Adele Vieri Castellano's Blog, page 4

January 25, 2015

Buon appetito, gladiatori!



I gladiatori: prigionieri di guerra, criminali, schiavi. Ma anche romani liberi caduti in rovina o che avevano conti in sospeso con la giustizia, tanto da essere disposti a rischiare la morte pur di guadagnare qualche sesterzio, diventare eroi della capitale del mondo o, per meriti particolari, riacquistare la libertà.
Il loro armamento, che in età repubblicana era legato all’arbitrio individuale, fu regolamentato durante il principato di Augusto, insieme alla definizione di precise classi gladiatorie. Nacquero così i mirmilloni, i reziari, i traci, i secutor, per citarne alcuni, tutti raccolti in familiae guidate con disciplina dal lanista, imprenditore che faceva commercio di gladiatori e li affittava all’organizzatore degli spettacoli gladiatorii, i munera. La più famosa e grande scuola imperiale di gladiatori a Roma era il ludus magnus, situata vicino all’anfiteatro Flavio.  
Essi avevano pochi diritti e dovevano pronunciare un sinistro giuramento (sacramentum gladiatorium),rinunciando al loro status di cittadini: uri, vinciri, verberari, ferroque necari, ovvero: “sopporterò di essere bruciato, legato, picchiato e ucciso con la spada”. La loro aspettativa di vita dunque era minima e la morte, di sicuro, cruenta e sanguinosa. Pare che tra l’altro non traessero nemmeno grandi soddisfazioni dal cibo, la loro dieta era prevalentemente a base di vegetali.
Anche per questi antichi lottatori dunque il cibo era salute e sinonimo di forma fisica. Sapete vero che Alessandro Magno era stato ispirato per le sue conquiste non solo dalla sete di potere, ma anche dalla speranza di trovare una sorgente per invertire il processo di invecchiamento? E che Juan Ponce de Leon era invece sulle tracce della fontana della giovinezza, quando scoprì la Florida nel 1513?  Una leggenda tramanda che la polvere da sparo, inventata dai cinesi, sia stata l'inaspettato risultato della ricerca per un elisir di lunga vita. Oggi sappiamo che per invecchiare in salute ci vogliono geni di “buona qualità”, che determinano per circa per un terzo la durata dell'esistenza di una persona, ma sappiamo anche che il resto dipende da una combinazione di fattori ambientali e stili di vita, che comprendono interazioni sociali, attività fisica e cibo. I romani lo sapevano già, quindi torniamo ai nostri amici gladiatori.
Plinio il Vecchio tramanda che erano soprannominati hordearii, cioè uomini d'orzo, il medico Galeno (II secolo), che li curò per anni, invece ci ha lasciato testimonianza di ciò di cui si nutrivano: legumi, cereali, cipolle, aglio, semi di finocchio, frutta fresca e secca. La carne era rarissima ma abbondanti i latticini, olio, miele e il solito vino annacquato. Cibi sostanziosi, ma anche economici. Pare che, come Braccio di Ferro per gli spinaci, anche i gladiatori utilizzassero prima degli scontri un alimento speciale per acquistare forza: erano focacce d'orzo speziate, condite con miele e un infuso a base di fieno greco, dalle proprietà energizzanti.
In genere cereali e legumi venivano somministrati come creme passate, a cui veniva aggiunto orzo decorticato. Analisi chimiche delle ossa di una settantina di gladiatori scoperte presso Efeso, capitale romana dell’Asia Minore e sede del favoloso tempio di Artemide, hanno confermato la tradizione storica. Le ossa rinvenute appartenevano a diversi gladiatori di età compresa tra i venti e i trent'anni, assieme a una donna (forse una schiava o una gladiatrice) e un uomo di mezza età che, in base alle condizioni dello scheletro, si è ipotizzato fosse un ex-gladiatore diventato allenatore. Karl Grossschmidt, antropologo forense all’Università di Vienna, ha concluso, grazie alle ricerche su questo ritrovamento, che i gladiatori prima di un incontro mettevano su peso, piuttosto che perderlo, per proteggersi dalle ferite con lo strato di grasso che suppliva l’assenza di armatura.
Le analisi di Grosschmidt non hanno riscontrato carenze croniche di calcio, forse grazie anche alla misteriosa bevanda, citata nella letteratura romana di quel tempo: un preparato a base di ceneri di legna, ossa e aceto, usato come tonificante dopo gli allenamenti o al termine dei combattimenti.
Le analisi mediche mostrano inoltre che i gladiatori, nonostante un po’ di “pancetta”, non erano affatto pigri pantofolai: la densità delle ossa trovate nel sito di Efeso è simile a quella degli odierni atleti professionisti e le tracce di muscoli ingrossati sulle ossa delle braccia e delle gambe indicano che partecipavano a programmi di esercizio ginnico intensi e continui. Insomma, mangiatori di fagioli palestrati che trangugiavano un Gatorade molto particolare. 
A Roma, negli anfiteatri, incitati da folle oceaniche potevano esibirsi in un giorno decine di gladiatori in combattimenti in coppia, a squadre o contro felini, bufali, orsi, elefanti, rinoceronti e chi più ne ha più ne metta. La sera prima del combattimento veniva loro offerto un lauto banchetto chiamato coena libera, nello stesso spirito con cui oggi viene concesso l'ultimo desiderio ai condannati a morte. Alcuni mosaici rappresentano i morituri mentre mangiano, bevono e fanno baldoria, concedendosi per una volta leccornie come cinghiale arrosto, pesce e cacciagione.
Per concludere, mi piace pensare che anche agli innumerevoli carnivori in gabbia, in attesa di essere sbudellati, venisse offerto l’ultimo, lauta cena: un pasciuto e grassoccio gladiatore…



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Published on January 25, 2015 15:30

January 11, 2015

Carciofo, ortaggio storico



Michelangelo Merisi, ancor più noto come il Caravaggio (1571- 1610) gode di una fama universale dovuta ai colori, al suo temperamento e ai celebri dipinti che interpretano lo stato umano, fisico, emotivo dei suoi personaggi con grande forza e suggestione.
Caravaggio usò la luce e i colori con uno spirito drammatico mai eguagliato da altri e il suo modo di dipingere influenzò fortemente la pittura barocca. Fino a noi sono giunti sessanta dei suoi dipinti e si narra che, per far posto alle sue tele più grandi, fece un buco nel soffitto di casa sua. Quando l’affittuaria ebbe da ridire, egli scagliò pietre contro la sua finestra ma le lanciò anche contro la polizia, fu accusato di aver sobillato risse e brandì spade e pistole per le strade di Roma, senza averne il permesso. Fu processato per aver picchiato un uomo con un bastone e imprigionato per aver aggredito un suo collega. Un animo irrequieto che, il 28 maggio 1606 durante una rissa, uccise un uomo e fu per questo condannato a morte. Da allora visse in costante fuga per sfuggire alla pena capitale.
Altrettanto famoso fu l'episodio in cui attaccò un cameriere, a causa di un piatto di carciofi. L'uomo, tal Pietro Antonio de Fosaccia, servì il Caravaggio e alcuni suoi amici durante un pranzo e così descrisse l'accaduto alla polizia il 26 aprile 1604: «Ho portato loro otto carciofi, quattro ripassati nel burro e quattro fritti. Quando l'imputato mi chiese di indicargli quali erano quelli al burro e quali quelli cotti nell'olio, io gli consigliai di annusarli. Lui si arrabbiò e, senza dire nulla, afferrò il tegame di terracotta e mi colpì sulla guancia, ferendomi lievemente... "
Ma cosa scatenò la rabbia di Caravaggio? Forse i carciofi? Carciofi e cardi appartengono alla famiglia delle Asteraceae e sono sulle nostre tavole dai tempi della civiltà greco-romana. Secondo il mito greco, il carciofo è nato grazie a Zeus che, in visita a suo fratello Poseidone, avvistò sulla spiaggia una splendida ninfa di nome Cynara, chiamata così a causa dei suoi capelli color cenere. La bella ninfa aveva occhi verdi e viola, era alta e snella e, tanto per cambiare Zeus se ne innamorò. Dopo averla sedotta, la trasformò in una dea e la portò con sé sul Monte Olimpo. Cynara però si sentiva sola, le mancava la madre, così un giorno fuggì e tornò sulla Terra a visitare la famiglia. Il sotterfugio fece infuriare Zeus che, in un impeto di rabbia degna del Caravaggio, la trasformò in una pianta verde e spinosa, proprio come il suo carattere.


Il nome scientifico di carciofo, Cynara cardunculus, deriva proprio dalla storia di questa ninfa sfortunata. L’ortaggio possiede un fiore violetto come gli occhi della bella ninfa e un cuore tenero, come sa esserlo solo quello di una fanciulla. Il legame con la mitologia è strettissimo perché la pianta è originaria del bacino del Mediterraneo orientale: isole Egee, Cipro, l'Africa settentrionale e l'Etiopia dove tuttora si trovano varie qualità di carciofi che crescono spontaneamente.


Plinio il Vecchio menziona due tipi di Asteraceae commestibili conosciute nel I secolo dai romani: una che "produce numerosi steli subito dopo aver lasciato la terra", che potrebbe essere un tipo di cardo; un'altra che produce "fiori spessi e viola, aventi un unico stelo", forse un progenitore del moderno carciofo. Quest'ultima pianta, secondo Plinio, aveva numerosi effetti medicinali: curava la calvizie, rafforzava lo stomaco, rinfrescava l'alito e, così pare, poteva favorire il concepimento di figli maschi. Anche se Plinio non ne parla in modo esplicito, era anche considerata afrodisiaca. I romani marinavano i carciofi con miele e aceto e li condivano con il cumino.


Dopo la caduta dell'Impero Romano il carciofo fu dimenticato, assieme ai libri, alla civiltà e alle Terme, anche se pare sia stato adottato dagli arabi, che lo esportarono in Spagna. Nei secoli si tornerà a parlare dei carciofi alla corte di Caterina de' Medici, che li fece assaggiare ai fiorentini e poi ai francesi nel XVI secolo, quando all'età di quattordici anni sposò il futuro Enrico II. Sembra ne fosse ghiotta e, data la loro reputazione di alimento eccitante, scandalizzava i più puritani della corte. Dalla Francia i carciofi si diffusero in Olanda, in Inghilterra dove divennero cibo assai gradito di Enrico VIII. 
John Evelyn, nel suo Acetaria: A Discourse of Sallets, del 1699, elenca diversi modi di cucinare lo spinoso ortaggio: “…le teste devono essere divise in quarti, prima di essere consumate crude, con olio, aceto, sale e pepe" e aggiunge quasi fosse un grande chef: "È bene accompagnarle con un bicchiere di vino. Quando ancora sono piccoli e teneri, sono buoni anche fritti nel burro e conditi con il prezzemolo; i fondi possono essere usati per preparare torte e che in Italia i carciofi alla griglia vengono conditi con olio d'oliva e serviti con succo d'arancia e zucchero." Strano condimento che mi piacerebbe sperimentare...


Nel Nuovo Mondo sbarcarono con le prime migrazioni dei coloni, a partire del XVIII secolo, forse furono i francesi a intrudurli per primi nella zona canadese del continente nord-americano, ma pare che già George e Martha Washington coltivassero i carciofi nella loro tenuta di Mount Vernon, e lo stesso faceva Thomas Jefferson, a Monticello.Jefferson li cita anche nel suo libro Garden Booke e di sicuro ne era goloso estimatore e, quando dovette inventare un codice da utilizzare per la sua corrispondenza privata con Meriwether Lewis durante il viaggio verso la costa del Pacifico di Lewis e Clark, scelse come parola chiave proprio "carciofi".


Allora, carciofi a tutte e a tutti!

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Published on January 11, 2015 15:30

January 6, 2015

Recensioni, mon amour…



Mi è capitato spesso di bazzicare su Amazon per scegliere i libri da acquistare. Per me è quasi d’obbligo dare un’occhiata alle opinioni dei lettori, pubblicate a corollario dei libri venduti, con tanto di stelle e stelline. Avete letto bene, ho detto opinioni. Sì, perché le recensioni vere sono rarissime. La stessa cosa mi succede su molti blog, che spuntano come funghi, diventano dall’oggi al domani crogiuoli di giudizi da deus ex… catedra che, sempre più spesso elogiano libri mal scritti e distruggono libri che invece avrebbero un loro perché. Recensioni alla “Cetto la Qualunque”, fatte da chi di scrittura sa poco o nulla, una conoscenza superficiale dovuta solo alle numerose letture. Magari non distingue neppure un’analessi da un climax o, più semplicemente afferma che per uno scrittore l’italiano la grammatica non è necessaria, tanto c’è l’editor (!).
Intanto scopriamo l’etimologia della parola. Recensione deriva dal verbo latino (e te pareva…) recensēre ovvero esaminare. Infatti l’obiettivo di una buona recensione deve essere proprio questo: spingere alla riflessione, esaminare. Occhio: devono essere prive di refusi ma soprattutto prive di errori grammaticali o verbali. Quando si consegna un testo al pubblico esso deve essere perfetto, ne va di prestigio e credibilità. Un consiglio per eliminare i refusi? Rileggete il testo qualche giorno dopo ma se non potete farlo, cambiate il font, ingannerete il vostro cervello che sa a memoria quanto avete scritto. Un altro sistema? Stampatelo e usate carta e matita. Anche se gli errori a volte li fanno anche titolati giornalisti, non consolatevi: Giovanni Minoli, tanto per citarne uno, è avverso all’uso dei congiuntivi ma non è un vanto per lui, credetemi.

Della trama del libro che volete recensire dovrete parlarne solo per sommi capi, dare informazioni generali e presentarne gli aspetti più rilevanti, insomma no alle sinossi annacquate in un brodo cosmico e ricordate, per scrivere una recensione il libro va letto e goduto, assimilato. Ci vuole passione per raccontare la nostra esperienza di lettura ad altri potenziali lettori e badate che per scrivere questo articolo ho dismesso i panni di scrittrice per indossare quelli di blogger e lettrice e dopo il doveroso chiarimento, torniamo a pesce nel nostro brodo… ops, volevo dire all’argomento principale.

Il contenuto della recensione dovrà quindi riguardare soprattutto l'analisi delle caratteristiche del testo, confrontato magari con altre opere dello stesso genere o dello stesso autore e solo alla fine va inserita la vostra valutazione personale (opinione, ricordate?) finalizzata a persuadere l'eventuale lettore della validità della sua scelta.
La recensione è dunque un testo interpretativo-valutativo, con tre elementi fondamentali: una parte a carattere informativo (chiamata blocchetto) con notizie su autore, titolo del libro, casa editrice, anno di pubblicazione, traduttore ecc.; una parte a carattere interpretativo, dove si specifica il genere letterario cui appartiene l'opera e, in caso di narrativa, si accennerà alla trama, ai temi affrontati dall'opera, alle soluzioni di linguaggio e stile adottate dall'autore. 

Potete anche riportare citazioni dirette dall'opera esaminata; infine avremo la parte a carattere valutativo, che consiste nel giudizio sul valore estetico e comunicativo del libro recensito. Si possono scrivere anche recensioni negative su un'opera, demolire un libro o sconsigliarne la lettura, ma in tal caso più che di recensione si parla di stroncatura. La recensione dovrebbe essere quindi un testo breve che si prefigge di informare, spiegare e valutare e non dimentichiamo che, per aiutarvi nella narrazione del plot, un valido strumento, come scritto sopra, possono essere le citazioni prese direttamente dal libro a patto che siano brevi e dimostrative di ciò che state dichiarando ma mi raccomando, non svelate mai il gusto del brodo…ops, volevo dire l’alone di mistero che circonda la trama e non abbondate con frasi generiche e impersonali che dicono tutto e niente. 

Chi legge vuole sapere davvero di cosa tratta il libro, capire se gli piacerebbe leggerlo oppure no. Per cui evitate espressioni come “eccezionale”, “bellissimo” “mi ha colpito molto”. Partendo dal presupposto che ogni testo che si scrive parla già dell’autore, del suo stile, ecco un ultimo consiglio: una buona recensione dovrebbe tendere il più possibile all’oggettività. L’opinione del recensore viene fuori dal taglio con cui si descrive il libro, dalle citazioni che si selezionano, dalla scelta stessa del libro da recensire. La bravura del recensore fa venire voglia di leggere il libro senza dover dichiarare mai “ve lo consiglio”.
Esempio di recensione da NON scrivere? Il commento di un lettore preso su IBS.it del libro di Stephenie Meyer Twilight:
Ragazzi, non capisco ki nn legge qst libro e ki dice che è brutto…tt hanno il diritto di dire la propria ma…come si fa a dire che twilight è brutto!!!è assolutamente il libro più bello k io abbia mai letto!!! è magico, fantastico, indescrivibile…in una parola…UNICO!!!All’inizio la copertina mi ha incurosito e l’ho letto come x sfidare le mie amike ke lo giudicavano dalla copertina…e dopo il primo capitolo…non riuscivo + a separarmene!!  Voto: 5 / 5
Appunto.
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Published on January 06, 2015 15:30

December 20, 2014

Tutankhamon, il mistero continua…



A chi non vengono i brividi? Sì, mi riferisco alle mummie. Ci turbano e affascinano con i loro segreti, le maledizioni, la magia. Ma un tempo erano persone che vivevano, pensavano e amavano proprio come noi, non dobbiamo dimenticarlo neppure se sentiamo parlare di Tutankhamon, faraone circondato da tali misteri che neppure la moderna tecnologia riesce a risolvere. Anche a voi capita? Bene, allora vi racconto qualcosa su di lui.

Salì al trono giovanissimo, faraone della XVIII dinastia la cui tomba fu scoperta, pressoché intatta, dall’egittologo Howard Carter il 4 novembre 1922 grazie alle sovvenzioni di Lord Carnarvon. Il suo è un dramma antico, una storia di cui si sta ancora scrivendo il finale. Il primo capitolo lo possiamo collocare intorno al 1390 a.C., varie decine d’anni prima della sua nascita, quando sale al trono Amenhotep III che governa un impero che si estende dall’Eufrate, fino alla Quarta Cataratta del Nilo. Da nord a sudduemila chilometri di ricchezze inimmaginabili. Al suo fianco la regina Tiye, potente e scaltra. Amenhotep III regna per trentasette anni, onora Amon e la casta potentissima dei suoi sacerdoti, il popolo prospera, le casse del regno si riempiono grazie ai possedimenti oltreconfine.

Il secondo atto del dramma è una rivoluzione: morto Amenhotep III gli succede il suo secondogenito, Amenhotep IV. Sognatore rivoluzionario abbandona il culto di Amon e del pantheon ufficiale egizio per abbracciare il dio unico Aton, il disco solare. Nel quinto anno del suo regno cambia nome, diventa Akhenaton e come dio vivente abbandona la capitale Tebe e costruisce a Tell el-Amarna, in mezzo al deserto, la sua città Aketaton. Con la sua sposa, la bellissima Nefertiti, assolve il ruolo di sommo sacerdote di Aton. La classe sacerdotale di Amon viene privata di potere e ricchezza, l’Aton regna supremo; l’arte di questo periodo è pervasa da un realismo unico nella storia egizia e il faraone si fa ritrarre così com’è, con la pancetta e il viso lungo dalle labbra carnose. La fine del suo regno è avvolta nel dubbio e per un breve periodo l’Egitto è governato da uno o forse due sovrani che regnano insieme ad Akhenaton o subito dopo la sua morte. Forse uno di essi è la stessa Nefertiti, il secondo è un personaggio misterioso, Smenkhkara, di cui non si sa quasi nulla.
Akhenaton Quel che si sa è che nel terzo atto del dramma troviamo sul trono un bambino di nove anni: Tutankhaton (l’immagine vivente dell’Aton) che nei primi due anni di regno lascia Aketaton e con la sua giovanissima sposa Ankhesenpaaton (figlia di Akhenaton e Nefertiti) torna a Tebe, dove riapre i templi di Amon e gli restituisce onore, gloria e ricchezza. I reali consorti cambiano nome: Tutankhamon e Ankhesenamon. L’eresia di Akhenaton è stata ripudiata e verrà cancellata per sempre.


A questo punto sul dramma cala il sipario: dieci anni dopo l’ascesa al trono Tutankhamon muore, senza eredi. Viene sepolto in modo frettoloso, in una piccola tomba progettata per un privato e, meno di un secolo dopo, tutti lo hanno dimenticato. Nascosto ai saccheggiatori dalle tombe scavate intorno e sopra, proprio per questo motivo è arrivato quasi intatto fino a noi e al suo interno sono stati ritrovati più di cinquemila reperti che però non hanno fatto luce sui rapporti familiari più intimi del giovane re. Chi erano i suoi genitori? Nel 2005, grazie a una serie di TAC, si è dimostrato che non morì per un colpo alla testa ma che la parte posteriore del suo cranio era stata forata durante la mummificazione. Una nuova ricerca nel 2010 ha analizzato non solo il DNA di Tutankhamon, ma anche quello di altre dieci mummie, sospettate di far parte della cerchia ristretta dei suoi familiari e ci sono voluti sei mesi per ottenere un campione che si potesse amplificare e sequenziare per far luce sull’identità del padre di Tutankhamon.


Le testimonianze archeologiche riguardanti questa questione cruciale erano ambigue. In varie iscrizioni risalenti all’epoca del suo regno, Tutankhamon parla di Amenhotep III definendolo suo padre ma Amenhotep III morì circa dieci anni prima della sua nascita. Molti studiosi ritengono invece che il padre fosse Akhenaton, tesi è confortata dalle iscrizioni di un blocco spaccato di calcare rinvenuto vicino ad Amarna in cui sia Tutankhaton che Ankhesenpaaton vengono definiti figli amati del sovrano.


Una volta isolato il DNA delle mummie è stato abbastanza facile confrontare i cromosomi Y delle mummie per vedere se fossero legati da parentela. Alla fine si è stabilito, con una percentuale di probabilità superiore al 99,99 per cento che Amenhotep III era il padre dell’individuo sepolto nella tomba KV55 e che questo era a sua volta il padre di Tutankhamon. A questo punto sapevamo dunque di avere il corpo del padre ma non si sapeva chi fosse. I sospetti si concentravano soprattutto su Akhenaton. La tomba KV55 ospitava un deposito di materiale che si riteneva fosse stato preso da Tutankhamon ad Amarna, dove era stato sepolto Akhenaton e da lì portato a Tebe. Benché i cartigli (ovali contenenti i nomi del faraone) fossero stati cancellati dal sarcofago lì ritrovato, questo recava alcuni epiteti associati esclusivamente ad Akhenaton.


Nuove indagini sul DNA e nuove tomografie computerizzate della mummia KV55 hanno chiarito che era un uomo vicino ai 40 anni: gli studiosi hanno concluso che era figlio di Amenhotep III e di Tiye ed era quasi certamente Akhenaton. E la madre di Tutankhamon? Il DNA di una mummia scoperta accanto a quella di Tiye era correlato a quello del giovanissimo sovrano. Ancora più stupefacente è il fatto che, grazie al suo DNA, si è dimostrato che anche un’altra mummia lì ritrovata, denominata la Giovane Signora, era figlia di Amenhotep III e di Tiye, come Akhenaton. Quest’ultimo aveva dunque concepito un figlio con sua sorella. Il bambino sarebbe stato chiamato Tutankhamon.


Grazie a questa scoperta oggi sappiamo che è improbabile che Tutankhamon fosse figlio di una delle mogli conosciute di Akhenaton, Nefertiti o la seconda consorte Kiya. Fra i reali dell’antico Egitto l’incesto non era una pratica insolita e forse proprio l’incesto determinò la morte prematura del giovane faraone. Dalle immagini tomografiche della mummia è emerso inoltre un dettaglio che era passato inosservato: Tutankhamon era affetto da equinismo del piede sinistro, a un dito del piede mancava un osso e le ossa di una parte del piede erano andate distrutte per necrosi. Tanto il piede equino quanto la malattia ossea gli impedirono di camminare agevolmente e infatti nella sua tomba sono stati ritrovati più di cento bastoni da passeggio, alcuni dei quali mostrano chiare tracce di usura. Tutankhamon era anche afflitto da malaria, forse la causa della sua morte? Ma la salute di Tutankhamon era compromessa fin dal suo concepimento, visto che i genitori erano fratelli. L’incesto tra componenti di famiglie reali possono avere vantaggi politici, ma il matrimonio tra fratelli aumenta le probabilità di tramandare ai figli un assortimento di difetti genetici.


Howard Carter e uno dei sarcofagi Fra i tanti splendidi oggetti sepolti con Tutankhamon c’è un cofanetto rivestito d’avorio intarsiato che raffigura il faraone con la regale consorte: Tutankhamon si appoggia al bastone mentre la sua sposa gli porge un mazzo di fiori; in questa come in altre raffigurazioni la coppia appare serena e innamorata. Horemheb, comandante in capo dell’esercito di Tutankhamon, che conquistò il trono alla sua morte morì senza eredi lasciando il trono a un altro comandante dell’esercito: Ramses I. Con lui ebbe inizio una nuova dinastia che sotto la guida di suo nipote Ramses II portò a nuove vette l’Egitto e il potere imperiale. Egli si impegnò per cancellare dalla storia ogni traccia di Akhenaton e di Tutankhamon ma ci ha pensato Howard Carter a mantenerne vivo fino a noi il loro ricordo…
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Published on December 20, 2014 06:55

December 12, 2014

 Il 18 dicembre 2014  venite con me in EgittoAs...


  Il 18 dicembre 2014  venite con me in EgittoAscolteremo insieme a Nicholas e Sylvia il Canto del Deserto 

Il fascino della valle del Nilo e dei suoi tramonti, le spedizioni archeologiche ricche di storia e mistero, i pericoli nascosti tra le dune del deserto, la grinta di un’affascinante protagonista, l’amore e il desiderio di uomini disposti a tutto, fanno di questo libro una lettura avvincente e romantica...

In edizione digitale 
e
Il 22 gennaio in libreria



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Published on December 12, 2014 23:21

November 27, 2014

Romantic Suspense, questo sconosciuto...

Romantic Suspense: romance nel quale c’è un intrigo, un mister, che gli eroi devono risolvere. Ma che fanno nel frattempo le eroine? Ovvio, si mettono in pericolo: vittime di minacce, tentativi di assassinio, strangolamenti, violenze e chi più ne ha più ne metta. Una vera eroina del RS è colei che meglio si ficca nei guai, sappiatelo.Perché è lapalissiano: più lei è incasinata, più lui è figo. Come l’equazione di Schrödinger (vi risparmio la fatica: descrive l'evoluzione temporale dei sistemi quantistici, come atomi e molecole…). Non è finita qui. Le nostre eroine spesso collaborano con gli eroi: poliziotti, detective privati, agenti della CIA, dell’FBI, del SAS, della Legione Straniera, guardie del corpo ecc, ecc,. In ogni caso, alla fine della storia, il mistero va risolto e l’interazione tra i protagonisti deve sfociare in una bella, durevole e sentimentale storia d’amore.
Non so da quando esiste questa definizione, Romantic Suspense. So che Harlequin nel 1993, negli USA, aveva già una collana intitolata Silhouette Shadows con delle autrici di RS, paranormal e romanzi gotici come Anne Stuart, Carla Cassidy, Lindsay McKenna e Maggie Shayne. In ogni caso, oggi si usa questa definizione quando si parla di un mix tra romance e poliziesco e, se qualche anno fa, la distinzione fra romance contemporaneo e RS era chiara, oggi è diventata più sottile ed è anche possibile confondere i due generi.
Ma che cos’è un RS ai nostri giorni? Un romanzo che deve bilanciare in modo equilibrato suspense e storia d’amore, un elemento non deve prevalere sull’altro. La lettrice (e perché no, il lettore) fin dall’inizio della storia sa già che i protagonisti si innamoreranno e risolveranno il mistero insieme, ma l’abilità dello scrittore sta nel coinvolgerli nel ritmo incalzante della storia. Ma chi decide questo equilibrio perfetto tra romance e suspense? Lo scrittore, ovvio mentre le lettrici molte volte si lamentano per la troppa suspense (o troppo poca). Altre si lamentano che l’autore non è riuscito a celare il mistero fino alla fine, oppure che l’eroe non “buca” abbastanza la pagina. Insomma, ognuno ha i suoi gusti e la questione resta quella dei latini: de gustibus non disputandum est.
Come lettrice sono in grado di fare la differenza tra un RS e un romance “puro”, ma come fare quando gli editori non lo menzionano sulla copertina e magari ci capita fra le mani un romanzo che include della suspense? Il solito problema del contemporaneo e del RS, che si confondono spesso. Un esempio recente che mi è saltato agli occhi è quello di Julie James, con il suo libro pubblicato in Italia da Mondadori nella collana I Romanzi Emozioni nel 2012, Just the sexiest man alive, titolo tradotto inDeliziosa Sfida. È un contemporaneo, gli eroi si incontrano, conflitti li separano e poi, alla fine, il solito HEA (acronimo di Happily Ever After, ovvero il nostro “e vissero felici e contenti”). Non vi è nessun elemento suspense, idem nel secondo libro della serie, Questione di pratica (Practice makes perfect).
Ma fate attenzione: l’autrice, a sorpresa, pubblica poi un romance intitolato Qualcosa di te (Emozioni, Something about you) nel quale l’eroina è, udite udite, testimone di un assassinio, l’eroe è un agente dell’FBI e il colpevole verrà svelato alla fine. La James ha firmato il suo primo RS. Però l’editore americano non lo ha presentato sotto questa veste, ha lasciato credere che fosse un contemporaneo. Stessa cosa ha fatto Mondadori nel suo blog, scrive infatti: “Ambientazione: America, Stati Uniti oggi”. Più chiaro di così… ma no! Non è per niente chiaro, perché la trama parla di assassinio e FBI! Vedere per credere:http://blog.librimondadori.it/blogs/iromanzi/2013/05/27/emozioni-16-julie-james-qualcosa-di-te/). 

La James ha creato e sta scrivendo una serie RS e non ce ne siamo accorte. Forse nemmeno lei e tanto meno il suo editore. Comunque complimenti: negli Usa è arrivata al quinto libro, qui in Italia per ora siamo al terzo.
Vogliamo scoprire perché allora molte autrici di libri contemporanei si dedicano al RS? Perché vogliono conservare più a lungo l’attenzione del lettore. In effetti la solita coppia che si incontra, si parla, si separa e si ritrova è ormai banale ma, soprattutto, non è facile renderla avvincente e intrigante. Nei vecchi romance gli eroi litigavano, si riconciliavano, litigavano ancora, si separavano e poi si ritrovavano (riassunto per semplificare) e la domanda topica era: chissà come faranno a risolvere i loro problemucci? Oggi i tempi sono cambiati, la domanda è: come farà l’autore a tener viva l’attenzione della lettrice, fino alla fine del romanzo? Ecco la soluzione: una parte di suspense, almeno nei romance di più di duecento pagine. L’autore inserisce la suspense fin dalle primissime pagine, diventa parte significativa del romance, alla fine dovrà sciogliere tutti i nodi. Aggiungere il mistero ha aiutato anche l’autrice stesa ad arrivare alla fine della storia, che sia plausibile o no. È a questo punto che il contemporaneo diventa RS.
Anche Jayne Ann Krentz, in Italia soprattutto conosciuta come Amanda Quick nel romance storico, fu catalogata come autrice di contemporaneo fino a quando nacque il termine RS. Da quel momento la inserirono subito nella categoria e con ragione: dall’inizio della sua carriera, nel 1979, ha sempre scritto romance con elementi polizieschi (spesso anche in quelli storici).
Il RS si è evoluto nel frattempo, anche se noi in Italia lo stiamo scoprendo con grande ritardo. Oggi esistono RS dove è l’eroina è un militare o un agente speciale come nei libri di Judith Anne Jance, autrice RS americana, che si è inventata Janna Brady, sceriffo. O la mitica Eve Dallas, eroina poliziotta futuristica di J.D. Robb (al secolo Nora Roberts). In Francia (leggo molto in francese) l’editore Harlequin France pubblica i RS nelle collane Best Sellers et Black Rose. Per J’ai Lu, altro editore d'Oltralpe, la collana RS si chiama Frissons, Brividi. In questa collana ho scoperto i romance di Laura Griffin, in Italia ancora inedita. Le sue eroine sono diverse in ogni libro: in Untraceable la protagonista è un detective privato, in Unspeakable sogna di diventare profiler e in Unforgivable, uscito nel 2012, è un’esperta di DNA. E i suoi eroi? Sono colleghi o lavorano nelle forze dell’ordine. Volete invece un’eroina poliziotta e lui uomo d’affari? Allora non perdetevi Judith Mc Naught in Sussurri nella notte (Sperling&Kupfer, 2003). Negli USA ogni casa editrice ha almeno una collana dedicata al RS ma non ho citato tutte le autrici, come dimenticare infatti Maya Banks e Lisa Marie Rice (pubblicate da Leggereditore), per citare solo le più conosciute.
Ma sorpresa! In Italia a giugno 2014 sono usciti dei RS, rigorosamente di scrittrici italiane, con l’editore digitale femminile EmmaBooks che ha avuto una felicissima e riuscita intuizione, ancora oggi cerca autrici italiane da inserire nella collana RS. Quelli pubblicati finora fanno tutti parte di serie e le autrici sono Monica Lombardi, con il GD Team, Elena Taroni Dardi con Sisters e sì, ci sono anch’io con Legio Patria Nostra.
Vi ho interessate al RS italiano? Spero di sì, ma soprattutto spero di avervi stuzzicate a scoprirlo come genere, perché merita davvero. Vi sentirete tutte Navy Seal in missione e investigatrici dalla mente acuta.
Mani in alto ragazze e… arrendetevi! 

 Il sito di EmmaBooks 

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Published on November 27, 2014 03:40

October 29, 2014

Halloween, streghe, zucche e affini...



Forse pensate che la festa di Hallowen tragga le sue origini negli Stati Uniti. Niente di più errato, a parte che furono gli emigrati anglosassoni a trasferire la tradizione al di là dell'Atlantico, questa festa che celebra riti legati alla notte e ai morti, trae origini da tempi ben più antichi e remoti, forse fino ai tempi preistorici. Ma indovinate un po' dove ci portano le prime celebrazioni storiche sui defunti? Ma nell’antica Roma, ovviamente...
Prima di raccontarvi le origini della festa pagana di Halloween, permettetemi una breve divagazione: per i romani le Larvae o Maniae erano gli spiriti dei defunti malvagi durante la vita, che persino da morti avrebbero potuto tormentare i vivi. Essi erano l’opposto dei Lares, spiriti benigni, protettori del focolare. 
L’aspetto dei primi due era terrificante: nudis ossibus, ovvero ossa nude, cioè scheletri. Larvae e Maniae avevano la pessima abitudine di scatenare la follia nei vivi, che potevano allontanarli solo grazie a lunghe espiazioni. Non a caso la scienza ha dato il nome di larve (dal latino, maschere) agli embrioni di alcune specie animali che diventeranno adulte attraverso una o più metamorfosi, alludendo alla trasformazione tra vita e morte. E non a caso la parola mania,in psichiatria, viene usata per identificare uno stato psichico alterato, ossessivo o di esaltazione. 
Tanto le Larvae quanto le Maniae, secondo i romani, potevano nuocere ai vivi: le prime succhiando energie e le seconde dando squilibri mentali. Ricordiamo anche che, alla diffusione del Cristianesimo nella nostra penisola, venne mantenuto segreto in alcune zone il culto di Diana, Grande Madre, dea della luna che custodiva i segreti delle erbe ed era protettrice dei boschi, delle donne e sapiente nella magia. Fu a causa di queste tradizioni occulte che la Chiesa portò le streghe sul rogo. Perché le antiche tradizioni del Sapere (le “streghe” sapevano) si opponevano al Credere (la Fede base del culto cristiano) ma il Sapere è molto più potente del Credere. Fu in quei secoli che il culto dell'oltretomba passò dalla luce di maggio al buio della notte e dell'inverno e fu collocato a fine ottobre e ai primi di novembre. Ma torniamo a noi…
A Roma, febbraio era il mese dedicato al ricordo dei defunti. Nove giorni loro riservati, un ciclo che iniziava alle idi del giorno 13, con i Parentalia, fino al giorno 21 con i Feralia, chiamati così, come attesta lo storico Ovidio, perché durante quei giorni i vivi portavano (dal verbo latino fero, fers, portare) offerte ai morti. Da esso deriva anche l’aggettivo italiano ferale, legato alla morte e al lutto. In quei giorni gli antichi romani pensavano che le anime dei trapassati tornassero nel mondo dei viventi. Per questo motivo, un diffuso senso di rispetto, timore e introspezione reverenziale pervadeva la città. Essi venivano riconosciuti come parentes, ovvero antenati e quindi come spiriti protettori, Lares dunque. I templi venivano chiusi, i matrimoni rimandati, gli affari sospesi, i magistrati non indossavano la toga pretexta. Coloro che avevano perduto un congiunto visitavano la sua tomba, recando offerte votive.
La tradizione vuole che a dare inizio a questa usanza fosse stato Enea, che bagnò con vino e ricoprì la tomba del padre Anchise con profumate violette. L’ultimo giorno, il 21 febbraio, era dedicato invece alle cerimonie pubbliche, con offerte e sacrifici ai Mani, divinità dell’oltretomba identificate come anime dei defunti. 
La seconda festività, i Lemuria, cadeva invece il settimo giorno prima delle Idi di maggio, dal giorno 9 fino al 13. Prima venivano celebrati i Cerealia, in onore di Cerere (4 maggio), poi le feste degli spiriti, i Lemuria appunto, immersi nel silenzio e nella notte. Secondo Ovidio queste feste erano state istituite da Romolo per placare lo spirito di Remo, da lui ucciso e sempre lo storico romano racconta che, in quei giorni, per allontanare gli spiriti del male (i Lemures e i Mani) bisognava stare a piedi scalzi e lanciare fagioli neri sopra la spalla, durante la notte. Era il pater familias che si alzava a mezzanotte compiva il rito recitando la formula: "Invio questi, con questi fagioli redimo me e ciò che è mio" per nove volte. La famiglia avrebbe poi percosso dei vasi di bronzo anch'essa ripetendo nove volte la frase: "fantasmi dei miei padri e antenati, andatevene!".  
Le Vestali invece preparavano una salsa col primo grano della stagione, sacerdotesse prima diventate poi streghe, visto che con il cristianesimo rappresentavano il culto pagano non riconosciuto dallo Stato. Streghe, che attiravano gli spiriti dei defunti, i Lemuri, offrendo loro dei doni ma dolci… insomma dolcetto o scherzetto?
Il giorno culminante del Lemuralia, il 13 maggio dell’anno del Signore 609 o 610, papa Bonifacio IV consacrò il Pantheon, a Roma, alla Beata Vergine e a tutti i Martiri. Gregorio III, cent’anni dopo, allargò la sfera a tutti i Santi e Gregorio IV spostò la festa al 1 novembre, festum omnium sanctorum o ad omnes sanctos, trasformato dal toscano volgare in Ognissanti. Nel 998 Odilo, abate di Cluny, aggiungeva al calendario cristiano il 2 novembre come data per commemorare i defunti. Le feste pagane erano così morte e sepolte. Appunto. Fu una grande mossa propagandistica: l’ennesima festa cristiana nata sulle ceneri di quelle pagane, che venne cancellata dalla memoria insieme alla romanità e ai Lemuria. Ma questo passaggio al mese di novembre si incuneò con un’altra importante festività, questa volta celtica.
La notte di Samhain, fra il 31 ottobre e il 1 novembre, segnava le due parti dell’anno, la progressiva scomparsa della metà della luce che si divideva con le tenebre. A Roma questa era la festa del solstizio d'inverno, ma ne ho già parlato in un altro articolo. I colori tipici della festa erano l'arancio, per ricordare la mietitura e la fine dell'estate e il nero, che simboleggiava l'imminente oscurità dell'inverno. In quella particolare notte, come nei Lemuria, il labile confine tra vivi e morti si assottigliava. Il capodanno celtico non era solo momento di riflessione sull’esistenza, ma anche fra i legami insissolubili dei due mondi. Si offriva cibo ai morti sull’uscio di casa, venivano accese candele alle finestre per  indicare la via ai morti e sostentarli. Come la pietas latina nei confronti degli antenati. Ma mentre per i romani le feste erano disgiunte e per i celti era una sola, il Cristianesimo, in un colpo solo, le cancellò entrambe: Ognissanti toglieva di mezzo i Lemuria e pure Samhain. Ed eccoci arrivati a Halloween, nome di origine anglosassone, traduzione inglese di Ognissanti: all hallows even.
Questa festa, nata nella madrepatria e ancora troppo pagana per i cattolici prima e per i protestanti poi, seguì i Padri Pellegrini nei territori selvaggi del Nuovo Continente al di là dell’oceano, dove si arricchì degli elementi folcloristici che conosciamo: la zucca illuminata, i dolcetti, i travestimenti, degli spiriti folletti che vagano facendo impazzire o giocando brutti scherzi agli esseri umani...
Ok, l'ultima curiosità e poi vi faccio tornare a intagliare la vostra zucca: in origine per gli irlandesi erano i cavoli rapa gli ortaggi utilizzati durante la festa ma quando, intorno al 1840, sbarcarono a centinaia di migliaia negli Stati Uniti, scoprirono non solo che le rape americane erano piccole ma che le zucche erano enormi, facili da scavare. Ecco perché a tutt'oggi Jack-O-Lantern è una zucca intagliata al cui interno è posata una lanterna. Le candele dei defunti… 
Serena notte di Halloween a tutti e a tutte! 



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Published on October 29, 2014 05:10

October 21, 2014

Cicatrici? Sì, grazie


Capitan Harlock
Una donna fa di tutto per nasconderle. Sono segni anti-estetici, di cui si vergogna, che non piacciono a nessuno. Per gli uomini sono un’arma di seduzione, un vanto, la dimostrazione della mascolinità all’ennesima potenza. Oggi gli uomini vogliono apparire belli, perfetti e in qualche caso anche troppo (le sopracciglia depilate, brrrr!) ma non lo sanno che a noi donne le cicatrici piacciono? Che ci piacciono crudi, sbucciati e avventurieri?
Quello che vogliamo al nostro fianco è un macho, coraggioso, amante dell’avventura, un accumulo di testosterone allo stato puro. Se poi aggiungiamo anche una cicatrice sul volto e qualcuna qua e là sul corpo, ecco che il mix alza la nostra temperatura e di parecchio. Se sono d’arma da taglio, se vengono da una revolverata o da una sventagliata di mitraglietta poco importa: ciò che conta davvero è ciò che la cicatrice nasconde: un passato da eroe, una vita sull’orlo dell’abisso, una storia intricata e spesso dolorosa. Questi sono gli eroi che ci fanno sognare.
Per alcune popolazioni le cicatrici sono un’arma di seduzione, di riscatto, di distinzione o di ghettizzazione, noi occidentali non abbiamo scoperto nulla. Spesso nelle società tribali il segno sul corpo indica una prova di coraggio a cui si è sopravvissuti. I Tutsi (noi gli chiamiamo impropriamente Watussi) vanno da adolescenti nella foresta per affrontare le belve, armati solo di una lancia e sono festeggiati se tornano con qualche segno del loro coraggio sul corpo. Nella tribù degli Yanomamo in Venezuela, invece, gli uomini usano addirittura dei trucchi per accentuare le loro cicatrici. Pirati, guerrieri, soldati, cow-boys, uomini violenti ma solo nel nome della giustizia. Insomma, signori sappiatelo: noi donne oggi sentiamo nostalgia di quei cavalieri senza macchia e senza paura che picchiano, magari uccidono, ma per una buona causa o per difendere i deboli e ne rimangono segnati non solo nell’anima, ma anche nel corpo.
L'eroe del telefilm Arrow Ma esistono anche le cicatrici ornamentali, fatte di proposito, che si conservano per sempre sulla pelle e si praticano soprattutto sul torace o sul dorso e sono in genere linee trasversali o serie parallele di punti, più raramente diventano disegni complicati e sappiatelo, le cicatrici possono essere incavate o a rilievo: le prime sono una semplice incisione della pelle e sono fatte soprattutto sulla faccia, le altre, più diffuse, vengono ottenute introducendo una sostanza nella ferita, cenere o argilla e sono comunissime in tutta l'Africa centrale, occidentale e sud-orientale, tra i popoli dell'Oceania mentre in America latina erano praticate dagli antichi Maya. Discendendo verso sud, le incontriamo sulla costa dell'Ecuador e fra gli Ona della Terra del Fuoco, mentre in Asia in alcuni gruppi etnici dell'Indonesia orientale. Harrison Ford
Quindi cicatrici che fanno parte della cultura ancestrale e smuovono antiche corde, che in noi occidentali sembrano sopite. Ma non del tutto: ecco dunque spiegato il successo di alcuni personaggi d’invenzione come Capitan Harlock, o il fascino quasi raggelante del cantante Seal o, ancora, l’intrigante segno sul volto dell’attore Harrison Ford, una cicatrice sul mento dovuta a un incidente d’auto in giovane età. J. K. Rowling, autrice di Harry Potter, ha pensato bene a segnare con una misteriosa cicatrice a forma di saetta il suo eroe: è il vero inizio di tutto, senza di essa Harry sarebbe un qualsiasi, banale adolescente e non dimentichiamo il fascino criminale di Al Capone, a cui fu attribuito il soprannome di Scarfacea causa della cicatrice che aveva sulla guancia sinistra. Fatta da un certo Frank Galluccio che, pare, lo colpì con un rasoio perché aveva espresso commenti pesanti su sua sorella.
Harry Potter Anche sulla nostra bella, romantica luna ci sono “cicatrici”: gli astronomi, dopo aver esaminato alcune immagini pervenute dal nostro argentato satellite, hanno scoperto che alcune parti della sua superficie tormentata si sarebbero deformate, espandendosi fino a formare valli strette, poco profonde. Valli lineari come cicatrici che hanno chiamato grabene suggeriscono che la luna sia stata oggetto di attività tettonica, relativamente recente, negli ultimi cinquanta milioni di anni. Anche lei lottatrice, ne porta i segni.
A questo punto mi sorge una domanda: ma gli uomini cosa pensano delle cicatrici sul volto o sul corpo delle donne? Una ricerca fatta qualche anno fa, afferma che a loro non interessano molto: sembra sia altro ad affascinarli...
Comunque, se voi signori uomini siete in cerca di avventure sentimentali o semplicemente di quattro salti in padella (ci siamo capiti...), in attesa che qualche tizio intraprendente si inventi centri estetici dove incidere sui corpi dei propri clienti attraenti cicatrici, potreste cominciare con l'andare in palestra ed eliminare la sempiterna pancetta o le spalle curve. Un buon inizio, vi assicuro, che tra l’altro  vi farebbe bene alla salute...
Cicatrici, bellezza, unicità. Alla fine sono la parte più sensibile ma più forte di un uomo, affinché possa vivere senza timore ed essere un eroe. Ai protagonisti dei miei libri aggiungo sempre una cicatrice qua e là. Non guasta perchè, come dice Samuele Bersani nella sua canzone "Pesce d'Aprile",


... È sempre bellissima la cicatrice che mi ricorderà di esser stato felice...


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Published on October 21, 2014 01:41

September 29, 2014

E-books e Pirateria: no, grazie...

Il problema della pirateria editoriale tocca tutte noi autrici. E' un argomento che  continuerà a scatenare opinioni e dibattiti negli anni a venire, visto che l'offerta e la fruizione degli e-book in tutto il mondo è in costante crescita, così come è accaduto con musica, cinema e serie tv da una decina d’anni a questa parte.
Nel 2013 si è assistito alla definitiva esplosione del fenomeno delle pirateria libraria on line. L'Associazione Italiana Editori (AIE) ha provveduto alla rimozione di oltre 110.000 contenuti, piratati messi a disposizione sul web violando la legge e senza l'autorizzazione degli autori o dell'editore, risultati ottenuti quasi esclusivamente attraverso sistemi stragiudiziali.
[image error] Nel mercato editoriale italiano per ora l'e-book ha conquistato solo uno scarso cinque per cento, ma le cifre sono in crescita. Vincerà la carta o l'elettronica? I più ottimisti dicono che sopravviveranno entrambi ma, per molti, il vincitore sarà l'e-book. Non per gusto, nè per amore ma perché il libro elettronico è più comodo, costa meno in produzione e quindi è più redditizio, lo posso scaricare immediatamente e occupa uno spazio infinitesimale, nella mia libreria vitruale o in quella fisica, fatta di scaffali. Chi considera la carta insostituibile per cultura, formazione o abitudine prima o poi si adeguerà, così come è avvenuto per i CD, gli smartphone, gli orologi digitali o i PC. I libri di carta, l'amatissima carta, continueranno a vendere, per tradizione o per abitudine o per quel capriccioso e invincibile bisogno di andare contro corrente.  

Ma la pirateria è un fenomeno da combattere in tutte le possibili sedi o bisogna cercare di trarne il maggior profitto possibile, visto che è un fenomeno difficilmente arginabile? La domanda se la pongono non solo i grandi editori ma anche quelli più piccoli e di certo se la fanno anche le autrici, famose o meno, che stanno sfruttando l'interessante opportunità dell'auto-pubblicazione. Proprio al Women's Fiction Festival di Matera, quest'anno, si è parlato tantissimo di autopubblicazione, soprattutto con autrici americane del calibro di Bella Andre, Tina Folsom e Debra Holland. Loro si sono soprannominate "INDI", da Indipendent ma è certo che con l'aumento degli e-book in self-publishing il fenomeno pirateria è destinato ad ampliarsi e a diventare incontrollato.
E' ovvio che i piccoli autori ed editori sono i più danneggiati dal fenomeno, visto che spesso non hanno neppure i mezzi per tutelarsi legalmente. Sul web, dove il dibattito è acceso, vengono proposti diversi consigli per coloro che sono vittime degli attacchi dei "moderni pirati informatici": uno di questi è quello di attivare un Google Alert relativo al proprio nome e al titolo del proprio libro e, una volta individuato il sito che pubblica illegalmente il vostro e-book, richiedere ai suoi amministratori la cancellazione del link, dimostrando di avere la proprietà dei diritti di pubblicazione. 

C'è anche chi propone all'autore di interagire con il "pirata" sui siti di pirateria, lasciando educati commenti sotto al file oggetto del furto. Sì perché, nonostante tutte le argomentazioni o giustificazioni di coloro che scaricano illegalmente, la pirateria editoriale è un reato.
Qualche tempo fa uno scrittore americano, tale Peter Mountford, dopo aver attivato il Google Alert, ha scoperto un traduttore pirata del suo romanzo. Invece di denunciarlo ha scelto di collaborare con lui per una traduzione migliore del suo lavoro, avendo proprio per questo motivo anche una certa attenzione mediatica.


E voi come la pensate?
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Published on September 29, 2014 15:30

September 22, 2014

Le mie Recensioni


L'uomo dei sogni di Paola Renelli  Collana You feel - Rizzoli 

L'autrice: Paola Renelli vive e lavora a Roma. Laureata in lettere moderne, poi giornalista freelance con numerosi settimanali e mensili a tiratura nazionale e redattore per testate giovanili. Per quindici anni coordina la redazione del settimanale di attualità e spettacolo Vip, quindi diventa redattore del settimanale Il punto. Dal 2012 scrive racconti d’amore per note riviste femminili e nel 2013 ha pubblicato con la CE Eroscultura il suo romanzo Lo Strappo, in ebook. Nel 2014, esce con Delos con il racconto Un amore da prima pagina e per la casa editrice Rizzoli ha pubblicato nella collana You Feel L’uomo dei sogni. Così si definisce Paola: amante dell’amore. Sono tre parole e un apostrofo…
La trama: cosa accade quando un sogno riaccende desideri che credevamo di aver blindato dentro di noi per sempre? Emma, dopo la fine della sua lunga relazione con Andrea, chiude il suo cuore alle emozioni per paura di soffrire ancora. Solo la notte la sua mente, libera da pensieri e imposizioni, si abbandona a eccitanti sogni erotici in cui un uomo fantastico le fa provare sensazioni che mai avrebbe pensato di conoscere. Un uomo meravigliosamente perfetto, se solo esistesse. Ma mai mettere limiti ai miracoli che il destino può compiere. Lo sconosciuto che Emma ama solo a occhi chiusi, si rivela presto una persona vera, l’uomo che cambierà la sua vita. Per sempre. Una storia che farà sognare ogni donna, ma in cui sensualità, dolcezza e fantasia non svaniranno al sorgere del sole. "

Un sogno. Da qui inizia con uno stile coinciso, pulito e piacevole il romanzo di Paola Renelli. Del resto il titolo è chiarissimo: un uomo, un sogno, una vita alternativa a quella che ogni giorno dobbiamo affrontare fuori casa. Ma nel tepore delle coperte ci aspetta ben altro. Emma, la protagonista, ha chiuso una relazione con Andrea. Non è stato facile, ha sofferto, è una donna diversa, più cinica che ha chiuso la porta alle emozioni. Ha paura, paura di soffrire ancora, di lasciarsi andare, di abbandonarsi a un altro uomo, a un’altra storia. Silvia, la sua migliore amica la spinge a uscire dal guscio protettivo in cui si è chiusa; Luca, collega di lavoro, prova per lei un sentimento profondo ma non ricambiato.
Non vi dico cosa accadrà, lo scoprirete leggendo l'e-book. Una storia semplice, una trama quasi scontata e tipica del romance contemporaneo. Ma quello che stupisce e fa sì che la lettura sia una scoperta stimolante, è lo stile della Renelli. Pulito, incisivo, evocativo. Cominciate a leggerlo, non riuscirete a spegnere il vostro e-reader fino a quando non lo avrete finito. Perché l’autrice ci porta per mano, insieme ai personaggi, fino alla conclusione grazie al mestiere che tra le mani.

La Renelli ha scritto dosando bene sensualità, dolcezza, erotismo con una delicatezza che raramente ho trovato nelle scrittrici italiane di contemporaneo e questo mi fa dire: scrivi ancora, Paola, scrivi di più e magari più a lungo perché il romanzo è una lettura leggera, breve.

Molte recensioni non sono che riassunti della trama, allungate spesso con rigiri di parole inutili, altre vengono fatte con la “pancia” e non con la testa, senza una reale analisi di ciò che sta oltre ciò che sta scritto sulla carta e non tutti i libri scritti bene piacciono a tutti. Chissà perché. Ma è una fortuna, dico io, che in questo panorama spesso infarcito di libri di scarso valore, spicchino le capacità stilistiche di autrici che sanno scrivere. Per fortuna. Emma forse dovrebbe essere più determinata? Lui è il classico uomo che tutte vorremmo, così bello da essere quasi banale? Luca non riesce a conquistare il suo amore e ci lascia con l’amaro in bocca? Non fa niente. La Renelli è tanto abile e conosce la materia con cui scolpisce la storia che ci fa sognare ed è quello l’obiettivo di una brava autrice. Prendere il lettore per mano, calarlo in un mondo immaginario e farcelo restare, per tutto il tempo necessario, fino alla parola fine.
Tutto ciò fa parte di un gioco, quello dell’affabulazione, della storia, del mondo dei sogni. Allora godiamoci il libro della Renelli e, come l’autrice scrive, non dimentichiamo mai che l'amore è una strana alchimia che non risponde ad alcuna regola: nasce quando vuole e non tiene conto che di se stesso.
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Published on September 22, 2014 00:36