Adele Vieri Castellano's Blog, page 7

March 15, 2014

Accidenti, ve lo voglio presentare! Vi dirò tutta la ver...

Accidenti, ve lo voglio presentare!
Vi dirò tutta la verità nient’altro che la verità, su di lui. E’ un libertino, questa specie di sgabello a tre gambe. Origini svedesi, trapiantato in Italia da cinque anni, ha due punti fissi: un telefono pettegolo e una lampada verde germoglio, che getta luce su trame complesse che scorrono veloci...
Devo confessare che quando ieri gli ho fatto capire che dovevo fare “piazza pulita” del suo sciatto disordine, ha arricciato le gambe, gli è tremato il ripiano. Ma poi, come un vero dandy, ha voluto apparire al meglio della forma. Alto, snello, elegante. Un comodino, Signore della Notte.
Del resto su di lui sono passate molte donne (e uomini) indimenticabili: Balogh, Camocardi, Formenti, Kleypas, Camp, Hoyt, M. Kaye, Adrian, Ward, Brokmann, Mcnaugth, Sandra Brown, Lori Foster… per citare solo le sue ultime conquiste. Basta! Non vi elencherò tutte quelle che ha avuto. Seppur Comodino, ha un onore da difendere.
Confesso, viaggia molto. Come un nobile inglese. Recentemente ha visitato l'India (con M.M. Kaye i suoi splendini libri d'amore: l'Ombra della Luna, Padiglioni Lontani e Vento dell'Est), ha conosciuto un grande romano (le Idi di Marzo, di Colleen McCullough), ha scoperto un intrigo con Sandra Brown ( Alibi di una notte ) e ha attraversato un oceano in compagnia di Dirk Pitt (Clive Clusser, Tesoro ).

Ora soffre il mal di mare, ora si dà una regolata e scorrazza nell’antica Roma con Pompei (Robert Harris) e ha fatto due chiacchiere con Augusto, Imperatore d’Europa (Richard Holland), senza dimenticare un giretto in gondola con Alvise Zorzi, Una città una Repubblica un impero. Venezia (697-1797).
Mi sono presa un bello spavento, qualche tempo fa, quando è scampato a un temibile vampiro ( Rinascita, La confraternita del pugnale nero vol.10, di J. R. Ward) poi ha ritrovato l’aria scanzonata di sempre ed è ripartito per il Pascolo del Calder (Janet Dailey) senza dimenticare di fare il Rito della Notte (Janet Dailey). Non si fa mancare nemmeno uno dei libri di Linda Howard, perchè è la sua autrice preferita, e a questo punto non mi resta che dire: che personaggio!
  Sono certa che ha dei segreti inediti, il debosciato, quei libri che usciranno dalla mia penna: Legio Patria Nostra, che arriverà a maggio e un certo Massimo Valerio Messalla, che raggiungerà le sue legioni a fine 2014... caro Comodino, sei affaticato gli ho detto ieri sconsolata. Allora si è rintanato nell’angolino, accanto all’amica Libreria, donna senza scrupoli che nasconde tra il legno e la carta dei ripiani avventure indimenticabili. Sono una coppia davvero unica, non riesco ad averne ragione. Chissà quanti altri segreti nasconde quel tipo a tre gambe. Adorabile, scanzonato, mascalzone. Proprio come piacciono a noi. 
Un vero, avventuroso rubacuori. Il mio Comodino.
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Published on March 15, 2014 15:27

March 10, 2014

Al lupo! Al lupo!

Intorno a me le ombre degli alberi si allungano. La foresta palpita e respira come una creatura vivente. Fa freddo, ho il fiatone e un brivido mi attraversa la pelle. Alzo gli occhi. Lassù, nitida tra le cime degli alberi, ecco la sfera tonda e magnifica della luna piena. Luna piena? Acc… all’improvviso mi blocco a metà di un passo. Ascolto ogni rumore, ogni fruscio, ogni canto notturno. «Awooooooooouuuuu.» Per la miseria, lo sapevo! La solita sfigata, possibile che tra tutte le creature che popolano il bosco, dovevo proprio incappare in un licantropo? 
Il termine deriva dal greco lykos (lupo) e anthropos (uomo) ed è sinonimo di un essere malvagio e feroce, di una realtà negativa. Anche se negli ultimi tempi il trend sembra essere profondamente cambiato, nel panorama letterario mondiale. La leggenda continua e non ha ancora finito di stupirci.
Il lupo ha sempre avuto un valore simbolico ambivalente: predatore per eccellenza, ritenuto in certe popolazioni il protettore della tribù, è anche minaccia per coloro che sono divenuti agricoltori e allevatori e le storie sugli uomini che si trasformano in lupi o viceversa risalgono all’antichità ancestrale dell’umanità. Ben prima dei vampiri. Siamo infatti nell’età del Bronzo, quando gli uomini si aggiravano coperti di pelli e armati di lance di selce, lungo la fredda e inospitale Europa.
Il cliché classico vuole che, nelle notti di luna piena, l’uomo affetto da licantropia si trasformi in lupo aumentando così le proprie facoltà: potenza muscolare, agilità, furbizia e ferocia. Caccia e attacca le sue vittime senza tregua, per squartarle e divorarle scevro di ogni umanità. 
Grande, possente, col muso di lupo e affilate zanne, il corpo coperto di ispidi peli, con coda e spaventosi artigli. Cammina e corre sulle zampe posteriori molto sviluppate, ed è questo che lo rende impressionante. Umano e allo stesso tempo bestia. Forse quel luccichio degli occhi, il loro colore… no! Niente da fare care mie, i canoni di bellezza che tanto piacciono a noi femminucce ebbene, scordateveli.
Per lungo tempo il lupo mannaro è stato associato al vampiro, suo lontano cugino. Del resto qualche punto in comune ce l’hanno: cacciano di notte, uccidono le loro vittime con un morso, la metamorfosi li trasforma in animali. Già lo storico greco Erodoto (V secolo a.C.) ci parla di una popolazione che abitava sulle rive del Mar Nero. Maghi così potenti che potevano trasformarsi a loro piacimento in lupi in modo da poter soddisfare i loro appetiti selvaggi.
Il primo uomo lupo ufficiale della storia sembra fu Licaone (i licaoni oggi sono dei simpatici canidi che popolano la savana africana). Ce lo racconta il solito Ovidio nelle sue Metamorfosi. Molte le varianti del mito, questa la più comune: Licaone era re di Arcadia, grande blasfemo e uomo empio, che Zeus pensò bene di punire per le sue malefatte. Travestito da mendicante il re degli dèi si presentò alla sua corte. Per smascherare il dio in incognito, il furbo Licaone gli serve la carne di un fanciullo ucciso, complici i suoi cinquanta figlioli. Zeus, da quel furbone che è, scopre l’inganno e disgustato rovescia la tavola, fulmina tutti i pargoletti tranne Nittimo il più piccolo, solo perché Gea, bontà sua, glielo impedisce. E Licaone? E' trasformato in un lupo e proprio da questa leggenda questo splendido animale ha preso il suo nome. Nittimo, il figlio superstite salì al trono al posto del padre ma durante il suo regno ci fu un disastroso diluvio (LOL), causato dall'empietà della sua discendenza.
Gli antichi romani, popolo dal pugno di ferro, di poche parole e molti fatti non vedevano il lupo con sospetto. Anzi, era un simbolo di forza, potenza e astuzia. I vexillifer, ufficiali investiti dal grande onore di recare l’insegna della legione, indossavano una pelle di lupo che copriva l'elmo, le spalle e parte della lorica. Il licantropo veniva chiamato versipellis. Essi immaginavano che la pelliccia di lupo fosse celata sotto la pelle e, all’occorrenza, si sostituisse a quest’ultima. Un po’ come rivoltare una toga, insomma. Il messaggio è chiaro: la natura umana nasconde sotto un aspetto dimesso una creatura imprevedibile e pericolosa, spietata anche contro i propri simili.
Petronio, nel Satyricon, per bocca del liberto Nicerate ci racconta la prima trasformazione di un uomo in licantropo. Il nostro protagonista è in cammino per raggiungere, a suo dire, una bella figliola che lo aspetta in campagna. Lo accompagna un amico, un soldato forte e robusto: alzammo le chiappe al primo canto del gallo, con una luna così chiara che sembrava di essere di giorno...” racconta il buon Nicerate. Attenzione al dettaglio della luna: per la prima volta, Petronio inserisce l’elemento capace di risvegliare la natura ferina del licantropo, la luna piena."Nelle vicinanze di un cimitero, il soldato si apparta per i bisogni e Nicerate che canticchia sereno ad un certo punto si gira: per Giove! Il compagno si sta spogliando e, nudo, prima orina sulle vesti e poi si trasforma in un lupo, svanendo nel bosco. Nicerate, stravolto dal terrore, torna a casa di gran carriera e cosa scopre? Che un lupo si è introdotto nel suo casolare e ha fatto strage di pecore. Non vi è dubbio: quell’uomo è un versipellis, un lupo mannaro. D’ora in poi il buon liberto non si avventurerà più a cuor leggero nei boschi.
A partire dall’Alto medio evo (476-1066) il mito si trasforma in superstizione religiosa e in maledizione satanica. Effetti del cristianesimo e del rigore dei lunghi inverni, delle carestie e della paura delle creature selvagge che, in quei secoli bui, popolavano le foreste europee. E che dire del famoso episodio di S. Francesco che ammansisce il lupo, trasmessoci dall’iconografia cattolica nei toni rassicuranti di una fiaba? In realtà potrebbe essere stato un esorcismo, operato dal Santo nei confronti di un posseduto. Sarebbe l’unico caso documentato di liberazione di un lupo mannaro senza la sua violenta dipartita per mezzo dell’argento, dell’acqua pura o dello zolfo.
Ed eccoci nel secolo dei Lumi: una delle storie più celebri è quella della bestia del Gévaudan (siamo nel 1764-67, centro-sud della Francia, dipartimento della Languedoc-Rouissillon). Un centinaio le sue vittime tra donne, vecchi e bambini. La bestia cammina sulle zampe posteriori, ha le fauci di un leone ma sono solo vaghe testimonianze: il grosso problema è che chi la vede, non va più in giro a raccontarlo.

Nonostante l’esecuzione di numerosi lupi (non c’era il W.W.F.), gli attacchi continuarono. Castigo di Dio per punire gli uomini dei loro peccati, la bestia incarnò per anni le più oscure paure e un’atmosfera sinistra regnava sovrana in tutta la regione. Il re inviò il Grand Louvetier (ufficiale reale incaricato della caccia ai lupi) ma il mostro, malgrado periodi di calma, continuò le sue scorrerie in lungo e in largo. Alla fine ci pensò un certo Antoine Chastel. Il cacciatore, benedetto dall'acqua santa, incontrò la bestia sul far della sera (chissà se c’era la luna…), imbracciò il fucile, sparò e... fine del cattivo.Jean Chastel pensò che fosse necessario far vedere l'orrenda creatura al re, farla esaminare da qualche esimio studioso. Quindi ne collocò i resti in una cassa e se ne tornò a Parigi. Ma era agosto, faceva caldo e quando arrivò a destinazione, c’era ben poco da esaminare. Rimase dunque il mistero e le leggende si sa, hanno la pelle dura.
La storia della bestia del Gévaudan ha lasciato un’impronta insanguinata che ha fatto e fa rabbrividire ancora nelle lunghe e fredde sere d’inverno. Un’astuta mossa per incrementare l’isteria collettiva che ogni tanto, nei secoli successivi, è riemersa? Forse è proprio così se nel 2001 Christophe Gans gira un film, con un discreto successo: Le pacte des loups, co-produzione franco-tedesca con la coppia Vincent Cassel - Monica Bellucci, un affascinante Samuel Le Bihan e un Mark Alan Dacascos, stuntman statunitense di origine hawaiana, in ottima forma fisica. Guardare per credere.
Ma come difenderci, come individuare questo mostro che si cela con successo tra i nostri simili? Imperativo guardarsi da chi ha sopracciglia troppo folte o unite al centro, o ha tratti ferini o i canini troppo affilati. Se è pelosissimo è un grosso problema, vi avverto. E se ha il dito indice più lungo del medio, siete fritte: è un sicuro indizio di licantropia. Se poi ha un insano appetito per la carne cruda, prima della luna piena fate le valigie, il pieno alla macchina e imboccate la più vicina autostrada. Sospettate anche di coloro che sono troppo in forma e muscolosi, pur non vedendoli mai nutrirsi in vostra presenza. 

Quasi di sicuro avete a che fare con un licantropo che uccide la notte e divora le sue vittime di nascosto. Una sola fiammella illumina il nostro triste destino: la trasmissione della licantropia per mezzo del morso è pura invenzione del cinema americano, per avvicinarlo ulteriormente al mito del vampiro. Almeno da questo punto siamo in una botte di ferro.
«Awooooooooouuuuu.»Oddio, eccolo che arriva! Cosa dite, ragazze? Gli controllo l’indice o gli faccio una visita odontoiatrica?
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Published on March 10, 2014 16:30

March 3, 2014

Mettiamoli a nudo!

Il Fauno Barberini
Oggi carissime, voglio perorare la causa del nudo maschile. Chi ha detto che ci offende? Chi ha detto che gli uomini nudi sono sgraziati con quel coso che… insomma, avete capito no? Che penzola? Ebbene, fanciulle mie, mi spiace ma l’armonia è maschia, pendolo o non pendolo. Fatevi un giro nella bottega di Mirone, Prassitele o Fidia. Loro conoscevano bene il corpo di un uomo. Diciamoci la verità: come in tutte le cose, gli antichi avevano la loro sacrosanta ragione...

Siamo in Grecia, VIII secolo a.C.: un pantheon di figure maschili soppianta quelle femminili. Basta con Era, Gea, Gaia e la figuretta della fertilità che “impazza” dall’Età del Bronzo. Sappiate che questo archetipo di femmina circolava come oggi fa la foto di Belem Rodríguez. A poco a poco spariscono i grandi seni, i glutei poderosi, i fianchi adatti al parto facile: “oops, scodellami ‘sto pargolo, bella mia, che la specie deve prosperare!” Ecco, cose così, chiaro? Qualcuno per fortuna dice basta. Forse una donna, o forse un uomo. Non lo sapremo mai.

Hermes di Prassitele Fatto sta che, in Grecia, succede quel che io imploro oggi a gran voce: si rappresentano dèi maschili nudi (finalmente) e dee che invece vengono con rigorosa attenzione rivestite (meno male). Il maschio, l’uomo, l’ànthropos greco o il vir latino sarà da ora in poi ritratto in costume adamitico (Adamo non aveva la foglia di fico, che fu aggiunta dalla censura cristiana) e compito suo sarà umanizzare, strappare dal mito le divinità dell’Olimpo. Saranno da ora in poi scolpite riproduzioni tanto splendide quanto realistiche, ricavando i canoni della scultura che ancora oggi sono i suoi comandamenti. 
Non solo in statue di eccelse proporzioni, come i due tirannicidi Armonio ed Aristogene, o i celeberrimi Bronzi di Riace ma anche in decorazioni di imponenti  architetture: esempio eccelso l’Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus ad Olimpia o le metope sul Partenone  che raffigurano la lotta, senza esclusione di colpi, tra un Centauro e un Lapita.

Il Cronide di Capo Artemisio Che pensare poi del Cronide di bronzo di Capo Artemisio, in cui l'equilibrio mirabile di braccia e gambe forma una figura simile alla lettera chi dell'alfabeto greco (χ), secondo una modalità compositiva assai in voga nel periodo arcaico della scultura greca. Nulla, nella Storia dell'Arte, accade per caso e c’è di che perdere la testa, credetemi ragazze. 

Il nudo maschile, glorificazione della vita, della bellezza e della perfezione, era la regola assoluta per gli scultori greci come lo era per gli atleti, che mostravano i loro corpi superbi e liberi da ogni costrizione alle Olimpiadi. Apoxyòmenos Maestri come Mirone (il Discobolo), Policleto (il Doriforo), Prassitele (Hermes) e Lisippo (l’Apoxyomenos, l’atleta che si deterge il corpo dopo la gara), infonderanno alle loro opere una carica di corporea sensualità, di armonia, di vuoti e di pieni così ben proporzionati da indurre, in colui (o colei) che osserva, sguardi di aperta ammirazione e di struggente desiderio. Chi di noi non sospira davanti alle esplicite e sensuali nudità del Fauno Barberini o non si commuove alla drammatica potenza dei gesti del Laocoonte? 

Chi non ha mai sognato di trovarsi di fronte, in carne e muscoli, la potenza atletica e appassionata del misterioso modello che posò per il Torso del Belvedere? Il tempo ce lo ha restituito invalido, sfegiato, offeso. Ma anche così il messaggio è chiaro: muscolatura possente e vigorosa, forse un eroe nella sua eterna bellezza, forse Aiace che medita il suicidio, seduto su una roccia. Aiace,  il più alto, il più robusto, secondo solo al cugino Achille. Chirone lo ha educato per trasformare l'uomo in un guerriero, unico nell'Iliade a non aver bisogno dell'aiuto degli dèi. Forza, virtù, costanza. Un uomo vero che quel blocco di marmo martoriato ci restituisce senza dubbi, nè incertezze.  

Il Gruppo del Laoconte Intorno al I- II secolo, quindi in epoca romana, ecco l’Ermafrodito, sempre da un originale greco. La bellezza dei tratti né maschili né femminili di quella figura adagiata su un letto ci irretiscono, giocando sull’ambiguità del lato posteriore esposto e di quello anteriore, che ci sarà per sempre negato. 

Ermafrodito… ma chi era costui? Figlio di Ermes ed Afrodite, divenuto adolescente decise di avventurarsi per il mondo allora conosciuto. Giunto sulle rive di un lago abitato dalle ninfe, fu adocchiato da Salmace. La ninfa, colpita da tanta bellezza e perfezione (eh, lui di certo si aggirava nudo, non ho dubbi!) perse la testa e come lui si tuffò nelle cristalline acque, zac!, lo strinse a sé. A quel punto chiese agli dèi di potersi unire a lui, per sempre. Gli dèi erano tipi dispettosi e quindi i due saranno trasformati in un solo essere, metà uomo e metà donna. Bontà loro (Ovidio, Metamorfosi).

L'Ermafrodito di Galleria Borghese, Roma Proprio Ermafrodito potrebbe essere l’apoteosi del mito della bellezza, di questi atletici corpi nudi, di questi guerrieri o divinità che saranno i precursori del dio Priapo romano dal fallo smisurato, o dei satiri sempre sessualmente eccitati in giro per le selve, a caccia di giovani fanciulle da deflorare. Il nudo maschile incarna la bellezza, l’armonia, la perfezione un equilibrio mirabile che non avrà più eguali nella Storia dell’Arte umana. Non a caso, ancora oggi dopo quasi tre millenni, ci aggiriamo a bocca aperta di fronte alla potenza artistica di questi capolavori. Questi corpi di maschia simmetria hanno goduto, nei secoli successivi, un lusinghiero e ininterrotto successo, proseguito con l’età romana. 

Il Torso del Belvedere Poi arrivò il Cristianesimo e tutto venne coperto, censurato con foglie (di fico) e drappeggi di stoffa. Giotto ci prova ad uscire dalla nebbia, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, coi corpi esposti dei suoi dannati ma così pallidi e disumanizzati che forse, ai piedi di Lucifero, sono già bestie. Nudo rimane solo il Cristo sulla croce ma ormai i canoni sono quelli della disperazione, del peccato e dell’espiazione. E nudo non lo è del tutto: sul suo inguine giace, quasi sempre, un miracoloso drappo che si regge nel nulla più completo o sul suo scarno bacino.

La Chiesa tuona dal suo scranno e da ora in poi, vietati i corpi nudi. Sarà l’apoteosi della morale sessuofobica, che durerà fino al Rinascimento. Ma Leonardo restituisce dignità ai maschi nudi con l’Uomo Vitruviano, universo ben proporzionato e poi il genio di Michelangelo,  degno erede dei lontani classici greci, ci porta a toccare con il “dito” del suo Giudizio Universale, l’apice dell’arte d’Occidente.  Il David di Michelangelo Immortale il suo David in Piazza Signoria, con quella sua pigra mollezza che è solo apparenza, solo un’illusione: in realtà ci vollero tre anni per far uscire da un blocco di marmo un tale eroe che toglieva il fiato allora come lo toglie adesso. Espressione ideale del Rinascimento, il nudo eroico divenne sinonimo di forza, potenza e bellezza. Maschile, ovvio. Bei tempi. 

Rinasce il nudo con Caravaggio, che recupera i modelli dalla strada e li dipinge con crudo realismo, Annibale Carracci e Guido Reni e l’epoca vede il nascere di accademie artistiche dedicate esplicitamente al nudo (anche femminile). Nell’Ottocento la fotografia sostituirà sempre più la raffigurazione scultorea e si affiancherà a quella pittorica, con l’immediata crudezza di un immagine.  

Ma il nudo maschile è già al tramonto. Al suo posto, secondo David Leddick curatore del libro “The male nude” (1999), la società impose la commercializzazione esclusiva di nudi femminili poiché erano erotici e piacevano ai “signori”.  Visto che era un mondo maschilista e a gran parte degli uomini non piaceva la vista di un proprio simile nudo, nessuno si pose il problema se qualche donna avrebbe mai potuto apprezzare il corpo senza veli di un bel maschio adulto e nella piena, dirompente sua sessualità. 

Un’altra scusa che trovarono? Un uomo nudo ha i genitali esposti, la donna no. E la produzione fotografica maschile, dato che aveva un mercato quasi esclusivamente omosessuale in un mondo in cui l'omosessualità era reato in molte nazioni occidentali, divenne  ben presto tabù.

Il modello inglese David J. Gandy Non so che ne pensate voi ma io, a questo punto, mi sono fatta un'opinione e penso che un 'immagine di David Gandy (un caso che si chiami David?), in tutta la sua maschia armonia, non abbia nulla a che fare con farfalline svolazzanti, virginei culetti o seni riempiti di silicone e innaturalmente sodi. Preferisco il marmo. Preferisco il bronzo.
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Published on March 03, 2014 10:49

February 24, 2014

Vedete l’uomo lassù, in cima all’altura? Osserva la stris...

Vedete l’uomo lassù, in cima all’altura? Osserva la striscia frastagliata e scura che si allunga sull’orizzonte, una foresta impenetrabile, dove uomini feroci e crudeli lo stanno aspettando. L’aria primaverile lo investe e gli porta l’odore dell’erba, gli sfiora le gambe nude protette dagli schinieri di metallo. I piedi sono ben piantati al suolo, racchiusi in sandali di cuoio con le suole chiodate, le calighe. Ogni giorno lo portano sempre più lontano da Roma. La tunica rossa sventola e gli accarezza le cosce muscolose. L’uomo dilata le narici, gonfia il petto in un respiro profondo e un guizzo gli illumina lo sguardo. Laggiù un movimento, lontano sull’orizzonte. Con un riflesso inconscio le sue dita serrano l’impugnatura del gladio, affilato come la morte. Il cingulum di cuoio e metallo tintinna sull’inguine ad ogni movimento, musica che il nemico ode nell’ultimo istante.  Sorge il sole. I raggi bagnano d’oro le colline e la lorica muscolata di metallo risplende, modellata sul suo torso a proteggere i muscoli veri, la sua carne e il suo sangue dall’assalto delle armi nemiche. «Tribuno, gli uomini sono pronti.»

Lui conosce quella voce, si volta. Le iridi grigie mettono a fuoco un centurione, l’elmo rosso pennato, la faccia dura segnata dalle battaglie. Gonfia il petto in un sospiro. E’ ora di andare. E’ ora di sangue e di conquista. 
L’uomo che abbiamo visto sulla collina, gentili lettrici romantiche, è un alto ufficiale dell’esercito romano, un tribuno laticlavio, nome che gli deriva dalla larga fascia di porpora che orna la sua toga. E’ nobile, figlio di un senatore, con un patrimonio alle spalle di almeno un milione di sesterzi. Mica male, no? E se vi stupite che un rampollo di una famiglia di alto rango sia sbattuto in guerra ai confini dell’Impero, sappiate che a Roma si prestava servizio nell’esercito per far carriera politica e in ogni famiglia nobile c’era una tradizione militare, ben collaudata. Per ora il giovane tribuno è solo un ufficiale inferiore, sotto il comando del Legato, il grado che corrisponde oggi al ruolo di generale.
Chi di voi non ha ben chiara in testa una delle prime scene del film “Il Gladiatore” quando Russell Crowe, glorioso e sexy nel rude fascino romano, passa in rassegna la legione e i suoi uomini, sporchi e coraggiosi, lo salutano con rispetto: “Generale” “Generale” “Generale…”? Ebbene lui in realtà è un Legato e l’assistente che gli caracolla dietro con gli occhi un po’ sbarrati è il nostro tribuno laticlavio. Se Russell - Massimo Decimo Meridiofosse stato ucciso (ahimé NO!) durante l’assalto dei barbari, sarebbe toccato al nostro tribuno prendere il comando dell’intera legione.
Bene, ora voglio i vostri occhi fissi sul campo di battaglia, sui legionari schierati. Immaginateli forti, invincibili, irresistibili. Un branco di lupi che cala sul nemico con le fauci spalancate, i gladi ad altezza uomo e l’urlo che si ode prima della battaglia: “Per Roma!”. Altro che gli Highlander, lasciatemelo dire. Se uno di quei pur eroici guerrieri del nord avesse incontrato un legionario romano, nel I secolo dopo Cristo, avrebbe avuto una bella gatta da pelare. 
Il romano infatti ha gambe robuste e non solo quelle, credetemi. Con un peso di trenta chili sulle spalle, il classico equipaggiamento di ogni legionario composto di cibo, attrezzi e armi, questo nostro soldato percorre circa trenta miglia al giorno (un miglio romano= 1.480 metri, vi risparmio la fatica: circa quaranta chilometri al giorno). Una bella passeggiata, no?  
Non contento, il nostro legionario, giunto nel punto in cui gli ufficiali hanno deciso di accamparsi non si ferma anzi, è qui che comincia il suo vero lavoro. Ogni giorno di marcia infatti si conclude prima del tramonto con la costruzione di un castra, un accampamento provvisorio che serve a dare riparo alla legione durante la notte. Innumerevoli città d’Europa sono nate così Milano, Piacenza, Capua, Treviri, Londra, Parigi, Magonza, Manchester… non posso scriverle tutte, l’elenco è troppo lungo. A proposito, il suffisso “Chester” deriva proprio dalla parola latina “castrum”, quindi accampamento. Contate un po’ tutte le città inglesi che finiscono così, aggiungetene qualcun’altra e ditemi voi se i romani non erano come il prezzemolo…  
Bene, intorno al nostro castra si scava una trincea profonda due metri, un quadrato quasi perfetto, si tagliano alberi (i romani hanno raso al suolo le meravigliose foreste che dall’Età del Bronzo, 3500 a.C. – 1200 a.C., ricoprono l’Europa) e si ergono palizzate. Sono in tutto cinquemila, tale il numero di uomini una legione al completo. Più le truppe ausiliarie, di solito stranieri specializzati nell’uso di armi particolari come arcieri e frombolieri(tiratori di fionde, con proiettili di pietra) ed esperti cavalieri che affiancano i romani durante la battaglia, mille oppure cinquecento, a seconda dell’epoca.  Li vedete tutti all’opera? Sì, vero? Perché i romani non sono solo soldati ma ingegneri, fabbri, armaioli ognuno di loro ha un compito nella legione e lo svolge bene, la dea Disciplina li protegge, li osserva, li incita e il motto che tutti i soldati di Roma devono avere ben impresso nella testa e nel cuore è Frugalitas, Severitas et Fidelis. Un po’ come i nostri politici di oggi, vi pare? Frugalità, rigore e fedeltà. Ah ah ah! Seeee, magari!  In ogni caso, anche gli Highlanders devono ringraziare i romani. Voi che amate i guerrieri scozzesi saprete che, con il termine Claymore, si identifica la spada di un Highlander. Ebbene esso deriva da claidheamh, parola di lingua gaelica che significa spada e, udite udite, esso prende origine dal termine latino gladius.  
Claymore indica due tipi di spada in uso ai guerrieri nordici: claidheamh da lamh, ovvero spada a due mani, variante scozzese della spada a due mani tipica del tardo Medioevo, in uso tra XIV e XVII secolo e claidheamh mòr, grande spada, ovvero ancora una variante scozzese della spada con elsa a cesto in uso alle forze di fanteria nel XVII e XVIII secolo. Oggi la claymore con elsa a cesto è parte dell'alta uniforme del reggimento Highlanders della British Army. 
Legionario romano e Highlander, bello scontro non c’è che dire. Ma sfatiamo per sempre un altro mito, quello secondo cui i romani fossero bassi di statura. Lo storico Vegezio (metà del v sec.) riporta un passo in cui cita che l’altezza minima, per entrare nell’esercito, era m. 1,65 e qui siamo già nel tardo impero. Nelle tombe arcaiche dell'area osco-sannitica-latina, sono stati ritrovati scheletri di sesso maschile con un’altezza variabile tra 1,70 e 1,85 metri. Caligola, tanto per farvi un esempio, era alto un metro e novanta e aveva occhi verde-grigi, sguardo freddo e micidiale. Altro che omuncoli neri e pelosi. Del resto i romani hanno dominato il mondo, qualche ragione ci deve pur essere no? Nel combattimento a corpo a corpo poi la combinazione di gladio e scudo conferiva un grande vantaggio tattico al nostro legionario: lo scudo gli permetteva di rimanere protetto dalla maggior parte dei colpi inferti dagli avversari e di colpire a sua volta in maniera decisiva. Il gladio è una spada corta e larga e permette di sferrare colpi rapidi grazie al peso limitato. 

I legionari erano avversari imbattibili e ben preparati e quando una legione era schierata, che so, nella pianura del deserto egiziano, era uno spettacolo terrificante: una marea di uomini e scudi, un muro, una minaccia. E guai ai vigliacchi: chi veniva ritrovato con la schiena rivolta al nemico se ancora vivo, veniva infilzato e ucciso sul campo, dai suoi stessi ufficiali. Ogni legione per Roma rappresentava un prezioso patrimonio e la sua salvaguardia doveva essere ben tutelata. Questo spiega il motivo per cui lo stato romano preferì adottare per il comando di ciascuna legione un sistema piuttosto complesso, che si basava sulla presenza di un nucleo di ufficiali numeroso. Al Legato, in epoca imperiale, erano sottoposti alti ufficiali con funzioni che potremmo definire di stato maggiore.  
Oltre al legato, il comando della legione comprendeva sei tribuni e un praefectus castrorum, del quale faceva parte anche il centurione primipilo. Quest’ultimo era il solo militare di professione. I tribuni e il Legato dovevano essere immediatamente riconoscibili. Anche se non possiamo parlare di una vera a propria uniforme, poiché spesso indossavano capi ed equipaggiamenti di scelta personale, essi seguivano però canoni precisi: l’armatura (lorica) riproduceva l’anatomia del torso umano e poteva essere in metallo, cuoio bollito o lino indurito. Su di essa c’era esposto un lembo di tessuto con il classico nodo, che segnalava la condizione di comando. Solitamente non portavano l’elmo mentre era quasi d’obbligo l’uso dell’ampio mantello militare color porpora, allacciato sulla spalla destra.
Vi ricordo che S.P.Q.R. non vuol dire Sono Pazzi Questi Romani, come afferma il simpatico Obelix, ma Senatus Populusque Romanus, ovvero “Il Senato e il popolo romano". La frase indica che, alla base del potere della Repubblica romana, c’erano patrizi e plebei, fondamento dello Stato. Oggi è ancora citato sullo stemma della città di Roma mentre l’Aquila Imperiale, con le ali spiegate e il becco rivolto a destra era l'emblema dell'Impero Romano. L'aquila bicefala rappresentò invece i due imperi, Occidente ed Oriente.
Gaio Mario, lo zio di Cesare, usò per la prima volta l'aquila come insegna nella guerra contro i Cimbri e nel 103 a.C. la adottò come insegna di ciascuna delle legioni.  Da allora l'uso rimase e l'aquila fu in argento in età repubblicana e in oro o bronzo durante l'Impero. La perdita dell'aquila, il cui portatore era detto aquilifer, oggetto di vera e propria venerazione da parte dei soldati, poteva causare lo scioglimento dell'unità o il disonore dell’intera legione. L'Aquila fu sempre considerata, anche nei secoli successivi, come simbolo dell'impero e del potere di una nazione, della fedeltà ad esso.
Fu scelta da Carlo Magno per il Sacro Romano Impero, ripresa nel sec. XI dagli imperatori tedeschi che si ritenevano eredi di Roma. La useranno i Savoia nel loro stemma, le case imperiali d'Austria e di Russia, l'emblema nazionale italiano in opposizione ai gigli di Carlo d'Angiò ed Enrico VI volle uno scudo d'oro con l'aquila nera. L’aquila imperiale ad ali spiegate, col becco rivolto a sinistra, fuadottata sullo stendardo del Regno Italico nel periodo 1805-1814, e fu insegna di Prussia, Polonia e Russia. Napoleone Bonaparte se ne impossessò e la Spagna la usò, con il becco rivolto a destra, come simbolo per tutto il settecento. Oggi l'aquila di mare con la testa bianca è l'emblema degli Stati Uniti d'America. 
I romani hanno attraversato l’Atlantico e dobbiamo esserne fieri. Roma caput mundi regit orbis frena rotundi, ovvero Roma capitale del mondo regge le redini dell’orbe rotondo…
Valete! (saluto di commiato in uso a Roma)

Veduta dell'anfiteatro di Flavio, detto il Colosseo

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Published on February 24, 2014 03:59

February 10, 2014

Roma sul Mare Nostrum


Veduta del porto naturale di Miseno, a destra il bacino detto del Maremorto, dove la flotta riparava e sostava in inverno Un’organizzata ed effettiva flotta adatta ai combattimenti sia in mare che nei fiumi, Roma la creò durante la prima Guerra Punica. Nel corso di questo conflitto, per la prima volta, Roma organizzò la flotta in modo massiccio e quest’ultima ebbe un ruolo fondamentale nella vittoria contro Cartagine e nella successiva egemonia del Mare Nostrum.
La Prima Guerra Punica, siamo nel 264 - 241 a.C,. è la prima campagna militare delle tre successive combattute da Roma contro l’antica colonia fenicia di Cartagine, che oggi collochiamo in Tunisia. I romani le chiamarono Guerre Puniche dal nome con il quale venivano chiamati i cartaginesi, Punici, derivato dal greco Phoenici, in riferimento alle loro origini fenicie.
Per ben vent’anni le due più grandi potenze affacciate sul Mar Mediterraneo, allora dai romani chiamato Mare Nostrum,  si scontrarono combattendo nel tratto di mare prospiciente la Sicilia, in parte sul territorio italiano e parte in Nord Africa in lunghi e sanguinosi conflitti.
Cartagine era una grande potenza commerciale, intenzionata a mantenere la sua posizione dominante a discapito di Roma. 

Dopo la pesante sconfitta di Annibale a Zama, nella Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.), la guerra si concluse tra il 149 e il 146 a.C., quando Cartagine fu assediata dai romani alla fine del terzo conflitto. L’agonia della città, senza viveri e con la popolazione decimata da una pestilenza, durò tutto un inverno. Quando i romani decisero di attaccare, i cartaginesi erano ormai allo stremo ma i sopravvissuti impegnarono i romani in una disperata battaglia che durò quasi quindici giorni. 


I romani, per risparmiare le truppe, emanarono un bando che prometteva salva la vita a chi si arrendeva: dalle mura incendiate uscirono in cinquantamila compreso il generale Asdrubale, mentre sua moglie, dai resti delle mura della cittadella, malediceva il marito pregando gli ufficiali romani di punire il codardo, indegno di Cartagine. Infine la donna salì al tempio incendiato, sgozzò i figli e, come la regina  Didone, si lanciò fra le fiamme.
Dopo aver recuperato alcune opere d'arte che i cartaginesi avevano trafugato loro, i romani si abbandonarono al saccheggio. Cartagine, la regina del Mediterraneo che aveva osato opporsi a Roma, fu rasa al suolo, abbattute le sue mura, il porto insabbiato, un aratro fu passato sulle rovine e i solchi cosparsi di sale. Nulla più doveva germogliare sul suolo nemico. La Terza guerra punica era terminata.
Questi erano i romani.
Ebbene, dato che si trovarono ad affrontare i cartaginesi in un ambiente fino ad allora per loro quasi sconosciuto, quello marittimo, essi utilizzarono le nozioni greche, egizie e persino cartaginesi per creare la loro marina militare (in latino classis). Da allora la flotta cominciò ad operare in modo permanente nel mare Nostrum e durante l’impero di Augusto, che la riformò a fondo, anche sui principali fiumi dell'Impero fino a tutto il V secolo.
La flotta ebbe un ruolo di primo piano nel I secolo a.C., quando Gneo Pompeo Magno combatté i pirati che infestavano tutto il Mare Nostrum (67 a.C.) e durante le guerre civili che portarono alla fine della Repubblica e all'istituzione dell'Impero con Ottaviano Augusto, nella battaglia di Azio del 31 a.C.. 

Durante il periodo imperiale, il Mediterraneo divenne una sorta di "lago romano" tanto che il ruolo della marina divenne un semplice pattugliamento con lo scopo di tutelare commerci e trasporti. Nel 27 a.C. Augusto fondò la Classis Praetoria Misenensis Pia Vindex, di stanza a Miseno, la prima flotta dell'Impero per importanza, col compito di sorvegliare la parte occidentale del Mediterraneo. La flotta romana, mentre nel Mare Nostrum assumeva il semplice ruolo di pattugliamento, ai margini dell'Impero fu un concreto ed efficacie supporto per le nuove conquiste territoriali ad esempio in Germania sul Reno o in Britannia, dopo aver attraversato la Manica. Durante il declino dell’Impero, nel III secolo, la marina fu ridotta sia negli effettivi che nelle capacità di combattimento e quando, agli inizi del V secolo le frontiere furono sfondate da massicce invasioni barbariche, i vandali apparvero sulle rive del Mare Nostrum occidentale e, una volta costituita e varata la propria flotta, saccheggiarono la stessa Roma, senza incontrare la minima resistenza. Ma quando l'Impero Romano d'Occidente crollò, alla fine del V secolo, la marina militare romana d'Oriente continuò ad esistere nell'Impero bizantino, per quasi altri dieci secoli.

Augusto, dopo la battaglia di Azio, decise di compiere una radicale riforma della marina militare. La flotta fu organizzata come un vero e proprio esercito sul mare e coloro che prima erano volontari, divennero professionisti impegnati a servire la flotta prima per sedici e poi per vent'anni. Nel 6 d.C. creò l’aerarium militare, ovvero delle risorse finanziare permanenti che ne permettessero il finanziamento autonomo. 
La flotta all’inizio venne dislocata in Gallia Narbonese, a Forum Iulii, (oggi Fréjus, in Francia sulla costa mediterranea) ma questa base venne sciolta durante la dinastia giulio-claudia e vennero lasciate solo due flotte Praetoriae. Una a Capo Miseno, per la difesa del Mediterraneo occidentale, con la Classis Misenensis composta da circa cinquanta natanti e circa diecimila marinai classiarii, quasi due legioni terrestri. L’altra a Ravenna, la Classis Ravennatis, per la difesa del Mare Nostrum orientale. Le due Classis erano sotto ilIllustrazione di Luca Tarlazzicomando di un prefetto e ad esse si affiancavano le flotte delle provincie, a supporto delle armate terrestri: la Classis Alexandrina in Egitto, la Classis Germanica sul fiume Reno e la Classis Pannonica nel bacino Danubio-Rava e Sava.
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Published on February 10, 2014 05:58

February 5, 2014

Chi non si ricorda del nostro amico Bignami?


“RACCONTAMI DI QUELLA VOLTA CHE UN BIGNAMI…”
  BIGNAMI EDIZIONI
La storica Casa Editrice entra nel mondo dei Social Network. Da oggi sarà possibile infatti comunicare direttamente con  Bignami. I ragazzi  sono sul web, sempre più connessi sempre più collegati con i loro smartphone, Bignami vuole esserci, con loro e per loro.
Nasce così la nuova iniziativa. “Raccontami di quella volta che un Bignami…” Fino al 31.03.2014 gli utenti sono invitati a inviare via messaggio privato su http://facebook.com/bignamiedizionio twittando a @bignamiedizioni, il racconto di come un Bignami li ha aiutati a superare un esame .
Il tuo messaggio o twitt potrà essere pubblicato sulla pagina ufficiale facebook di Edizioni Bignami o ritwittato.
Entro il 10 aprile i tre racconti migliori, scelti direttamente dal team di Edizioni Bignami riceveranno in omaggioLa Poetica di Aristotele” Edizione storica del 1932 scritta dal Professor Ernesto Bignami.
 EDIZIONI BIGNAMI Via Pisa, 200
20099 Sesto San Giovanni (MI) Tel.: 02 22470756 Mail: info@bignami.com
 http://facebook.com/bignamiedizioni
http://twitter.com/bignamiedizioni
http://bignami.com
   
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Published on February 05, 2014 01:52

January 29, 2014

Christmas in Love 2013

Ecco i racconti primi tre classificati di   Christmas in Love 2013 PRIMO CLASSIFICATO  CON 108 VOTI
LA PERLA SPAGNOLA DI ADELE VIERI CASTELLANO 

SECONDO CLASSIFICATO CON 98 VOTI
IL PROFUMO DEL NATALE DI ANGELA D'ANGELO




 TERZO CLASSIFICATO CON 93 PUNTI
STELLE GEMELLE DI VIRGINIA PARISI




 Complimenti a tutte le autrici che hanno partecipato alla rassegna
e grazie alle lettrici che hanno votato i racconti!
 
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Published on January 29, 2014 01:08

January 11, 2014

Il mio racconto per "Christmas in Love" 2013 su La Mia Biblioteca Romantica


Il vero amore è un duraturo fuoco che eternamente nella mente brucia.
Mai s’inferma, mai s’invecchia, mai non muore a sé stesso sempre fedele.
L’amore è un fuoco che divampa e sempre brucia, l’amore è fuoco di cometa che mai tramonta e ogni stella acceca. Sir Walter Raleigh, 1612



 Porto di Livorno, primi di dicembre 1545 «Quali sono gli ordini?»Pedro Vargas arricciò uno dei baffi spioventi e rimase quieto, in attesa. L’uomo che stava di fronte a lui si spostò per ricevere in pieno la folata di vento. I capelli lunghi sulle spalle sventolarono in onde dorate, sfiorandogli il volto arso dal sole e dalla salsedine. Le labbra ben disegnate si piegarono. «Amico mio, non ti piaceranno» replicò Alfonso da Dovara, con una smorfia che solo lo spagnolo avrebbe potuto definire divertita.«Se dobbiamo ancora fare la spola tra Livorno e Portoferraio per proteggere la costa toscana…»«No, dato che non abbiamo più soldati a bordo. E’ molto peggio. Dobbiamo salpare domani e portare a termine questa missione, prima di ricoverare la galera nel porto di Genova.»Alfonso gli porse la pergamena appena ricevuta dall’ammiraglio Andrea D’Oria. Lo spagnolo l’afferrò con uno scatto, mentre rifletteva a voce alta: «Diavolo, se ci mette a libero servizio, forse potremo navigare verso Formentera e snidare le galeotte algerine di Amet Rais. Questa volta lo ridurremo in catene.»Gli occhi metallici di Alfonso lasciarono la superficie vibrante del mare. Scivolarono sullo scafo della galera con cui da mesi percorrevano il Mediterraneo, sugli uomini legati ai banchi di voga e sulla milizia, che si stava radunando sul pontile per imbarcarsi.«Eleonora di Toledo? Chi diamine è?» esclamò Pedro sorpreso, alzando un sopracciglio nero e folto.Un ordine urlato da poppa incitò la barca da pesca che stava attraccando a pochi metri dalla grande galera armata, a ormeggiare più distante.«E’ una femmina Pedro, la figlia di un tuo conterraneo, Don Garcia. Dobbiamo scortarla fino a Genova.»Pedro alzò gli occhi al cielo restituendogli il rotolo e si sporse oltre la balaustrata della galera. Sputò in mare un grumo di saliva mista a tabacco e imprecò in spagnolo.«Non lamentarti. Poteva andarci peggio» commentò Alfonso, infilando la pergamena sotto alla fascia di cuoio che gli attraversava il petto e terminava reggendo la lunga spada.«Sì, potevamo colare a picco» fu il funebre commento dello spagnolo.
Eleonora era sotto il baldacchino che due servitori in livrea sostenevano imperterriti, riparandola dagli spruzzi della salsedine. Seduta a prua, in un angolo riservato e protetto, fissava la superficie del mare con orgoglio. Aveva domato il suo stomaco che aveva smesso di salire e scendere e, la notte precedente, aveva persino chiuso occhio qualche ora.«Non potete restare qui a lungo, mia cara. Troppi occhi indegni si posano su di voi.» La voce di donna Consuelo de la Cortes era rauca visto che il suo, di stomaco, non aveva ancora vinto la battaglia con le onde.«Vi prego, zia. Qui almeno l’odore pestifero di quei poveracci ai remi non mi impedisce di respirare.»La donna sbuffò sedendo sullo sgabello con molta cautela. Nelle mani guantate teneva un fazzoletto; la mantiglia, nera come tutto il resto del suo abbigliamento, le ondeggiò davanti al viso segnato dalla stanchezza e dalla preoccupazione.«Che vergogna, sono tutti nudi» disse portandosi la stoffa ricamata, impregnata di profumo, davanti al naso. Eleonora alzò un sopracciglio e sorrise appena.«Non del tutto, zia. Se li osservate bene, noterete che i loro fianchi sono coperti da stracci.»Le guance della zia si imporporarono all’istante e le labbra si strinsero:«Non osate posare lo sguardo su quei miserabili, nipote! Non ne sono degni, tali e quali ad animali.»Eleonora accelerò il movimento del polso più che per farsi vento, per darsi un contegno:«Non siete voi a parlarmi di carità cristiana, zia? Non mi dite sempre che tutte le creature sono meritevoli di un gesto di misericordia? Io prego per quei poveretti e i miei occhi sono turbati dalla loro sofferenza.» Uno sbuffo seccato uscì dalle labbra sempre più tese.«Badate che i vostri occhi non siano turbati dalle loro pudende, nipote.»Eleonora nascose la risatina dietro al ventaglio.«In tutte le chiese Cristo in croce è appena coperto da uno straccio zia, proprio come loro. Non mi sento oltraggiata dalla nudità maschile» le rispose valutando con un’occhiata distaccata i corpi segnati dalle cicatrici, i crani rasati e le braccia che si tendevano nello sforzo di spostare i lunghissimi remi. «Nudità maschile? Quelli sono solo bestie e non siate blasfema: non paragonate questa feccia a Nostro Signore,» la zia fece un gesto brusco col polso e il suo ventaglio rosso e oro si aprì con uno schiocco «mio fratello deve aver perduto il senno, quando ha accettato di mandarvi dalla vostra madrina via mare. Un viaggio infernale dico io, per un’innocente come voi.» Eleonora sospirò, un lungo sospiro che servì a separare il corpo dalla mente, perché la zia stava per iniziare una delle noiose ramanzine sulla buona creanza e sui sentimenti pii che, una fanciulla di diciassette anni come lei, avrebbe dovuto fare propri.Mentre la cantilena che conosceva a memoria si confondeva con il rumore dello scafo che solcava le onde, Eleonora si concesse il piacere di cercare con lo sguardo il capitano della galera e di immaginare lui, nudo. Sentì il familiare calore salirle alle gote e il cuore batterle sotto le costole, con insistenza. Nonostante i buoni propositi della sera prima - aveva pregato a lungo la Vergine affinché la rendesse immune dalla tentazione - era più forte di lei e come lo individuò, a metà del lungo camminamento che attraversava la galera per tutta la sua lunghezza, decise di abbandonarsi al peccato. All’arrivo a Genova avrebbe accettato senza fiatare la punizione dal padre confessore, incaricato di salvare la sua anima corrotta. Al momento, decise per la perdizione.Alfonso da Dovara era in piedi, i capelli lunghi sulle spalle che riflettevano come oro i raggi del sole. Discuteva con il comito, un bestione che manteneva il ritmo di voga con il grosso tamburo e la cadenza inarrestabile. Il capitano era di profilo, il capo adesso appena piegato in una posizione di ascolto, visto che era alto una testa più dell’altro uomo. Eleonora prese una boccata di aria dal gusto di salsedine e considerò che la giacca doveva essergli stata cucita addosso. Conteneva a stento le braccia, il petto, due sbuffi di pizzo candido uscivano dallo scollo e giacevano incuranti, bontà loro, su una porzione di pelle che svelava il pomo d’Adamo, la fossetta alla base del collo e un triangolo rovesciato di calda, liscia pelle virile.Visto che era peccatrice, decise di esserlo fino in fondo. Formulò nella mente la preghiera che si avvicinasse al castello di poppa, per consultare la bussola o le carte di navigazione, custodite nell’unico luogo della galera protetto dalle intemperie.Il suo luogotenente spagnolo era già lì, vestito di nero come dettava la moda, baffi lunghi e ben curati. A modo suo era un bell’uomo, se non avesse avuto quel cipiglio corrugato ogni volta che posava gli occhi su di lei. Quando Eleonora tornò a fissare il punto dove si era trovato il capitano, si accorse che il comito era di nuovo solo. Strinse le dita attorno alle stecche d’avorio del ventaglio e attese. Cominciò a contare: uno, due, tre, quattro…«Pedro, cambierà il tempo.» Una delle stecche cedette alla pressione, ma Eleonora si contenne, beandosi di quel timbro virile. Sentì una piacevole ondata di emozione attraversarle il corpo e gradevoli brividi lungo la schiena. La voce si affievolì per essere sostituita da quella stizzita della zia, che ancora stava parlando:«… Don Manolo de Las Casas è sempre stato un socio d’affari corretto e tuo padre nutre per lui la massima stima, mia cara nipote. Ma da qui a decidere per il matrimonio con il figlio, ne passerà di acqua sotto i ponti. Per quel che mi riguarda, sono in disaccordo per la prima volta nella vita con mio fratello.» Donna Consuelo la fissò «Spero ti sia chiaro che tuo padre non ha preso alcun accordo riguardo alla vostra possibile unione, proprio grazie al mio intervento. Quello scavezzacollo non ti merita.»Eleonora colse l’ultima frase e cambiò umore all’istante.«Non mi avete mai detto il motivo del vostro astio contro quel giovane. E’ molto bello, quando l’ho incontrato a corte mi è sembrato galante e ben educato. Forse, se conoscessi le vostre ragioni zia, sarei anch’io del vostro parere.»La donna più anziana arrestò il movimento del ventaglio e la osservò con gli occhi socchiusi:«Ti ho già detto che quella storia non è degna di te, nipote. Sappi solo che quel ragazzo ha disonorato una giovane di buona famiglia, poi si è rifiutato di compiere il suo dovere nei confronti della fanciulla in questione. Inaudito. Solo grazie alla protezione del re in persona ha evitato l’esilio al di là dell’oceano, che ben meritava. Grazie alle ricchezze della sua casata lo scandalo è stato tacitato, ma io non me ne dimentico. Tuo padre non riuscirà a convincermi della bontà di questa unione o, ancora peggio, che il ragazzo è cambiato: quando una mela è marcia, va messa da parte o lascerà un retrogusto amaro in bocca.» «Dovrei dunque rifiutare un ordine di mio padre?»«Ti ha lasciata libera di scegliere il tuo sposo. Mi auguro che tu non ti faccia abbagliare dal primo venuto. La tua madrina, Donna Peretta D’Oria, mi ha assicurato che se dovessi conoscere un pretendente rispettabile e di tuo gradimento durante il soggiorno a Genova, non sarai costretta a sposare quel… il figlio di Don Manolo. Perorerà la tua causa con tuo padre e sono sicura che, alla fine, il nostro sforzo unanime riuscirà a dissuaderlo.» Un’ombra si allungò ai loro piedi e la zia sussultò.L’ampiezza del vestito impedì a Eleonora di spostare l’orlo e la punta di uno stivale ne sfiorò il bordo, carico di ricami. Si sentì di nuovo in pace con il mondo e alzò il viso senza nessun pudore, verso gli occhi d’argento che da tre giorni perseguitavano i suoi sogni.«Perdonatemi señora. Señorita…» Alfonso da Dovara fece un cortese inchino. Eleonora lo vide concentrarsi sulla zia e capì che l’uomo era scaltro, oltre che bello. Aggiustò il vestito, umettò le labbra e si preparò a sorridere. Presto o tardi il capitano si sarebbe girato verso di lei.
Alfonso non aveva alcun bisogno di guardare Eleonora da Toledo. La sua pelle diafana, il naso appena arcuato, le labbra sensuali, tutto era ben stampato nella sua memoria. Colse un leggero movimento alla sua destra e capì che si era mossa. Sarebbe stato scortese e poco educato fissarla, ma lui non era un hidalgo spagnolo avvezzo alle smancerie di corte: era un mercenario, un corsaro a servizio del D’Oria. «Sono desolato di disturbarvi» disse porgendo gli omaggi alla donna più anziana e cogliendo il suo cenno di approvazione. Quindi si concesse uno dei rari piaceri della giornata.Il volto un po’ allungato, i folti capelli scuri sollevati sulla nuca facevano di Eleonora di Toledo una bellezza tipicamente spagnola. Lunghe ciglia ombreggiavano le iridi che gli ricordarono la superficie liscia, perfetta, di una castagna matura. Luccicavano di una luce di interesse e, per un lungo istante, si fissarono.«Voi non disturbate, capitano» disse la fanciulla e lui le credette. Aveva tali labbra che poteva raccontare che all’inferno non c’era alcun demonio, o asserire che la Bibbia era il libro santo di Allah. Ogni parola, qualsiasi menzogna, su quelle labbra sarebbe parsa pura come il Verbo. In quel momento la sua espressione pensosa si trasformò in un sorriso che le accese il volto.  «Taci, nipote. E voi non fate l’insolente, capitano. So bene che ci disturbate solo per dilettare i vostri occhi con la visione di mia nipote. Vergognatevi! Sarà la prima cosa che dirò al Principe D’Oria, quando avrò la fortuna di calpestare di nuovo la terraferma.»«Zia, state scherzando vero? Il capitano è qui per renderci omaggio, non per dilettarsi. Contenetevi, potrebbe relegarvi su una scialuppa e trainarvi fino a Genova.»Gli occhi scuri di lei brillarono di una luce maliziosa e Alfonso prese le sue parole per quello che erano: un suggerimento. Piccola peste impudente. «Che ci provi. Gli farò togliere la pelle dalla schiena col gatto a nove code.» Il ventaglio della donna più anziana fremette con la stessa intensità delle ali di un passero.«Mia zia ha il terrore che perda la mia virtù scambiando uno sguardo con voi, capitano. Ditemi, come potrebbe essere possibile?»Oh, lui aveva parecchie idee in proposito ma si contenne e, a parte un lieve strizzare d’occhi, non manifestò in alcun modo il terremoto che gli aveva attraversato il corpo.«La virtù della vostra protetta è al sicuro a bordo della San Felipe, señora. Io e i miei uomini daremmo volentieri la nostra vita per proteggervi e portarvi a destinazione.»La donna chiuse di scatto il ventaglio, squadrandolo da capo a piedi. Si sentì esaminato come se fosse stato nudo, dal cappello piumato fino agli stivali ornati di una fibbia quadrata, d’oro. Ma non vi era nulla che non andasse nel suo aspetto, sapeva di poter affrontare a testa alta qualsiasi confronto: di ricchezza, di pulizia e di fascino. Fascino che esercitò profondendosi in un cordiale sorriso. Lo sguardo scuro della donna più anziana fu diretto, così come chiare furono le sue parole: «Suvvia, capitano. So bene quanto vale la virtù di una fanciulla alla corte del Principe D’Oria e so che fine ignobile fareste, se solo fosse torto un capello alle nostre auguste persone.»«Avete ragione e mi inchino davanti alla vostra sagacia, señora » disse lui abbassando la testa, la mano appoggiata sul cuore.«Vi fate beffe di me, capitano?» un sopracciglio nero si stirò sul quel viso che un tempo doveva essere stato affascinante.«Bisogna farsi beffe della vita, señora. Troppo spesso il destino gioca degli scherzi crudeli. Meglio ridere in faccia al fato. Tuttavia vi assicuro, non era mia intenzione offendere né voi né vostra nipote con la mia presenza e vi prego di accettare le mie umili scuse.»Alfonso non riuscì a trattenere in tempo il sorriso malizioso che gli sfuggì e la donna navigata lo notò con una smorfia.«Cosa credete? So riconoscere un birbone quando me ne trovo uno davanti, capitano» aggiunse, caparbia come un mastino che difende l’osso.«Mi lusingate, Doña Consuelo. Ma rassicuratevi, presto il mare sarà in tempesta e non avrò agio di corteggiare vostra nipote, come suggerirebbe il mio cuore.»«Non potreste permettervelo, capitano. Non siete un nobile spagnolo e non potreste offrire ad Eleonora la vita e gli agi che merita.» «Vi stupireste di ciò che potrei offrirle, señora,» rispose lui con tono deciso «ma purtroppo dovrete scendere sottocoperta,» proseguì lui accennando al cielo grigio «quelle nubi promettono un fortunale e non vorrei vedere i vostri abiti fradici di pioggia e acqua salata.»«Sapete cosa ci state chiedendo, vero? Chiuderci in quel tugurio buio e puzzolente» commentò la zia.«Vorrei poterne fare a meno ma la prudenza lo consiglia.»Si scostò liberando il passaggio e Doña Consuelo si alzò, le spalle rigide e il mento sollevato in un’espressione di sfida.
Eleonora imitò la donna più anziana. Era rimasta in silenzio mentre l’uomo più bello che avesse mai visto e sua zia parlavano di lei come se non fosse stata presente. Scansò un rotolo di cime che le impediva di proseguire e il capitano, che le stava scortando, l’affiancò. La zia camminava imperterrita davanti a loro, la gonna ampia dondolava ipnotica davanti ai suoi occhi.«Maria Vergine, il mio agnellino nelle fauci di un leone» borbottò a un certo punto, mentre scendeva la scaletta impervia.Eleonora attese il suo turno e così facendo si trovò a un soffio dal corpo imponente del capitano, le loro braccia che si sfioravano appena, l’ampiezza del suo abito di raso e pizzo, coperto da uno spesso mantello di lana, che toccava le gambe di lui fasciate in braghe aderenti di panno marrone. Una mano prese la sua. Nonostante portasse i guanti, sentì filtrare attraverso il sottile pizzo il caldo rassicurante di quella presa. Alfonso da Dovara, uomo non solo di  bell’aspetto ma austero e rassicurante, le strinse la mano e, con lo sguardo, fece un lento giro dell’orizzonte dando l’impressione di fissare ogni onda, ogni nuvola che aleggiava su di loro, con grigia e minacciosa pesantezza.Eleonora ricordò molte delle dicerie che aveva sentito raccontare su di lui. Terrore dei barbareschi, luogotenente fidato del principe D’Oria, ricchissimo pirata. D’un tratto lo scintillio argentato dei suoi occhi la trafisse come una lama.«Vostra zia ha ragione,» le sussurrò «non guardatemi più in quel modo o non vi sposerete mai con nessun altro.»«Vi illudete, capitano. Non mi piacete per niente» gli rispose lei per ripicca, sconcertata per quella maschia sfrontatezza e cercando di sottrarre la mano alla sua presa.«Eleonora!» la zia era arrivata in fondo alla scaletta e li osservava con l’espressione di una persona che ha appena bevuto un bicchiere di aceto. La presa si allentò, liberandola. Il capo si chinò verso di lei e il capitano ebbe l’ardire di sussurrarle:«Ma piaccio a vostra zia ed è molto peggio, credetemi.»

Genova, 21 dicembre 1545
La calca del mercato era fitta ma i due uomini, abbigliati con mantelli e lunghe spade al fianco, procedevano spediti tra la marea umana di mercanti e popolani affaccendati, che si apriva di fronte a loro con timore e deferenza. Uno portava un cappello ornato di una lunga piuma di fagiano, folti baffi spioventi e capelli sciolti, entrambi neri come la pece. Si capiva che era uno spagnolo, avvezzo a comandare e a incutere rispetto. L’altro, ancor più alto, aveva spalle larghe e un severo cipiglio reso ancor più temibile da un paio di occhi grigi che guizzavano qua e là tra la calca, come se si fosse aspettato da un istante all’altro di essere vittima di un agguato. I banchi erano carichi di merci esotiche e i venditori si davano da fare per attirare i clienti, sbracciandosi tra melliflui sorrisi e urla che bucavano i timpani. Un pappagallo verde, blu e rosso, dal becco curvo, strideva sulla spalla di un vecchio male in arnese, che allungò una mano sudicia verso i due signori. Alfonso gli ficcò nel palmo una moneta di rame e quello si affrettò a mordicchiarla coi pochi denti rimasti.«Perché ti sei offerto di venirla a cercare? Il compito di scortarla a Palazzo Fassolo avrebbe potuto portarlo a termine qualsiasi lacchè.»«E perdermi l’occasione di rivederla in circostanze così fortunate? Voglio parlarle da solo, sarà compito tuo tenere a bada sua zia Consuelo, abbastanza distante e abbastanza impegnata mentre torniamo e cerco di capire se intende sposare davvero quel bellimbusto.»«Da quando ti interessi della volontà di una fanciulla? Se il Principe ti accorda la sua mano, non ti resta che prenderla. Ti avverto, non ho nessuna voglia di accompagnarmi a quel cerbero di donna dallo sguardo mortifero.»«Lo farai per l’amicizia che ci lega» rispose lui senza degnarlo di uno sguardo. In compenso analizzò le facce che li circondavano, nella speranza di incontrare la fanciulla che gli era entrata nella mente, conficcandosi in profondità come la spina di una rosa, tanto bella e profumata da essere indimenticabile.«Me lo ha chiesto il Principe in persona, dovevo forse disobbedirgli?» aggiunse con una certa tracotanza.«Dì piuttosto che lo hai costretto ad accordarti il permesso di cercarla» borbottò lo spagnolo,  tutt’altro che ammorbidito. Alfonso si guardò ancora intorno. Le facce erano a volte cordiali, a volte impassibili o tristi ma nessun volto era quello che cercava.«Ti piace, eh?» disse tra i denti Pedro, che aveva l’espressione di un uomo dai piedi doloranti per il gran marciare.«Moltissimo» rispose Alfonso, girandosi per fissarlo in volto.«Peccato che tu non l’abbia più vista, la damigella.»«Gran peccato. Ma rimedierò presto.» «Il Principe ha detto che il suo promesso si farà avanti entro pochi giorni. Come intendi perorare la tua causa e convincere la fanciulla che un avventuriero senza scrupoli è un partito migliore di un nobile spagnolo che bazzica la corte di Carlo V, re di Spagna?»«Non hai notato l’occhiolino? Il vecchio volpone sa bene che Eleonora di Toledo è la donna che voglio.»«E’ la ricompensa che gli hai chiesto per i tuoi servigi?»«Esatto.»«Non ci posso credere. Tutti quegli scudi per una donna?»«Non so se riuscirò mai a spendere tutto il denaro che abbiamo accumulato, Pedro. Ma a una bellezza come quella non si rinuncia, amigo.»Lo spagnolo si grattò un sopracciglio, perplesso.«Devi essere proprio infatuato. A questo punto la sfida tra voi due pretendenti si fa interessante, ma se dimostri apertamente tutto questo interesse per la bella Eleonora, scommetto che il giovane Miguel de Las Casas cercherà in tutti i modi di metterti i bastoni fra le ruote.»«Solo se aspira alla crocifissione.» Rispose Alfonso, mantenendo un tono vago ma fermo.«Sarà divertente vedere come vi scannate per una femmina.»«Non chiamarla “femmina” e il bellimbusto non piace nemmeno alla zia, ho sentito dire. Sembra che si sia comportato molto male qualche anno fa, dicono abbia ingravidato una fanciulla e poi l’abbia abbandonata.»«Un tipo poco raccomandabile. E come mai adesso le vorrebbero concedere la fanciulla che ti fa battere il cuore?» il tono sarcastico di Pedro non piacque ad Alfonso, così come l’idea che de Las Casas mettesse le mani su Eleonora di Toledo.«Sono i rispettivi padri, legati da comuni affari, che intendono celebrare il matrimonio. Ma finché non pronunceranno i voti all’altare, mi considero in gioco.»«Forse terrai a bada il tuo rivale solo sventolandogli una lama affilata sotto il naso.»Alfonso aprì la bocca per ribattere ma la richiuse subito. Finalmente l’aveva individuata.
Eleonora lo notò subito. Il cuore le balzò in gola e trattenne il fiato. Le mani, avvolte in guanti di fine pizzo provenzale, non avrebbero retto neppure un’Ostia, da tanto tremavano. Come poteva, la sola presenza del capitano Alfonso da Dovara, renderle impossibile fare un passo dopo l’altro?La zia si fermò di botto, attratta da un rotolo di tessuto rosso porpora. «Oh guarda, Eleonora! Seta orientale e del colore che cercavi.»Eleonora cercò di concentrarsi.«Hai ragione, zia. Ma non ti sembra troppo chiaro?» replicò posando la mano sul tessuto morbido, puntando gli occhi in tutt’altra direzione. Lo spagnolo, quel diavolo nero dal sorriso accattivante, la notò. Sempre insieme a lui. Strinse il tessuto stropicciandolo e le palpebre si abbassarono sulle guance arrossate più che dal freddo, dall’emozione.«Chiaro? Ma niente affatto. Starà benissimo con una stola di ermellino, che la renderà più calda.» disse la zia. Eleonora si impose di concentrare tutta la sua attenzione sulla stoffa.«E non temere per la spesa, sarà un mio dono natalizio. Con il tuo incarnato ti starà benissimo.»«Forse hai ragione, zia.» Il mercante srotolò la seta, avendo intuito l’affare.Nessuna delle due donne si curò di alzare gli occhi fino a quando non ottennero il prezzo più conveniente e, a quel punto, fecero ritirare l’acquisto dal garzone che le seguiva diligente.Raddrizzandosi, Eleonora affondò lo sguardo negli occhi della zia e disse:  «Grazie» con uno dei suoi più graziosi sorrisi.Quando tornò in posizione eretta, vide il capitano da Dovara e lo spagnolo a pochi passi da lei e il sorriso le indugiò sulle labbra, così come il lieve rossore sulle guance.
Era bella da togliere il respiro. Il brusio attorno a lui cessò, come d’incanto. Gli sgherri armati che l’avevano scortata si fecero avanti, con il tintinnare delle armi e il rumore deciso dei calzari, sui ciottoli di pietra. Alfonso diede un’occhiata agli spadini corti che pendevano dalla cinta dei due cerberi e li valutò per quello che erano: mastini ben pagati ma inoffensivi. Quando posò gli occhi di nuovo su Eleonora, aveva preso la sua decisione. Una perla a goccia le pendeva al centro della fronte, intrecciata a una fitta retina, che si confondeva con l’ebano dei capelli. Pelle bianca come neve, labbra come fragole mature. Il corpo snello, le lunghe gambe che la veste nascondeva e le sue mani, affusolate, che stringevano una borsetta di seta ricamata di perle rosate, dello stesso rosa tenue dell’interno delle conchiglie. Quel suo cuore duro e violento aumentò i battiti, rischiando di sfondargli il petto.Aveva voglia di prenderla, toccarla, confondere il respiro con il suo. Gli occhi scuri di Eleonora di Toledo lo sfiorarono, poi si posarono con grazia su Pedro che si profuse in un inchino, facendo sventolare la piuma. Alfonso era a capo scoperto e si pentì della pessima abitudine. Avrebbe voluto renderle omaggio, scusandosi così per ciò che era. Un volgare masnadiero, un predone, un marinaio al servizio di un uomo potente. Ma non per questo avrebbe rinunciato a lei.La ricchezza accumulata in quegli anni gli avrebbe permesso di offrirle qualsiasi cosa, a partire da quella seta o da quelle perle.Le iridi della giovane tornarono sulle pietre del selciato con un guizzo di simpatia, che lui volle con arroganza immaginare fosse rivolta a lui. «Capitano, vi vedo con piacere sulla terraferma. E anche voi, don Pedro.»La donna più matura si spostò come volesse proteggere la nipote. Alfonso fece un inchino profondo e disse ciò per cui era venuto:«Mi dispiace interrompere i vostri acquisti, ma il Principe mi ha chiesto di scortarvi, al vostro ritorno, fino a Palazzo di Fassolo.»Donna Consuelo sollevò un sopracciglio.«Ma davvero?»Alfonso le concesse un cenno affermativo.«Sarà un piacere accompagnarvi.»
I loro passi presero ben presto l’identica cadenza negli stretti vicoli di Genova, soffocati tra case alte dalle facciate in pietra, costellati di ciottoli rotondi, animati da passanti infreddoliti racchiusi come ostriche nei loro mantelli. Su tutto l’odore aspro della salsedine, che saliva dal porto e profumava ogni angolo della città. I due sgherri precedevano il gruppetto e Alfonso aveva fatto in modo di rallentare a poco a poco, mente Pedro isolava Donna Consuelo con le sue chiacchiere. Svoltando in una via più ampia ebbe modo di restare un poco indietro e, a quel punto, sussurrò alla giovane che lo precedeva:«Vi dona quel colore.»La giovane sussultò ma poi gli sorrise:«Alludete al mantello che indosso o alla pezza di seta che avete voluto a tutti i costi donarmi?»«A entrambi. Il vostro volto non mi ha lasciato un solo istante da quando siete sbarcata. Avevo necessità di rivedervi.»«Siete uno sfacciato, Alfonso da Dovara.»«Lo sarò ancora di più ai vostri occhi quando vi dirò quello che intendo fare, per ottenere la vostra mano.»La fanciulla rallentò, gli occhi sgranati e Alfonso prese fiato: «Volete sposare Miguel de Las Casas?» le domandò sottovoce.La domanda provocò un breve riflesso nello sguardo della giovane mentre a passi lenti sbucavano in piazza san Matteo, dominata dalla facciata della chiesa a spesse strisce di candido marmo e nera ardesia, il rosone simile a un gigantesco occhio. «Mi sembra un ottimo partito. Ma devo prima compiere i diciott’anni.»«E quando sarà?»«A febbraio.»«Siamo a fine dicembre, mancano poco più di due mesi. Lo amate?»Il viso di lei cambiò espressione, il suo sguardo espresse angoscia, ma rispose con assoluta compostezza. «L’ho visto una sola volta, ho scambiato con lui poche parole. Come potete pensarlo?»«A me è bastato guardarvi un solo istante per comprendere che la mia vita sarebbe stata incompleta, senza di voi al fianco. Ditemi se volete che lotti per voi e per la nostra unione presso vostro padre.»«Questo è un corteggiamento inconsueto, capitano.»«Questo è ciò che sono io, un uomo pragmatico che va diritto al punto ma che vi rispetterà sempre, in ogni circostanza.»

Genova, vigilia di Natale 1545
Nel lungo corridoio deserto si susseguivano affreschi resi vividi da paesaggi, personaggi mitologici e dagli antenati del Principe. Sulle pareti brillavano cieli, acque, alberi, nubi, rese più luminose da pennellate di colori vellutati. Angeli, soldati e Santi dai volti olivastri o pallidi, plasmati dalla luce morbida, dolcissima, di uno spicchio di luna o dal fascio di luce di una finestra dipinta sullo sfondo. Una natura resa viva dai minuziosi, realistici particolari: i sassi, le rocce, gli armati e le divinità antiche che impersonavano eroi moderni.Eleonora aveva quasi l’impressione di poter toccare quei capolavori e, toccandoli, sentire il freddo delle armature, la morbidezza di una guancia, la crudeltà di una spada sguainata.Sollevò appena il vestito, accelerò il passo visto che si era attardata troppo, e fu accompagnata dal fruscio della stoffa, dal ticchettare delle scarpette di raso col tacco di legno.Sentì l’inconfondibile rumore di una porta che si apriva alle sue spalle ma non rallentò, né si voltò a controllare.Passi pesanti dietro di lei, cadenzati.La curiosità ebbe il sopravvento e diede una sbirciatina. L’inconfondibile figura di Alfonso da Dovara apparve sullo sfondo e, forse spinta da uno sciocco impulso o dalla propria vanità, rallentò il passo. Da giorni anelava di sentire ancora il suo sguardo carezzevole. Le iridi di quell’uomo, solo apparentemente fredde, avevano un potere strano su di lei: la scaldavano allo stesso modo delle fiamme nel camino o di una tazza di vino bollente, profumato con spezie orientali.Lei, affascinata dalle pennellate dei pittori sulle pareti, si era impressa con precisione nella mente il suo volto virile e, quando chiudeva gli occhi, poteva rivederne ogni linea, ogni curva, ogni spessore. Nel silenzio della sua stanza o nell'intimità dei suoi pensieri ne ricordava ombre e luci, l’intenso sorriso, o la brusca, inaspettata severità. Anche in quel momento provò una sensazione preoccupante: un formicolio che le vibrava in corpo, lo stesso di quando lui si avvicinava o le torreggiava accanto. Non era la semplice eccitazione dello scambio verbale con un uomo; c'era dell'altro, qualcosa che non aveva mai provato, di personale e molto, molto femminile.«Señorita,» disse lui con dolcezza e le sue gambe rifiutarono di proseguire.«Señor,» rispose lei e ne osservò gli ultimi passi. I loro sguardi si intrecciarono per qualche istante. Poi lui distolse lo sguardo e fissò l’affresco davanti al quale si erano fermati.«Gli antenati del Principe dipinti dal maestro Perin del Varga vi affascinano?»Eleonora osservò lo stesso turbinare di colori, di arti ignudi, di visi barbuti e di teneri putti che stava studiando lui e pensò un momento, prima di rispondere:«Non solo, señor. E’ come se venissi trascinata in mezzo a loro. Sembrano così vivi, così reali.»Lui tornò a fissarla e piegò appena il volto.«Io sono affascinato da voi, così viva e così reale.» Il giovane si guardò intorno e avanzò di un passo. Erano davvero molto vicini, tanto vicini che lui bisbigliò qualcosa, le incorniciò il viso tra le mani e coi pollici gli accarezzò la commessura delle labbra. Dita ruvide, sconosciute su di lei.Avrebbe potuto chiudere gli occhi ma volle seguire ogni sua mossa, mentre abbassava la testa e posava, con delicatezza, le labbra sulla sua bocca. Nonostante la violenza che Eleonora percepiva nel rude capitano, il bacio fu soave e lei trattenne il respiro stordita dalla tenerezza, dal profumo caldo della pelle, dal suo sapore. Chiuse le mani a pugno, quasi strappando i pizzi dell’abito poiché non sapeva dove poggiare le mani.«Questo è perché devo smettere di sognarvi.» Mormorò lui, un soffio caldo sul suo volto.«Posso toccarvi, Alfonso da Dovara?» gli chiese allora, per la prima volta davvero intimidita.«Fatelo, vi prego.»Eleonora aprì le dita e sollevò le mani. Gli appoggiò i palmi aperti sul petto coperto da un farsetto di velluto, intrecciato di cuoio marrone. La stoffa era ruvida e sotto trovò la solidità di un uomo vero, non dipinto, né sognato. Esisteva e, quando un respiro gli gonfiò il petto, quel movimento la commosse, così come il battito affrettato di quel cuore che faceva eco al suo. Alfonso emise un suono soffocato e le coprì le mani.«Un solo altro bacio per questo Natale, che segna una fine e un nuovo inizio» le disse.«Voi rubate baci, capitano?»«Solo a voi e non sarà mai un furto, ma uno scambio: io vi dono parte di me e voi mi darete la speranza di giorni infiniti, da trascorrere con voi.»«Ebbene fatelo prima che arrivi qualcuno, capitano.»E lui tornò a baciarla e questa volta non fu delicato, né soave ma affamato, rude, profondo. C'erano tanti motivi per tenere labbra serrate e ostentare un pudico contegno, ma non li ricordò. Si alzò in punta di piedi e aprì la bocca. Questa volta le sue mani artigliarono il tessuto rude, una presa quasi disperata mente la lingua di lui l’accarezzava. Impossibile resistere.Alfonso l'avvolse con un braccio, quasi la sollevò contro di sé modellandola al suo corpo, dalle ginocchia fino ai seni, mentre il bacio si faceva più profondo, ardente, indimenticabile. Eleonora lo lasciò andare ma solo per circondargli il collo con le braccia, con un'urgenza che annullava la ragione.All'improvviso egli sollevò la testa. Un rumore di passi, una risata, voci il cui eco arrivò fino a loro.«Vi chiederò in sposa domani stesso,» sussurrò lui con urgenza «ditemi che lo volete.»«Lo voglio» rispose ancor prima di formulare il pensiero nella mente.Alfonso alzò le mani, si separò da lei con gli occhi luccicanti.«Ci vedremo tra poco.» Aggiunse e indietreggiò mentre le voci e i passi si facevano più vicini.  La lasciò in piedi e scomparve, non prima di averle mandato un bacio immaginario. Nella crescente oscurità del crepuscolo invernale, dominato dal freddo che entrava nelle ossa, Eleonora fu in pace con il mondo. Tentò di quietare il proprio cuore poggiandovi il palmo ma batteva troppo in fretta così si avviò correndo, verso la sua mèta.
Vino caldo, profumo di dolci. Molte persone si aggiravano nel salone, passando con noncuranza davanti al gigantesco camino, dove alcuni grossi ceppi alimentavano fiamme guizzanti.Il Principe D’Oria era seduto sullo scranno di velluto carminio accanto alla finestra e parlottava con sua moglie, Donna Peretta, coi capelli raccolti sotto la cuffia candida. Donna Consuelo sfarfallava qua e là salutando le nobili dame genovesi, gettando occhiate guardinghe a sua nipote. Alfonso da Dovara entrò in quel momento, calamitando su di lui tutta l’attenzione. Bene, era riuscita nel suo intento. I due giovani si erano visti, si erano piaciuti e lui era stato tanto ardito da sbaragliare il rivale, quell’odioso di Las Casas.Aveva fatto bene a puntare su di lui le sue speranze e presto il matrimonio sarebbe stato celebrato addirittura alla corte del Principe Andre D’Oria. Sotto la sua ala protettiva, nemmeno Carlo V avrebbe avuto di che obbiettare. Donna Consuelo si abbandonò a un segreto sorriso e sollevò appena il calice con il vino aromatico. Era il 24 dicembre, la vigilia di un Natale che sarebbe diventato presto indimenticabile.

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Published on January 11, 2014 03:05

December 22, 2013

Solstizio d'inverno e Natale cristiano




Il solstizio d'inverno, nel vecchio calendario giuliano celebrava le nozze della notte più lunga con il giorno più corto. Il termine solstizio viene dal latino solstitium, che significa sole fermo visto che nell’emisfero nord della terra, nei giorni dal 22 al 24 dicembre, il sole sembra fermarsi in cielo, fenomeno tanto più evidente quanto più ci si avvicina all’equatore. Esso raggiunge il punto di massima distanza dal piano equatoriale, la notte raggiunge la massima estensione: è la notte più lunga e il giorno più corto dell’anno. Subito dopo il solstizio, la luce del giorno torna a poco a poco ad aumentare fino al solstizio d’estate (21giugno), il giorno più lungo dell’anno.
Il giorno del solstizio cade generalmente il 21 dicembre ma, a causa dell’inversione apparente del moto solare, diventa visibile solo il terzo/quarto giorno successivo. Il sole dunque, nel solstizio d’inverno, giunge nella sua fase più flebile per poi tornare invincibile sulle tenebre.Questo significativo fenomeno astronomico era celebrato già a Stonehenge in Gran Bretagna dove sopravvivono imponenti ruderi di un tempio druidico: due cerchi concentrici di monoliti che raggiungono le cinquanta tonnellate. L'asse del monumento è orientato astronomicamente, con un viale di accesso al cui centro si erge un masso detto Heel Stone, pietra del calcagno: durante il  solstizio d'estate il sole si leva al di sopra del Calcagno che si rivela dunque una sorta di calendario. 

A Nabta Playa in Egitto, a un centinaio di chilometri da Abu Simbel, vi è un circolo calendariale in cui due monoliti hanno allineamento nord-est in direzione del sorgere del sole il 21 giugno e risulta essere più antico di Stonehenge di almeno mille anni. 
Il 25 dicembre è associato al giorno di nascita di parecchie divinità pagane antecedenti a Cristo, che hanno ispirato in diversi modi la nuova religione cristiana. Come non associare Iside che, seduta con in braccio Horus con la corona solare sul capo, alle molte immagini della Madonna col Bambino?
A Babilonia, intorno al 3000 a.C., si festeggiava il dio Sole babilonese Shamash e in seguito la dea Ishtar con il figlio Tammuz, considerato incarnazione del Sole. Ishtar era ritratta con un'aureola di dodici stelle sul capo e il bambino tra le braccia, bambino che poi cresceva e moriva per risorgere dopo tre giorni.
Nelle civiltà del Mediterraneo orientale del I sec. d.C. questi prodigi appartenevano a numi pagani agrari e solari. Il mito di base è il dramma del giovane dio che muore, nel pieno della vita, per rigenerare la natura con il suo sangue ma rinasce per trasformarsi nel signore dei vivi e dei morti e nel salvatore dell'umanità. In Egitto questo dio è Osiride, in Persia è Mitra, in Asia Minore è Attis, in Grecia è Dioniso. Nei giorni del solstizio d’inverno in Grecia si svolgeva in onore di Dioniso una festa rituale chiamata Lenaea, la festa delle donne selvagge, in cui veniva celebrato il dio che rinasceva bambino, dopo essere stato fatto a pezzi. Era anche il giorno della nascita di Ercole e Adone.
A Roma i culti ufficiali erano pagati dallo stato, ma le altre religioni erano rispettate e potevano convivere, allo stesso modo e con gli stessi termini, di quelle ufficiali. Il cristianesimo non fu perseguitato come religione, ma perché i suoi seguaci volevano abolire le religioni di stato romane. Volevano cioè abbattere qualsiasi religione, in modo poco democratico.
La festa del Sole diventò il culto più importante a Roma verso la fine del III sec., a causa dell’influenza dei culti e delle tradizioni orientali. Si diffuse a Roma per la prima volta con l'imperatore Eliogabalo (Sesto Vario Avito Bassiano, salito al trono imperiale col nome di Marco Aurelio Antonino, della dinastia dei Severi. Il nome Eliogabalo non venne mai usato da lui, né dai suoi contemporanei, ma viene attestato a partire da una fonte del IV secolo), sebbene vi siano emissioni monetali già all'epoca di Caracalla. Le rose di Eliogabalo, di Sir Lawrence Alma-Tadema Marco Aurelio Antonino tentò di imporre il culto di El-Gabalus Sol Invictus, il dio-bolide solare della sua città natia, Emesa in Siria, di cui egli era sacerdote. Fece costruire sul Palatino un tempio dedicato alla nuova divinità ma, dopo il suo assassinio da parte dei pretoriani nel 222, il culto cessò di esistere, anche se molti imperatori continuarono ad essere ritratti sulle monete con l'iconografia della corona radiata solare per quasi un secolo.
Il Sol Invictus compare anche come divinità associata al culto di Mitra, a volte è confuso col culto di Elios o di Apollo. Il termine Invictus compare anche riferito a Mitra stesso o al dio Marte nelle iscrizioni private dei dedicanti e dei devoti.
Il sacrificio di un toro al dio Mitra Il culto di Mitra si diffuse soprattutto nelle legioni romane, ma venne abbracciato anche da altre classi sociali, compresi gli schiavi: esso aveva regole di comportamento molto precise, che richiedevano temperanza, autocontrollo e la compassione nella vittoria. Mitra era considerato il Figlio del dio supremo Sole, nato da una roccia presso un albero sacro da una vergine, con una torcia in mano, simbolo della luce e del fuoco che spandeva sul cosmo. Il mito narra che alcuni pastori presenti all'evento soprannaturale gli avevano offerto primizie dei greggi e dei raccolti: non sono poche le analogie con la nascita del Cristo, avvenuta in una grotta illuminata da una stella, mentre i pastori lo adoravano e gli portavano doni… Anche Mitra era nato il 25 dicembre, era adorato la domenica, il giorno del sole, ed era come Cristo un dio messaggero, intermediario tra l'uomo e Dio, vincitore contro le forze oscure del male. Il Mitraismo, come il cristianesimo, offriva la salvezza ai suoi seguaci.
L'imperatore Aureliano, 214 - 275 Aureliano, originario della Dacia Ripensis e figlio di una sacerdotessa del Sole, fece del Dies Natalis Solis Invictus il centro della liturgia imperiale. Quando nel 272 sconfisse la principale nemica dell'impero, la regina Zenobia di Palmira, grazie all'aiuto provvidenziale della città stato di Emesa, l'imperatore raccontò di aver avuto la visione del dio Sole, protettore della città, che interveniva per rincuorare le truppe quasi disperse. D'altronde, a Costantino non apparve forse la croce in cielo, che lo spronava a combattere e prometteva la vittoria sul ponte Milvio per distruggere Massenzio?
Quella di Aureliano fu solo un'abile mossa politica? In ogni caso, nel 274, egli trasferì a Roma i sacerdoti del dio Sol Invictus e statalizzò il culto solare di Emesa, indossando egli stesso nelle cerimonie una corona a raggi ed edificando un tempio sulle pendici del Quirinale con un nuovo corpo di sacerdoti: i Pontifices Solis Invicti. La festa divenne sempre più importante visto che includeva una festività romana più antica, i Saturnalia. Il Dies Natalis quindi fu associato alle festività dei Saturnalia, che duravano dal 17 al 25 dicembre e finivano con le Larentalia, la festa dei Lari, le divinità tutelari incaricate di proteggere raccolti, strade, città e famiglia.
Aureo di LicinoDurante il regno di Licinio (265- 325), la celebrazione si svolgeva il 19 dicembre, data forse più prossima al solstizio astronomico nel calendario allora in vigore.
Nel 330 Costantino sebbene vi siano dubbi sulla sua reale conversione al cristianesimo, ufficializzò per la prima volta la festa della natività di Gesù che fu fatta coincidere con la festa pagana della nascita di Sol Invictus. Il "Natale Invitto" divenne così il "Natale" Cristiano. Egli fece inoltre raffigurare il Sol Invictus sulla sua monetazione ufficiale con l'iscrizione Soli Invicto Comiti, “al compagno Sole Invitto", definendo quindi il dio come compagno dell'imperatore. Con un decreto del 7 marzo 321 stabilì che il primo giorno della settimana (il giorno del sole) doveva essere dedicato al riposo (la domenica).
Costantino I Nel 337 papa Giulio I ufficializzò la data del Natale per conto della Chiesa cattolica, come riferito da Giovanni Crisostomo nel 390. In questo giorno, 25 dicembre, anche la natività di Cristo fu definitivamente fissata in Roma.
La celebrazione del Sole Invitto proprio il 25 dicembre è testimoniata nel Cronografo del 354 (calendario illustrato dell’anno 354 accompagnato da testi e illustrazioni, opera del calligrafo Furio Dionisio Filocalo), insieme alla testimonianza del Natale cristiano. La prima testimonianza della celebrazione del Natale cristiano successiva al Cronografo è del 380, grazie ai sermoni di san Gregorio di Nissa. La festa del Natale di Cristo, infatti, non è riportato nei più antichi calendari delle festività cristiane e anche in seguito essa era celebrata in date differenti tra loro.
I cristiani ribattezzarono dunque una festa pagana spostandone la data dal 21 al 25 dicembre, per soppiantare l'altra e ricordiamoci che sia la nascita da una madre vergine, sia la resurrezione il terzo giorno successivo alla morte, erano segni distintivi della divinità.
Teodosio I Nel 376 venne soppresso il culto di Mitra a Roma. Con l’editto dell’imperatore Teodosio del 392, che diede inizio alle persecuzioni contro i riti pagani, si conclusero in tutto l’Impero le ultime celebrazioni in onore della dea Iside madre di Horus e con i decreti dell’Imperatore Giustiniano, del 536, fu chiuso l’ultimo tempio in onore di Iside in Egitto, dando via libera al Natale cristiano in tutto l’Impero Romano.
Prima di tale canonizzazione infatti, durante il cristianesimo delle origini, la nascita di Cristo aveva date diverse: per S. Cipriano cadeva il 28 marzo, per S. Ippolito il 23 aprile, secondo Clemente Alessandrino il 20 maggio o il 10 gennaio, o il 6 gennaio; quest’ultima data si affermò in Oriente e da lì venne utilizzata a Roma fino al cambiamento deciso da Costantino, poi confermato da Papa Giulio I. Altre chiese cristiane, come quella ortodossa, copta, armena, continuano invece a celebrarlo il 6 gennaio, in cui l’Epifania rappresenta l’annunciazione della nascita di Cristo.
Oggi il Natale e il Capodanno rappresentano due ricorrenze, per i romani invece le due date coincidevano, perché il Natale era il Dies Natalis Solis Invicti che segnava il ciclo dell'anno nuovo.

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Published on December 22, 2013 03:13

December 10, 2013

Un assaggio di storia antica…


Quinto Fabio Massimo Emiliano è il protagonista del racconto “Una donna di Roma” , inserito nella raccolta di racconti La legge del Lupo e altre Storie.
 La terza guerra punica (149-146 a,C.)
Sconfitta nella prima delle tre guerre, Cartagine aveva perso la parte della Sicilia, la Corsica, la Sardegna e parte della Spagna, dopo la sconfitta di Annibale nella seconda guerra punica. Cartagine fu costretta a pagare ingenti indennità a Roma e a “prestare” un contingente di truppe alla città italica. Roma non dimenticò però che Annibale era quasi giunto alle porte della città. Tra l’altro, i territori che avevano sopportato l’invasione dei cartaginesi erano in condizioni disastrose e le spese per il mantenimento delle legioni necessarie alle difesa era esorbitante. Catone il Censore terminava sempre i suoi discorsi con la frase ceterum censeo Carthaginem esse delendamovvero “concludo affermando che Cartagine deve essere distrutta”. A cambiare le sorti dello status-quo intervenne Massinissa re numida che si era dedicato ad i confini dei suoi possedimenti dalla costa dell’attuale Tunisia fino all'Atlantico. La sue mire comprendevano anche Cartagine: approfittò degli accordi di pace fra Roma e la città punica, che vietavano a quest’ultima persino l'autodifesa senza il consenso dei vincitori, per sottrarre territori di confine alla città punica.
 Il porto di Cartagine Nel 193 a.C. Roma inviò a Cartagine una delegazione guidata da Publio Cornelio Scipione che però non decise alcuna mossa contro la Numidia. Nel 174 a.C. Massinissa occupò Tisca. Catone, tornato in Italia dall’Africa intensificò la campagna a favore della distruzione di Cartagine. Famoso l'aneddoto del cestino di fichi, che mostrò in Senato: erano ancora così freschi da rendere evidente quanto la città punica fosse vicina a Roma.
In un susseguirsi di botta e risposta diplomatici alla fine, nel 150 a.C., l'esasperata Cartagine decise il riarmo per difendersi da Massinissa, che però la sconfisse: il rischio adesso era che Cartagine cadesse preda della Numidia, situazione che avrebbe potuto minare il potere romano nel Mediterraneo. Roma inviò una missione diplomatica per far desistere i cartaginesi dal riarmo: il Senato chiedeva che parte della città affacciata sul mare fosse demolita e che nessun edificio vi sorgesse a meno di cinque/sei miglia. Richiesta impossibile poiché l'economia della città si fondava sugli scambi commerciali. I cartaginesi dichiararono allora guerra a Roma: era il 149 a.C..
Quinto Fabio Massimo Emiliano
protagonista del racconto I due consoli appena eletti, Lucio Marcio Censorino e Manio Manilio Nepote, partirono dai porti siciliani. Tra i tribuni della legione c’era anche Scipione Emiliano, nipote del console Lucio Emilio Paolo morto a Canne, adottato dalla gens Cornelia dal figlio di Scipione l’Africano.
Allarmata dall’entità delle legioni inviate da Roma, Cartagine si arrese offrendo trecento ostaggi, scelti fra gli adolescenti della nobiltà punica. I consoli ricevettero gli ambasciatori di Cartagine rinfacciando loro la ripresa delle ostilità e questi ultimi dovettero accettare le condizioni di Roma: consegnare seduta stante duecentomila armature e altro prezioso materiale bellico. A quel punto Censorino annunciò agli ambasciatori le vere intenzioni di Roma: distruggere la città. Costernati essi replicarono che, così facendo, Roma non avrebbe tenuto fede alle promesse.  Lapidaria fu la replica del romano: Roma prometteva salvezza ai cittadini, non alla cittàstessa. Gli ambasciatori, tornati a Cartagine, furono quasi uccisi dalla folla inferocita e in città iniziarono gravi rappresaglie: furono uccisi tutti gli italici e liberati gli schiavi, fu poi richiamato Asdrubale e altri esuli, che avrebbero dovuto preparare la difesa. I cartaginesi chiesero ai romani una moratoria di un mese, con il pretesto di inviare una delegazione, ma in realtà approfittarono del tempo concessogli per rinforzate le mura e riarmarsi. Le legioni romane, giunte nel frattempo da Utica, trovarono un popolo compatto e intenzionato alla strenua difesa della città.
Mura robuste, abitanti decisi, rifornimenti abbondanti assicurati dallo sbocco a mare: una situazione difficile per Nepote e Censorino. Sembra che Asdrubale avesse raccolto almeno cinquantamila armati. Nepote portò i suoi uomini davanti alle mura della cittadella, Censorino tentò di bloccare il porto. Le ostilità durarono a lungo, con alterne vicende: i romani riuscirono a produrre una breccia nelle mura, che però fu subito richiusa. I cartaginesi distrussero parte delle macchine belliche romane, Censorino cercò di attaccare il borgo di Neferi ma fu respinto da Asdrubale. L’anno successivo, il 148 a.C., vide l’elezione di nuovi consoli: Lucio Calpurnio Pisone Cesonino e Lucio Ostilio Mancino. Furono inviati in Africa, ma si rivelarono ancora più incapaci dei predecessori. Gli insuccessi romani resero audaci i cartaginesi ma l’eccesso di fiducia si rivelò letale: Asdrubale, preso il potere con un colpo di stato, ordinò di esporre sulle mura i prigionieri romani orrendamente mutilati, per intimorire le legioni schierate ma ottenne l'effetto contrario. I romani, a quel punto, non gli avrebbero concesso alcuna mercé.
Nel 147 a.C. fu nominato console Scipione Emiliano, senza neppure aver raggiunto l'età prescritta per il consolato di quarantasette anni. L’altro console eletto per quell’anno fu Gaio Livio Druso. Giunto sotto le mura di Cartagine, Scipione Emiliano dovette correre a salvare Lucio Ostilio Mancino che, isolato da un contrattacco dei difensori, rischiava di morire di fame. Scipione si concentrò allora nell’attacco a Cartagine, convinto che i territori alleati avrebbe ceduto una volta caduta la città punica. Asdrubale, che difendeva il porto, fu  costretto alla fuga ma i rifornimenti giungevano ancora alla città assediata. Allora Scipione  bloccò lo sbocco al mare con uno sbarramento. I cartaginesi scavarono un tunnel-canale per rifornirsi di vettovaglie ma Scipione agì con rapidità e distrusse la flotta, costruita in fretta e furia dai cartaginesi per quello scopo e fece presidiare il canale, che venne chiuso.
Nel frattempo la città di Nefari, presidiata da un grosso nucleo cartaginese, spina nel fianco dei romani, fu attaccata dal legato Gaio Lelio Minore e dal figlio di Massinissa Golussa, che Scipione aveva convinto ad allearsi a Roma. Fu un’ecatombe e la caduta di Nefari portò con sé la resa delle altre città. I romani poterono concentrarsi di nuovo su Cartagine.
La città resistette per tutto l'inverno, con pochi viveri e alle prese con una pestilenza. Scipione attese fino al 146 a.C.: gli abitanti erano allo stremo. Allora attaccò e le legioni  furono lanciate per superare le mura. Gaio Lelio, fidato amico di Emiliano, con le sue truppe scelte conquistò il porto militare e il foro. Dopo tre anni di resistenza, i superstiti impegnarono i romani in una disperata battaglia per le strade della città, battaglia che si protrasse per una quindicina di giorni. Gli ultimi sopravvissuti si barricarono nel tempio di Eshmun resistendo per altri otto giorni, ma alla fine il tempio fu dato alle fiamme. Scipione promise salva la vita a chi sarebbe uscito disarmato dalla cittadella; uscirono in cinquantamila, fra cui Asdrubale. Dopo aver recuperato alcune opere d'arte che i cartaginesi avevano sottratto in Sicilia, Scipione abbandonò la città al saccheggio.
Cartagine, regina del Mediterraneo che aveva fatto tremare Roma, fu rasa al suolo. Le case bruciate, le mura abbattute, il porto interrato. Dopo giorni di incessante smantellamento e di distruzione, sul terreno passarono gli aratri e nei loro solchi paralleli fu versato del sale, affinché nulla potesse più ricrescere sul suolo della città punica.
I circa superstiti, soprattutto donne e bambini, furono fatti schiavi; i territori posseduti da Cartagine divennero ager publicus, terreno dello stato e appaltati a coloni romani. Utica, rivale di Cartagine e alleata di Roma, divenne la nuova capitale della regione. Tra la Numidia e gli ex possedimenti di Cartagine fu scavato un fossato, detto poi Fossa Regia, atto a segnare il confine con la neonata Africa Proconsularis, la nuova provincia d’Africa. La terza guerra punica era terminata.
 
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Published on December 10, 2013 15:17