Adele Vieri Castellano's Blog, page 6

May 29, 2014

Bacco e Venere... in cucina con i romani



Sulla cucina dell'Antica Roma la principale fonte è un certo Marco Gavio Apicio, con il suo De Re Coquinaria. Nato intorno al 25 d.C., il nostro antico chef era ricchissimo e si dilettava tra i fornelli come un moderno Gualtiero Marchesi. Il nostro Apicio era un vero pioniere, i suoi piatti stupefacenti stranezze gastronomiche: talloni di cammello, lingue di usignoli e fenicotteri, creste di volatili. Tra le quattrocento e più ricette giunte fino a noi si trovano anche piatti più comuni e più adatti al nostro palato. Sformati di sogliola, pesci di mare e di lago, crostacei e maiali farciti, cinghiali arrosto. Il tutto spruzzato di garum, la salsa che non è mai mancata sulle tavole dei nostri romani.
Ma i romani non hanno sempre mangiato allo stesso modo, molto dipese dalle epoche. Durante i secoli della Repubblica essi si nutrivano con frugalità dato che il piatto più in voga era la puls,una zuppa asciutta di cereali accompagnata da pesce e legumi. Gli altri alimenti erano focacce di farro, uova, olive e formaggi freschi di capra, dolci e acidi. La carne era rara sulle mense e si mangiava in gran parte selvaggina, dato che fino al III sec. a.C. era assolutamente vietato macellare bovini a scopo alimentare. La pena era severa e andava dall’esilio alla morte. I buoi erano considerati animali da lavoro e si potevano sacrificare solo durante riti religiosi. Al contrario, si potevano mangiare in caso di morte naturale.
Prodotti molto impiegati nella cucina romana erano l’olio, il vino, i legumi, cereali, molte verdure coltivate negli horti ma anche molte erbe selvatiche. Gli animali da cortile producevano uova ma raramente venivano mangiati così come le oche, considerate sacre a Giunone. Qualche galletto ogni tanto finiva sulla brace, di straforo, ma nulla di più.  Il pollame infatti era usato frequentemente durante gli auspicia (segni divini che gli àuguri traevano dalla lettura di varie manifestazioni naturali come il volo degli uccelli) ed esisteva addirittura il pullariusovvero un sacerdote che interpretava il futuro a seconda di come le galline beccassero il mangime.  
Il dio Mitra Galline e galli nella mitologia greco-romana, erano sacri ad una moltitudine di divinità: a Zeus, ad Esculapio, ad Apollo, Atena e Latona, tanto per citarne alcuni. Giovenale racconta che era anche uso sacrificarli agli dèi domestici, i Lari. L’uso di sacrificare galli è anche caratteristico di un’altra religione di origine orientale, diffusa nel mondo romano: il culto del dio Mitra. Si allevavano dunque prevalentemente ovini e suinima la carne preferita era selvaggina avicola e di una specie di maiale selvatico, incrociato con i cinghiali che popolavano i boschi attorno a Roma.
La grande svolta gastronomica avvenne proprio intorno a quella data, mentre l’espansione dei confini cominciò a far confluire a Roma usi e prodotti fino ad allora sconosciuti. Effetti della globalizzazione. A Roma durante l’epoca imperiale si potevano gustare piatti esotici e rare leccornie provenienti anche dall’Oriente, come i pappagalli lessati o le gru arrosto. I romani più abbienti cominciarono ad apprezzare molto le spezie, i sapori forti e i banchetti luculliani, quelli che immaginiamo consumati sui letti tricliniari.
Lucio Licinio Lucullo Lucullo: ma chi ra costui? Lucio Licinio Lucullo (Roma, 117-56 a.C.) è stato un condottiero romano. Tribuno militare agli ordini di Silla, servì il dittatore anche nella Prima Guerra Mitridatica a capo di una flotta che aiutò Silla a ripulire i mari durante l’assedio di Atene.  Partecipò e vinse molte battaglie in Oriente, in Bitinia e nel Ponto (in rosso scuro nella cartina) e qui accumulò la sua grande fortuna. Al suo ritorno a Roma gli avversari politici avversarono la sua carriera e quindi egli, nonostante l’amicizia di Marco Tullio Cicerone, si ritirò a vita privata e usò la sua ricchezza per trascorrere una vita nello sfarzo più sfrenato. 
Possedeva una splendida villa fuori dalle mura di Roma, a Tusculum e a Capo Miseno e a Baia, considerata la “Costa Azzurra” dell’antichità. Sembra fu il primo a in Occidente la pianta del ciliegio, dell'albicocco e della pesca. In epoca imperiale i pasti della giornata erano tre: ientaculum, la colazione, prandium il pranzo e cena, la cena appunto. I primi due erano piuttosto modesti a colazione pane nero imbevuto nel latte di capra, olive e formaggi freschi magari addolciti con il miele, dolcificante per eccellenza. Quando il sole era alto o nel primissimo pomeriggio si mangiava il prandium composto da alimenti di solito freddi visto che nelle case si cucinava molto poco, a volte era anche proibito a causa del pericolo rappresentato dagli incendi. Quindi si pranzava nelle tabernae, una specie di McDonald’s dell’antichità, dove si approfittava di spiedini di carne o pesce, di zuppe,  di bocconcini di selvaggina conditi con molte e saporite spezie per invogliare gli avventori a bere di più. La cena era il pasto principale, si consumava prima del tramonto e spesso durava ore e ore, se organizzata da ricchi patrizi romani.
Se si era ricchi la cena si consumava in un locale apposito, chiamato triclinium, il cui pavimento di solito aveva un'inclinazione di circa dieci gradi su tre lati della stanza, verso il tavolo basso posto al centro. Era ammobiliato con larghi divano su ciascuno dei quali stavano comode tre persone sdraiate, appoggiate con il gomito sinistro su un cuscino. Le donne saranno ammesse ai pranzi con invitati solo in età imperiale mentre i fanciulli, che non portavano ancora la toga praetexta, ovvero che non erano ancora entrati nell’età adulta, stavano seduti su degli scranni. 
Si mangiava con la mano destra e il cucchiaio, visto che i romani erano soliti spezzettare i cibi  in bocconcini, spiedini, polpettine affinché fosse più facile portarseli alla bocca da semi-sdraiati. Dato che era facile sporcarsi la tunica, spesso gli invitati indossavano una veste chiamata synthesis che non di rado veniva cambiata, tra una portata e l'altra.   Ma la forchetta, esisteva? Sembra di sì e la sua invenzione pare sia da attribuire ai cinesi ma c’è chi afferma che in Giappone questo oggetto fosse già in uso da tempo immemore. I romani e i greci la conoscevano ma non ne facevano uso a tavola, preferivano le mani. Alcuni nobili utilizzavano ditali d'argento che servivano per non scottarsi o sporcarsi le dita. La forchetta era usata per servirsi dai grandi vassoi pieni di cibo caldo. Numerosi ritrovamenti archeologici testimoniano di esemplari con due o tre rebbi di epoca tardoimperiale. Un reperto romano esposto al Museo romano di Ventimiglia (Imperia), mostra una forchettina con due rebbi (ligula), usata per infilzare i datteri. La “reintroduzione” della forchetta nel mondo occidentale avvenne dall'area veneziana e quindi da Bisanzio dove non se ne era mai perso l'uso dall'antichità. Era un oggetto troppo raffinato per i barbari e in Europa, alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, essa sparì. 
Essa riappare dopo l’anno 1000, nei possedimenti della Serenissima Repubblica di Venezia, in mano a borghesi e mercanti mentre nelle corti dei nobili vige ancora l’etichetta tradizionale di Ovidio delle “tre dita”, che imponeva di attingere direttamente dal piatto per pescare il cibo solido. Inequivocabile notizia sull’uso di questo oggetto la dobbiamo a San Pier Damiani (1007-1072), il quale narra che una principessa bizantina arrivata a Venezia per sposare un doge non toccava il cibo con le mani ma si serviva solo di una forchettina a due rebbi. Il predicatore fece abbattere la collera celeste sullo strumento, giudicandolo uno “strumento diabolico”. Ancora danni del Cristianesimo.
Ma torniamo ai nostri romani a cena, sui loro letti tricliniari.
Nella stanza si entrava sempre col piede destro, considerato beneaugurale e con lo stesso piede si scendeva dal divano, dopo cena. Una volta sistemati sul divano alcuni piatti e il vino erano di solito serviti dagli schiavi ma ci si poteva servire anche da soli. Il vino era molto alcolico, celebre quello di Falerno, e per questo veniva annacquato quasi sempre, anzi bere vino puro era considerato piuttosto volgare.Il banchetto era diviso in tre portate: la gustatio, che corrisponde al nostro antipastodurante il quale si beveva mulsum, un vino aromatizzato con miele e spezie; la primae mensae che a volte era anche di setto, otto portate e infine le secundae mensae, in cui si consumavano stuzzichini piccanti per eccitare la sete. 
Nell’ultima parte del banchetto si svolgevano le esibizioni: danze, canti, spettacoli di mimo che servivano ad intrattenere gli ospiti fino a tarda notte o all’alba. Ogni commensale per pulirsi le dita aveva a disposizione una ciotola con acqua profumata e a fine cena ci si puliva i denti con lo uno strumento simile ai nostri stuzzicadentidetto pinna che poteva essere d’osso, d’avorio o d'argento. Se si avanzava del cibo si poteva chiedere al padrone di casa di portarlo via quindi non illudiamoci che il “doggy bag” sia stato inventato dagli americani e non dimentichiamoci che il “ruttare” era considerato un complimento alle ottime vivande ingurgitate e che l’imperatore Claudio emise addirittura un editto in cui si autorizzavano gli invitati a emettere gas (anche intestinali…) a ruota libera durante i banchetti né era considerato sconveniente svuotarsi lo stomaco sul pavimento e ricominciare a riempirsi la pancia.
Plinio il Vecchio riferisce che un famoso mosaicista, un certo Soso di Pergamo, inventò uno speciale disegno il così detto pavimento non spazzato da collocarsi proprio nella sala del triclinio: esso raffigurava tutto quello che normalmente si vedeva per terra durante la cena, un insieme di oggetti e rifiuti mescolati alla rinfusa. Sembra che ebbe un gran successo, ai tempi.  A questo punto, vi invito a provare due famose ricette:
Garum (salsa principe della cucina romana) Pesce non eviscerato di qualunque tipo, meglio se di piccola taglia e azzurro; Sale, spezie di sedici tipi tra cui timo, finocchio, salvia, menta, origano, pepe, coriandolo.
Alternate in un contenitore di terracotta strati di pesce con le spezie e abbondanti manciate di sale grosso. Conservate il contenitore per almeno sessantacinque giorni coperto con un tappo di sughero e possibilmente all’aperto, al sole. Se invece volete ottenere un divorzio in quattro e quattr’otto, tenetelo in casa. Nell’arco di qualche settimana si raccoglierà sul fondo un liquido bruno-chiaro. Filtrate il prodotto e se gradite, aggiungete qualche goccia di aceto. Il garum si conserva a lungo e va usato in piccole quantità come sostituto del sale.
Crema di fave alla Vitellio (Apicio, De Re Coquinaria) Cuoci le fave. Quando hanno schiumato aggiungi il porro, coriandolo e fiori di malva. Mentre fai bollire prepara un trito di pepe, ligustico (ormai estinto, usate il sedano...) e semi di finocchio selvatico. Versa nella pentola qualche goccia di garum e vino, aggiungi qualche cucchiaio di olio porta a cottura, passa al setaccio e una volta nel piatto aggiungi il trito di erbe e ancora un filo d’olio.
Non mi resta che augurarvi... bon appetit!
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Published on May 29, 2014 15:30

May 21, 2014

Romance, un po’ di cifre…

Il romanzo “rosa” è un genere letterario che narra vicende amorose e passionali a lieto fine, dedicate ad un pubblico femminile. Le storie, scritte da donne, più raramente da uomini, sono articolate su trame intricate che parlano di innamoramenti, separazioni, ricongiunzioni, con colpi di scena vari. Il lieto fine è d’obbligo. Oggi il genere rosa in Italia è quasi del tutto monopolizzato dalla collana Harmony e dalla Leggereditore, del marchio Fanucci. HM nasce, nel marzo 1981, dalla joint-venture tra due colossi editoriali: la canadese Harlequin Enterprises e Mondadori Editore. In questi trent’anni hanno raggiunto quasi 400 milioni di copie anno. Da allora la crescita è stata costante, sia per numeri che per contenuti editoriali.
Il genere rosa negli anni ha subito una profonda evoluzione. Harlequin Mondadori l’ha seguita con una mission strategica per ridare nuova linfa al romanzo rosa seriale e sviluppare la narrativa di women’s fiction. Oggi possiede varie collane, pubblica ogni anno oltre 600 titoli, con circa 50 uscite al mese, una media di vendita di 10.000 copie vendute per ogni titolo e un totale di venduto che raggiunge circa i 6 milioni di copie annue, con una media di 4 milioni di lettrici di cui 1 milione di “fedelissime”.
Alcune collaneAmore - Emozioni da leggere: sogni a occhi aperti, per inguaribili romantiche.
History - Grandi storie d’amore si colorano del fascino delle epoche passate, in genere dal Medioevo ai primi del ‘900.
Passione - Il lato più piccante dell’amore, scene hot ed erotiche.
Suspense - La suspense diventa donna. Intrigo e passione, sentimento e mistero. Paranormal - Il lato oscuro dell’amore. Sull’onda del successo di Twilight, bestsellers internazionali con licantropi e vampiri.
Negli ultimi anni Harlequin Mondadori ha iniziato a pubblicare anche autrici italiane nell’ambito del romanzo storico, storico-erotico e contemporaneo. 

Linguaggio e ambientazione: Contemporanei: Linguaggio semplice ma estremamente curato ed efficace. Caratterizzato da notevole ritmo e tensione incalzante, che fa sì che una lettrice divori un libro mediamente in un giorno. Le storie si svolgono in grandi metropoli come New York, paesi esotici, grandi capitali europee e, naturalmente, anche in Italia nelle città più idonee a far sognare.Storici: epoche preferite sono il Regency (il periodo della storia inglese che va dal 1811 fino al 1820), il periodo Georgiano (storia inglese dal regno di Giorgio I a quello di Giorgio IV,  1714 – 1830) e Vittoriano (1837 e il 1901 c.a.). Poi il Medievale (dalla seconda metà del VI secolo al 1450 circa). Oggi sono ricorrenti le saghe, (per le quali è stata creata la collana Destiny) che ripercorre gli amori e i tradimenti di intere famiglie.
Evoluzione del RomanceOggi le donne sono più grintose e se da una parte la struttura dei romanzi è rimasta sempre la stessa (incontro, innamoramento, ostacolo, superamento, happy end), dall’altra sono cambiati contesti e personaggi. Le donne hanno un ruolo preponderante, si confrontano con uomini brillanti, di successo ma anche con killer spietati che si redimono (vedi le collane sui SEALS americani, o i polizieschi con agenti FBI). Troviamo anche famiglie allargate, tradimenti che fanno ormai parte di suggestivi colpi di scena. E il sesso? Rispetto al passato dove al momento fatidico la porta si chiudeva e la lettrice immaginava, oggi le scene sono più esplicite e all’erotismo viene riservata una parte importante a seconda della tipologia della collana. Arrivano in Italia anche i romanzi M/M, F/F, BDSM, insomma ogni tendenza sessuale è oggetto di storie d’amore. Va da sé che le trame si somiglino un po’ tutte ma ognuna ha varianti, scenari introspettivi, risvolti sapientemente manipolati che rendono la lettura avvincente.
Vi ricordo che il settore della “narrativa rosa” vale un terzo del giro d’affari mondiale  e non conosce crisi. I numeri sono ragguardevoli (non solo con HM) e la crisi economica non li ha scalfiti, anzi sembra che proprio in questo momento le lettrici abbiano più bisogno di evadere dalla realtà. In particolare con i libri venduti nelle edicole. Con un prezzo medio tra 3 e i 7 euro, che non hanno nulla da invidiare ai saggi Adelphi. Particolare cura deve essere dedicata alle copertine, in questo le lettrici sono molto esigenti.
Alcuni titoli di HM in due settimane vendono oltre 13mila copie ma Leggereditore non è da meno, conquistando una gran parte del mercato con i suoi e-books e le sue vendite in libreria. Le pubblicazioni di MH, essendo prodotti da edicola, escono velocemente dal mercato, poiché la narrativa rosa ha una dinamica one-shot, più simile a quella dei periodici che a quella dei libri tradizionali. Buone le iniziative dei Blog, con cui gli editori sono a contatti diretto con le lettrici, in questo modo hanno un polso del proprio mercato molto più preciso degli editori “classici di letteratura” e il pubblico del Romance è così affezionato da percepire ogni minima variazione grafica o stilistica dei romanzi rosa, con una sensibilità quasi filologica.
Ogni editore ha più collane (HM ne ha una ventina, I Romanzi, la collana di historical romance di Mondadori, ha una decina) e sono strutturate in modo da fornire con precisione millimetrica ciò che ciascuna lettrice cerca. Quindi per ogni storia d’amore esiste una collana specifica. Buono il successo del filone rosa “storico”. Vendute bene anche le trame con un setting metropolitano: il classico amore tra capo e segretaria, oppure l’inattesa storia d’amore con un miliardario. O tra medici e agenti segreti.
Buona parte delle lettrici sono fra i 35 e i 55 anni, istruzione media, un lavoro continuativo. Nella narrativa rosa si parla anche di una fedeltà degli acquirenti difficilmente riscontrabile in altri settori editoriali. Le lettrici abituali acquistano in media una quindicina di titoli l’anno e qualcuna di loro persino dopo averli letti nella versione originale inglese. Oggi, un libro su tre venduto nel mondo è di narrativa rosa.
Un discreto successo lo hanno riscontrato i Paranormal (vampiri e licantropi la fanno da padroni) ma non mancano anche muta-forma, in genere felini o angeli o demoni. Firma di punta di questo sottogenere è Gena Showalther per HM, J.R. Ward con la Confraternita del Pugnale Nero per Mondolibri e Rizzoli e Lara Adrian, con la Stirpe di Mezzanotte, per Leggereditore. Il Chick-lit (letteralmente letteratura delle pollastrelle) genere disinvolto e post-femminista, con una punta di ironia, è nato negli anni novanta dalla penna di Helen Fielding con Il diario di Bridget Jones e di Candace Bushnell con Sex and the City. Nel Chick-lit la protagonista è una donna tra i venti e i quarant’anni, non necessariamente bella, spesso in difficoltà coi sentimenti, incapace di riconoscere l’uomo dei sogni e di tenerselo stretto, integrata nella società frenetica ed edonistica. Non sembra a suo agio con i complicati i rapporti umani e soffre di manie e frustrazioni che sono raccontate con smaliziata e irriverente ironia. Spesso i personaggi vengono descritti attraverso gli status-symbols di cui si adornano. Una casa pubblicitaria americana ammette di usare fare pubblicità “occulta”su questi romanzi rosa, perché il riferimento ad uno specifico marchio nei libri più venduti permette di raggiungere centinaia di migliaia di lettrici, che poi desiderano comprare il prodotto. Visto che le lettrici non protestano, potremmo forse concludere che la storia d’amore è diventata un ottimo background per ciò che più interessa e fa sognare le giovani e smaliziate post-femministe, che emulano Bridget Jones e i personaggi di Sex and the City.
Il genere rosa ha salde radici nella letteratura inglese di fine secolo. La Gran Bretagna è il paese più prolifico dal punto di vista degli autori: Georgette Heyer, Constance Heaven, Barbara Cartland con ben 700 titoli negli anni ’70. Il Romance americano, più spregiudicato e cinico di quello inglese, è ben rappresentato da Danielle Steel, Barbara Taylor Bradford, Nora Roberts, Kathleen Woodiwiss, Lisa Kleypas, Loretta Chase, Mary Jo Putney, l’anglo-canadese Mary Balogh, solo per citare le più famose.
E.booksNovità con gli e.books. HM dà primi risultati sono assolutamente incoraggianti: una media di 35 download al giorno nei primi 20 giorni di messa in vendita, contro i 100 romanzi su carta stampata venduti giornalmente sullo shop on-line di Harmony. Gli e.books, arrivati in Italia con un ritardo di almeno un paio di anni rispetto a mercati più evoluti del nostro, stanno già sconvolgendo il consumo del libro e il mondo dell’editoria tradizionale. Nel mercato del romance possono:
Allungare la vita del prodotto in modo potenzialmente indefinito. Oggi in Italia un romance stampato su carta è venduto soprattutto in edicola e nelle catene della grande distribuzione;Permettere la creazione di ampi cataloghi comprendenti anche dei titoli non ristampati, che sono nel cuore delle lettrici dei veri e propri “classici imperdibili” e non sono più reperibili sul mercato (con grande disperazione delle appassionate o delle nuove romance dipendenti). Panorama italiano EditoriNon molte le case editrici che si occupano del settore (per ora) e Mondadori fa da head-driver. Bluemoon di Curcio Editore:  http://www.bluemoon.it/pages/home.php
Leggere Editore di Fanucci, nata nel gennaio 2010  http://www.leggereditore.it/ . Interessante l’exploit di Fanucci, numeri di vendita da capogiro: http://www.fattitaliani.it/index.php?mact=News,cntnt01,detail,0&cntnt01articleid=4570&cntnt01returnid=102
Giunti con la collana Y per adolescenti:     http://y.giunti.it/
Sperling & Kupfer: http://www.sperling.it/scaffale/TA1
Piemme: http://www.edizpiemme.it/catalogo/adulti/fiction/femminili
Nord: http://www.editricenord.it/
I Romanzi sempre di Mondadori, collana storica nata nei primi anni novanta http://blog.librimondadori.it/blogs/iromanzi/
E naturalmente HM di Mondadori: http://www.eharmony.it/ 
Mondolibri-Euroclub (di Mondadori): http://www.euroclub.it/euro/adesioni/genere.asp?gen=023
Il sito della Harlequin Canada: http://www.harlequin.com/

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Published on May 21, 2014 00:49

May 5, 2014

Hic Sunt Leones...

Hic sunt leones. “Lì ci sono i leoni” dicevano i romani indicando il vasto e sconosciuto territorio del nord Africa. Forse sarebbe stato meglio dire “c’erano” perché i poveri “leones” vennero estinti. La causa? Ma per organizzare spettacoli truculenti dove uomini e bestie lottavano per la vita, no? Sangue e arena… vi dice niente?
I felini comunque, non erano le sole belve dell’arena. C’erano anche uomini temprati dalla lotta, dai muscoli scolpiti, dai corpi perfetti. Uomini osannati dalla folla come le attuali star di Hollywood. Uomini che scatenavano le voglie sfrenate delle donne del popolo e la brama segreta delle matrone dell’aristocrazia. Uomini che più versavano sangue sulla sabbia, più  eccitavano le folle. Uomini a cui era vietato sbagliare: non c’era il secondo “ciack” ma solo la morte. Uomini duri. I gladiatori.
Prigionieri di guerra, schiavi o uomini liberi oberati dai debiti e in attesa di riscatto, i gladiatori avevano nomi diversi a seconda delle armi usate nel combattimenti: il retiarius era armato di tridente e rete, il murmillus di spada, lancia e scudo rettangolare, il dimachaerus combatteva con due gladi, il sagittarius con arco e frecce. Tutti legati da una sorte comune e da un unico giuramento: sopportare “le catene, il fuoco e la morte con il gladio”. Sembra che la prima esibizione di questa lotta all’ultimo sangue sia avvenuta nel 264 a.C. e il destino di un gladiatore dipendeva dagli umori del pubblico. “Missum!” (libero) e sopravvivevano, “habet!” e pollice verso, morivano. Il perdente era tenuto a farlo con onore offrendo la gola all’avversario. Prego. Grazie. Che uomini, eh?!


Chi acquista, possiede e allena i gladiatori è il lanista. Lo fa per mestiere e non è raro che sia lui stesso un gladiatore riscattato. Affitta i suoi eroi a suon di sesterzi e li allena nel ludus,  caserma e abitazione insieme. A Roma in epoca imperiale c’erano parecchi ludi, quattro di loro, tra cui il ludus maximus, situati nei pressi del Colosseo. Gli incontri dei gladiatori si chiamavano munera e si svolgevano normalmente uno contro uno, con gladiatori di categorie differenti ma di forze equilibrate. Ci si divertiva di più (gli spettatori, ovviamente) e meglio.
I gladiatori potevano conquistare successo, denaro e matrone. Sì, avete capito bene. Sembra che le donne romane di ogni ceto avessero per questi omaccioni una particolare predilezione (chissà perché?) e sui graffiti di Pompei ne abbiamo la prova: leggiamo che il trace Celado era “il sospiro delle ragazze” e il reziario Crescente, il loro “medico notturno”. Consolazioni per vite spericolate. Ma per i gladiatori il sangue era ambrosia, l’arena la massima aspirazione e di certo se lo ripetevano spesso mentre camminavano, armati fino ai denti, attraverso i bui corridoi prima di sbucare al centro dell’arena. Intorno, la moltitudine urlante, osannante, esaltata del pubblico. 

I munera a Roma e in tutto l’Impero avevano sempre un successo clamoroso. Si faceva a gara a chi metteva in campo più gladiatori. Augusto arrivò ad offrirne alla folla diecimila nel corso di otto munera e Traiano altrettanti, in un solo grande evento durato cento giorni. Il tifo era fanatico come negli stadi odierni e forse di più. I gladiatori più famosi avevano schiere di “ultras”. Giovenale racconta che essi erano considerati il simboli della massima virilità, della potenza e della forza bruta. Non avevamo dubbi.
Ma nell’arena non c’era sempre la carneficina sistematica che ci rappresentano nei film. Ricordiamoci che quelli che si battevano erano professionisti allenati, preparati e, fino al III secolo d.C. era tradizione che, se il perdente aveva combattuto con onore, sarebbe stato comunque graziato. Anche perché costava nutrire e mantenere in salute quei bei pezzi di figlioli tutti muscoli. Queste “vedette” dell’arena costavano care e perderne una, per il lanista, significava perdere molti sesterzi. Era un “mestiere” pericoloso, dove un combattimento su dieci finiva con la morte di uno dei due contendenti. Insomma, pochi arrivavano a ritirare il “TFR” o la pensione per diventare rudiarius (il rudius era una spada di legno che veniva consegnata al gladiatore a fine carriera).  L’attrazione per la gloria, dell’ammirazione delle donne e del denaro era così forte che molti preferivano immolarsi nell’arena, piuttosto che tornare ad una vita normale.
Sembra che anche qualche donna sia scesa in campo come gladiatrice. Sempre quel simpaticone di Giovenale ci parla di una certa Mevia che, pare, inseguisse cinghiali a seno nudo brandendo una mazza ma lei non avrebbe mai affrontato i colleghi maschi con le armi in pugno e questi spettacoli erano considerati intermezzi curiosi e comici.
I gladiatori, temuti e disprezzati, simboli di una società in cui la vita umana valeva meno di un sesterzio, sono ancora eroi fascinosi che neppure il trascorrere dei secoli è riuscito a gettare nell’oblio. Chi di noi ragazze non ha sospirato e magari versato qualche lacrima di fronte alle struggenti immagini del film “Il Gladiatore”?
La fatidica frase “morituri te salutant” fu detta in solo in occasione di una naumachia, una battaglia di navi organizzata durante l’impero di Claudio (41-54 d.C.). Ma i morituri non sono morti, vivranno per sempre accendendo di immagini virili la nostra fantasia.


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Published on May 05, 2014 02:02

April 28, 2014

Scusi, lei è Dracula?

Vlad Tepes, l'Impalatore Epoca: anno del Signore 1335. Luogo: le steppe sconfinate dell’Asia.
Il primo è stato un certo Timur-i-lang, Tamerlano che costruiva torri coi teschi dei suoi nemici per illuminare la steppa. Pare che Milton, ne “Il Paradiso Perduto”, si sia ispirato proprio al conquistatore tartaro per il personaggio di Satana. Passano i lustri (1456) ma non cambia molto il contesto: le terre fosche di Romania con Vlad Dracul padre (il drago) e Vlad Tepes figlio (l’impalatore). Pali di castagno, nemici infilzati come pollastri e bambini arrostiti sui fuochi da campo. Storia o leggenda? Uomini divenuti demoni o demoni divenuti uomini per inondare la Terra di sangue?
Certo è che anche qui c’entrano gli italiani, come nel caso dei romance storici e di Rafael Sabatini, vi ricordate? Il primo a scrivere di vampiri, infatti, fu John William Polidori (1795- 1821) scrittore di origine italiana appunto, segretario e medico personale del poeta George Byron. Egli scrisse “Il vampiro”, racconto capostipite della letteratura moderna sulla creatura che si nutre di sangue umano.  Bram Stoker si è ispirato a lui, quasi cento anni più tardi, per creare “Dracula” un romanzo dalle tinte fosche, gotiche e terrificanti.
Ma tutto parte dal sangue, simbolo onnipotente della nascita e della morte. Dagli uomini primitivi, agli Assiri, dai popoli Mesopotamici, agli Ebrei e fino all’epoca storica, in quasi tutti i racconti mitologici la specie umana appare creata a partire da un impasto di argilla con la carne e il sangue di un dio, messo a morte. Oltre a svolgere una funzione simbolica il sangue è anche elemento essenziale della conoscenza empirica, con i riti sacrificali che permettono di leggere il volere degli dèi, l’esito delle battaglie, i presagi del futuro. 


Gli Aztechi e i cuori strappati grondanti di sangue, il sangue di Cristo, sacrificio supremo che redime l’Umanità dal peccato. Bere sangue per vincere la morte, il sangue-vino di ogni Eucarestia. Fa venire i brividi, no? Forse siamo tutti un po’ vampiri? Forse. Ricordiamoci che in tutte le lingue del globo terrestre vi sono espliciti riferimenti al sangue e a come esso allunga, nella vita quotidiana, il suo potente riflesso sull’immaginario collettivo (frustare a sangue, avere il sangue blu, giuramento di sangue, entrare nel sangue, buon sangue non mente…).
Come poteva il sacro liquido non diventare “cibo”? Nettare che fa vivere in eterno, che crea mostri ed eroi, che dona giovinezza e potere, vince malattie e crea uomini superiori, temibili e bellissimi? E’ il sangue che crea il vampiro e non viceversa. E’ dal sangue versato che nasce la creatura capace con il romanticismo, di incarnare l’eroe del male, il figlio di Lucifero, la creatura della notte. La fantasia ha fatto il resto, la penna di scrittori arguti ha dato sembianza al “sangue” fondendo tra loro i denti dei lupi (i predatori carnivori che per secoli hanno terrorizzato l’Europa), le ali dei pipistrelli (mostriciattoli notturni che volano silenziosi la notte) e la morale “diabolica” di uomini capaci di uccidere per il gusto perverso di farlo. Anche l’ignoranza a proposito di certe malattie durante il Medioevo ha dato una bella “scrollatina” alla fantasia popolare: lo xeroderma pigmentoso (rara malattia genetica in cui il soggetto colpito non può esporsi ai raggi ultravioletti, pena la comparsa di lesioni tumorali) e l’idrofobia (malattia che scatena comportamenti aggressivi e sensibilità alla luce) e che viene trasmessa tramite un morso. Cani, lupi volpi e pipistrelli. Vi ricorda niente?
Creature efferate ma romantiche, oggi i vampiri ci fanno sognare: si nutrono di sangue (!) animale, sono gentili, si innamorano, soffocano la “fame” con espedienti un po’ ridicoli ma che funzionano alla perfezione. Belli, immortali, mai ammalati… ma la nostra non sarà invidia per questi dèi viventi e maledetti?
Al contrario degli Zombie, creature decerebrate e incapaci di tenere una qualsiasi conversazione con l’eroina di turno (e chi ci riuscirebbe con un tizio che vuole succhiarti il cervello?) con i vampiri le donne parlano, eccome! Ci raccontano l’esperienza di una vita “senza limiti”, basata sui principali istinti che muovono l’intera nostra esistenza: il desiderio, la riproduzione e la paura della morte. Affascinano a tal punto da farci accettare la loro natura che va contro ogni principio della morale (umana). 
Castle Bran, in Transilvania Tra l’erba e le tombe, in foreste piovose e impenetrabili, in castelli in cima a rupi scoscese (vedere il film “Van Helsing” in cui, tanto per cambiare, l’eroe è il cacciatore di vampiri l’affascinante Hugh Jackman. Lo so, lo so… ma io il film non l’ho mica guardato per la sceneggiatura!), di volta in volta il vampiro diventa eroe pericoloso e romantico e ormai gli offriamo, consenzienti e sottomesse la nostra giugulare. Il vampiro, da qualche anno, si è trasformato: non si accontenta solo di far sbavare tutte le ragazze in età da marito in circolazione ma vuole umanizzarsi, vuole amare e perché no, soffrire per amore. Messaggio erotico irresistibile.
La domanda mi sorge spontanea: ma perché? Perché vogliono rinunciare a questa immortalità, alla loro bellezza terrificante, al loro essere superiori per discendere, con ali nere e denti affilati, tra queste creature bisognose di affetto e bellissime, meglio se vergini e sempre single? (ma i comuni maschi mortali che fanno? Ah, sì, sono allo stadio...). Forse innamorandosi il vampiro cede a una tentazione sia sentimentale che fisica. Forse la loro perfezione è il mito su cui la storia d’amore nasce e cresce, in cui la protagonista vive il Grande Amore senza fine, il Grande Sogno d’amore. 
Immortale, appunto. Proprio grazie al sangue e ai denti che penetrano nella carne in un atto esplicitamente sessuale. Allora eccole, le nuove vittime di questi affascinanti e quasi-umanizzati vampiri che se ne vanno a zonzo di notte per cupe foreste e tetri villaggi sicure di sopravvivere anzi, certe che prima o poi incontreranno il vampiro della loro vita. Addio... addio obsoleto principe di Biancaneve! 
Del resto anche Tamerlano ripeteva spesso, mentre ammucchiava teschi davanti alle mura di Samarcanda «Eerein mor nigen bui» ovvero: «Il sentiero di un uomo è uno solo». 
Ma quello dei vampiri? Ragazze, sono sicura che c’è la fila, per trovarlo!






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Published on April 28, 2014 00:26

April 20, 2014

Amor cortese, amor di cavaliere...

Quando fantastico sull’epoca medioevale, la mia immaginazione vola ai bei cavalieri coperti da lucenti armature, ai tornei, alle affascinanti eroine minacciate di essere rapite dal cattivo di turno… a quei tempi almeno una giornata su tre era festiva, grazie alle numerose celebrazioni cattoliche e alle fiere dei villaggi dove era possibile assistere alle “giostre”, sfide in cui uomini coraggiosi si affrontavano in sella a possenti destrieri. Originariamente le armi impiegate erano autentiche ma già nel XIII secolo i contendenti si affrontavano con armi dette “cortesi” ovvero, lance e spade spuntate anche se gli scontri rimasero talmente cruenti che gli incidenti erano inevitabili. 
  Se un cavaliere sfidava il rivale toccava con la punta della spada lo scudo sospeso sotto le insegne del rivale, la sfida non poteva che essere accettata. Lo sfidante, preparata l’armatura, si presentava alla dama alla quale dedicava il combattimento portando al braccio, sulla lancia o attorno al collo un fazzoletto con i colori della prescelta. Rumore di zoccoli sulla terra battuta, schianto di lance, boato metallico di scudi… se uno dei due contendenti veniva disarcionato, l’altro scendeva a terra per continuare il duello con la spada o con la mazza e alla fine i giudici designavano il vincitore che riceveva il premio: le armi e il destriero del perdente. Restava da concludere la “faccenda” con la dama e qui scopriamo cose davvero interessanti…
Solo a partire dal IX secolo, con la mediazione della Chiesa Cattolica, comincia a diffondersi nella società medioevale la monogamia ma il vincolo tra futuri sposi, almeno presso le famiglie aristocratiche, è strettamente legato alla convenienza, un espediente per conquistare prestigio e ricchezze. Attenzione: è solo in quest’epoca che il matrimonio comincia a diventare un sacramento e il prete, all’inizio, ha la sola funzione di “testimone” del legame tra uomo e donna (ricordiamoci che allora il clero non era vincolato col celibato e i preti, “sessualmente attivi” non si preoccupavano più di tanto della vita sessuale del loro “gregge”). Fu solo nei due secoli seguenti che la Chiesa fece del matrimonio un sacramento religioso grazie all’uso della “benedizione del letto” e della casa dei giovani sposi che identificavano questa pratica con la garanzia di un legame fecondo e benedetto. Tra l’altro, solo i figli nati nel vincolo sacro del matrimonio, avevano il diritto all’eredità di titoli e di beni.  
Con la riforma Gregoriana dell’XI secolo che sancì la castità del clero, le cose si guastarono parecchio. La Chiesa, imponendo il celibato ai preti, circoscrisse l’atto sessuale alla sfera coniugale imponendo ai credenti un unico matrimonio indissolubile.  Essa invase anche la sfera privata, imponendo ristrette regole all’interno della coppie: vietato “consumare” la domenica, durante i quaranta giorni che precedono la Pasqua, a Natale e durante la Pentecoste e in genere in tutti quei giorni (numerosissimi) in cui si festeggiava un santo. Secondo lo storico francese Flandrin, se i nostri “piccioncini” avessero osservato scrupolosamente queste imposizioni, aggiungendo i periodi “critici” femminili (il mestruo, le gravidanze, l’allattamento), erano fortunati se potevano contare tre, quattro “capriole” sul pagliericcio al mese e udite udite, l’uomo era qualificato come adultero se “abbracciava” la moglie con troppa passione. 

Nulla era più infamante che amare una sposa come una prostituta! Non stupiamoci quindi se alcune pratiche del talamo vennero bandite ed etichettate come sporche. Solo la posizione del “missionario” era ammessa, tutte le altre forme di accoppiamento venivano condannate senza appello. Guai se la donna avesse assunto la posizione “mulier super virum”: la maledizione di Satana sarebbe calata sugli impudenti, facendogli generare figli deformi, mostruosi, lebbrosi… geniale essere una giovane coppia di sposi nel Medioevo, eh?  

Che dire dei trovatori che cantavano le romantiche gesta degli eroi innamorati, i poemi, le ballate? Dell’amore cortese, come quello di Tristano e Isotta? Rassicuratevi, esiste ed è esaltato come un amore che rispetta le regole della cavalleria, profondo e venerabile. Esso trova le sue origini nella letteratura del Levante e in quella Arabo-Andalusa e sembra che il primo a cantarne le lodi, in lingua d’Oca, fu Guglielmo IX di Poitiers, nel corso della sua crociata in Oriente. Grande amatore, fu probabilmente il primo a codificare questi aneliti di “amor cortese” al solo scopo di rivaleggiare con l’ideale religioso che si dava al culto del matrimonio. 

Eh sì, care mie, l’amore cortese altro non è che amore “adulterino” ma abbiamo ben capito che ci sono circostanze attenuanti, no? Ma i cavalieri che professano l’amor cortese, chi sono? Dato che il matrimonio è la negoziazione di un contratto, sovente imposto e le famiglie si preoccupano solo del primo figlio per non dilapidare la fortuna del casato, tutti gli altri “pargoli” sono destinati agli ordini ecclesiastici o introdotti all’arte della guerra e della cavalleria. Questi ultimi devono combattere molte battaglie per racimolare un gruzzolo sufficiente e si sposavano tardi o non si sposavano affatto. Sono loro che costituiscono la “popolazione” turbolenta, quella frustrata e rude che si trova di fronte a spose deluse dal matrimonio imposto dalla famiglia. Il codice dell’amore cortese legittima e ritualizza dunque un desiderio carnale e spirituale che non può, per cause di forza maggiore, fiorire all’interno della coppia sposata.   Nasce un così l’amore casto (occhio, non ho detto platonico!) che si insinua nel corpo e nell’anima dell’innamorato: il desiderio si amplifica, si ingrandisce perché l’oggetto del suo amore, la dama di rango superiore, si rende inaccessibile o indifferente. Già allora le donne avevano capito che per rendersi desiderabili bisogna farsi… desiderare. Questo tipo di amore diventa un gioco organizzato da uomini per gli uomini e potremmo dire che entra a far parte dell’educazione di un cavaliere perché, per arrivare allo “scopo”, egli deve dare prova di virilità, di forza e di coraggio ma, nello stesso tempo, deve imparare a controllarsi, a mantenere un contegno adeguato. Bisogna salvaguardare la dama dalle calunnie e mantenere segreto l’amore, soprattutto al marito... cornuto! 

La donna, adorata fino all’ossessione attira gli sguardi, risveglia l’impulso carnale dei cavalieri, si concede e nega con arguzia in una progressione sottile che ha come fine far apprendere al cavaliere come padroneggiare gli istinti e il corpo, messo a dura prova dall’eccitazione e dal pericolo. Succede così anche per Ginevra e Lancillotto… 
Ne “Il Romanzo della Rosa”, opera francese del XII secolo, il protagonista entra in un giardino dove in uno stagno magico si riflette un roseto. Egli vorrebbe cogliere una rosa ma senza ferirsi con le spine… la metafora è chiara: la dama è la rosa inaccessibile, pericolosa ma ardentemente agognata e il protagonista il cavaliere che si strugge, pronto a tutti i sacrifici pur di conquistarla.
Non è per questo che Amanda Quick fa nascere l’amore tra Alice e Richard de Scarcliffe? O Johanna Lindsey immagina Rowena, mentre commette l’atto supremo di condanna per l’epoca abusando sfrontatamente di Warrick? E tutto questo, non lo trovate follemente romantico?



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Published on April 20, 2014 15:30

April 13, 2014

Un nuovo nato, il Romance!


Vi siete mai chieste quali sono le origini di questo genere letterario che ci fa tanto sognare?  
I primi romance a sfondo storico fanno la loro comparsa nel mondo editoriale all’inizio degli anni ’20 del Novecento, in un contesto storico davvero singolare. Siamo negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale e i reduci, tornati alla vita civile, devono prendere atto di un mondo completamente cambiato: il lavoro nei campi, nelle fabbriche, negli uffici è stato portato avanti quasi totalmente dalle donne che, investite di nuove responsabilità, hanno maturato la consapevolezza del loro valore. Ed è proprio di quegli anni il boom dei mezzi di comunicazione di massa: radio, telefono, cinema, con la diffusione dell’istruzione e dei libri. I primi veri passi verso l’emancipazione delle donne che escono da un ghetto che le ha tenute prigioniere per… secoli!   In questo clima, Georgette Heyer (1902-1974) e lo scrittore italo-inglese Rafael Sabatini (1875-1950) rilanciano lo stile del romanzo storico-avventuroso. La prima con le sue storie ambientate nel periodo della Reggenza Inglese e l’altro con le avventure di Scaramouche, di Capitan Blood e del Cigno Nero. Ma non sono gli unici: in Francia appare Delly, pseudonimo collettivo di Jeanne Henriette Marie de La Rosière (1875-1947) e di suo fratello Frédéric Petitjean (1876-1949), autori a quattro mani di una serie di romanzi rosa di grande successo dai primi del secolo fino agli anni Quaranta. 
In Inghilterra invece, nel 1923, pubblica il suo primo libro Barbara Cartland (1901-2000) che arriverà a dare alle stampe la considerevole cifra di 730 romanzi in tutta la sua prolifica carriera. Durante la Seconda Guerra Mondiale, al di là dell’Atlantico, una giovane giornalista, divenuta celebre per un’intervista a Rodolfo Valentino, Margaret Mitchell (1900-1949), dà alle stampe il suo unico romanzo che resterà nel cuore di intere generazioni, Via col vento e nello stesso periodo un'altra autrice americana, Kathleen Winsor, pubblica Forever Amber. Entrambi i romanzi sono storici: il primo è ambientato durante la Guerra di Secessione degli Stati Uniti e il secondo, che ha come protagonista un’orfana, nel XVII secolo. 
In Francia, patria del sentimentalismo, qualche anno più tardi (1957), viene pubblicato il celebre romanzo Angelica, Marchesa degli Angeli, la cui vicenda è ambientata nella Francia del XVII secolo. Gli autori, due coniugi, Anne (1921-vivente) e Serge Golon (1903-1972) che scrissero ben tredici romanzi con la bella Marchesa come protagonista e da essi vennero tratti cinque fortunati film interpretati da Robert Hossein (Joffrey de Peyrac) e Michèle Mercier (Angelica).
Il genere del romance storico rimase però negletto fino al 1972, quando una scrittrice nata nella romantica Louisiana, Kathleen Woodiwiss (1939-2007), dà alle stampe il suo primo romance, Il Fiore e la Fiamma con l’editore Avon. Era il primo romanzo che seguiva i protagonisti fin nella camera da letto e fu una totale rivoluzione per due motivi: uscì direttamente in edizione “tascabile” anziché con copertina rilegata e venne distribuito anche nei “drugstore” e nei grandi magazzini, non solo nelle librerie. Del libro vennero vendute più di due milioni di copie e, visto il grande successo, la casa Editrice Avon continuò su questa strada e nel 1974, pubblicò il secondo romanzo della Woodiwiss, Il Lupo e la Colomba, insieme a due romanzi scritti dalla debuttante Rosmary Rogers (1932-vivente)

Uno dei due libri della Rogers, Passione Insolente si vendette in due milioni di esemplari nelle prime tre settimane di pubblicazione. Nel 1976 negli Stati Uniti vennero pubblicati più di centocinquanta nuovi romanzi d’amore a sfondo storico che totalizzarono quaranta milioni di copie vendute. Le copertine originali di questi romanzi, sia negli Stati Uniti che in Europa, rappresentavano quasi sempre donne leggermente discinte, abbracciate strettamente dall’eroe in questione ragione per cui, questo genere di romanzo, venne soprannominato bodice-rippers, letteralmente, strappatori di corsetti.
Nei primi anni Ottanta apparve un articolo sul Wall Street Jurnal che si riferiva ai libri bodice-rippers come «la risposta dell’editoria al più venduto hamburger di Mcdonalds, il Big Mac». L’articolo citava: they are publishing's answer to the Big Mac: they are juicy, cheap, predictable, and devoured in stupifying quantities by legions of loyal fans (sono succulenti, a buon mercato, prevedibili e divorati in quantità stupefacenti da legioni di leali fans). Oggi molto è cambiato da allora e il termine “bodice-rippers” è considerato insultante dall’industria della letteratura sentimentale, con buone ragioni direi. 
Il grande successo di questi romanzi creò subito un nuovo stile di scrittura. Esso prende spunto da una finzione a sfondo storico, di solito ben documentato ma che non prevarica mai la storia d’amore tra i due protagonisti. Un'eroina “indifesa” intreccia una relazione amorosa con un eroe che, spesso, è proprio colui che l’ha messa in pericolo... Le protagoniste dei romance hanno, in genere, comportamenti molto vicini a quelli contemporanei e sono più colte delle donne della loro epoca, disinibite e monogame. La loro età è intorno ai diciannove, vent’anni e spesso sono povere e socialmente inferiori ai protagonisti maschili. Questi, al contrario, sono più “esperti”, intorno ai trenta, trentacinque anni e mentre le donne solitamente sono vergini, gli uomini sfoggiano esperienze amorose spesso estreme per quei tempi, vista la prestanza e perchè no, la classe sociale che, nel loro caso, è quasi sempre nobile.  La fantasia delle autrici spazia in ogni periodo storico anche se in genere esse tendono a scegliere periodi ben definiti: l’epoca vichinga (800-1000), il periodo Medievale (938-1485), il Rinascimento (1492-1603), l’epoca Georgiana (1714-1810) l’epopea del West americano (1865-1896), l’epoca della Reggenza (1811-1820) fino al lungo regno della Regina Vittoria (1832-1901). Nel 2001 negli Stati Uniti sono stati pubblicati quasi ottocento romanzi storici ma negli anni seguenti il numero è gradualmente sceso fino a circa la metà. Nel 2009 la casa editrice Kensington Books ha dichiarato di ricevere meno manoscritti di romanzi storici e che molte delle sue autrici sta cominciando a rivolgersi al contemporaneo. Ma guarda un po’...
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Published on April 13, 2014 15:30

April 12, 2014

Signore, in guardia!

Molto prima delle “suffragette” o dei movimenti di emancipazione, le donne si sono arrogate una prerogativa che, all’epoca, era considerata appannaggio maschile: il duello. Nei secoli le donne ne furono sempre escluse ma noi sappiamo come creare le eccezioni che confermano la regola... L’origine del duello risale agli albori della storia. Le prime tracce le troviamo ai tempi dell’antica Roma: lo storico Tacito, nel I secolo, racconta che in molte delle tribù germaniche in procinto di farsi guerra vi era l’abitudine di catturare uno dei nemici e di sfidarlo in un “singulare certamen”, il cui esito sarebbe servito da presagio per le sorti della battaglia. In seguito, il duello divenne torneo, la tenzone a metà tra gioco, addestramento alle armi e regolamento di conti. Pratica che avveniva per lo più in ambiente militare maschile. Esso si trasformò, lungo i secoli, nel “duello giudiziario”, portato proprio dall’orda barbarica che avanzava, laddove l’Impero romano cominciava a sfaldarsi. Siamo agli albori del Medioevo, dunque e nasce qui il duello per il "regolamento di conti". A lasciargli il passo era stato il “duello ordalico” (dal tedesco urteil, verdetto) come prova assoluta della verità. In quell’epoca si chiamava Dio per avere il suo giudizio su chi aveva torto o ragione ed esso diventava prova inconfutabile anche nei tribunali.

In Scandinavia, nel Medioevo, le donne potevano essere sfidate a duello da un uomo. In quel caso la sfidata (ho detto “sfidata”, non sfigata…) era obbligata ad accettare di battersi ma al  “sesso debole” veniva accordato un vantaggio: l'uomo, armato di mazza, era calato in un buco scavato nel terreno fino alla cintola. La donna era invece libera di muoversi, dominandolo. Poteva così girargli intorno e colpirlo con una specie di fionda, munita di una pietra a una estremità. Se l’uomo colpiva per tre volte il suolo con la mazza, senza sfiorarla perdeva la sfida. Il famoso "duello d’onore", quello di cui tanto leggiamo nei romanzi, visse la stagione più gloriosa nel Rinascimento ma già intorno al 1300, era diventato lo strumento principe per risolvere le controversie private e ce n’erano tante, credetemi! Ma vediamo come se la sono cavata le femminucce.Agli inizi del XIX secolo, in Argentina, i quotidiani raccontarono un fatto clamoroso,che destò scalpore nella società bigotta di quel tempo: si trattava di un duello tra donne dell’alta aristocrazia e il “corpo del reato” apparteneva a un famoso uomo politico. Non solo le sfidanti erano donne ma lo erano anche i padrini e il medico. Cinque complici, scandalosamente tutte femmine. Il duello era al “primo sangue”, ovvero alla prima comparsa del fluido che lava onte e cancella peccati e solo allora le duellanti si sarebbero ritenute soddisfatte. I cronisti dell’epoca si trovarono in contrasto circa l’esito dello scontro (!), qualcuno sostenne che una avesse subito uno sfregio su una guancia e, per questo motivo, fosse sparita dalla circolazione. Altri erano pronti a giurare che il sangue non fosse sgorgato per nulla e che una delle due avesse abbandonato il campo, per la vergogna di essersi battuta per un uomo. 
Duello nel Bois de Boulogne In Francia, durante il regno di Luigi XIII (1610-1643), i duelli erano divenuti veri e propri spettacoli. A nulla potevano gli editti reali o i terribili castighi per chi fosse sorpreso in flagrante reato. Il cattivo esempio degli uomini non tardò ad influire sulle donne. Si narra che a quel tempo, a Parigi, due dame di corte si batterono in duello a colpi di pistola. Il re ricordò ai suoi cortigiani, che si lamentavano per lo scandalo, che la proibizione riguardava soltanto gli uomini.
La bella Marchesa di Nesle Qualche anno dopo, sotto il regno di Luigi XIV (1643-1715), si svolse un duello tra la principessa di Polignac e la marchesa di Nesle. Esse si affrontavano per il bel duca di Richelieu, non il Cardinale ma un suo pronipote, famoso “tombeur de femmes” e, si dice, ispiratore di Choderlos de Laclos per il personaggio di Valmont de “Les Liaisons dangereuses”. Di questo affascinante duca esse si disputavano il cuore, senza poterne ottenere la mano, essendo ambedue maritate ed entrambe sue amanti (wow), mortalmente gelose l’una dell’altra. Le cronache del tempo raccontarono tutto con dovizia di particolari.
Il duello avvenne al Bois de Boulogne. La Marchesa di Nesle propose la pistola e, una di fronte all’altra, si prepararono a far fuoco. Sembra che la Principessa di Polignac, davanti all’avversaria, abbia dichiarato in tono glaciale: “Mia cara, la collera vi fa tremare la mano.” Tirarono insieme, la marchesa di Nesle, colpita di striscio al seno, si accasciò a terra. Ai  padrini, che tosto la sollevarono, dichiarò di esser felice di aver versato il suo sangue per il duca e sperava, col suo sacrificio, di non essere più costretta a dividere i di lui favori. Pia illusione: quella stessa sera il duca, informato del duello, sembra avesse commentato: “Phuà, io non sacrificherei uno solo dei miei capelli, né all’una né all’altra”. Capito il gran macho, eh?
All’inizio del XIX secolo, nei pressi di Strasburgo, assistiamo a un altro duello. Coinvolte due dame aristocratiche, una francese e l’altra tedesca (l'amore non ha confini). L’uomo che si disputano è un affascinante giovane pittore. Arrivate sul luogo della sfida, le due antagoniste si affrontano alla pistola. Fatti i venticinque passi, si mettono di fronte, prendono la mira… fuoco! Ne escono entrambe illese ma la tedesca insiste per continuare. Vuole un duello all’ultimo sangue, ovvero fino alla morte di uno dei due contendenti. A questo punto i padrini, donne anche loro, si oppongono e le disarmano di forza. Ma contrariamente alla solenne tradizione maschile, entrambe rifiutano di riconciliarsi.
Consentitemi qui una breve digressione. Durante il Rinascimento, la scuola di scherma italiana era conosciuta in tutta Europa. Il maestro più famoso era Guido Antonio di Luca, esponente della cosiddetta "Scuola Bolognese", maestro di Achille Marozzo e del Capitano Giovanni de' Medici, il famoso ed eroico Giovanni delle Bande Nere. La Scherma è considerata un'Arte (la A è maiuscola) e gli stessi trattati in cui è descritta sono opere sublimi, con incisioni di gran qualità e un uso elegante ed erudito della lingua italiana. Trattati come quello del bolognese Achille Marozzo (1517-1536-1568) o di Antonio Manciolino (1531) e Camillo Agrippa (1553), definiscono il metodo, che sarà alla base di tutta la ricerca dei maestri successivi, italiani ed europei. 
Lina Cavalieri Veniamo a un duello di casa nostra. La protagonista è Lina Cavalieri (1875-1944), vedette e cantante della belle epoque, definita la “donna più bella del mondo”, tanto da rivaleggiare con la Belle Otero. Sembra che abbia sfidato, in quel di Roma, una nota attrice di teatro. La Cavalieri, a braccia nude e stivaletti, combatté con onore dimostrando di saper usare la spada tanto da ferire, in modo non grave, l’avversaria. Forse la bella Cavalieri approfittò del duello per far parlare di sé ma dimostrò senza dubbio una buona dose di coraggio…
L’articolo è solo un assaggio, per ovvi motivi di spazio ma se volete approfondire l’argomento, vi consiglio di approcciare l’argomento con questo sito della scherma storica, F.I.S.A.S.: http://www.scherma-antica.org/oppure il sito della F.I.S.: http://www.federscherma.it/index.asp
I signori maschi inorridiscono solo a sentir parlare di armi d’offesa in mano alle signore ma non si rendono conto che la scherma, arte marziale di antichissima origine, è in realtà una “gentil signora”... e ora vi cito una famosa battuta di Voltaire (1694-1778) che, con ironia, parla di donne e spade. Il maresciallo Generale di Francia, Maurice de Saxe (1696-1750) era a spasso a braccetto per i giardini di Versailles con la favorita del momento e un cortigiano e Voltaire li videro passare. Il cortigiano sussurrò cospiratorio: “Ecco la spada del re!”“Ed il suo fodero…”, aggiunse ironico lo scrittore.

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Published on April 12, 2014 05:01

April 3, 2014

Storie a lieto fine...

Il Romance non è altro che l’Amore quello con la A maiuscola, declinato in storie sempre diverse, intriganti, appassionanti trasferite su carta. Ma come accade nella vita vera, anche nel campo del Romance si devono seguire certe “regole”, ovvero uno speciale “canovaccio”. La trama esige dei clichés in cui noi lettrici ci ritroviamo e che gli scrittori di questo genere sono tenuti a rispettare quindi... scrittore avvisato, mezzo salvato!”

Regola principe: un romance che si rispetti deve avere sempre il lieto fine. L’eroe non deve morire. Magari può finire nella pentola dei cannibali, perdersi nel Sahara in compagnia di un cammello dalle gobbe rinsecchite, o essere travolto da un uragano o, ancora, trascinato negli abissi dalla cugina pestifera di Moby Dick… ma dovrà comunque uscirne sano e salvo e ci sta bene se ne esce sfregiato, zoppo, con un occhio solo o col corpo martoriato (meglio se muscoloso, eh?). Da ricordare, regola tra le regole, una parte delle sua anatomia deve essere considerata sacra (e so che avete capito quale…).

Non tutte le scrittrici la rispettano ma se la applicassero, ci risparmierebbero un sacco di noia: i due protagonisti si devono incontrare entro il primo o il secondo capitolo, sacrosanto. Sembra logico, vero? Eppure a volte non è così. Ho letto di recente un libro d’amore contemporaneo dove l’eroina arriva subito (eh, ci mancava!) ma l’eroe (che evidentemente aveva impegni inderogabili altrove…) si è presentato a pagina settanta su un totale di duecento. Il fellone. Navigazioni solitarie, eremiti, anacoreti quelli ci stanno in altri contesti ma nei romance, per carità, alle eroine date uno straccio di uomo, bello o brutto o sciancato che sia, ma dateglielo presto! Le poverette devono pur rodersi il fegato e soffrire e visto che noi lettrici ci struggiamo con loro, lo esigiamo. Ammettiamo una sola eccezione: quando c’è una “schiera” di eroi potenziali e noi e la nostra eroina dovremo passare il resto del libro combattute sulla scelta del maschio alfa di turno (che invidia, eh?)


Parliamo dei romance contemporanei: l’eroina non deve più essere necessariamente casta e pura. I tempi sono cambiati, care le mie scrittrici. Basta con le pulzelle ancora vergini a ventisei anni o più! Che magari sono pure belle e intelligenti… no scusate, dov’erano gli altri uomini mentre queste madonnine infilzate aspettavano il loro eroe? Tutti allo stadio? Dai, non ci crediamo PIU! Sia chiaro, adesso non è che vogliamo Ruby Rubacuori, eh? Ma che ne dite di una via di mezzo? Vero è che una vergine resta sempre un bocconcino prelibato per il nostro eroe di turno, il premio ambito, la succulenta ricompensa per tutti i guai che gli piombano sul groppone. Ma anche loro dovranno adeguarsi. 
L’eroe può anche essere povero ma non in una situazione economica molto peggiore di quella dell’eroina. Dico, fateci sognare in pompa magna! Se deve essere F.F.F. (Figo, Fisicato Fascinoso) fatecelo pure ricco, e perbacco e il suo stato sociale ci piace elevato, elevatissimo, che dico… nobile, ovvero ecco le accoppiate preferite: conte/cameriera, duca/sempliciotta, uomo d’affari/vedova spiantata e via così. Unica eccezione, il caso di un tizio che ha fatto fortuna in circostanze fortuite e singolari: si è perso nel Sahara, il cammello è precipitato in un burrone e lui, per salvarlo ha scoperto una miniera d’oro.
Gli eroi non devono mai essere pigri, indolenti fino all’ultima riga. O cattivi senza speranza. O crudeli senza redenzione. Devono possedere uno spiccato senso dell’onore, anche se agli occhi del mondo sembra che non ne abbiano affatto. Possono essere assassini, sicari o pessimi soggetti. Spietati sì ma alla fine, redenti. E le eroine? Mai troppo rancorose, invidiose o cattive. No alle copie delle sorellastre di Cenerentola e, per l’amor del cielo, non chiamatele Genoveffa. Voi direte: e la libertà di scrivere ciò che ci piace? Eh cari scrittori, il rischio potrebbe essere che al secondo capitolo il vostro libro voli dalla finestra...

Meglio se le vostre eroine sono donne normali, non troppo “sui generis”. Non propinateci una protagonista che sa leggere i caratteri cuneiformi e parla l’antico egizio, che sa sparare con un MK47 e centra un passero a due chilometri, o conosce la meccanica quantistica e, udite udite, ha allevato i dieci fratelli e le tre sorelle sola e senza un soldo. Magari la fate pure maltrattare dalle cugine invidiose o dal solito zio adottivo (e caprone). Dateci un taglio, è troppo. Questa non è un’eroina di un romance, è Xena, la Principessa Guerriera. Le vogliamo umane per favore, così ci possiamo immedesimare a nostro agio.
Uff, sicure care autrici, che le lettrici non siano un po’ stufe di tutti questi conti inglesi belli, muscolosi, ricchi, dissoluti fino alla noia? Proprio qualche giorno fa rileggendo un libro di una grande scrittrice che ha scritto una serie con un sacco di fratelli e sorelle, ho fatto questa riflessione: ma a Londra, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, c’erano solo libertini depravati e belli da togliere il fiato? Con capacità amatorie degne di un dio greco, ricchi sfondati e titolati? Perché, mannaggia, non sono nata in quel periodo? Questa non la mando proprio giù. Qualcuna di voi pensa la stessa cosa? Vi prego, confortatemi…

Alla fine però non fateci mancare le nozze e il frutto dei teneri lombi, ovvero un pargoletto che tramandi l’altolocata stirpe. E che tutte le lettrici siano invitate al matrimonio fastoso, segreto, anticipato o con licenza speciale. In ogni caso, insomma, fateci passare davanti all’altare, anche solo per un saluto!





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Published on April 03, 2014 15:30

March 23, 2014

Alpha e Omega...

Care amiche, mi rivolgo soprattutto alle femmine della nostra specie che leggeranno queste poche righe. Vi regalo alcuni consigli utili per i prossimi incontri con i maschi (umani, eh? Niente vampiri o licantorpi o angeli caduti, tengo a precisare), o meglio, con i Maschi Alfa. Sì care, ecco alcuni utili consigli su come salvarsi la vita e distinguere un Alfa da un Omega. Prima di tutto scopriamo una volta per tutte che cos’è un Maschio Alpha.
Dal punto di vista scientifico dicesi Maschio Alpah nel Regno Animale e nell’accezione più ampia del termine, il maschio dominante. Quello cioè che nelle specie gregarie (lupi, per intenderci e NO!, ripeto, niente creature paranormali, prego) è riconosciuto da tutti i componenti del branco come il leader, colui  che si afferma su tutti gli altri per la propria abilità, forza, intelligenza. In sostanza per i doni che Madre Natura, nella sua lungimiranza, gli ha elargito.
Finita la parabola zoologica. Esclusi i tizi che urinano agli angoli della strada, nelle trombe delle scale o nelle aree di sosta delle autostrade (quelli non marcano il territorio, sono sporcaccioni), resta da chiarire cosa accomuna i maschi Apha del regno animale a quelli umani e perché li amiamo? O è solo nella finzione che vorremmo questi uomini? Provate a immaginare: se aveste un vero alpha tra le "mani", non sarebbe troppo aggressivo, egoista, sexy, sopra alle righe?

Nei Romance paranormali il maschio è ancora più alpha, le autrici creano protagonisti infondendo loro caratteristiche che attraggono l'immaginario femminile (e non solo...) e inventano tragiche storie d'amore in cui un maschio irraggiungibile diventa improvvisamente più umano quando sperimenta l'emozione dell'amore. Sono belli, alti, fisicamente attraenti. Se entrano in una stanza li noterete, eccome. Perchè? Perchè a parte le condizioni estreme di pericolo, in cui dominerà con la forza bruta gli avversari, la sua superiorità non si limita al fisico. E’ anche intelligente.
Questa è la caratteristica che gli fa cadere, tra le braccia, anche la più recalcitrante delle prede e gli permette di schiacciare gli altri maschi, drammaticamente più stupidi, che non avranno altra scelta che tacere per dissimulare la loro ignoranza. Il Maschio Alpha è brillante, è un fine oratore, spinge gli avversari al tappeto con un’eloquenza fluida e argomentazioni affilate. Carisma? Non solo. E’ un concetto molto più fine, che racchiude una buona componente soggettiva. Egli sa affermarsi utilizzando un unico, ferale sguardo. Non s’imporrà mai con l’arroganza ma conquistandosi naturalmente il rispetto di tutti.
Lui non usa artifici. E’ semplicemente lui, nudo e crudo, si piazza al di sopra di tutti gli uomini che vi circondano e qui viene il bello, qui dovete essere attente, scaltre, vigili perchè certi artifici possono migliorare il carisma di un individuo in maniera esponenziale  e far passare un maschio Omega (ultimo della lista) per un maschio Alfa.
Attente. Perché certe capacità artistiche affinano l’estro creativo aumentano il carisma nei confronti del sesso opposto (siamo noi) quasi del 70%. Ecco perchè un cantante o un chitarrista non avranno che da comporre qualche arpeggio per farci cadere prede del loro fascino mendace ("Giochi Proibiti" per le facilone e "Starway to Heaven" per le più scafate...) e anche con i poeti affinate il fiuto: recitando rime strappalacrime, vi possono zompare addosso con estrema facilità, declamando celestiali versi. Siate vigili. Soprattutto quando sentite nell’orecchio rime poetiche come «fammi vedere, baby, il sedere». Non vi deve importare un fico secco se siete da tre ore su una spiaggia al chiar di luna, non cascateci, sono falsi Alpha.
Occhi scaltri anche nei confronti degli sportivi. Esempio classico il surfista tipo californiano (per coloro che surfano nel Mare del Nord, il compito di distinguerlo dai falsi è più arduo...). I capelli lunghi sulle spalle resi selvaggi per gli spuzzi del mare e schiariti dal sole, qualche cicatrice qua e là sui bicipiti: «Ah, questa? Niente tesoro, solo uno squalo alle Hawaii lo scorso autunno.»
Maschi che fanno sognare mucchi di femmine sprovvedute che vedono in loro adoni acquatici, selvaggi e liberi. Qui dovete essere scaltre: il genere trae in inganno, le attività acquatiche non-motorizzate (cacciatori subaquei con arpione, oceanografi, Flipper il delfino...) ci lasciano con la voglia di spiagge bianche e deserte, acque turchesi e bicchieri pieni di coktails colorati sotto un ombrellone di foglie di palma. Bene, non sono Maschi Alfa.
E se è straniero? O ha un accento talmente seducente (e chi non ha mai sognato di fare lezioni di lingua ad un brasiliano, australiano, americano?) da farvi girare all’impazzata gli ormoni solo con il potere di una parola (Luca Ward fa scuola...) che fare? Tappatevi le orecchie con la cera, come suggerì Ulisse ai suoi marinai. Però lui si fece legare all’albero maestro perchè voleva sentirlo il canto di quelle gnocche delle sirene...


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Published on March 23, 2014 16:30

March 18, 2014

Caligola, un pazzo sanguinario?



Gaio Giulio Cesare Germanico sembra sia nato ad Anzio il 31 agosto dell’anno 12. Certo il luogo della morte: a Roma, in una congiura ordita dalla Guardia Pretoriana a soli 29 anni, il 24 gennaio del 41. L’infanzia del piccolo Gaio fu negli accampamenti militari al seguito del padre, Germanico. Era il beniamino delle truppe, indossava l'uniforme dei legionari e ricevette il soprannome di Caligola, il diminutivo di caliga, le calzature che usavano i militari.
Le fonti storiche che ci sono pervenute lo dipingono come un uomo stravagante, despota, eccentrico e sul filo della depravazione ma sono talmente poche e considerate a lui ostili che non possiamo basare il nostro giudizio solo su di esse. 

Ricostruzione del volto del giovane Caligola Era un personaggio scomodo e molto discusso dal Senato, a lui avverso, ma popolare fra il popolo romano. Purtroppo di lui non ci è pervenuta la parte degli Annales di Tacito, considerato lo storico più scrupoloso e preciso di quel tempo. Pare che Caligola arrivasse al metro e novanta di altezza, con occhi chiari e penetranti. Era un ottimo auriga (conduttore di quadrighe), amante degli sport, delle armi e con un fisico longilineo e ben strutturato.
Villa di Caligola sul lago di Nemi Suo padre sembra fu avvelenato quando Gaio aveva solo sette anni e quasi tutti i suoi familiari, a parte le tre sorelle, furono o assassinati o spinti dall’allora imperatore Tiberio, al suicidio: nel 31 il fratello Nerone morì a Ponza, suo fratello Druso morì nel 33 di stenti in un sotterraneo della residenza imperiale sul Palatino e il 18 ottobre dello stesso anno moriva sua madre.Caligola, sopravvissuto e penso piuttosto atterrito dagli eventi, fu chiamato da Tiberio nel 37 e cominciò a ricevere le prime cariche pubbliche. Nel 33 Caligola si sposò ma la moglie morì durante la gravidanza, evento che a Roma era purtroppo piuttosto abituale.
L'imperatore Tiberio A Capri, dove Tiberio aveva eletto la sua residenza ufficiale (e come non capirlo?) Caligola fece amicizia con diversi sovrani stranieri che allora i romani ospitavano in forma di “ostaggi” o ospiti di lusso. Uno di questi era il nipote di Erode il Grande, Giulio Agrippa, portato a Roma dalla madre Berenice, figlia della celebre Salomè. Agrippa è passato alla storia con il nome di Erode Agrippa I, re di Giudea dal 41 al 44.
Il 16 marzo del 37 Tiberio morì a Miseno, a 79 anni. Macrone, prefetto del pretorio, prese il controllo della situazione e organizzò l'ascesa di Caligola che venne acclamato imperatore dai pretoriani e dalle truppe di stanza a Miseno. Il 28 marzo Caligola arrivò a Roma e si presentò davanti al Senato, che gli conferì la massima autorità sullo stato. Aveva 25 anni.
Le ragioni di questa nomina sono diverse: era molto giovane, il padre Germanico era stato un generale amatissimo dai romani poiché, tra l’altro, aveva riportato a Roma le due insegne cadute nella tragica sconfitta di Teutoburgo,quando Roma aveva perduto ben tre legioni sul confine germanico. Pensate: quindicimila uomini e un numero imprecisato di civili al seguito dell’esercito, trucidati in massa dai barbari di Arminio, un ufficiale romano di origine germanica che tradì i romani portandoli al massacro. Forse fu anche l’infanzia di Caligola a giocare in suo favore per la nomina: ricordiamo che la passò negli accampamenti insieme ai soldati. Non in ultimo a suo favore giocò la  parentela sia con Augusto che con Marco Antonio.
Forse il Senato pensava di avere gioco facile con lui e che il giovane, malleabile imperatore avrebbe assecondato la politica del padre, Germanico. Non fu così.Caligola pensò bene di sbarazzarsi dei suoi oppositori con una serie di uccisioni, umiliando l’intera classe senatoria. Nulla che non fosse già accaduto nel passato, comunque. Forse fu il suo comportamento imprevedibile che lo fece identificare come un "pazzo". Nota la leggenda che nominò senatore il proprio cavallo Incitatus  ma risulta evidente che il suo decreto esprimeva il suo totale disprezzo per la Curia Romana. In realtà, Caligola fece probabilmente solo  una battuta affermando che un cavallo sarebbe stato ben più capace dei senatori stessi.
Forse aveva attacchi d'ira ma con l’infanzia che aveva avuto e l’adolescenza costellata di lutti, come non capirlo? Tacito racconta che durante un banchetto Caligola scoppiò a ridere. Un commensale che sedeva accanto a lui gli chiese il perché e Caligola gli rispose freddamente che stava pensando alla morte di quest'ultimo. In seguito sembra l’abbia fatto davvero uccidere. Questo era Caligola.
Egli voleva essere onorato come un dio, sul modello delle monarchie orientali, autocratico, insensibile e imprevedibile, anticipando una tendenza che sarà degli imperatori del III secolo. Pretese di essere divinizzato in tutto l’Impero con templi e statue ma nello stesso tempo si rese popolare con elargizioni alla plebe e costosi giochi circensi.
Nell'autunno del 37 Caligola si ammalò. I mesi di idillio con il popolo romano terminarono. Al primo ricevimento ufficiale dopo la guarigione, bello e con lo sguardo più temibile di una lama, prese a ricordare a cavalieri, senatori, patrizi i giuramenti che essi stessi avevano rivolto agli dèi per la sua guarigione e, con un pretesto, li fece uccidere tutti. Nel ’38 morì la sorella Drusilla con la quale sembra avesse un rapporto incestuoso. Caligola scomparve per alcuni mesi da Roma e vi tornò profondamente cambiato. Seguirono alcuni settimane di persecuzione nei confronti di coloro che avevano pianto o meno la morte della sorella e molti si suicidarono o furono spinti a farlo, compreso il prefetto Macrone.
Destituì consoli, accusò i senatori di ipocrisia, di volubilità visto che avevano decretato onori a Tiberio e ora li decretavano a lui. Non era questa la dimostrazione del loro odio profondo?
Nel ’39 iniziò una campagna in Germania per emulare il padre. Qui avvenne la prima congiura, artefici le due sorelle superstiti, Giulia Agrippina (la futura madre dell’imperatore Nerone) e Giulia Livilla. Vi partecipò anche Marco Emilio Lepido vedovo della sorella Drusilla e Gneo Lentulo Getulico, legato delle legioni stanziate in Germania. Getulico, per avere l'appoggio dei soldati, aveva allentato la disciplina. La congiura non riuscì, Getulico e Lepido furono uccisi e le sorelle mandate in esilio a Ponza.
Caligola si preparò quindi alla conquista della Britannia, invasa nel 55 e 54 a.C. da Cesare, che aveva concluso accordi con le popolazioni locali affinché pagassero a Roma consistenti tributi. Nel ’40 Caligola si trovò di fronte all’oceano ma era pieno inverno e i germani, se pur parzialmente sconfitti, rimanevano un pericolo. Era impossibile distogliere le legioni dal confine del Reno. A marzo del 40 Caligola rinviò l'invasione della Britannia, sarebbe stato Claudio, suo zio e successore, a portare a compimento l'invasione della Britannia nel 43-44.
I senatori continuavano a cospirare contro di lui, vi furono alcuni attentati ma Caligola girava per Roma con un corpo di guardia che si era portato dietro dalla Germania, trenta formidabili cavalieri batavi. Ma neppure loro riuscirono a salvarlo: il 17 gennaio del 41, l’ultimo giorno dei Ludi Palatini, di fronte al palazzo imperiale, venne allestito un teatro mobile con migliaia gli spettatori. Un luogo difficile da controllare o in cui intervenire con tempestività. Con un pretesto i congiurati riuscirono ad allontanare le guardie batave. Caligola arrivò in teatro, poi verso l'ora settima (intorno all'una) volle tornare a Palazzo.
Nel criptoportico, un tunnel sotto il Palazzo Imperiale, la scorta lo perse di vista. Forse incontrò degli attori, forse si fermò a parlare con loro. Cassio Cherea, tribuno delle coorti pretorie, lo colpì improvvisamente con un pugnale tra il collo e la spalla. Caligola cercò di fuggire ma Cornelio Sabino, anch'egli tribuno delle coorti pretorie, lo raggiunse e lo colpì a morte. Fu colpito da non meno di trenta pugnalate. I sorveglianti e le guardie del corpo bloccarono la galleria verso il teatro, i congiurati fuggirono in direzione dei palazzi imperiali e arrivò anche la scorta germanica che uccise alcuni dei congiurati. Nel frattempo, nel Palazzo Imperiale vennero uccise sia la moglie Cesonia sia la figlia di soli otto anni, Drusilla.
Il corpo di Caligola venne trasportato nei giardini Lamiani sull'Esquilino, l’amico Erode Agrippa si occupò del funerale e il corpo venne cremato in fretta, sepolto in forma provvisoria. Quando le sorelle tornarono dall'esilio diedero degna sepoltura al fratello, forse nel mausoleo di Augusto. I consoli convocarono il senato, Caligola venne accusato dei peggiori crimini, la guardia pretoriana si riunì e decise di nominare imperatore Claudio, lo zio di Caligola, trovato ancora in vita nel palazzo imperiale.
Tutte le truppe presenti a Roma si unirono ai pretoriani e il popolo circondò il senato invocando Claudio imperatore. Il Senato decretò in seguito la morte dei congiurati: Cassio Cherea si suicidò così come Cornelio Sabino. 


A Roman Emperor 41 a.D., by Lawrence Alma-Tadema, 1871.






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Published on March 18, 2014 16:28