Andrea Viscusi's Blog: Unknown to Millions, page 23

February 4, 2019

Alessandro Forlani - T

Di Alessandro Forlani mi è già capitato di parlare in precedenza, e non so se in quelle occasioni l'ho detto, ma se anche fosse mi ripeto: a mio avviso Forlani è attualmente uno dei due migliori autori italiani di fantascienza in circolo oggi. Anche se in un certo senso è riduttivo definirlo "autore di fantascienza", e non perché, come dicono i critici veri nelle rubriche letterarie dei giornali seri, i suoi lavori "non sono solo fantascienza", ma più che altro perché nelle sue opere si trova una matassa indistricabile di fantascienza, horror, weird, satira, epica e probabilmente tanti altri generi che sono troppo ignorante io per recepire. Ammetto con serenità che Forlani batte con netto distacco tutti gli altri perché ha una cosa che a tutto il resto manca: una poetica. Tutti i suoi romanzi e racconti, anche quando parlano di cose completamente diverse e sono ambientate in universi narrativi differenti, esprimono un'unità di base di tematiche e una coerenza stilistica che non si ritrova altrove. E se ogni nuova storia sembra sempre costruire sulla base delle precedenti, con T si può pensare di essere arrivati al vero e proprio manifesto del forlanismo (ehi, l'ho detto io per primo, libri di letteratura futura, ho coniato io questo termine!).

Come tutte i lavori di Forlani, anche T è "scritto difficile", con una prosa che è quasi poesia, una cantilena continua e ipnotizzante (a me pare che le proposizioni siano sempre di otto sillabe, non so se lo fa apposta o gli escono da sole così, ma nel dubbio ne ho contate a decine e mi sono sempre tornate così), che accoppia tra di loro arcaicismi e neologismi, termini aulici da opertta morale e volgari bestemmie da derby del sabato pomeriggio. Se non si supera questo scoglio è impossibile goderne, ma dopo lo smarrimento iniziale ci si accorge che è estremamente facile seguire la scrittura e perdersi in questo fiume di parole sempre azzeccate. Ma anche volendo ignorare il valore estetico di della composizione c'è molto al di sotto, per cui partiamo dal titolo del libro e cerchiamo di capire che cosa significa quella lettera.
T sta innanzitutto per Thanatolia. Che è anche il titolo di una raccolta di racconti di diversi autori ambientata in un'ambientazione condivisa. Un setting fantasy sword&sorcery, dove si muovono necromanti, tombaroli, paladini e mostri di vario genere: Thanatolia è un intero continente adibito interamente a cimitero, dove secoli e secoli di tombe sono state riempite scavando nelle precedenti e prontamente saccheggiate. In T compare la stessa Thanatolia, ma stavolta non è un universo a parte: è diventata una simulazione condivisa, una specie di MMORPG a cui partecipano centinaia e centinaia di giocatori, non sempre volontari. Infatti, nell'Italia del 2030 circa raccontata da Forlani, la situazione economica è così disastrosa che l'unica via d'uscita per la disoccupazione giovanile è mettere le persone in stasi, addormentarle e collegarle al mondo virtuale insieme a tutti gli altri, dove potranno assumere l'identità che vogliono e passare anni e anni sotto le amorevoli cure di centri specializzati che si occupano di governare i loro corpi inermi. Certamente può sembrare una soluzione un po' estrema, ma è appunto del tutto coerente con la visione del mondo, e in particolare proprio dell'Italia, che da sempre Forlani ha proposto. Il governo dell'epoca ha volutamente emesso il Pointless Act proprio per creare una nicchia socio-ecologica a questo esercito di sfaccendati, e non è così difficile immaginare l'evolversi di certe forme di assistenzialismo attuali verso forme più perverse come questa. I protagonisti di T sono infatti tutti giovani. O meglio, sono ciò che si intende per "giovane" in quest'Italia del futuro: si parla in realtà di quarantenni o giù di lì, ma cresciuti e pasciuti in una società così flaccida che sono poco più che adolescenti nella loro concezione della vita, nei loro rapporti con gli altri, nel modo in cui affrontano le difficoltà.
T sta anche per Tempo determinato. Non solo in termini lavorativi, anche se questa è la prima e più evidente declinazione del termine. I "ragazzi" protagonisti cercano infatti di inserirsi in contesti di lavoro, ma ottengono soltanto pochi mesi di occupazione prima di essere rimandati da dove arrivano. Curriculum di venti pagine, lauree e lingue straniere, ottimo standing, capacità di relazione e hobby, tutto viene esaminato con una scrollata di spalle per poi passare avanti. E così i quarantenni bambini si trovano a non aver mai contribuito alla società, diventano inutili e passabili di Pointless Act. A un'analisi superficiale può sembrare un atteggiamento paternalistico, Forlani che si lamenta di una gioventù rammollita, incapace di prendere controllo della propria vita, ma non è così: è chiaro che i ragazzi sono a loro volta vittime di un sistema gerontocratico e clientelare (come in I senza-tempo ), che non valuta minimamente esperienze e competenze e che in fin dei conti non ha proprio bisogno di loro, non sa che farsene di carne nuova, dato che si è già esteso a tutti i capillari e ora non può fare altro che avviare la metastasi e cannibalizzare se stesso. Ma la temporaneità non si riferisce solo a questo, perché il senso di transitorietà si avverte in tutto: non c'è niente di stabile, niente di definito, nessun frame di riferimento sul quale basere un qualsivoglia sistema di valori. Paradossalmente, il mondo simulato di Thanatolia rappresenta quanto di più solido esista per tutti coloro che ne fanno parte. Ed è infatti su questo che si basa un punto cardine di tutta la trama: da un certo punto in poi, le diverse realtà iniziano a intersecarsi tra loro, a fondersi, con scorci di Thanatolia che compaiono nel nostro mondo postmoderno e echi di postcapitalismo nella lande cimiteriali di Thanatolia. I personaggi si trovano ad alternare senza rendersene conto tra un piano e l'altro, magia e tecnologia si contrappongono e si mescolano (come in Eleanor Cole ), e capire qual è la verità si fa difficile. È una sorta di Ubik, ma laddove Philip Dick avvisava "io sono vivo, voi siete morti", qui sono tutti morti, e allora di chi è la volontà che sta mettendo insieme questa realtà?

T sta forse anche per Teaser Trailer. Perché il futuro così vicino che ci aspetta è un'epoca in cui l'immaginazione funziona come un algoritmo. I protagonisti di T sono figli dell'era dell'intrattenimento invasivo, onnipresente, incessante. C'è anche un nucleo sovversivo tra questi personaggi, caratterizzati da una serie di particolari che portano a inquadrarli come "nerd". Ma non sono i nerd impacciati e autentici per i quali il termine è nato. Sono nerd consapevoli, autocompiacenti, che hanno abbracciato questa subcultura perché è diventata mainstream. Se un tempo certi generi di narrativa, i giochi di ruolo, alcuni tipi di film, erano considerati sanamente "di evasione", da cosa puoi evadere quando è il Sistema stesso a proporteli, e quindi ne fa la tua nuova gabbia nella quale ti rinchiudi da solo e ingoi la chiave? Sono quindi tutti valori fasulli, emozioni preconfezionate (come in Emoticonio ), storie a bivi che portano a un'unica conclusione. Per cui riprendendo l'accostamento di poco fa, T è come Ubik, se Dick fosse vissuto abbastanza da vedere World of Warcraft e partecipare al Comiccon di San Diego.

T potrebbe stare per Troppo Tardi. Da tutto quanto detto sopra, non rimane che concludere questo: non c'è niente che possiamo fare per salvarci. Lo scoprono un po' per volta tutti i protagonisti, anche quelli che cercano sulle prime di opporsi alle atrocità (di chi?) e si ritrovano poi ancora più in profondità nel meccanismo perverso di realtà nidificate. L'unico labile appiglio di speranza è dato dalla ragazza straniera, quella che è fuggita dalla guerra e pensava che in Italia avrebbe trovato una vita più facile e l'ha trovata davvero, ma capisce che questa leggerezza ha un prezzo, e non è disposta a pagarlo. La sua soluzione comunque è andarsene, abbandonare la lotta e tornare all'origine del male da cui era fuggita. La verità è che il Sistema (o forse Thanatolia) non ha bisogno di loro quanto loro hanno bisogno di Thanatolia (o del Sistema), e a ogni proposito di cambiare le cose la risposta è che no, non si può (come ne Il Grande Avvilente ).

T in realtà non sta per niente. È solo una lettera dell'alfabeto, una a caso, senza significato, senza scopo. Indifferente. Perché è a questo che si riduce tutto, alla fine: citando ancora Dick, se la realtà è quella cosa che continua a esistere quando smetti di crederci, allora che cosa rimane quando non hai mai creduto in nulla?

Siamo arrivati alla fase in cui concludo dicendo "compratelo e leggetelo". L'autore lo ha autopubblicato su Amazon per sua scelta, dopo aver avuto alcuni rifiuti da parte di vari editori. Però se devo essere onesto non credo che questo sia un romanzo che in effetti può essere letto da tutti in qualunque momento. Di sicuro non è il testo adatto con cui iniziare la lettura di Forlani. Consiglio piuttosto di leggere prima altri suoi romanzi e racconti, e passare poi a questo solo dopo aver preso confidenza con quella poetica di cui parlavo all'inizio. Allora, la potenza di T potrà saltare fuori dalle pagine e prendervi a sberle. E voi godrete di questo dolore.
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Published on February 04, 2019 01:00

February 2, 2019

Coppi Night 27/01/2019 - Day of the Dead: Bloodline

In passato nei commenti ai film visti durante le Coppi Night ho avuto varie occasioni di esprimere apprezzamento per produzoni spagnole: Mientras Duermes, Los Ultimos Dias, El Bar, Cella 211. Con mia sorpresa mi sono sembrati tutti film di buon livello, quindi pur avendo una certa diffidenza di base nei confronti dei filmdi zombie (soprattutto quando non fanno nemmeno lo sforzo di trovarsi un titolo originale), ho pensato che questo potesse avere una sua ragione d'essere.
E invece no.
Questo Day of the Dead, che qualcuno ha pure spacciato come un remake dell'omonimo film di Romero (non mi è chiaro in base a quale criterio, a parte appunto il titolo) inanella uno dopo l'altro tutti i cliché del film horror di serie Z. Dal motore che non parte all'idiota che rimane indietro senza avvertire e mette in pericolo il gruppo, dalla bambina malata che scappa senza ragione al mostro ubiquo. Non c'è nessuna traccia di originalità, di passione, di voglia di mostrare qualcosa di nuovo. L'unica variazione sul tema visto e rivisto fino alla nausea cosmica è lo zombie che oltre a essere morto vivente è anche uno stalker violentatore che mette la sua voglia di carne umana al secondo posto dietro la sua voglia di scopare. Ho sperato e pregato che quando questo punto emerge potesse condurre a una svolta, qualcosa del tipo "se sei abbastanza ossessionato puoi invertire la zombificazione", ma no, niente del genere. Era soltanto un modo per rendere il nemico ancora più disgustoso e pericoloso, o almeno questo voleva essere nelle intenzioni di chi ha fatto il film. Affermare che ci siano riusciti è un'altra cosa.
La sciatteria si rileva in tanti dettagli, alcuni tutt'altro che marginali. In genere in un film di zombie ci si aspetta che venga offerta una minima spiegazione di come il contagio si origina e diffonde, qui invece manco quello. Dal primo infetto nel giro di quatto ore siamo già al livello apocalisse, e poi boom, flashforward cinque anni dopo. E la cosa assurda è che i sopravvissuti tutto sommato se la passano alla grande: hanno il loro villaggio fortificato, sorvegliato da militari con armi cariche, mezzi di trasporto e benzina, bambini che nascono, e una mensa che distribuisce pasti caldi ogni giorno e mannaggialamorte fanno pure jogging intorno al bunker! Roba che quelli di The Walking Dead ci metterebbero la firma subito. Ma invece vogliono farci credere che si trovano in difficoltà, nonostante siano sopravvissuti a una cazzo di apocalisse zombie.
A tutto questo si aggiunge la classica protagonista a cui auguri di mangiare una noce e scoprire solo in quel momento di essere allergica e schiantare di shock anafilattico così, de botto, senza pathos e senza dignità. Bella, intelligente, salda di principi: perfetta. Ha sempre ragione, anche quando è lei a fare le cazzate immense che portano alla morte prima di una, poi due, poi decine e centinaia di persone. Ma lei è nel giusto. Anche se si fa le sue corsette a venti centimetri dalla recinzione che li separa dagli zombie e forse sarebbe il caso di non provocarli: no, lei sa meglio di tutti cosa è giusto fare. E chiaramente si farà una schiera di morti intorno prima di abbassare la testa e ammettere che ha sbagliato. Cosa che infatti non farà, ma i morti li provoca comunque. L'importante è che si salvi la bambina anche se i suoi genitori sono esplosi e hanno tentato di sbranarla, no?
Insomma una schifezza immensa. Sotto tutti i punti di vista, non ci sono nemmeno doti tecniche a redimere il porcaio generale. L'archetipo per cui tutti i film di zombie ormai sono da tenere a distanza, con buona pace di chi ci prova davvero a fare qualcosa di buono.
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Published on February 02, 2019 02:00

January 28, 2019

Dal libro al film: La città e la città

Alcuni mesi fa ho letto La città e la città, romanzo investigativo di China Miéville che, essendo China Miéville, non scrive un "romanzo investigativo" come lo scriverebbe chiunque altro. Poco dopo la lettura ho scoperto che dal libro era stata tratta una recentissima miniserie prodotta dalla BBC con lo stesso titolo The City and the City , e trattandosi di quattro episodi che concludono tutta la storia (invece delle indeterminate serie di cui non si sa mai se e quando finiranno), ho pensato che fosse interessante vederla e proporre un confronto tra romanzo e adattamento.
Come sempre in questi casi serve ripercorrere per sommi capi la trama di cui stiamo parlando, per cui vi piazzo un'allerta spoiler anche se al di là di ambientazione, personaggi e punto di partenza della storia non rivelerò molto, per cui potete continuare il post anche se non avete né letto il libro é visto la serie. Preciso anche che per semplicità non metterò tutti gli accenti strani sulle consonanti che dovrei cercare sulla charmap e perderci due minuti ciascuno.

La città e la città è ambientato tra Beszel e Ul Qoma, due città mediorientali "gemelle", unite da un legame molto particolare. Di fatto occupano lo stesso territorio, ma in un'epoca piuttosto lontana tra le due è stata imposta una divisione, che non è una separazione fisica con muri e steccati, ma una sorta di censura sensoriale adottata da tutti gli occupanti dell'una o dell'altra. Chi vive a Beszel deve ignorare ciò che avviene ad Ul Qoma e viceversa, anche se in termini materiali è qualcosa che avviene a pochi centimetri da lui. Tutta la popolazione è istruita a "disvedere" (unsee) l'altra città e i suoi abitanti, ma anche i suoi edifici e veicoli in movimento, a non ascoltare i suoni che vengono dall'altra parte, e in generale la comunicazione tra città è scoraggiata. Non è impossibile passare dall'una all'altra, ma ci vogliono speciali permessi e ogni violazione di questa segregazione è punita. A sorvegliare sulla corretta separazione c'è appunto la Violazione (Breach), un'entità misteriosa che esercita un forte potere sulle due città, pur non essendo ben chiari quali siano i limiti dei suoi "poteri" (se esistono) e chi ne faccia parte. La prolungata divisione delle due città nella storia ha portato a una notevole differenza anche nel loro sviluppo: lingua, cultura e vocazione di ognuna sono diverse tra loro. Beszel ha conservato i caratteri di un'antica città di frontiera del medioriente, tra bazaar, traffico congestionato, vecchi edifici; Ul Qoma invece si è modernizzata, ha costruito grattacieli, ripulito le strade e vietato il fumo nei luoghi pubblici.
In tutto questo, il protagonista è Tyador Borlù (nella serie interpretato da David Morrissey, che molti potranno ricordare per il suo ruolo del Governatore in The Walking Dead), un ispettore della polizia di Beszel a cui viene assegnato il caso di omicidio di una giovane ricercatrice americana, impegnata negli scavi archeologici a Beszel. Il romanzo inizia proprio con l'arrivo di Borlù sul luogo del delitto e le prime rilevazioni sulla dinamica di morte della ragazza, e da lì si sviluppa con il proseguire delle indagini. Oltre al fatto che a essere stata uccisa sia una straniera, emergono presto altri dettagli anomali sulla sua morte, in particolare il fatto che sia stata in effetti uccisa ad Ul Qoma, e il corpo abbandonato in seguito a Beszel. Per proseguire l'indagine Borlù deve  quindi spostarsi a Ul Qoma e assistere lì la polizia locale, ma anche questo non sembra essere sufficiente, perché forse dieto la morte della ragazza c'è qualcosa di più che coinvolge entrambe le città e l'origine della loro separazione. Il tutto sempre sotto la minaccia della Violazione.
Nel romanzo di Miéville, una delle cose che mi hanno colpito di più è la meticolosità con cui l'indagine viene portata avanti. Dai primi interrogatori coi ragazzini che hanno scoperto il cadavere, ai contatti con il proprietario del furgone rubato e così via, ci vogliono un centinaio di pagine solo per arrivare all'identità della ragazza. Questo da una parte è un gran punto a favore perché aumenta la verosimiglianza della storia e concede l'occasione per mostrare il mondo in cui si svolge la storia, dall'altra però rappresenta a volte un limite perché si ha l'impressione che la storia fatichi a procedere, soprattutto nelle prime fasi. Non che la lettura sia noiosa, ma ci si trova ad aspettare uno sviluppo concreto per un tempo forse eccessivo. L'autore fa un gran lavoro per presentare le due città e il paradigma della separazione, così come il mistero intorno alla Violazione, che incombe come un predatore nascosto nell'ombra, pronto a colpire, infallibile e spietato.
Nell'adattamento per lo schermo, la sfida più grande stava sicuramente nel trovare il modo di  rendere la separazione tra le città. La differenza culturale è evidente, Beszel infatti è caratterizzata nell'estetica come una città cresciuta troppo in fretta, moderna ma attaccata al suo passato, come potrebbe essere una Istanbul. Ul Qoma invece è Dubai, che ha saputo stare al passo e anche anticipare i tempi, centro di affari e grandi aziende, un posto dove si smuovono interessi di livello globale. La diversità tra le due è resa in maniera molto efficace, tanto nell'architettura quanto nel modo di vestire, nel tipo di locali, le auto che circolano, le divise e gli uffici della polizia: si ha davvero l'impressione di trovarsi in due posti diversi. Per quanto riguarda la censura reciproca, il trucco adottato dalla serie è semplice ma immediato: le parti della città opposta sono mostrate sfocate, a simulare il disvedimento degli abitantiche si trovano da una parte. È interessante notare come alcune alcune aree vengono mostrate prima da un lato e poi dall'atro, come l'edificio centrale che fa da municipio per entrambe e frontiera tra le due città. La separazione è sottolineata anche da dettagli di contorno, come avvisi e manifesti che ricordano a tutti il divieto di interagire con l'altra lato: "When in Beszel, see Beszel."
Una differenza invece sottile ma piuttosto significativa tra romanzo e miniserie è il modo in cui viene considerata la Violazione. Nel libro la Violazione è un'entità oscura ma tangibile, che incute un forte timore su entrambe le città (meno sugli stranieri) e che da queste è rispettata. Ci si rivolge alla Violazione con deferenza e si accettano le sue decisioni, perché è risaputo che sa sempre quando e come deve agire. C'è anche la sensazione che non sia composta da semplici uomini ma da entità con un potere che trascende quello delle normali persone. Nella serie l'ottica è un po' diversa, e sembra piuttosto che la Violazione sia una sorta di società segreta da cui difendersi, tant'è che ci sono manifesti che consigliano di guardarsi bene intorno per scoprire i suoi agenti. In questa versione la Violazione è ancora temuta, ma è tratta più come un intruso pericoloso che come un'autorità superiore la cui volontà sovrascrive quelle dei poteri locali.

Ma la differenza più sostanziale tra le due versioni è il coinvolgimento di Borlù nella vicenda. Come dicevo infatti nel commento al romanzo, nel libro Borlù porta avanti con diligenza e professionalità la sua indagine. Scopre via via nuovi pezzi e la sua voglia di risolvere il mistero aumenta sempre di più, tuttavia non c'è niente che lo spinga a "sentire" l'indagine al di là della suo codice deontologico di ispettore. Ne rimane sempre in un certo modo distaccato, come se fosse solo il solutore di un enigma. Questo era stato uno degli aspetti che nel libro mi erano mancati di più. Anche gli autori della serie se ne sono accorti, e infatti qui la situazione è ben diversa: la moglie di Borlù è scomparsa tempo prima, ed era anche lei interessata al passato delle città e agli scavi archeologici su cui lavorava la ragazza uccisa. Sono anzi entrambe allieve dello stesso professore (Bowden, personaggio chiave che è stato reso in maniera diversa rispetto al libro, ma funzionale al suo nouovo ruolo), e questo loro collegamento indiretto non può che far pensare al protagonista che risolvere l'omicidio dell'una potrà portarlo a ritrovare l'altra, o almeno scoprire la verità su cosa le è successo. Si può contestare che la modalità con cui il protagonista viene collegato all'indagine è la più scontata possible, un cliché fin troppo tipico del noir, però in effetti viene gestito abbastana bene, e comunque è sempre preferibile che un qualche tipo di coinvolgimento personale ci sia, se pur il più elementare possibile.

Alla fine la soluzione del mistero è sostanzialmente equivalente anche se diversa in qualche dettaglio, ma comunque porta allo stesso tipo di considerazioni. Nel romanzo erano presenti alcuni accenni a tecnologie dimenticate nel passato delle città, che invece nella serie sono dimenticati, ma visto che non hanno grande impatto sulla vicenda non è un problema. Nell'adattamento c'è invece un twist abbastanza inaspettato su uno dei personaggi principali, anche questo reso molto bene, e che forse nel romanzo non avrebbe funzionato, ma per come invece è stata impostata la storia nella serie colpisce nel modo giusto.

In ultima analisi, The City and the City prodotto dalla BBC è una serie di ottimo livello, che ha saputo prendere una storia abbastanza complessa soprattutto per le caratteristiche di base della sua ambientazione e renderla al meglio. Come diciamo sempre, ha poco senso dire se "il film è meglio del libro", ma in questo caso sicuramente si può dire che la sfida di portare su schermo le città gemelle è stata vinta, e allo stesso tempo le potenzialità di questa stessa sfida sono state valorizzate. Un lavoro ben fatto quindi, e in un'epoca in cui le serie si protraggono all'infinto senza nessuna garanzia sul loro futuro e costanza qualitativa, trovare qualcosa come questo, che si prende giusto il tempo che serve per mettere giù la storia e concluderla, è un grande sollievo.
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Published on January 28, 2019 02:30

January 21, 2019

Rapporto letture - Dicembre 2018

Eccoci all'ultimo rapporto letture relativo all'anno finito qualche settimana fa, di cui poi non farò un riassunto perché mannaggialicani, che sto a scrivere a fare i post mese per mese se poi vi dovete beccare il riepiloghino a fine anno? E fatelo sto sforzo di leggere. Dicembre dedicato ad autori non anglofoni, e in particolare a editori abbastanza particolare. Solo tre libri ma tutti belli densi.

Il primo è Eternal War - Vita Nova , romanzo di Livio Gambarini che è il seguito di Eternal War - Gli eserciti dei santi e racconta delle gesta dei poeti stilnovisti alternate a un piano di realtà in cui si muovono spiriti di varia natura. Gambarini è un autore con cui in un certo senso sono cresciuto insieme: all'epoca in cui eravamo entrambi vergini di pubblicazioni frequentavamo gli stessi forum di scrittura e ci leggevamo e stroncavamo a vicenda. Abbiamo avuto modo di chiacchierare durante l'ultimo Stranimondi e lui sostiene che io fossi uno dei più stronzi che girava per quei forum, ma io in quanto eroe della mia personale storia non sono d'accordo. Questo però serve a far capire che il fatto di conoscerlo da tempo non serve ad ammorbidire il mio giudizio, per cui è con tutta la stronzaggine di cui sono capace che posso dire che questo romanzo è fenomenale. Le cose stanno così: Gli eserciti dei santi si basa su un'ottima idea, costruisce un'ambientazione eccellente, sia nella sua ricostruzione storica della Firenze di fine 1200 sia nella dimensione spirituale in cui si muovono i personaggi fantastici, ha due protagonisti memorabili (Guido Cavalcanti e il suo ancestrarca Kabal) e si sviluppa in modo perfetto. Per cui, partendo da qui era davvero difficile costruire un seguito che arrivasse allo stesso livello, anche perché si sa che nelle trilogie il secondo volume è quello sempre un po' più fiacco, che fa da segmento di transizione tra l'inizio e la conclusione della saga. Invece Vita Nova non solo è allo stesso livello, ma addirittura rilancia rispetto al precedente. La cosa straordinaria è come il percorso compiuto dai protagonisti ribalta completamente quanto ottenuto nel libro precedente: quelli che erano i loro successi diventano i fardelli di cui liberarsi, e per questo il cambiamento è tanto sofferto per entrambi. Perdono quanto hanno di più caro, sapendo che quello è l'unico modo per poter proseguire. E questo non basta, perché verso la fine si susseguono due plot twist davvero ben piazzati e imprevedibili, ma non nel senso spuntati dal nulla, sono stravolgimenti perfettamente giustificati ma che semplicemente il lettore non era portato a pensare. Anche il lavoro sull'ambientazione è notevole, perché Gambarini non si limita a riproporre il suo scenario fantastico intrecciato a quello materiale, ma lo espande con nuove nozioni e nuove regole, tutte perfettamente integrate con quanto già si conosce. Come sempre poi l'intreccio tra invenzione e verità storica è profondo e sottile ed è un sollievo vedere il personaggio di Dante Alighieri assumere un ruolo di primo piano, quando nel primo libro era poco più di una comparsa. Anzi il suo rapporto con Cavalcanti e l'amore travagliato per Beatrice è una delle linee narrative meglio riuscite di tutta la vicenda. Ora, non vorrei che Livio si ringalluzzisse troppo per tutti questi apprezzamenti, per cui cerco anche i difetti: per prima cosa, ho sentito la necessità di un'appendice in cui i fatti storici presenti nella storia venissero elencati e illustrati. In effetti c'è un piccolo capitolo che spiega in linea di massima gli eventi principali (compresi quelli del primo libro), ma è troppo scarno. Sarebbe stato utile avere riferimenti più precisi anche a molti altri, ad esempio l'elezione del papa rimasta in sospeso per tre anni, le visioni dei cardinali che hanno portato all'elezione di Celestino V e così via (me le sono riguardate per capire meglio, il che è di certo un bene, ma averlo sottomano sarebbe stato più comodo). In secondo luogo, la parola "fottuto", che compare due se non tre volte in tutto il libro: a mio avviso è anacronistico, perché nemmeno oggi si usa la parola "fottuto" al di fuori dei film o di chi parla usand il lessico dei film. Si noterà che sono piuttosto deboli come punti deboli, ma meglio/peggio di così non riesco a fare. E sì che sono quello stronzo! In definitiva, Eternal War si riconferma una grande opera, che meriterebbe molto più spazio e notorietà. I libri sono pubblicati meritoriamente dalla Acheron, ma cazzo dovrebbero avre il loro espositore in libreria con Dante che ti punta il dito contro e ti intima l'acquisto facendoti sentire una merda come solo lui sa fare. Peraltro, a voler cercare il lato utilitaristico, funzionerebbero anche molto bene come testi didattici, per far digerire un po' meglio sia la storia che la letteratura di quel periodo, che sono parte integrante della narrazione. Livio Gambarini è un grandissimo autore e se anche uno solo dei consigli che gli ho dato in quei primi anni ha contribuito a farlo diventare così allora sono più che soddisfatto. Voto: 9/10


Dall'Italia voliamo in India con Altaf Tyrewala, autore mai sentito prima ma che ho scelto tra quelli presenti nel catalogo di Racconti Edizoni, che, indovinate un po', pubblica solo racconti. Americano ma originario di Mumbai, nelle sue storie racconta la sua terra natale, ma non con quel tono indulgente da "eh la vita  autentica della gente vera" che di solito hanno gli autori espatriati, che idealizzano la loro terra d'origine (un approccio che avevo trovato ad esempio in Nnedi Okorafor e mi aveva un po' infastidito). L'India nei racconti di Karma Clown è caotica, piena di contraddizioni, esotica quanto il calendario delle sette meraviglie del mondo appeso nell'ufficio del direttore. Certo si notano tutti quei particolari che definiscono una cultura, ma le vicende e i problemi dei protagonisti dei racconti (a volte brevissimi) sono ben riconoscibili in un mondo globalizzato fondato ovunque sugli stessi paradigmi, buoni o cattivi che siano: lavoro, famiglia, soldi, dignità. Il vantaggio e lo svantaggio di un'antologia come sempre è che qualche testo può essere più efficace di altri, e anche qui ci sono alti e bassi. Personalmente ho gradito di più i testi che hanno un tocco di surrealismo e ironia in più, e quello che dà il titolo alla raccolta si potrebbe quasi inquadrare come weird, ma in generale il livello è buono, per quanto il messaggio di fondo sia pressoché unico per tutti. Voto: 7/10
Piccola nota a margine: mi fa piacere che l'India che emerge da queste storie conferma abbastanza quella che ho cercato di rendere in Voi demoni, il racconto presente nella mia raccolta Il lettore universale .

E parlando del mio libro, arriviamo a Il lavoro dei maiali . Ho conosciuto Leo Munzlinger prima come editor, perché è stato proprio con lui che ho lavorato alla pesante revisione dei racconti pubblicati con Moscabianca in Il lettore universale. Qui invce si presenta in veste d'autore con una storia che definire weird è un eufemismo. Intanto leviamo subito di torno la prima domanda che può venire in mente: il "lavoro dei maiali" non si sa che cosa sia. E a dire la verità, un sacco di cose che succedono in questo libro non si sa che cosa siano. La storia si svolge per lo più sull'Uovo, un mondo diverso dal nostro, anche se non è chiaro se si trovi in una dimensione parallela, in un'altra regione dello spazio, in un'altra epoca o chissà cosa. Sta di fatto che sull'Uovo ci si arriva dormendo, o meglio ancora, sognando. Gli uomini (ma non solo loro, anche gli altri animali intelligenti della Terra!) si manifestano durante il sogno su questo pianeta e qui acquisiscono una forma fisica, anche se temporanea. Il loro status di visitatori gli consente alcuni poteri che però bisogna essere abili per manovrare. Il protagonista è Dimitri (sulla Terra), che si fa chiamare Kiwi (sull'Uovo) e che rimane coinvolto in... qualcosa. Incontra per caso una donna che è il bersaglio di qualcuno di potente, non si sa perché, e si trova ad attraversare l'Uovo per metterla in salvo. Ma Kiwi non è un eroe, anzi. Lui vorrebbe solo passare il suo tempo sull'Uovo, magari farsi la ragazza-ciliegia che ha appena conosciuto (da capire se conta come threesome), più che altro perché la sua vita sulla Terra fa schifo e quella sull'altro pianeta è tanto più interessante. In effetti dell'Uovo ci vengono raccontate un sacco di cose, ma non abbastanza, nel senso che ci sono una mare di particolari completemente WTF!? che così rimangono. Questo di per sé non è un problema, anzi, si capisce che per sua natura l'Uovo è incomprensibile e i suoi abitanti (che non sono solo umani, ma decine e decine di specie umanoidi e no) ancora di più. Forse anzi in un certo senso il punto debole de Il lavoro dei maiali è proprio questo, il fatto che ci sia così tanto da dire sull'Uovo che la storia diventa quasi focalizzata sul mostrare l'ambientazione piuttosto che il plot, che si chiude in modo approssimativo e un po' frettoloso. Personalmente poi, mi sarebbe piaciuto scoprire molto di più sullo stato in cui si trova la Terra, dove buona parte della popolazione non pensa ad altro che a sognare l'Uovo: mi sta bene che il pianeta misterioso sia strano, ma la Terra la conosco, voglio sapere come è cambiata dopo questa scoperta! Comunque un romanzo davvero particolare, difficile da inquadrare ma fonte di continue sorprese e di frasi che devi tornare indietro a leggere perché pensi di aver capito male ma no, è proprio così, gli fanno male le cose arancioni. Forse di questo mio commento non si è capito quasi nulla, e in tal caso allora ho reso bene l'idea di cosa si prova nelle prime fasi di questo libro. Voto: 7.5/10
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Published on January 21, 2019 00:30

January 12, 2019

Ralph spacca il mio cuore

Qualche anno fa quando uscì Ralph Spaccatutto (Wreck-It Ralph) non lo vidi al cinema, anzi forse non notai nemmeno che esisteva fino a diversi mesi dopo, quando lo recuperai in altro modo (ancora non c'era Netflix in italia credo, o se c'era non ero abbonato). La storia mi aveva attirato inizialmente per l'ambientazione nel mondo del videogioco classico, i vecchi cassoni arcade con cui ho appena avuto il tempo di fare limitata esperienza prima dell'eplosione delle consolle casalinghe. Quanto basta comunque per cogliere le numerose citazioni e apprezzare la premessa: un villain stanco del suo ruolo che vuole passare a essere considerato l'eroe.
L'esecuzione del film, però. Wow. Non me l'aspettavo e mi ha del tutto sorpreso. Al di là del contesto e delle gag, alcune forse indirizzate al pubblico più giovane e quindi non proprio formidabili, la storia è di un equilibrio e una profondità invidiabile. All'epoca avevo una percezione per lo più empirica di cosa fosse il classico "arco di trasformazione" del protagonista di una storia, ma rivedendolo in seguito (e l'ho visto altre tre volte, che per me è un numero di ripetizioni che possono vantare forse giusto una decina di film) ho potuto apprezzare quanto tutto fosse perfettamente orchestrato. E forse per questo già da allora Ralph era salito nel ristretto club dei miei personali eroi, assieme per esempio al Dottore, Desmon di Lost, Leto II della saga di Dune, e più recentemente Akecheta di Westworld.
Per questo avevo molta paura di Ralph spacca internet (Ralph Breaks the Internet). Annunciato in un periodo in cui cinema e tv sembrano capitalizzare tutto su nostalgia preconfezionata e citazionismo 3x2 (un easter egg ogni due riferimenti espliciti!), i primi trailer mi avevano lasciato una brutta sensazione, o come direbbe il target tipico di questo tipo di film: a bad feeling about this. Ciò che veniva proposto come rappresentativo del nuovo film era la scoperta del mondo al di fuori dell'arcade, con Ralph e l'amica Vanellope catapultati nell'immensita dell'internet, tra social media, ebay, video di gattini e quartiere Disney. Era soprattutto quest'ultimo a preoccuparmi, anche per la lunga sezione dei trailer dedicata all'incontro con le principesse. Quanto di più aderente a quell'idea di nerdgasm autoreferenziale per il quale risulto patologicamente frigido. Eccoci al nuovo Ready Player One, mi sono detto, o diocisalvielliberi un altro Emoji Movie.
Mi sbagliavo.
O meglio, non mi sbagliavo nelle mie impressioni, perché di fatto anche rivedendoli adesso i trailer pubblicizzano un prodotto piuttosto diverso da quello che poi si trova: un film markettabile per bambini, con tante risatelle stupide e tanti personaggi di cui mamma ho il pupazzetto di quello. Ma Ralph spacca internet si rivela poi un'operazione del tutto diversa da quanto mostrato in quei pochi minuti*.
Siamo di fronte a un altro film estremamente complesso, che certo gioca alla citazione (come il precedente peraltro) ma non ne fa il perno della sua sua esistenza. E quello che mi ha colpito è come l'obiettivo del protagonista sia coerentemente ribaltato rispetto al primo film. Il Ralph di Ralph Spaccatutto è insoddisfatto e combatte per uscire dal suo ruolo ed essere accettato per quello che è, e alla fine lo ottiene. Di conseguenza all'inizio Ralph spacca internet, è davvero felice: la sua vita è come l'ha sempre voluta, e non c'è niente che vorrebbe cambiare. È così convinto e appagato di ciò che ha, che tutta la storia consiste essenzialmente nella sua oppposizione al cambiamento, per mantenere lo status quo in cui si trova: il "lavoro" giornaliero, il suo piccolo ambiente ristretto, l'amicizia con Vanellope. È talmente concentrato a godere di quello che ha ottenuto che non si rende conto che sta costringendo anche le persone a lui più care (ovvero, Vanellope) alle sue stesse (assenti) ambizioni.
Si può ammettere che questo film non colpisce come il precedente, perché non c'è un nemico esterno come era King Candy nel primo (villain peraltro estremamente affascinante e multisfaccettato). A parte gli occasionali scontri, il vero nemico per tutto il tempo è lo stesso Ralph, e lo è fin dall'inizio ma ce ne accorgiamo solo a un quarto d'ora dalla fine, perché siamo talmente immersi nel suo punto di vista di bonaccione e amico premuroso che non lo vediamo finché non ci viene sbattuto davanti. E quando succede, è talmente esplicito che arriva come una pallonata nello stomaco. Forse non ci sono scene strazianti come quella nel primo film in cui Ralph distrugge il kart di Vanellope (diomio, solo a pensarci mi si stringe la gola), ma se il finale può sembrare anticlimatico per come si risolve, è solo perché solo quella poteva essere la soluzione del problema: non i botti e le esplosioni, ma una serena (per quanto dolorosa) accettazione. Il rapporto tra Ralph e Vanellope appare come quello tra un padre e una figlia che sta cercando la sua strada, e che bisogna imparare ad accettare anche se le sue scelte la porteranno lontana. È una storia meno facile da presentare, soprattutto in un film "per bambini", ma che funziona alla grande. Molto più del percorso di redenzione cattivo-eroe, ci tocca da vicino, perché siamo tutti i peggiori nemici di noi stessi quando ci opponiamo al cambiamento.
Ecco come ha fatto Ralph con le sue manone a spaccarmi il cuore e trovarci un posto. Dovrò rivederlo in lingua originale per poter cogliere meglio certe gag intraducibili (oh boy / ebay, ad esempio), ma so già che mi rimarrà dentro. È in casi come questi, rari ma preziosi, che vengo convinto sempre di più del potere della narrativa di parlare a tutti, un linguaggio universale che può solo unire le persone e in pochi casi, rari ma preziose, migliorarle.
*Postilla in merito al trailer: Ralph spacca internet è consapevole di aver ingannato il pubblico per come si è presentato. Nella scena dei titoli di coda vediamo infatti la bambina che si lamenta "ma nel trailer c'era una scena che non si è vista", che era poi una delle sequenze più stupidotte che mi aveva fatto storcere il naso. Ma rivista in quel momento, in quel contesto metatestualizzato, ha assunto tutto un altro testo e ho riso di gusto. E a quanto mi risulta è la prima volta che in un film viene apertamente calcata l'attezione su come il materiale pubblicitario non corrisponda al prodotto. Chi ha deciso di trollarci, lo ha fatto con gran classe.
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Published on January 12, 2019 01:25

January 10, 2019

Doctor Who New Year special 2019 - Resolution

Prima dell'inizio della stagione 11, il nuovo showrunner aveva avvisato che non ci sarebbero stati mostri "classici" presi dalla lunga storia della serie, e così in effetti è stato. Ma con lo speciale festivo (eravamo abituati a quello natalizio, è diventato quello di capodanno ma poco cambia), siamo fuori quanto basta dai limiti della stagione che si può attingere al fornitissimo parco mostri di Doctor Who. E quale villain più iconico che un bel Dalek, che non vedevamo in azione fin dall'inizio della stagione 9 (escluso un breve cameo all'inizio della 10)?
Resolution fa con i Dalek quello che ogni tanto è sempre consigliabile fare con i nemici ricorrenti, ovvero applica il principio di conservazione del ninjutsu: in uno scontro la forza complessiva degli schieramenti ha un limite finito, per cui quando l'eroe si trova a combattere diecimila cattivi, sappiamo già che ognuno di loro costituirà una minaccia ben misera. Ma se invece il nemico è uno solo, è ragionevole pensare che sarà molto più forte e difficile da sconfiggere. Per questo quando c'è una flotta di 30.000 Dalek, pfff!, basta un colpo di cacciavite; ma quando c'è un solo Dalek allora bisogna stare attenti. L'emblema di questa legge della narratologia si vede proprio nell'episodio Dalek della stagione 1, dove il Nono Dottore si confronta per la prima volta dopo la fine della Time War con un Dalek sopravvissuto, capace di mettere in serio pericolo lui e tutti gli altri protagonisti.

In questo episodio succede una cosa simile: un singolo Dalek orfano del suo esercito sulla Terra, con la variante che questo non è un Dalek qualsiasi ma uno dei corpi speciali di ricognizione, e quindi molto più tosto di un normale polipetto dentro saliera con uno sturilavandini. Da sempre si scopre che i Dalek dispongono di un'infinità di setup alternativi, quindi il fatto che ne venga presentata ora una nuova versione mai vista prima non deve stupire. A parte questo, ci sono diversi alti e bassi nella storia costruita intorno a questo singolo Dalek.

Molto bello vedere la creatura controllare l'archeologa, oltre al body horror da invasione degli ultracorpi che trasmettono queste scene aggiunge al Dalek "nudo" un livello di pericolosità in più. Anche se viene da chiedersi se i Dalek hanno sempre avuto questa capacità e in tal caso perché non la sfruttano più spesso, oppure se il controllo dell'ospite è un potere specifico di questa classe di Dalek da ricognizione. Notevole anche il veicolo messo insieme con pezzi di scarto, in una scena che riprende la sequenza di costruzione del nuovo cacciavite della prima puntata del Tredicesimo Dottore. Il look da discarica dieselpunk, più imponente e vissuto, con qualche luce in più e un gancio al posto dello sturalavandini: impressionante, davvero. E ci voleva forse un nemico del genere, perché grazie a lui anche il Dottore di Whittaker riesce in certi momenti a mostrarsi forte, determinato, in controllo. Il suo dialogo a distanza

Ma ci sono anche degli aspetto piuttosto loffi. L'episodio parla con la narrazione di un'epica battaglia divenuta leggenda, combattuta nel IX secolo contro questo Dalek, che si è conclusa con la sua sconfitta e separazione in tre pezzi sorvegliati da guardiani che tramandano il loro sacro compito nei secoli. Ottimo un Dalek nel folklore di mezzo mondo, l'avatar di morte che tutti cercano di scongiurare! Se non che, le due stirpi di guardiani sacri sparse agli angoli del mondo non servono a nulla. Non ho ben capito se il Dalek "riassorbe" in qualche modo le sue parti lontane, fatto sta che avrebbero potuto essere anche nella dispensa della nonna, sorvegliate dal gatto di casa, e non sarebbe cambiato nulla. Perché creare questa premessa leggendaria, se poi non ha nessun ruolo? Ah, perché è la pistola a salve di Checkov, ehm, cioè, Chibnall. L'abbiamo già vista in azione. E poi dopo tutto questo, quando hai un Dalek veramente badass che sta mettendo in pericolo la nazione e sta per richiamare la sua flotta (come se i Dalek non sapessero dov'è la Terra, ma vabbè)... lo fai fuori con un microonde? Certo, DW offre spesso soluzioni anticlimatiche e i Dalek stessi spesso hanno fatto fini ridicole. Ma in questo caso sembra davvero una soluzione raffazzonata e uno spreco di un avversario che si era dimostrato formidabile.

Ci sono anche alcune sottotrame oltre allo scontro con il Dalek. Quella principale è il ritorno del padre di Ryan, che pensa bene che capodanno sia il giorno migliore per presentarsi a casa della propria madre morta e del proprio figlio abbandonato. Che il papà fedifrago sarebbe tornato lo sapevamo, soprattutto dopo i drammoni di It Takes You Away , ma la sua presenza qui è quanto mai superflua. Devo dire, i suoi momenti di confronto prima con Ryan e poi con Graham non sono privi di intensità, e per una volta mi è sembrato che Tosin Cole fosse davvero un attore e non un tecnico di scena finito per sbaglio nell'inquadratura. Ma la sua inclusione nella storia è posticcia, non si armonizza con il resto. Invece di includere il rapporto con il padre nel conflitto della puntata, e far parlare la storia, si fanno invece parlare i personaggi in scene giustapposte e fuori tono con il resto. Poi certo, è lui a fornire il microonde anti-Dalek ed è il centro della crisi finale, ma anche qui si tratta di funzioni incastrate a forza. Peraltro dopo tanti discorsi sulla responsabilità e l'assenza, alla fine Ryan dimentica tutti i torti e si finisce con abbracci e lacrime.

In merito agli altri companion, come sempre Graham offre delle ottime prestazioni anche se in questa puntata è meno al centro dell'attenzione. E se pensavate che tra i propositi per il nuovo anno di Yaz ci fosse quello di assolvere un qualsiasi ruolo, mi dispiace per voi. Anzi è più credibile come agente di polizia l'archeologa posseduta dal Dalek con la divisa rubata, il che è tutto dire.

Non so bene come interpretare la chiamata alla UNIT sostituita da un centro di assistenza: da una parte sembra una grossa spernacchiata a tutto il lore precedente, dall'altra un'occasione per un momento di satira piuttosto forte: l'organizzazione che controllava gli alieni non viene distrutta da un'invasione ma dalla burocrazia, probabilmente per colpa della Brexit. Ma mi preoccupa relativamente, la UNIT è stata dimenticata per tanto tempo e sarà sempre facile ripescarla all'occorrenza.

Nel complesso un episodio gradevole, e un nemico finalmente che sembra generare un certo senso di pericolo e urgenza. Ma questo episodio soffre sotto molti punti di vista dei problemi riscontrati fin qui nella stagione 11. Fino al 2020 ora del Dottore non si saprà altro, quindi credo che ne approfitterò per fare a mentre fredda un post riepilogativo di questa stagione così diversa rispetto alle precedenti. Per il momento assegno a questo speciale un voto 7/10 e buon anno a tutti.
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Published on January 10, 2019 00:15

January 5, 2019

Il Buio n. 2

Con una mossa inaspettata da tutti (me compreso), segnalo oggi l'uscita del numero 2 della rivista Il Buio , curata da Lorenzo Crescentini. Si tratta della trasposizione italiana della rivista The Dark Magazine , che propone narrativa "dark", appunto: horror, weird, gotico e limitrofi.
Sulla rivista si alternano racconti di autori italiani e internazionali, scelti in accordo con l'editore americano di The Dark Magazine. Nel caso specifico sul numero 2 appena uscito si trovano storie  di Steve Rasnic Tem, L. Chan, Stefano Lapadula e Francesco Corigliano.
Vabbè, ma che c'entra l'autore di questo blog con Il Buio? Perché per la prima volta mi trovate impeganto come traduttore! Infatti mi sono occupato io dell'adattamento del racconto L'ultimo giro di pub dei fratelli Pennyfeather di L. Chan.




Sì, lo so, tradurre è tradire. E me ne sono dolorosamente reso conto durante il mese e mezzo circa che mi ci è voluto per riportare in italiano The Last Epic Pub Crawl of the Brothers Pennyfeathers. Già a partire dal titolo, perché voglio dire, come lo traduci "pub crawl"? A leggerlo in inglese ci passo sopra senza problemi, so benissimo di cosa si tratta, ma se devi ridurlo a un'equivalente espressione in italiano...? Tutto il racconto poi, per struttura, stile e registro presenta una vastità di espressioni idiomatiche, colloquiali e gergali, oltre a riferimenti culturali non proprio immediati, che mi ha presentato qualche difficoltà. Oh, lo so che non è la prima volta nella storia che qualcuno affronta questi problemi, ma per me è la prima volta quindi ora ne parlo con cognizione di causa. E posso empatizzare con tutti quei traduttori che ogni giorno si confrontano con roba del genere. Non sarete mai pagati abbastanza.
Comunque, di certo non dovete leggerlo perché l'ho tradotto io. Leggetelo perché L'ultimo giro di pub dei fratelli Pennyfeather è un bel racconto. Divertente e struggente al tempo stesso, parla di fantasmi, di fratelli e di cose che sono andate perse e non si possono ritrovare e ti costringono ad andare avanti.
L'edizione digitale de Il Buio sarà disponibile presto in digitale e in cartaceo, ma se siete tanto tanto curiosi e tanto ingordi e tanto poveri, i racconti sono già disponibili anche in lettura gratuita sul sito. Fatevi questo giro di pub alla mia salute e magari rimanete nei paraggi, che potrebbero scappare fuori anche altri piani per la serata.
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Published on January 05, 2019 01:46

January 2, 2019

Coppi Night 30/12/2018 - I tre volti della paura

Ultima Coppi Night dell'anno, anche se come si può notare ho notevolmente ridotto la mia partecipazione agli eventi domenicali del Coppi Club per ragioni logistiche familiari. Cercherò per quanto possibile di essere presente ma per i prossimi mesi non posso garantire la costanza degli ultimi... beh, dieci-undici anni.
Nessun tema natalizio o festivo per questa ricorrenza in punto di morte del 2018, ma una votazione con i soliti criteri che ha portato alla visione di quello che ho scoperto essere considerato un classico del cinema horror. Tre episodi, adattati da racconti di Tolstoj, Maupassant e Checkov. Qui "horror" va inteso in un senso molto ampio, al di fuori dei parametri che definiscono oggi cosa è il cinema di genere. Siamo forse nei pressi di film "thriller" o "del mistero", ma comunque sempre intendendo questi termini con l'accezione che avevano all'epoca, in cui forse non si preoccupavano nemmeno tanto di mescolare tipi di storie diversi.
C'è da dire che, da spettatore smaliziato del 2019, tutti gli episodi risultano piuttosto prevedibili. Si capisce abbastanza presto dove andranno a finire, anche nei casi in cui è previsto che il finale sia una specie di sorpresa (non credo si dicesse "plot twist" nel 1963). Ma forse è anche vero che la sorpresa non era tanto l'obiettivo principale, quanto piuttosto una certa "atmosfera" di tensione e inquietudine, che ammetto di aver percepito in certi momenti. Anche se nella maggior parte dei casi la percezione era un "ma perché sei così idiota?" rivolto ai protagonisti, e forse è proprio in questo che il film è diventato un classico del genere horror, visto che è da decenni che i film di questo genere si basano sull'inettitudine dei loro personaggi.
Ma ammetto di essere stato genuinamente in dubbio se l'anziano capofamiglia fosse diventato un vampiro o fosse semplicemente un vecchio burbero un po' stronzo. E non mi sarei aspettato in un film di quegli anni un'allusione così esplicita a una relazione lebsica (che infatti in alcune versioni internazionali del film è stata in parte censurata).
Riconosco e rispetto quindi il valore storico di quest'opera ma mentirei se dicessi che ne ho tratto piacere durante la visione. Ma si sa che noi millennials abbiamo perso qualunque gusto e riferimento culturale, per cui non prendetemi come esempio e dite pure in giro che vi è piaciuto tanto tanto.
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Published on January 02, 2019 07:09

December 18, 2018

Doctor Who 11x10 - The Battle of Ranskoor Av Kolos

E siamo arrivati quindi al season finale di questo soft reboot di Doctor Who. Stagione più corta di tutte le precedenti, che contavano 12 o 13 episodi, ma di minutaggio inferiore, circa un quarto d'ora in meno, quindi alla fine il tempo trascorso guardando questa stagione è abbastanza simile alle altre dieci.
Come sempre nel finale di stagione vengono riannodati i fili sparsi nel corso degli episodi trascorsi, e si arriva così al compimento dell'arco narrativo che... ah, no. In questo caso la volontà di Chibnall di fare una stagione interamente episodica e disgiunta, un "monster of the week" estremo, ci porta a un finale che non ha niente del finale, nel senso che non va a concludere niente di aperto. È vero, l'antagonista principale è uno che abbiamo già visto, ma si trova in una situazione completamente diversa a quella precedente e non c'era comunque nessun indizio a far credere che sarebbe stato l'avversario finale. Insomma è soltanto un recurring villain, non la chiusura di una storyline.
Un altro punto da togliersi subito dalla testa è il titolo: non c'è nessuna "battaglia" in questo episodio. Certo c'è un confronto, uno scontro con un nemico che ha intenzioni malvagie, ma una battaglia è un'altra cosa, richiederebbe la presenza di un qualche tipo di esercito e uno scambio di colpi. Anche a volerla intendere in senso metaforico è un concetto che va mooolto stiracchiato per adattarlo a come si svolgono le cose.
Ma veniamo allora a quello che questa puntata è, piuttosto che quello che non è. Il Dottore e soci rispondono a una richiesta di aiuto e arrivano sul pianeta del titolo, dove trovano i resti di diversi naufragi. Prima di atterrare il Dottore si premura di fornire a tutti degli stabilizzatori neurali, perché il pianeta ha la anomala capacità di influenzare la mente e provocare amnesie e cambi di personalità. Ricordatevelo, perché ci torneremo dopo. Incontrano l'ultimo superstite di una di quelle astronavi precipitate, che non ricorda cosa era venuto a fare, solo che era una missione di salvataggio. Il pianeta è abitato dagli Ux, una razza di alieni (completamente umani, come quasi tutti gli alieni visti in questa stagione) che ha il potere di influenzare la materia con la mente, una specie di Forza (quella di Star Wars) potenziata perché trascende anche i limiti dello spaziotempo. Roba forte. E si scopre che questi alieni sostanzialmente onnipotenti sono stati plagiati da Tzim-Sha, il Predat-ehm, lo Stenza battuto dal Dottore in The Woman Who Fell to Earth. Il cattivo è stato esiliato proprio su quel pianeta, e i due Ux hanno pensato bene che fosse il loro creatore e hanno iniziato a servirlo in tutto e per tutto. Che è come se a Thanos rubassero la carta di credito con una mail di phishing dal finto sito di Poste Italiane.
Ma insomma, batti e ribatti alla fine il Dottore riesce a convincere gli Ux che sono stati dei fessi e far saltare il piano del cattivo, che stava intrappolando uno alla volta interi pianeti. Tutto questo però, per quanto drammatico, non riesce mai a trasmettere quel senso di urgenza e di pericolo che dovrebbe. L'equipaggio dell'astronave imprigionato? Boh, chi li conosce. I pianeti imprigionati? Sì, ok, ma dove li ha presi? È come quando la Morte Nera distrugge Alderan, ci interessa qualcosa solo perché il pianeta della principessa. Ci prova Tzim-Sha a prendere la Terra (a quanto pare aspettava proprio che arrivasse il Dottore per passare a quella), ma ovviamente viene fermato prima. E delle conseguenze del raggio cosmico con cui la Terra viene investita non sappiamo nulla, quindi vabbè, tutto come prima.
L'unico punto della vicenda che riesce a trasmettere un po' di tensione, è la vendetta di Graham. Saputo che sul pianeta è presente l'alieno responsabile della morte di sua moglie, è deciso a rendergli lo stesso servizio. Ne parla con il Dottore, e per la prima sacrosanta volta vediamo uno scontro diretto di opinione tra questo Tredicesimo e i suoi compagni. Graham è assertivo, dice semplicemente "io lo ucciderò"; lei gli risponde che se lo farà non potrà più viaggiare con loro; a Graham sta bene così. Non cede di fronte al dilemma morale del giustiziere che compie un torto pari a quello del criminale. Almeno non all'inizio. Poi sappiamo già come andrà a finire, ma il duello tra lui e Tzim-Sha è l'unico momento davvero intenso della puntata. Certo è che l'alieno deve aver perso un po' la mano di feroce cacciatore, perché si presenta allo scontro senza nessuna arma e per essere fermato basta pestargli il piede, più o meno.
Comunque, il cattivo viene messo in stasi, i pianeti tornano al loro posto, gli Ux decidono di scoprire un po' l'universo perché si rendono conto di quanto idioti sono stati, e il Dottore se ne va coi suoi amici. Fine della puntata e della stagione. Cosa è cambiato rispetto all'inizio di queste dieci puntate? Nulla. Soltanto il rapporto tra Ryan e Graham si è consolidato (anche se non ho capito perché Graham ci tenga tanto che lui lo chiami nonno, voglio dire, non ha sei anni, ne avrà ventidue, è capace di distinguere che lui non è suo nonno e volergli comunque bene), ma era già successo nella puntata precedente. Graham ha affrontato il suo avversario, ma questo desiderio di vendetta si era appena manifestato, quindi non era un tratto distintivo che lo ha caratterizzato finora. Yaz... vabbè, Yaz sta lì e basta, anche stavolta. E il Dottore. Niente, il Dottore continua a fare quello che stava facendo, perché non aveva un obiettivo e non c'era niente da imparare.
Ah, vi ricordate quella caratteristica così peculiare di Ranskoor Av Kolos, che altera le percezioni, i ricordi e gli stati d'animo dei suoi occupanti? No, ecco, nemmeno Chibnall se lo ricordava. Questo punto così fondamentale viene completamente messo da parte. Peggio ancora, il Dottore è davvero costretto a rimuovere il suo stabilizzatore neurale e quello di Yaz, ma la cosa gli procura solo un po' di stordimento, si rimette l'aggeggio e risiamo in pista! Sarebbe stata un'occasione servita tanto bene per un conflitto di qualche tipo (Yaz che dà di matto e si oppone al Dottore? Il Dottore che si dimentica cosa sta facendo?), ma no, niente. Un'altra delle pistole di Chibnall caricate a salve, come ne abbiamo già viste parecchie in precedenza.

Alla fine dei conti, The Battle of Ranskoor Av Kolos non si può nemmeno definire un episodio brutto. Ma non ha nessun guizzo da season finale che sarebbe ragionevole aspettarsi, si presenta come un altra storia indipendente dalle altre che non lascerà traccia appena dopo essere finita. Voto: 6.5/10
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Published on December 18, 2018 00:40

Doctor Who 11x10 - The Battle of Rankoor Av Kolos

E siamo arrivati quindi al season finale di questo soft reboot di Doctor Who. Stagione più corta di tutte le precedenti, che contavano 12 o 13 episodi, ma di minutaggio inferiore, circa un quarto d'ora in meno, quindi alla fine il tempo trascorso guardando questa stagione è abbastanza simile alle altre dieci.
Come sempre nel finale di stagione vengono riannodati i fili sparsi nel corso degli episodi trascorsi, e si arriva così al compimento dell'arco narrativo che... ah, no. In questo caso la volontà di Chibnall di fare una stagione interamente episodica e disgiunta, un "monster of the week" estremo, ci porta a un finale che non ha niente del finale, nel senso che non va a concludere niente di aperto. È vero, l'antagonista principale è uno che abbiamo già visto, ma si trova in una situazione completamente diversa a quella precedente e non c'era comunque nessun indizio a far credere che sarebbe stato l'avversario finale. Insomma è soltanto un recurring villain, non la chiusura di una storyline.
Un altro punto da togliersi subito dalla testa è il titolo: non c'è nessuna "battaglia" in questo episodio. Certo c'è un confronto, uno scontro con un nemico che ha intenzioni malvagie, ma una battaglia è un'altra cosa, richiederebbe la presenza di un qualche tipo di esercito e uno scambio di colpi. Anche a volerla intendere in senso metaforico è un concetto che va mooolto stiracchiato per adattarlo a come si svolgono le cose.
Ma veniamo allora a quello che questa puntata è, piuttosto che quello che non è. Il Dottore e soci rispondono a una richiesta di aiuto e arrivano sul pianeta del titolo, dove trovano i resti di diversi naufragi. Prima di atterrare il Dottore si premura di fornire a tutti degli stabilizzatori neurali, perché il pianeta ha la anomala capacità di influenzare la mente e provocare amnesie e cambi di personalità. Ricordatevelo, perché ci torneremo dopo. Incontrano l'ultimo superstite di una di quelle astronavi precipitate, che non ricorda cosa era venuto a fare, solo che era una missione di salvataggio. Il pianeta è abitato dagli Ux, una razza di alieni (completamente umani, come quasi tutti gli alieni visti in questa stagione) che ha il potere di influenzare la materia con la mente, una specie di Forza (quella di Star Wars) potenziata perché trascende anche i limiti dello spaziotempo. Roba forte. E si scopre che questi alieni sostanzialmente onnipotenti sono stati plagiati da Tzim-Sha, il Predat-ehm, lo Stenza battuto dal Dottore in The Woman Who Fell to Earth. Il cattivo è stato esiliato proprio su quel pianeta, e i due Ux hanno pensato bene che fosse il loro creatore e hanno iniziato a servirlo in tutto e per tutto. Che è come se a Thanos rubassero la carta di credito con una mail di phishing dal finto sito di Poste Italiane.
Ma insomma, batti e ribatti alla fine il Dottore riesce a convincere gli Ux che sono stati dei fessi e far saltare il piano del cattivo, che stava intrappolando uno alla volta interi pianeti. Tutto questo però, per quanto drammatico, non riesce mai a trasmettere quel senso di urgenza e di pericolo che dovrebbe. L'equipaggio dell'astronave imprigionato? Boh, chi li conosce. I pianeti imprigionati? Sì, ok, ma dove li ha presi? È come quando la Morte Nera distrugge Alderan, ci interessa qualcosa solo perché il pianeta della principessa. Ci prova Tzim-Sha a prendere la Terra (a quanto pare aspettava proprio che arrivasse il Dottore per passare a quella), ma ovviamente viene fermato prima. E delle conseguenze del raggio cosmico con cui la Terra viene investita non sappiamo nulla, quindi vabbè, tutto come prima.
L'unico punto della vicenda che riesce a trasmettere un po' di tensione, è la vendetta di Graham. Saputo che sul pianeta è presente l'alieno responsabile della morte di sua moglie, è deciso a rendergli lo stesso servizio. Ne parla con il Dottore, e per la prima sacrosanta volta vediamo uno scontro diretto di opinione tra questo Tredicesimo e i suoi compagni. Graham è assertivo, dice semplicemente "io lo ucciderò"; lei gli risponde che se lo farà non potrà più viaggiare con loro; a Graham sta bene così. Non cede di fronte al dilemma morale del giustiziere che compie un torto pari a quello del criminale. Almeno non all'inizio. Poi sappiamo già come andrà a finire, ma il duello tra lui e Tzim-Sha è l'unico momento davvero intenso della puntata. Certo è che l'alieno deve aver perso un po' la mano di feroce cacciatore, perché si presenta allo scontro senza nessuna arma e per essere fermato basta pestargli il piede, più o meno.
Comunque, il cattivo viene messo in stasi, i pianeti tornano al loro posto, gli Ux decidono di scoprire un po' l'universo perché si rendono conto di quanto idioti sono stati, e il Dottore se ne va coi suoi amici. Fine della puntata e della stagione. Cosa è cambiato rispetto all'inizio di queste dieci puntate? Nulla. Soltanto il rapporto tra Ryan e Graham si è consolidato (anche se non ho capito perché Graham ci tenga tanto che lui lo chiami nonno, voglio dire, non ha sei anni, ne avrà ventidue, è capace di distinguere che lui non è suo nonno e volergli comunque bene), ma era già successo nella puntata precedente. Graham ha affrontato il suo avversario, ma questo desiderio di vendetta si era appena manifestato, quindi non era un tratto distintivo che lo ha caratterizzato finora. Yaz... vabbè, Yaz sta lì e basta, anche stavolta. E il Dottore. Niente, il Dottore continua a fare quello che stava facendo, perché non aveva un obiettivo e non c'era niente da imparare.
Ah, vi ricordate quella caratteristica così peculiare di Ranskoor Av Kolos, che altera le percezioni, i ricordi e gli stati d'animo dei suoi occupanti? No, ecco, nemmeno Chibnall se lo ricordava. Questo punto così fondamentale viene completamente messo da parte. Peggio ancora, il Dottore è davvero costretto a rimuovere il suo stabilizzatore neurale e quello di Yaz, ma la cosa gli procura solo un po' di stordimento, si rimette l'aggeggio e risiamo in pista! Sarebbe stata un'occasione servita tanto bene per un conflitto di qualche tipo (Yaz che dà di matto e si oppone al Dottore? Il Dottore che si dimentica cosa sta facendo?), ma no, niente. Un'altra delle pistole di Chibnall caricate a salve, come ne abbiamo già viste parecchie in precedenza.

Alla fine dei conti, The Battle of Ranskoor Av Kolos non si può nemmeno definire un episodio brutto. Ma non ha nessun guizzo da season finale che sarebbe ragionevole aspettarsi, si presenta come un altra storia indipendente dalle altre che non lascerà traccia appena dopo essere finita. Voto: 6.5/10
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Published on December 18, 2018 00:40

Unknown to Millions

Andrea Viscusi
Il blog di Andrea Viscusi since 2010

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