



In epoca costantiniana, però, il mausoleo fu terminato e cristianizzato, tramite la decorazione interna, che a differenza degli altri mausolei tardo-antichi caratterizzati dall’uso dell’opus sectile marmoreo, era basata sulla pittura, che ricopriva le pareti, e sul mosaico, a cui era dedicata la cupola. Degli affreschi purtroppo, è rimasto assai poco: una scena di caccia, un ritratto femminile, alcuni edifici, forse i resti di una raffigurazione urbana. Frammenti che secondo alcuni rappresenterebbero scene della vita nella villa di Centcelles, mentre altri episodi della biografia del defunto.


Il rivestimento della cupola è costituito da mosaici policromi raffiguranti scene diverse distribuite in tre registri che corrono concentrici e un medaglione centrale, tutti separati da da motivi geometrici. La fascia inferiore riproduce una scena di caccia che si sviluppa senza soluzione di continuità, a partire da un gruppo di cacciatori assistiti da due servitori, raffigurati in corrispondenza dell’asse nord del monumento, fra cui spicca frontalmente un personaggio riconosciuto nel dominus, si svolgono due diverse sequenze narrative convergenti verso il lato sud, ove compare un complesso architettonico: sul lato est la caccia al cinghiale e il ritorno alla residenza, sul lato ovest una caccia a cavallo ai cervi.


La seconda fascia decorativa è invece costituita da una serie di scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, divise tra loro da colonne elicoidali, simili a quelle della pergola di San Pietro: in corrispondenza del dominus delle scene della caccia vi è l’immagine del Buon Pastore. Tra le scene rappresentate si riconoscono tre episodi relativi al ciclo di Giona (due corrispondenti a Giona gettato in mare e Giona in riposo sotto la pergola, quello centrale con ogni probabilità Giona rigettato dalla balena), una scena in cui forse si riconoscono i magi davanti ad Erode, Daniele nella fossa dei leoni, Adamo ed Eva, l’Arca di Noè, i tre fanciulli di Babilonia che rifiutano di adorare la statua di Nabucodonosor, la resurrezione di Lazzaro, i tre fanciulli nella fornace


La fascia più piccola è divisa in otto scene, di cui quattro raffiguranti le stagioni e quattro personaggi in trono, alcuni dei quali indossano vesti e decorazioni in oro e porpora, riservate agli imperatori. Per i sostenitori dell’ipotesi di Costante, i personaggi potrebbero rappresentare Costantino e i figli; altri studiosi, che si non si sbilanciano, limitandosi a parlare di un generico esponente della corte costantiniana. invece ipotizzano che si tratti un’allusione agli attributi del potere imperiale: auctoritas, potestas,imperium e iustitia.


Di ancora più complessa interpretazione è il padiglione centrale, di cui rimangono solo poche teste: potrebbe essere un’apoteosi dei Secondi Flavi, la rappresentazione del matrimonio del defunto oppure dell’esercizio delle sue funzioni giudiziarie e amministrative… In ogni caso, anche se mancano prove determinanti per attribuire il tutto a Costante, però vi sono fortissime somiglianze tra la decorazione di Centcelles e quella del mausoleo di Costantina a Roma…


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Decorazione in cui, oltre alle scene di vendemmia del deambulatorio e alle Traditio pacem e una Traditio clavium a san Pietro, rappresentate nelle nicchie, conservate sino ad oggi, vi erano i mosaici della cupola, di cui, grazie ai disegni e alle incisioni del portoghese Francisco de Hollanda, abbiamo, nonostante siano andati distrutti, un’idea abbastanza precisa. nel circolo più esterno era rappresentata una scena fluviale nella quale puttini pescavano in acque in cui pullulavano pesci e crostacei; dal fiume emergevano alcune isolette dalle quali si staccavano dei candelabri-cariatidi che raggiungevano a raggiera il clipeo centrale della cupola, decorato con un velario a conchiglia. Da questi candelabri si distaccavano alcuni racemi, che incorniciavano medaglioni disposti su due ordini circolari nei quali erano raffigurate storie dell’Antico e del Nuovo Testamento. Da sinistra a destra si riconosce Tobia accanto a una donna seminuda (forse Raffaele) che afferra un pesce tratto dal Tigri; la scena dell’incontro degli angeli con Lot, seduto davanti alla porta di Sodoma; Susanna e i vegliardi condannati dal profeta Daniele assiso sul tribunal; Caino con un fascio di spighe e Abele nell’atto di presentare le primizie a Dio.


La somiglianza dell’impostazione fa pensare che entrambi le decorazioni siano frutto di uno stesso gruppo di mosaicisti, forse di origine nord africana: per cui, anche se non si trattasse di Costante, il defunto doveva avere stretti rapporti con i Secondi Flavi…

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Published on September 15, 2018 12:23

September 12, 2018

La spada di Alì

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Grazie a Marco Ajello, che per una volta ha fatto spam di qualcosa di utile, condivido, sintetizzato, un interessante brano di Moreno Pedrinzani, dedicata a Zulfiqar, la spada di Ali, il quarto califfo dell’islam e genero e cugino di Maometto, dalle cui complesse vicende si è generato lo scisma tra sunniti e sciiti.


L’origine della spada è misteriosa, la sua forma è stata riportata solo oralmente, quindi la sua rappresentazione differisce secondo tradizione o fantasia, la cosa certa è che la sua lama era biforcuta. Cercherò di contestualizzare brevemente, l’epoca è quella della prima espansione dell’Islam. Ali era il cugino di Maometto. Il mercante Abd al-Muttalib ibn Hashim, capo tribale dei Banu Hashim, appartenente al clan dei coreisciti della Mecca, era infatti il nonno di entrambi.


La sua importanza è notevole dato che fu il primo uomo a convertirsi all’Islam, se pur ancora bambino e perché sposò Fatima, figlia di Maometto. Suo padre Abu Talib era il custode del santuario della Ka’ba della Mecca (dove si adorava una divinità pagana precedentemente all’Islam: Hubal l’arciere, un idolo di cornalina rossa dotato di un braccio d’oro, dalla cui faretra il sacerdote estraeva le frecce per praticare la belomanzia), la leggenda vuole che Ali nacque al suo interno. Ali era un soldato capace e seguì Maometto in tutte le sue battaglie come alfiere durante la sottomissione degli arabi all’Islam. Si dice che sconfisse in duello molti dei migliori guerrieri della penisola arabica, lo stesso Maometto lo considerava il più grande eroe di ogni tempo. Nel 624, durante la battaglia di Badr, contro i pagani, uccise da solo trentacinque nemici e altrettanti ne uccisero, tutti insieme, gli altri guerrieri suoi compagni.


L’anno seguente partecipò alla battaglia di Uhud, dove uccise l’alfiere dell’esercito pagano, Talhah, in duello, decapitandolo con un solo colpo. Lo stendardo fu raccolto da altri soldati, e Ali li uccise uno per uno. Si narra che la spada maneggiata da Ali arrivò a spaccare in due un coreiscita dalla testa fino all’inguine. In quest’occasione Maometto esclamò “Non v’è spada come Zulfiqar e non v’è eroe come ʿAli!”, frase che in seguito venne sovente incisa sulle spade islamiche.


Durante la battaglia di Khaybar, pur con un occhio affetto da un malanno (ma pare che Maometto ci aveva sputato sopra guarendolo miracolosamente) uccise un capotribù ebreo spaccandogli l’elmo, aprendogli in due la testa e parte del busto. Poi sradicò le porte del castello nemico e le utilizzò per creare una passerella atta a far attraversare il fossato dai suoi uomini.


Alla morte del Profeta si aprì il delicato capitolo della successione alla guida della nuova comunità dei musulmani. I seguaci di Ali ritenevano che solo coloro che erano discendenti del Profeta avessero diritto al ruolo di Califfo (ovvero di successore), quindi Ali, in quanto parente maschio più prossimo, avrebbe dovuto essere sia Califfo, quindi dotato di potere temporale, sia imam, ovvero rivestito di autorità in materia religiosa. Malgrado ciò, prevalse la linea maggioritaria che vide in Abu Bakr il successore legittimo. Egli era coetaneo e amico di Maometto, appartenente al clan coreiscita dei Banu Taym. Maometto, prima di morire, non aveva indicato un metodo di successione, la cosa venne quindi discussa e tra le proposte ci furono anche l’anzianità di conversione e la prossimità parentale, metodi che avrebbero fatto preferire Ali, sebbene alcuni ritenessero la conversione in minore età non giuridicamente vincolante. Mentre si teneva l’elezione del primo Califfo, Ali era impegnato nel comporre la salma di Maometto per la tumulazione, e fu avvertito della cosa solo in seguito. Molto contrariato, espresse il suo punto di vista e Abu Bakr lo punì negandogli l’eredità di due oasi, che erano patrimonio personale di Maometto, sue di diritto per averne sposato la figlia. Immediatamente, comunque, scoppiò la guerra della ridda, una sollevazione tribale di quei capi che, morto il Profeta, non si sentivano più in vincolo e sfuggirono dall’autorità appena affermatasi sull’intera umma islamica.


Altri due califfi si susseguirono. Alla morte di Otman, del clan coreiscita dei Banu Abd Shams, assassinato da una congiura di kufani che, per rivalità tribali, penetrarono nella sua casa, gli aprirono la testa e tagliarono le dita alla moglie che cercò di difenderlo, prese il potere Ali.


Il governatore della Siria, Muʿawiya (che l’aveva di recente conquistata durante la prima espansione dell’Islam), dello stesso clan di Otman, chiese che si facesse un’indagine chiara sull’assassinio del suo parente. Ali lo destituì da governatore e gli eserciti dei due capi tribali si scontrarono a Siffin, sulle rive dell’Eufrate, non lontano da Raqqa, nel 657. Prima di arrivare alla soluzione militare, Ali aveva chiesto un arbitrato, rifiutato dal suo avversario.


Più di duecentomila beduini si scontrarono sanguinosamente, ma i numeri della battaglia sono incerti. Le cose si misero male per Muʿawiya che, messo alle strette, si appellò alla legge coranica per chiedere quell’arbitrato prima rifiutato. Ali, pressato da alcuni suoi uomini, accettò. Da questo gesto di clemenza, o debolezza, nacque lo scisma kharigita, che non accettò la scelta dell’arbitrato, ma rivendicava il diritto di spazzare via i nemici.


Nota mia: l’arbitrato non aveva lo scopo di definire chi dovesse essere il Califfo, dato che per la legge islamica il ruolo di Alì non poteva essere rimesso in discussione, ma soltanto quello didichiarare “ingiusta” la morte del terzo califfo, configurandola non già come un atto di giustizia nel superiore interesse dell’Islam ma come vero e proprio assassinio, passibile di morte, come previsto dalle specifiche norme coraniche che prevedono una simile punizione per gli omicidi, gli apostati e gli adulteri conclamati.


Gli stessi kharigiti vennero schiacciati da Ali, che ne fece gran strage, ma nel 661 uno di questi lo ferì con una spada avvelenata mentre si dirigeva in moschea per pregare. Fu sepolto a Najaf, che è tutt’oggi una delle città sante dell’Iraq meridionale, luogo di pellegrinaggio che per gli sciiti ha una sacralità seconda solo alla Mecca.


Nota mia:Prima di morire, una tradizione sciita afferma che ʿAlī avrebbe nominato suo successore il suo primogenito al-Ḥasan b. ʿAlī ma questa tradizione viene decisamente smentita dalle fonti sunnite.


Il suo corpo fu inumato in una località segreta per evitare profanazioni da parte dei suoi nemici. Solo dopo molti anni, al tempo del califfo abbaside Hārūn al-Rashīd, la sua sepoltura sarebbe stata scoperta a Najaf, nei pressi di Kufa. In seguito a tale scoperta Najaf, a causa delle grande devozione goduta da ʿAlī nel mondo musulmano in generale e sciita in particolare, divenne la più importante città santa dello Sciismo dopo Mecca e Medina, residenza della massima autorità religiosa sciita d’Iraq e, nei secoli, luogo preferito di sepoltura per milioni di fedeli sciiti.


Ma da dove veniva questa magnifica spada di Ali? Le leggende si sommano ed offuscano la verità. Alcune tradizioni vogliono che fosse la spada di Maometto, ma da Ali custodita ed utilizzata in battaglia. Forse rinvenuta dal comune nonno dei due, Abd al-Muttalib, in fondo ad un pozzo. Altri dicono che era la spada utilizzata nei sacrifici di sangue nel culto triadico delle dee pre-islamiche Al-‘Uzza, Manat e Allat, sottratta da Maometto durante la sua profanazione e distruzione. Una tradizione molto fantasiosa la vuole forgiata da re David, che fu anch’esso profeta.


Il significato del suo nome è “quella che spacca in due la colonna vertebrale”, ma si intende anche come capace, in modo figurato, di dividere il bene dal male. È ricordata avere due punte, come la lingua di un serpente, alcuni dicono che le punte tendessero ad infilzare gli occhi del nemico.


La rappresentazione simbolica della spada a volte, specie in ambiente ottomano, divenne più simile ad una forbice, con due lame distinte ben separate, proprio a far riferimento ad una divisione di carattere teologico. La spada venne ereditata dai discendenti di Ali e finì per essere distrutta da Musa al-Hadi, un califfo abbaside dell’VIII secolo noto per la sua brutalità, che la spezzò mentre ne metteva alla prova le decantate capacità straordinarie. Da quel momento venne perduta.Oggi la spada dà nome ad un carrarmato iraniano, a gruppi terroristici, ad un’unità speciale bosniaca, un vero e proprio oggetto di culto sia tra gli sciiti che tra i sunniti.

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Published on September 12, 2018 08:39

September 11, 2018

Massenzio, l’amico dei cristiani







Diciamola tutta: se vi è un personaggio della storia ingiustamente spernacchiato, per l’umana attitudine a correre in soccorso del vincitore, è proprio Massenzio. Di fatto, la politica costantiniana non è che il riproporre in grande stile, con maggiore spregiudicatezza e disponibilità di risorse, le sue intuizioni. D’altra parte non poteva che essere così: Costantino era un generale provinciale, con una grande passione per l’omicidio e la tortura, acclamato imperatore dai suoi soldati, mentre Massenzio era un senatore, incline alla clemenza, scelto dal popolo di Roma.


Il primo sapeva uccidere, il secondo governare: cose che, da sole, non bastavano a mantenersi aggrappati al potere nell’Impero del IV secolo. Massenzio, pur convinto pagano, è di fatto, è il primo, nell’età tardo antica, a porsi il problema, dopo il fallimento delle persecuzioni di Diocleziano, di come integrare nello stato romano la complessa realtà del Cristianesimo


Non solo sospendendo, con un rescritto al praefectus urbis, le persecuzioni e restituendo i beni sottratti alla chiesa, ma inaugurando, a più livelli, una politica di pacificazione, articolata a più livelli. Per prima cosa, estendeva al cristianesimo la pax deorum, con tutti gli onori l’essere una religio licita, e tutti gli oneri, l’essere i vescovi considerati una sorta di funzionari imperiali, da rimuovere, come Marcello ed Eusebio, nel caso il loro comportamento turbasse la quiete pubblica e non soddisfacesse l’autorità imperiale.


A questo si sommava il suo interventismo nelle vicende ecclesiastiche, a volte, con le buone, a volte con le cattive, nel cercare una soluzione per l’annosa questione dei cristiani lapsi, ossia che avevano rinnegato la loro fede sotto Diocleziano. Perché, così come l’Impero, anche la Chiesa sarebbe dovuta essere unita.


Idee che Costantino seguì in maniera pedissequa: lo stesso vale per la seconda grande intuizione di Massenzio. I cristiani, per non sentirsi un corpo estraneo nello stato romano, dovevano essere integrati nel suo sistema di simboli. Per questo, il figlio di Massimiano fu il primo a coniare monete, in cui, con timidezza, appariva il simbolo della croce. E soprattutto, grazie ai grandi artisti che frequentavano la sua corte e condividevano il sogno di essere Conservator Urbis Suae, fu l’inventore dell’architettura cristiana.


Grazie al silenzio del Liber Pontificalis, ai bolli laterizi, alla presenza di numerose tombe di pretoriani equites singulares, corpi militari fedeli a Massenzio, cristiani, che Costantino, com’è noto, aveva abolito. e a un’approfondita analisi delle tecniche costruttive, è ormai appurato come Massenzio facesse costruire, dallo stesso architetto che sovraintendeva i lavori della sua villa, la chiesa di San Sebastiano, luogo che all’epoca aveva una valenza simbolica assai più forte dell’attuale.


Alla metà del III secolo nelle catacombe viene realizzata una “triclia”, una sorta di cortile di forma trapezoidale (23 x 18 metri) con pavimento in mattoni ed un grande porticato a pilastri dove 600 graffiti conservati sull’intonaco testimoniano quasi 70 anni di “refrigeria”. Le iscrizioni votive, in latino, greco, siriaco ed aramaico, risultano stilate in onore degli apostoli Pietro e Paolo: qui la tradizione, infatti, vuole che i corpi dei due apostoli fossero stati collocati nel 258, durante la persecuzione di Valeriano, per proteggerli da eventuali profanazioni e qui vi rimasero per 50 anni circa (tanto durò infatti la “Memoria Apostolorum”) prima di tornare rispettivamente nei propri sepolcri.


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Massenzio, quindi decise di erigere una “Basilica Apostolorum” per celebrare la sua pace con la chiesa di Roma, celebrandone i fondatori e preservando dalle intemperie un luogo a lor dedicato. L’architetto che affrontò la sfida dovette confrontarsi, nell’ideare una nuova tipologia di edificio, con una serie di esigenze inaspettate: da una parte, il triclia doveva rimanere almeno parzialmente, agibile, dall’altra, doveva essere ottimizzato al massimo il flusso e il deflusso degli eventuali pellegrini.


In più, dovendo mantenere continuità urbanistica e visiva con la vicina villa di Massenzio e richiamare in maniera simbolica, il suo ruolo di committente. L’architetto se la cavò in maniera geniale, inventando la cosiddetta basilica circiforme, in cui le navate laterali proseguivano formando un percorso semicircolare absidale, che ottimizzava l’accesso, la visione e l’uscita dal triclia. Inoltre, tale forma ricordava, suggerendo le opportune associazioni d’idee, il contiguo circo di Massenzio.


La Basilica Apostolorum era imponente: lunga 74 metri e larga 31, aveva tre navate divise da pilastri sormontati da archi. La copertura, secondo consuetudine, era affidata a semplici capriate lignee a vista.In più, sin dall’inizio, aveva anche un ruolo cimiteriale. Al suo fianco, infatti, vi era un mausoleo a pianta rotonda e a un’unica camera, quindi associato a un cristiano, la cui demolizione avvenne proprio al termine della costruzione della chiesa… Per cui è quasi impossibile capire a chi fosse dedicata


Costantino non solo copiò a mani basse tale struttura architettonica, replicandola a San Lorenzo al Verano, a Sant’Agnese, a San Marcellino e Pietro e Villa Gordiani. In più, a testimonianza del suo complesso di inferiorità nei confronti del cognato, appena fondata Costantinopoli fece anche lui erigere una sua Basilica Apostolorum.


In più, l’attribuzione definitiva a Massenzio di San Sebastiano e l’analisi delle tecniche costruttiva, sta facendo reintepretare i risultati degli scavi compiuti negli anni Novanta nel Titulus Marcelli. Sembra infatti che anche la primitiva chiesa paleocristiana sia stata fatta costruire dal figlio di Massimiano.


Ora scherzando, mi immagino una scena di questo tipo.


L’architetto di Massenzio che si guarda papa Milziade


“A zi’ prete, ma vuoi cristiani qui che ce dovreste da fa’ ? Sacrificà ‘na capra ar Dio vostro, ‘n’orgia o quarche cosa de ancora più strano”.


Papa Milziade, sospirando…


“In verità, noi svolgeremmo una cerimonia nella quale si commemorava e ripeteva una sorta di sobrio banchetto rituale”.


“Se magnà ?”


“Non proprio…”.


“Ho capito tutto, nun te preoccupà, c’ho avuto un’ideona…”.


Così l’architetto di Massenzio, ispirato allo stibadium, il triclinio ad aula absidata in cui si mangiava nei letti a forma circolare, che all’epoca andavano tanto di moda, si inventò la piante della chiesa che, ripresa da Costantino, in tutte le sue varianti ce la portiamo dietro sino ad oggi

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Published on September 11, 2018 14:06

September 10, 2018

L’Acqua Mariana

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Molti lo ignorano, ma Roma è una città ricca di acque, di fiumi e torrenti, tanto da non sfigurare per nulla dinanzi alla Milano dei Navigli. Alcuni, di questi corsi d’acqua, come il Tevere e l’Aniene, sono universalmente noti; altri come l’Almone, il Fiorano e la Magliana, sono sono conosciuti da pochi appassionati. Tantissimi, come il fosso di Centocelle, che scorreva dove adesso vi è la Palmiro Togliatti, sono stati interrati.


Uno di questi torrenti fantasma, che sino all’Unità di Italia aveva un’enorme importanza economica e che arrivava a costeggiare l’Esquilino, era l’Acqua Mariana, la Marrana per eccellenza, frutto dell’attivismo di Callisto II, papa poco noto, ma il cui attivismo è paragonabile a quello di Sisto V, che nel 1122 decise di di deviare parte del corso di un torrente, l’Aqua Cabra, l’attuale fosso di Tor Sapienza, che scorre nel Parco di Tor Tre Teste, in un condotto sotterraneo preesistente, appartenente all’antico acquedotto Claudio costruendo, uno sbarramento in muratura nei pressi di Morena.


Dopo circa un chilometro, il flusso d’acqua tornava a scorrere in superficie nei pressi della località Casalotto, per poi proseguire verso Roma, eclivio del crinale già utilizzato dagli antichi acquedotti (si tratta del grande spartiacque tra il bacino idrografico del Tevere e quello dell’Aniene), passando per la tenute del Casale della Marrana (di proprietà di S. Maria Nova), del Buonricovero e di Romavecchia, la Villa dei Quintili, dove formava un laghetto, da cui l’acqua defluiva, sfruttando un canale d’irrigazione dei tempi d’Adriano.


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Successivamente il canale passava nelle immediate vicinanze della Torre del Fiscale e della Torre del Quadraro, tuttora esistenti; all’altezza di Porta Furba, dove la dorsale del crinale si stringe di molto, determinando il ravvicinamento degli acquedotti antichi, dalla Marana si staccava una derivazione, detta Maranella, che si dirigeva verso la via Labicana per sfociare nell’Aniene a Ponte Nomentano, da cui prende il nome la famosa via di Tor Pignattara.


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Il canale principale della Marana continuava invece a scorrere ai piedi dei fornici degli acquedotti, utilizzando come letto un’antica strada di servizio e fornendo forza motrice a parecchi mulini (Mola de Supra, Mola Vexalla, ecc.), per poi percorrere la nostre via Mandrione e via Tuscolana, sino a Porta Asinara, formando un secondo laghetto e azionando ben quattro mulini, i cui resti sono stati trovati durante i lavori di costruzione della metro C.


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Eufrosino della Volpaia mostra poi che nel Cinquecento esisteva un ponte per far attraversare il fiume alla via Asinaria. Presso il lago fu infine eretta anche una chiesetta, S. Iacobus de Lacu, che è citata nel Catalogo di Torino del 1320: il luogo esatto della chiesa è probabilmente da individuarsi all’inizio dell’odierna via Appia Nuova. La Marana proseguiva il suo cammino per la nostra via Sannio ed entrava

in Roma a Porta Metronia. Questa porta, che sino ad allora doveva essere in funzione fu chiusa e trasformata in una sorta di varco fortificato per l’acqua. Un’incisione settecentesca mostra l’interno della Porta con la caratteristica inferriata posta sul canale della Marana, per evitare l’entrata in città di persone o di merci di contrabbando attraverso la via d’acqua.


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Varcata Porta Metronia, la Marana scendeva a valle tenendosi alle spalle di S. Sisto Vecchio, alimentando alti due mulino e giungendo nella Valle delle Camene, l’attuale sede di via delle Terme di Caracalla. Superato il monastero di S. Maria in Tempulo, la Marana proseguiva il suo decorso passando sotto l’arco trionfale del Circo Massimo; recenti indagini archeologiche hanno qui portato alla luce un muro in scaglie di marmo del XII secolo al di sopra del già citato speco costruito in età altomedioevale per far defluire al Tevere le acque della Marcia-Antoniniana. Dopo aver fornito forza motrice a un mulino (protetto dalla Torre Frangipane, non a caso conosciuta anche come Torre della Moletta), la Marana usciva dal Circo e finalmente, all’altezza di S. Maria in

Cosmedin (dove incontrava le ultime due mole), si gettava nel Tevere accanto alla Cloaca Massima.


Con la costruzione degli argini sul Tevere, l’ Acqua Mariana perse il suo sbocco sul fiume e venne convogliata nel collettore alto sinistro delle fogne romane, pur restando a futura memoria l’ arco tufaceo dell’ antico sbocco. Eppure la Marrana seguitava a scorrere, ma si temeva che potesse inondare i quartieri di nuova costruzione: per cui ne furono interrati lunghi tratti, finché dopo la sua inondazione del 1934 presso Porta Furba fu deciso di mutarne il corso. Finì prima nel collettore di via Tuscolana, poi nel 1957 venne immessa nel fiume Almone, poco oltre il casale di Roma Vecchia, all’ altezza della chiesa di S. Policarpo, diventando innocua. L’ultima sua inondazione fu infatti nel 1971, quando fece finire a mollo la tenuta Torlonia alla Caffarella

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Published on September 10, 2018 12:51

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
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