Cactus di Fuoco's Blog, page 39

March 9, 2020

Un boccaccio di Amuchina - 6. La fata scurrile

<Precedente (capitolo 5)
+ La fata scurrile, una storia di Pampineo Appestati+
Okay. Bene. Una storia.
Certo, ne ho proprio qui una… vediamo un po’… c’era una volta un topo che si chiamava Geronimo e che era un tipo, anzi un topo, piuttosto…

Come, non posso leggere dal libro? Perché no? È sempre una storia. Ah, l’hai già letta. Deve essere per forza una storia originale, sì? E va bene, fatemici pensare.

Un attimo. Solo un attimo.

No, non sto sbirciando! Mi stavo solo… ispirando. Col topo. Aspettate solo un attimo.
Sì, ci sono!
Allora, c’era una volta un tizio che voleva diventare il più grande scrittore del mondo. Un giorno questo tizio ha incontrato una fata magica e le ha dato da mangiare, da bere e tutte quelle cose lì, anche se la fata sembrava una vecchia bruttissima.
«Sei stato molto buono» Gli disse la vecchia«Grazie» rispose questo tizio che voleva diventare il più grande scrittore del mondo.
E la vecchia allora gli rivelò: «Sono una fata magica e voglio esaudire un tuo desiderio».
Così il tizio le disse «Grande! Voglio essere notato da una grande casa editrice!»
«Il tuo desiderio sarà esaudito» sussurrò la fata magica, poi aprì le braccia, aprì le ali e se ne volò via sopra i tetti delle case.

Passò un giorno, passò due giorni e niente. Passò un mese, due mesi, tre mesi e niente. Il tizio stava sempre a guardare la posta per vedere se nessuna casa editrice gli avesse scritto, ma nella posta gli arrivavano solo le copie del Postalmarket degli anni settanta e le bollette.
Allora il tizio disperato si mise a camminare avanti e indietro nel giardino. Dall’alto scese la fata, che dal suo regno magico delle fate lo aveva visto disperato.
«Che cos’hai?» Gli aveva chiesto
«Ho che sei una fata farlocca!» aveva gridato il tizio «Perché ancora nessuna casa editrice mi ha notato!»
«Ma… scusa...» sussurrò la fata «Ma un libro almeno l’hai scritto?»
«L’ho cominciato a scrivere, ho già fatto tre capitoli, ed è molto bello!»
«Ma a qualcuno, questi tre capitoli, l’hai mai fatti leggere?»
«Eh no. Avevo paura che mi ridessero in faccia… e poi mica si fanno leggere i libri non finiti!»
«Ma allora sei proprio scemo!» esclamò la fata, dandosi una manata sulla fronte «Come fanno a notarti? Finiscilo e spediscilo a tutti, porcoggiuda!».
Scioccato perché una fata magica aveva appena detto “porcoggiuda”, il tizio si fermò come i conigli quando ci sono le macchine con i fari abbaglianti. La fata se ne volò via tutta arrabbiata e il tizio tornò dentro. E si mise a scrivere.
E scrisse. E scrisse. E alla fine scrisse un libro che si intitolava “la fata scurrile” e lo mandò a tutte le case editrici.
Poiché era arrabbiata con lui, visto che si era comportato da idiota, la fata magica aveva ritirato il miracolo magico che aveva lanciato in precedenza, quello che avrebbe permesso al tizio di essere notato dalle case editrici.
Le case editrici, comunque, lo notarono lo stesso perché il romanzo “la fata scurrile” era molto bello e da scompisciarsi dalle risate.
Il tizio aspettava un miracolo, ma non aveva capito che tutto quello che doveva fare era finire un cavolo di romanzo e mandarlo a tutti. Insomma, doveva credere in sé stesso.
E finisce così.
+Indice +

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Published on March 09, 2020 14:46

March 8, 2020

La Bambina della Sesta Luna - Moony Witcher

Una volta una diabetologa molto simpatica ci disse che uno dei libri preferiti di sua figlia era un certo "Nina, la bambina della sesta luna". Avendo a quel tempo già speso il nostro budget mensile per i libri in schifezze come "Bryan di Boscoquieto" e altre cose abiette che è meglio non citare neanche, non avevamo soldi per comprarci pure il romanzo di questa bambina e quindi niente...
E meno male! Perché anni dopo, finalmente, abbiamo trovato questo libro nella nostra biblioteca comunale, dove abbiamo potuto leggerlo gratis. E con gran soddisfazione. Sì, con grande soddisfazione, avete capito bene, ma non siamo soddisfatti tanto perché il libro è buono, quanto perché è brutto e non l'abbiamo dovuto pagare.
Siamo così contenti di non averlo dovuto pagare, di non aver seguito il consiglio della simpatica diabetologa!
Lo sappiamo che è un libro per bambini e che essendo rivolto a loro potrebbe risultare un po'... assurdo per degli adulti. Ma cercheremo comunque di recensirlo come se fossimo ancora dei bimbi. Eravamo dei bimbi estremamente esigenti ed antipatici, comunque, perciò non prendetevela a male: Nina può ancora essere la vostra eroina, anche se noi non le avremmo neppure rivolto la parola.
E con questa premessa, cominciamo con una nuova recensione spinosa.
 
1. La trama: La protagonista è Nina, una bambina di dieci anni piccina e secca secca ("dall'aspetto fragile" recita il libro) nonché saputella abbestia e semi-mary-sue ("dalla mente acuta" recita il libro, ma fidatevi, è una saputella) che non va a scuola ma viene istruita a casa e fa gli esami da esterna, visto che è ricca come Paperon de Paperoni e ha tutto quello che una bimba possa desiderare.
Sul palmo della mano destra ha una voglia rossa (una "voglia di fragola" dice lei) a forma di stella a cinque punte.
La simpatica piccina vive con le sue due zie a Madrid. Oh, poffarbacco, è orfana la poverina, come tutti i protagonisti del mondo? No, ma è come se lo fosse: i suoi genitori hanno un incarico importante che li porta all'estero di continuo.
E che che lavoro faranno mai questi due genitori, per essere giustificati dell'aver praticamente abbandonato la loro figliola? Quale misterioso incarico da spie con licenza di uccidere? Sono forse degli spacciatori colombiani? Sono bodyguards del presidente degli Stati Uniti d'America? Sono entrambi astronauti in missione su un pianeta extra-solare?
No.

"[..] I suoi genitori avevano avuto un incarico molto importante al Ferk, il Centro ricerche di Mosca noto in tutto il mondo per gli studi sulla vita extraterrestre. Vera e Giacomo erano due scienziati molto quotati ed apprezzati e quel lavoro lo avevano ottenuto dopo anni di sacrifici"

Ah. I genitori cercano di... contattare gli alieni. A Mosca. E quindi hanno lasciato la loro bambina in Spagna? Non potevano portarla con loro a Mosca?

"E il Ferk non era certo un luogo dove fare rimanere i bambini 24 ore su 24"
 
Oh. Ok. Quindi ci volete dire che questi due poveri cristi, Vera e Giacomo, lavorano ventiquattr'ore su ventiquattro, non vanno mai a casa, non hanno un posto dove alloggiare, ma stanno continuamente con l'occhio appoggiato ad un cannocchiale a scrutare il cielo alla ricerca di omini grigi? Bello. Poco credibile, ma... bello. Sembra sempre di più che questi qui abbiano smollato la propria figliola alle zie perché non la volevano tra i piedi, dandosi alla pazza gioia a Mosca, fra litri di alcool e dubbi accordi con spacciatori russi.
Ma torniamo alla nostra Nina!
Nina vive con le sue due zie (o prozie? Non è ancora chiarissimo) Andora e Carmen, nonché con due animali: un alano ("[...] di tanto in tanto accarezzava il suo amico fidato Adone, un alano nero di 85 chili che dormiva accanto a lei") e un gattino di nome Platone.
Quindi, ricapitolando, Nina ha i soldi che le escono dalle orecchie, i genitori che le lasciano fare quello che vuole perché sono a Mosca, non va a scuola e possiede sia un gatto che un cane enorme. Non sappiamo voi, ma questo è quello che da bambini avremmo reputato essere il paradiso.
Nina, però, non è una bambina come tutte le altre: ha ereditato dal nonno materno Misha poteri magici e capacità alchemiche, quindi a casa non studia solo matematica, geografia, italiano e scienze come noi poveri sfigati, ma anche alchimia e magia, così, come se fossero cose normali.
Ok, vogliamo diventare Nina sempre di più.
Un bel giorno, Nina riceve dal suo amato nonno Misha una lettera in cui le chiede di raggiungerlo urgentemente e in gran segreto a Villa Espasia, a Venezia. Figo figata.
Nina si prepara tutta per andare a stare dal suo nonno/maestro, ma la voglia a forma di stella sulla sua mano diventa enorme e nera, gli animali iniziano a fare scasso, il gatto gnaula disperato, il cane cerca di buttare giù la porta a zampate... Nina sembra in preda ad un trip andato malissimo e vede un uomo brutto nello specchio del bagno.

"[...]Si guardò allo specchio e vide, come immerso in una nuvola di fumo giallo, il volto di un uomo bruttissimo, calvo, con gli occhi piccoli grigi, un pizzetto nero sul mento e i denti gialli".

Poi la calma. Per un po'.
A poche ore dalla partenza avviene una disgrazia: il vecchio Misha schioppa.
Chissà perché ce lo aspettavamo dopo il trambusto di segni nefastissimi.
Arrivata a Venezia per i funerali del nonno, un notaio fa praticamente leggere a Nina (e agli spettatori) il testamento del vecchio.
La bambina ricca e viziata scopre così di aver ereditato Villa Espasia e il suo laboratorio alchemico. Così, perché non possedeva abbastanza roba.
Ma scopre anche una cosa non proprio bella: che dietro la morte di nonno Misha c'è il conte Karkon Ca' d'Oro, un alchimista e mago malvagio che vuole conquistare un certo Xorax, la Sesta Luna. Sesta luna di... cosa? Non c'è dato di saperlo.
Però il nonno faceva da mentore anche a quattro ragazzini veneziani: Cesco, uno spilungone occhialuto che ovviamente è qui per fare la parte dell'eroe, Fiore, che i suoi stessi amici (oh, che gentili!) chiamano svampita e che è un'appassionata d'arte, Roxy, una specie di bodybuilder nana detta la Maciste del gruppo ("Ehm, scusami... ma non so controllare molto la mia forza. Come vedi, i miei muscoli sono ben sviluppati") ed infine Dodo, colui che amiamo e rispettiamo, la rappresentazione di tutti noi, un ragazzino intelligente ma timido che non vuole, giustamente, morire e che per questo viene chiamato "codardo" dai suoi (oh, che gentili!) amici e bullizzato impietosamente, anche se *spoiler* a un certo punto verrà pure mangiato da un leone, dimostrando che aveva ragione lui, ma tanto continueranno tutti allegramente a canzonarlo come se essere mangiati dai leoni capiti tutti i giorni *fine spoiler*.
Questi magnifici quattro dell'apocalisse,hanno il compito ingrato, in cui ricaveranno ferite, botte, sanguinamenti e dolori sia fisici che mentali, di aiutare Nina nella sua missione. Eh sì, perché c'è una missione... fermare Karkon Ca' d'Oro, ovviamente!
Perché da sempre i Maghi Buoni come il nonno di Nina aiutano gli abitanti di Xorax a respingere il Male e, per farlo, possiedono uno scettro magico bruttissimo, con in cima un gufo d'oro obeso e dagli occhi rosa la cui specie risponde al nome di "gughi", e che tutti chiamano con l'altisonante nome di Taldom Lux (lo scettro ovviamente, non il gufo gughi).
Così iniziano le avventure di Nina, che dovrà scoprire piano piano i segreti del misterioso laboratorio del nonno, proteggere il Taldom Lux e la sesta luna, preparare magiche pozioni, bere sostanze palesemente velenose spacciandole per benefiche al fine di spingere i giovani lettori ad avvelenarsi, viaggiare nel tempo e nello spazio, combattere contro androidi e bullizzare Dodo, il più timido dei bambini che vorrebbe tanto non morire, ma che costringono comunque a fare cose folli contro la sua volontà. Tutto questo con una prosa praticamente logorroica (non abbiamo mai definito un libro così prima d'ora, ma siamo stati costretti) in cui succede tutto e il contrario di tutto in tipo tre pagine, con descrizioni appena abbozzate e un'azione serrata da film d'azione americano e scene horror di sublime, ineguagliabile inadeguatezza.
Riuscirà la bambina della Sesta Luna a fermare il potente e malvagio Karkon Ca' d'Oro? Lo scoprirete solo leggendo.
Leggendo questo e i SEI LIBRI SUCCESSIVI e noi non ne abbiamo le forze. Fatelo voi e fatecelo sapere.


2. La copertina
Questa è la copertina del libro che abbiamo preso nella nostra amata biblioteca comunale. Letteralmente, la abbiamo scannerizzata:
Ma che diavolo ha la faccia di quel gatto? E quello sotto è tutto collo?
Che cosa abbiamo da dire? Questa è un'insta-classic. Magica quanto basta, con una buona composizione, un sapiente uso dei colori. Lo stile con cui sono disegnati gli umani non è fra i nostri preferiti, ma non c'è nulla di cui lamentarsi: è una bella copertina.
Vorremmo visitare quel laboratorio. Vorremmo toccare il libro d'oro con il gughi abietto sulla copertina. Vorremmo leggere tutte le etichette di tutti i barattoli.
L'unica cosa che... ok... un po' fa paura è quel gatto. È brutto, si può dire? È brutto. Proprio brutto.

Ed ecco il retro della copertina, con un piccolo estratto dalla narrazione (che comunque è uno dei pezzi più bellini, fin qui eravamo intrigati, eh):




Ma il tempo passa, i libri vengono ristampati, nascono nuove edizioni... nascono nuove copertine.
Ed ecco alcune copertine moderne:



1. Questa è chiaramente la versione "prendiamo la copertina originale, ma appiccichiamola, più piccola, sulla copertina nuova".
Wow, che classe. Che innovazione. Che differenza! Che poi, ridiamo e scherziamo, ma non è mica brutta come copertina, eh. Quasi quasi rivaleggia con l'originale (considerando pure che l'originale è presente anche qui...).

Nina, la bambina col gatto inutile


2. Una copertina più minimale, ma con qualcosa di magico, in cui Nina regge il Taldom Lux (lo scettro col gughi) e il piccolo gatto Platone, che qui è messo mooolto meglio di com'era nella copertina originale. Almeno non fa paura. Copertina carina, ma niente di superlativo.




Karkon è verde, Platone è rosso, scappa Nina a più non posso!
3. Questa graziosa copertina racchiude in sé tutti gli elementi più importanti del primo libro (anche se non ricordavamo certo che Karkon fosse verde, ma vabbè) e, sebbene dia un feeling meno "magico", si tratta di un'illustrazione assolutamente adorabile. È quasi un peccato non aver visto questa dal vivo, bella grande, ma di avere solo questa minuscola immaginina.

Scusate le immagini piccolissime, ma su internet non abbiamo trovato altro...
Però una cosa ci incuriosisce: perché su tutte le copertine c'è il gatto (che non serve assolutamente a nulla nella trama), ma su nessuna il cane? Suvvia, un alano di ottantacinque chili avrebbe fatto la sua porca figura! Anzi, petizione per levare pure Nina dalla copertina e tenere solo il cane.

3. Cosa ci è piaciuto:
Che fosse un libro illustrato. Molte illustrazioni sono anche graziose, eh! Tutte in bianco e nero (o sarebbe meglio dire in scala di grigi) purtroppo, ma con un tipo di nostalgico, infantile tratto di matita che ben si accorda a una storia magica per bambini.
Ci è piaciuta molto anche la rappresentazione di un cane di taglia grande come giocherellone e dolce, invece che extra-protettivo, animalesco o aggressivo come al solito, e l'amicizia fra quest'ultimo e un dolce micino, che però occupa solo poche pagine. Poche righe, a dire il vero.
E poi... sì, ci sono piaciute anche le scene horror. "Come le scene horror?" Chiederete voi, un po' in preda al panico "Ci sono scene horror in un libro per bambini di otto anni?".
Sì, ci sono, e sono sublimemente fuori posto. Ad esempio, citiamo la scena che più ci ha sorpresi (non la più horror, magari, ma abbastanza sorprendente): *attenzione spoiler* una delle zie di Nina è stata sostituita da un androide con le sue fattezze, che da anni ormai spia la famiglia della bambina per conto di Karkon. All'inizio tutti credono che la zia sia morta (c'è un sacco di morte in questo libro, sappiatelo), ma poi scoprono che in realtà il suo corpo è ancora vivo, ma viene tenuto prigioniero. Nina e i suoi amici la trovano e cercano di liberarla, ma la zia non da alcun segno di vita... trovano però sul suo cuoio capelluto una cicatrice a forma di K (la K di Karkon, che quel cretino mette dappertutto, pure sui vestiti suoi e dei propri seguaci) e comprendono che alla zia è stato asportato chirurgicamente il cervello.
La zia è interconnessa all'androide, che ora è stato spento, e ragiona praticamente con il cervello dell'androide. Insomma, più o meno hanno estratto il cervello alla zia e lo hanno infilato in un robot, e se il robot muore, anche lei schioppa. Diteci se non è horror questo! Ma di quello bello però, non quello fatto a caso *Fine spoiler*.
Le scene spaventose di questo libro sarebbero state molto meno sprecate in un libro per ragazzini un pochino più grandi, comunque (diciamo 13-14 anni).
Un'altra cosa formidabile del romanzo sono i nomi degli artefatti e dei luoghi. "Pandemon Mortalis", il nome della spada di Karkon Ca' d'Oro, è semplicemente fighissimo, così come quello del "Taldom Lux". Il laboratorio del nonno, piazzato sotto un lago, si chiama "Acqueo Profundis". Ahh, i brividi! I nomi degli artefatti sono semplicemente fantastici.

4. Cosa non ci è piaciuto:

Da dove iniziare? Non vogliamo che questa recensione sia troppo lunga, quindi dovremo mantenerci brevi su questo punto e... non sarà facile. Non sarà affatto facile. Dovremo lasciare fuori qualcosa, perché di punti opinabili ce ne sono pure troppi...
Ad esempio le inesattezze scientifiche ci mandano in pappa il cervello. Questo dovrebbe essere un libro su scienza, magia e alchimia! Speravamo di imparare qualcosa di nuovo, non di disimparare roba.
Cominciamo dalla pagina uno, capitolo primo.
Sulla testiera del letto di Nina c'è una frase, scritta su un pannello di compensato, che dice:

"Noi, piccoli esseri dai cervelli grigi,
abbiamo tanto da imparare.
Noi, brevi vite senza una meta,
dobbiamo guardare il cielo e pensare."

Ehh... cominciamo male. Perché se lo scopo è quello di spingere i bambini a diventare edotti, non potete aprire il romanzo con un'inesattezza grossa come una capra obesa. I cervelli degli esseri umani (come pure di tutti i mammiferi) sono rosa, non grigi: il nostro encefalo diventa grigio solo quando muore.
Quindi cos'è questo, un auto-insulto? "Noi piccoli esseri dai cervelli morti"?
Proseguiamo...
Molto spesso, Nina e i suoi amici fanno delle pozioni che servono per tante cose diverse e le bevono. Peccato che siano fatte con roba palesemente velenosa! Ma che diamine... e se i bambini lettori li imitassero?
Ricordiamo, l'età consigliata per questo libro è di otto anni! Otto anni! A otto anni un bambino può ancora bersi la candeggina perché ha un bel profumo, figuriamoci se non si mette in bocca qualunque veleno perché crede che gli possa dare dei superpoteri!
Ecco alcune cose che vengono "consigliate" da questo libro, alcune imitabili (sebbene con conseguenze catastrofiche) e altre... un po' meno:

1. Lavarsi con 8 litri d'argento liquido e acqua salis (per purificare e dar luce bianca alla pelle). Considerano che il punto di fusione dell'argento è a 961,78 °C, se uno vuole morire è proprio consigliato.

2. Bere l'antimonio. Dal taccuino di nonno Misha "Disintossica da ogni veleno e dà la conoscenza perfetta [...] una dose è di 3 gocce". Da Wikipedia: "L'antimonio e molti dei suoi composti sono considerati tossici. Clinicamente l'avvelenamento da antimonio è molto simile a quello da arsenico. A piccole dosi provoca mal di testa e vertigini, a dosi più alte provoca attacchi di vomito violenti e frequenti e porta alla morte nell'arco di pochi giorni." B-bello. M-molto disintossicante, vediamo.

3. Bere potassio puro. Dal taccuino di nonno Misha "Fa parlare nel sonno e dà allucinazioni e premonizioni. 31 gocce sono sufficienti per ottenere l'effetto". Vi diciamo una cosa simpatica: l'intossicazione da potassio è chiamata iperkalemia e la gravità di questa condizione è molto alta. L'iperkalemia, se non trattata e ingravescente, può portare fino alla morte. A onor del vero, una sola assunzione massiccia non può uccidervi, ma 'sti bambini alchimisti mi danno l'idea (specie Nina) di essere capaci di farlo un giorno sì e uno no e rimanerci secchi...

4. Bere cinabro. A parte che il cinabro non si può bere, perché è solido, ma vabbé... il libro recita:

"Cinabro è il risultato della mescolanza
di mercurio metallico
o argento vivo con lo zolfo.
Bollire ed evaporare con due ore.
Bevendo otto sorsi di tale intruglio
i corpi si sollevano da terra". 

No, bevendo otto sorsi di tale intruglio i corpi SCHIOPPANO MALE.

È vero che il cinabro, chimicamente, è un'unione di zolfo e mercurio (come mai c'hanno azzeccato? Wow), ma è anche vero che il mercurio è tossico e lo zolfo, quando si unisce all'idrogeno o sta bruciando, puzza. E puzza tanto. La tossicità del mercurio è nota sin dall'antichità: i Romani erano infatti a conoscenza dei sintomi nervosi dell'esposizione all'elemento. I romani sì, ma evidentemente Moony Witcher, la scrittrice di questo libro, no. Oppure sta cercando di ammazzare i bambini?

5. Bere il rame. Quindici gocce, per l'esattezza, al fine di ottenere "forza vitale". Vabbé che il rame non è letale né particolarmente velenoso, ma... come si fa a berlo? Lo si dovrebbe squagliare, visto che in natura si ritrova solo allo stato solido, ma il suo punto di fusione è a 1084,4 °C. Non sappiamo voi, ma noi quindici gocce di metallo liquido a questa temperatura non ce le butteremmo in gola.

Ma vabbé, lasciamo stare un attimo le imprecisioni scientifiche. Andiamo a una cosa più interessante in un libro per bambini, ovvero gli animali fantastici.
Gli animali (e le piante) fantastici sono bruttissimi. Un incubo travestito da... incubo, visto che neanche le illustrazioni hanno intenzione di mascherare il loro aspetto.
Si tratta probabilmente dei character design più pigri, randomici e mal assortiti che abbiamo mai visto e come se non bastasse, al contrario di come avviene per gli artefatti, hanno nomi di cui probabilmente, pur non esistendo, si vergognano.
A parte il gughi (il GUGHI! È un uccello leggendario fortissimo e si chiama GUGHI!), un ciccione monopode (sì, ha un piede solo) troppo chiaramente ispirato ad un gufo, potete scegliere fra i seguenti orrori:

A. L'ondula, una farfalla arancione con la faccia da persona. CON LA FACCIA DA PERSONA. E no, non intendiamo che ha un faccino vagamente antropomorfo, tipo con gli occhietti, il nasino e la boccuccia, come l'ape Maia, no, viene proprio descritta come "farfalla dal volto umano". Umano. È molto specifico: ha una faccia da persona umana. Terrificante.

B. Il quaskio, un pesce minuscolo, dal nome sfigato e che manco sa nuotare, goffo in acqua quanto sulla terra, che però depone uova contenenti pietre preziose. Come si riproduce se nelle sue uova ci sono le pietre preziose e non i suoi figli? Non ci è dato di saperlo.

C. Il tintinno, un animale a forma di campana (oddio, è vuoto dentro? Speriamo di no, speriamo che la forma sia solo quella esterna) alto un metro e che quando cammina tintinna. Eh, giusto. Il tintinno tintinna.

D. Lo sbacchio. LO SBACCHIO. Questo essere satanico, per metà pokémon e per l'altra metà demonio, è un batuffolo bianco con orecchie e bocca gialle, che non sa camminare, ma salta soltanto su due zampe a molla e sputa bolle. Non sapendo camminare, i ragazzini lo devono portare in braccio dappertutto, ma non fatevi ingannare dalla dicitura "batuffolo", perché il mostro è alto tipo un metro e peserà probabilmente trenta chili oltre ad essere fastidioso, inutile e bruttissimo. Ah, e ha le labbra molto carnose. E il sangue giallo. E i ragazzini lo portano volontariamente dalla Sesta Luna alla terra, anche se porta più guai che altro ed è buono solo a farsi mangiare dai topi e morire.

Le piante neanche ve le raccontiamo. Vi diciamo solo i nomi, non abbiamo la forza per raccontarvele. Siete pronti? Fustaffa. Skiffio. No... non ce la facciamo.
Passiamo ad un altro punto. Sapete cos'altro non c'è piaciuto? La separazione netta fra male e bene, così netta che appiattisce completamente i personaggi e nasconde la realtà della narrazione. Avete presente, no, i cattivi portano tuniche nere e dicono "ah, siamo malvagi, amiamo le cose sporche e cattive" e i buoni dicono cose tipo "che bello, sì, l'amicizia, la libertà, i bambini di tutto il mondo"?
Ecco, questo libro è tutto così. E i cattivi sono tutti identici fra loro. Cambia un po' l'aspetto fisico, ma dentro sono tutti uguali.
Il problema è che, visto che Nina viene fatta passare per buona, buonissima, cavaliera santa dell'universo, i bambini potrebbero non vedere nei suoi comportamenti della negatività, anche laddove essa esiste. Un caso che salta immediatamente all'occhio è il modo in cui lei insulta il povero Dodo, il ragazzino timido del gruppo, costringendolo a fare anche quello di cui lui ha (giustamente, aggiungeremmo) paura. Nina non è una bambina buona. I suoi amici, in un modo o nell'altro, sono costretti a seguirla e supportarla, e quando dubitano di lei, perché lei racconta di cose assurde, la narrazione vorrebbe spingere il lettore a pensare che sia sbagliato dubitare dei propri amici anche quando dicono cose impossibili.
Noi invece diciamo che la fiducia va meritata e che non basta essere una bambina con una stella sul palmo della mano per avere in mano anche la verità.
E qui arriviamo all'ultimo punto che tratteremo nella sezione "cosa non c'è piaciuto", perché questa recensione sta diventando decisamente lunga. L'amicizia. L'amicizia in questo libro non sembra genuina, non c'è mai un vero momento in cui questi bambini si apprezzano e apprezzano la reciproca compagnia.
Nina conosce i quattro bambini, nel capitolo 3 del libro.
Nel capitolo 4, il giorno dopo, prepara una pozione per scoprire se le sono leali. IL GIORNO DOPO.
 
Dal libro:
"Infine agitò la bottiglia prima verso sinistra, per sette volte, poi a destra, per altre sette, pronunciando la formula magica: «Il mentitore cadrà se non dirà la verità. L'amicizia è salda e cara, se non si sputa la bevanda amara».
Soddisfatta esclamò: «Ora li metterò alla prova. Dovranno bere due sorsi ciascuno e se davvero mi saranno amici, non succederà loro nulla. Al contrario, cadranno a terra svenuti»
[...] «Ma cos'è? Sangue?» chiese timorosa Fiore.
«No, non è sangue. È una pozione. Se volete essere miei amici dovete bere, altrimenti io non mi fiderò di voi. Non sputatela. Dovete proprio ingoiarla [...]»"


A noi questa Nina non sembra una bambina buona. Ci sembra una maniaca del controllo manipolativa, che non lascia spazio a sani dubbi, visto che quei poveracci dei suoi compagni la conoscono, ricordiamo, da un giorno. Non basta essere carini per essere belli e, francamente, Karkon Ca d'Oro sembra più affezionato ai suoi bambini-robot di quanto Nina lo sia ai suoi amichetti.
Decisamente non è un buon messaggio in un libro per bambini.

Voto complessivo: 50 su 100. Se 100 Punti sono un buon libro, cinquanta sono a malapena un libro... ma che ci volete fare, siamo stati generosi perché ci piacciono i libri illustrati

A chi lo consigliamo: a un bambino/a di sette o al massimo otto anni a cui piacciono le cose fighe, la magia, le battaglie e le "sparatorie" fantasy. Lo stile è semplicissimo, proprio lineare lineare, e quando si hanno otto anni, a volte, si amano i romanzi in cui succedono 234244234 al minuto e non ci sono descrizioni. Ah, la fantasia sfrenata dei bambini, che colma le lacune immense dei libri brutti!

Dove potete trovare il libro: un po' dappertutto, comprese le vecchie biblioteche. Su Amazon lo trovate di sicuro, ma perché comprarlo (perché proprio questo libro, di tutti i libri del mondo?) quando potete leggere a scrocco? Evviva le biblioteche comunali! Recatevi alla più vicina e dateci dentro;

Che cosa ne pensate del libro? Siete d'accordo con noi su tutto, siamo stati troppo cattivi (perché un po' cattivi lo siamo sempre, è normale nelle recensioni spinose) o siamo stati troppo indulgenti? Fateci sapere, e alla prossima recensione!


P.S. Suggeriteci libri da recensire che vi piacciono! (Meglio se sono gratis, che siamo senza soldi. Ma accettiamo di tutto).

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Published on March 08, 2020 10:48

Un boccaccio di Amuchina - 5. D'amore e morte

<PRECEDENTE (Capitolo 4)
 + D'amore e morte, una storia di Nuan Huan +Piacere di conoscervi, il mio nome è Nuan Huan. Raccontare storie non è mai stato né il mio mestiere né la mia passione, ma farò del mio meglio, lo prometto.
Dato che quando costruisco oggetti metto insieme tanti materiali diversi, ho pensato che fosse la stessa cosa anche con il raccontar storie; ringrazio tutti quelli che hanno raccontato qualcosa prima di me e mi hanno ispirata.
Se la mia storia vi piacerà, ne sarò felice.
In principio vi erano il Caos, la Terra, e l’Abisso.
Tra loro si amavano di un amore tenero, anche se questo sentimento non aveva ancora un nome nei tempi remoti da cui comincia la nostra avventura; esistevano, sicuri della presenza degli altri anche quando non guardavano, e prosperavano.
Questo loro affetto cresceva di giorno in giorno, finché non seppero che il loro amore era abbastanza forte da garantire loro un miracolo, ma solo se avessero agito com’era giusto.
D’improvviso sapevano cosa dovevano fare e non se ne chiesero la ragione, perché gli dei non hanno bisogno che di esistere per lungo, lungo tempo per adempiere alla loro natura, e ogni loro sentimento e intento crea miracoli.
Il Caos mulinante spalancò le sue ali per raggiunger Tartaro l’Abisso e gli affidò un uovo che aveva deposto, che lasciò tra le braccia dell’Abisso. L’Abisso tenne al sicuro la creatura che cresceva nell’uovo del Caos e Gaia la Terra vi infuse la vita con un sospiro tenero, e quando l’uovo schiuse, due gemelle alate ne uscirono tenendosi per mano: erano la Notte e l’Oscurità.
Le due gemelle non riconobbero il Caos, poiché le sue fattezze mutavano in continuazione, così si separarono per essere cresciute da coloro che più le somigliavano: la Notte dagli occhi brillanti si accoccolò contro la schiena della buona Terra, sostenendola quando era stanca perché riposasse tranquillamente, mentre l’Oscurità sedette accanto all’Abisso profondo, in silenzio, eppure osservando.
Le due gemelle crebbero, ma non si dimenticarono l’una dell’altra e, dopo la rivoluzione dei lunghi secoli, decisero di incontrarsi nuovamente.
Che gioia fu! Anche se erano cresciute, non ci volle loro che un istante per riconoscersi e volare una tra le braccia dell’altra. Per un giorno la loro felicità fu tale che la luce delle stelle lontane fu spenta per un secondo, precipitandolo nelle tenebre delle due sorelle, e quelle stesse tenebre che coprirono tutte le luci dell’Abisso turbinarono e si condensarono in un bozzolo pulsante.
Le due sorelle decisero di vegliare su di esso, sorprese, ma avevano appena giurarlo di proteggerlo e accudirlo finché fosse stato necessario, che esso si svolse come un rocchetto di filo e da esso scaturì il grazioso Amore, donando finalmente un nome al sentimento che legava quelle creature divine che insieme coesistevano.
Non era mai esistito qualcosa di incredibile come Amore: al contrario di Notte e Oscurità, non somigliava solamente ad una delle altre divinità, ma sembrava riunirne tutte le loro caratteristiche in un unico essere, così che sfuggiva ad ogni definizione.
Era mutevole come Caos: era il dio più piccolo, eppure in un attimo poteva ingrandirsi e permeare il mondo come Oscurità; dalla sua schiena si dipartivano meravigliose ali, come quelle di Notte, rapide come turbini di tempesta, che gli consentivano di viaggiare tra i mondi a suo piacimento. Quelle ali erano fatte d’oro, materiale amato dalla Terra, e con la Terra Amore condivideva il saper portare passione e gioia di vivere.
Una nuova pace era nata insieme ad Amore, piccola divinità benvoluta da tutte le altre: il giovane dio non stava fermo un secondo, volava da un’entità all’altra con le sue ali scintillanti per portargli una notizia, un saluto, un bacio, e il suo arrivo era sempre accolto con gioia.
La vivacità che portava ispirarono la Terra, che sbocciò in una nuova bellezza.
«Cosa accade, Gaia?» Le chiese Amore, sporgendosi a darle un bacio su una guancia florida «Ti vedo diversa»
«Sto creando la vita, Amore mio» gli rispose lei
«La vita?» ripeté lui, affascinato. Non sapeva cosa potesse essere, perché gli dei non avevano mai chiamato il proprio stato vita, ma “esistenza”, però Gaia era quella che creava i giochi più divertenti e starla ad ascoltare era sempre un piacere.
«Sì. Avanzerà pian pianino, e Notte li sorveglierà di tanto in tanto, ma sarà una figlia diletta per me. Ti piacerebbe conoscerla, quando saranno pronti?»
«Anche prima, Gaia mia»
Amore stesso era ignaro di quale fosse la sua vera natura.
Tutti gli altri sarebbero rimasti uguali a sé stessi, per sempre, sarebbero semplicemente esistiti e questo sarebbe bastato loro per adempiere al loro destino di dei. Persino Caos, nel suo continuo mutare, in realtà non avrebbe fatto altro che quello e sarebbe stato quindi sempre uguale a sé stesso.
Ma per quanto non lo sapesse ancora, Amore… cento e più nomi avrebbero pronunciato per pregarlo, chiamarlo o maledirlo, e lui avrebbe risposto a tutti. Cento e più volti avrebbero associati a quei nomi nel corso dei lenti millenni, e tutti sarebbero parsi il suo.
Ma ancora, quando Gaia gli propose di osservare la sua nuova creazione, non si era reso conto di essere diverso da tutti gli altri dei; era troppo giovane.
Nel momento in cui Amore conobbe la vita, fu lì che iniziò… a crescere.


Amore osservò con meraviglia i minuscoli progressi che la vita faceva secoli dopo secoli, come tutto il pianeta di Gaia fu costretto a rimodernarsi in modi strani ed improbabili per fare spazio a questa nuova invenzione.
Con tutto il lavoro che doveva fare per badare a questa vita che aveva creato, la Terra prese a riposare una volta al giorno, e ogni volta Notte continuava a sostenerla perché riposasse meglio e si sporgeva a controllare la creazione di Gaia come le aveva promesso, anche se poteva sbirciare solo su un lato del pianeta alla volta per non disturbare la sua amata madre.
La vita non era una sola entità come tutte le divinità, ma erano centinaia, migliaia di piccole particelle che contenevano una briciola della forza di Gaia. Nascevano e si spegnevano nel giro di un batter d’ali, e forse proprio per questo la più piccola delle divinità ne rimase irrimediabilmente affascinato.
Amore desiderò ridurre la distanza tra loro per vederli da vicino e, istintivamente come accadeva per tutti i miracoli degli déi, seppe come doveva fare.
«Notte mia, per favore, sostieni anche me per un momento» Chiese all’altra, tenendole le mani.
Gaia capì quello che stava succedendo, e sorrise. La Notte lasciò che Amore si rannicchiasse tra le sue braccia e lo cullò, cantando dolcemente.
Forse era l’affetto che Amore portava alle nuove creature della Terra, o forse anche Notte ne era stata ispirata, perché la sua ninnananna arrivò alle orecchie d’Amore come un rimescolarsi di molte voci e suoni cari: il frinire di piccoli grilli dalle corazze nere, brillanti come giaietto, il richiamo lontano di rapaci notturni, un vento gentile che accarezzava le fronde di alberi che, stiracchiando i rami nodosi, cercavano di raggiungere ed abbracciare il disco della luna ad un tempo.
Amore chiuse gli occhi; la canzone cambiò mentre lui discendeva piano piano nelle tenebre della mente che Notte gli aveva prestato, man a mano che anche il pianeta di Gaia cambiava.
E così, si addormentò.
Quando si svegliò, era più piccolo di come fosse mai stato, e agitando i pugnetti si ribellò a quella sua nuova condizione. Nel corpo di un bambino, Amore alzò lo sguardo appannato al cielo e lo vide nero, trapunto di stelle, e riconoscendo le luci dell’Abisso e il buio di Notte si chetò e sorrise.
Quando gli déi si addormentano, anche se la loro essenza più grande si riposa laddove noi mortali non possiamo raggiungerli, talvolta sono i loro sogni che li conducono a noi. Così si incarnano in creature straordinarie, che noi scioccamente crediamo essere divinità del tutto complete, angeli, demoni o spiriti divini, e che in realtà non sono altro che un frammento vagante della mente di questi esseri profondamente addormentati, un loro pensiero, un’emozione che si riveste di materia.
Amore si era incarnato nel corpo di un bambino neonato, che aveva avuto origine da due delle manifestazioni terrene di Gaia: Afrodite, generata dal mare e incarnazione della bellezza, e Ares, bruta manifestazione della violenza e della lotta.
La mente di una divinità è grande, così grande e importante che quando un dio si distrae e i suoi pensieri vagano, essi raggiungono sempre qualche luogo. Gaia era così legata al suo pianeta che erano numerose le sue manifestazioni sulla Terra, e di tutte, nessuna era più appassionata di Ares e Afrodite, nessuna più degna di dare un corpo al piccolo Amore.
La natura mutevole del giovane dio donò ali e occhi ridenti al piccino in cui si era incarnato, simili a quelli della sua anima, e tanto era il divertimento che provava nell’avere adottato questa nuova forma, seppur momentaneamente, che ben presto la consapevolezza di stare sognando sfuggì dalla mente del bimbo divino.
Proprio come aveva desiderato era più che mai vicino ai viventi ora, e come essi cresceva in fretta.
Tra le creature della Terra si sparse presto la notizia dell’arrivo di questo piccolo Amore, tanto giovane quanto dotato di poteri straordinari, bello come un raggio di sole e discolo come un furetto!
Le altre creature divine, di cui scoprì presto essercene molte altre, tutte diverse da lui in un modo o nell’altro, erano avare della loro presenza con gli umani. Ma Amore no: appena ne fu in grado, iniziò a correre tra le strade dei paesi abitati, danzando tra la folla per osservare il via vai della città, poi a perdersi per le campagne. Cantava coi galli per svegliare i contadini e sorrideva, birichino, quando affacciavano alla finestra, per poi correre via, e le sue ali dorate sembravano poterlo portare ovunque.
Sua madre lo amava di tutto cuore, ma non sembrava mai preoccupata che gli accadesse qualcosa e lo lasciava libero di scorrazzare a suo piacimento. In qualche modo aveva ragione: mai nessuno cercò di fargli del male.
Amore imparò che sua madre e suo padre si amavano, ed ai suoi occhi questa era la cosa più importante del mondo, ma che sua madre era sposata con un altro uomo. Gli dissero che era di cattivo carattere ed incredibilmente brutto, e ovviamente questo fu tutto ciò che bastava perché nel piccolo Amore si accendesse la smania di conoscerlo.
«Non vorrà vederti» Lo ammonì Afrodite, accarezzandogli i ricci «Perché sei figlio di un altro uomo»
«Ma tu e papà vi amate, mamma mia» disse Amore, con un sorrisino tutto fossette «Come può arrabbiarsi perché avete avuto un figlio?»
«Oh, non vuole che stiamo insieme, perché è molto brutto e di cattivo carattere» tagliò corto la dea con un risolino «È quindi è invidioso della bellezza di tuo papà e del mio buon carattere, Amore. Oh beh, o anche viceversa immagino»
«Perché è tuo marito, allora?».
Afrodite sospirò «Vorrei che non dovessi ancora scoprire cose noiose come i motivi per cui ho sposato Efesto. Ora va’ a giocare, figlio mio».
Ovviamente Amore andò per prima cosa a chiedere in paese dove abitasse Efesto e, grazie all’amore divino che suscitava in chiunque lo osservasse, non ebbe problemi a trovare le informazioni che gli servivano. Chiese un passaggio al vento, che non poté rifiutargli questo piccolo piacere, e sulle sue ali d’oro arrivò in un men che non si dica all’Etna, il possente vulcano di Sicilia.
Alle pendici di quel meraviglioso gigante, che anche un piccolo dio guardava con ammirazione, era stata costruita una fucina unica nel suo genere. Al suo interno si svolgevano lavori d’artigianato di ogni sorta, che scuotevano il vulcano e ne facevano fuoriuscire ogni sorta di brontolio.
Amore era piccolo e svelto, e riuscì a sgattaiolare dentro eludendo il peculiare tipo di sicurezza che il marito della sua mamma aveva scelto di mettere a guardia della sua fucina.
E finalmente lo vide: il dio del fuoco era in una delle stanze della fucina, solo, e stava battendo del metallo caldo facendo sprizzare scintille tutt’intorno. Aveva spalle e braccia incredibilmente forti e un fisico adatto al lavoro, ma i lineamenti del suo viso erano la cosa peggio arrangiata che avesse mai visto su volto o muso di qualunque creatura prima d’ora. La mamma non aveva esagerato.
«Buh!» Esclamò allargando dita ed ali, ed Efesto esclamò molte parole volgari, sorpreso dall’apparizione del piccolo intruso.
«È solo un marmocchio» Constatò con voce rasposa, tranquillizzandosi
«Al suo servizio» rispose Amore, con un piccolo inchino «Siete voi Efesto, dio artigiano?»
«Come hai fatto ad entrare? Come hai potuto evitare di essere scorto dai miei assistenti ciclopi?»
«Se vuoi che gli intrusi non vengano visti, forse dovresti mettere guardie che hanno più di un occhio» osservò Amore, richiudendo le sue ali d’oro.
Efesto gli rispose con molte altre parole volgari, ma in cuor suo si disse che il marmocchio non aveva tutti i torti. Probabilmente se fosse stato qualcun altro a presentarsi così di soppiatto, il dio lo avrebbe gettato fuori senza tanti riguardi, ma c’era qualcosa di speciale in quel piccino. Quando si fu sfogato e lo ebbe squadrato ben bene, Efesto proseguì, continuando a battere il metallo:
«E allora? Certo non sei un comune mortale, si vede a prima vista. Hai ali sulla tua schiena, come la stirpe di Caos»
«Di Caos…» ripeté Amore, strizzando gli occhi. Provò una strana sensazione, come se stesse per ricordare qualcosa di dimenticato che non avrebbe assolutamente dovuto scordare, ma non ebbe tempo di rincorrere quel pensiero che fu interrotto.
«Ebbene?» Incalzò Efesto «Sei venuto a fissare l’aria? Perché c’è tutto un mondo là fuori, puoi farlo senza venire qui a rompere il...» e Efesto disse altre parole volgari, riscuotendo con efficacia Amore dai suoi pensieri.
«Sono venuto a trovarti, perché ho sentito parlare di te»
«Ah sì? E cos’hai sentito?»
«Che sei molto brutto e di cattivo carattere»
«Oh, andiamo bene»
«Ma che hai braccia molto forti e che sai creare qualunque cosa nella tua fucina, e che hai sposato Afrodite»
«Eh, di questo non ci lamentiamo»
«Che è la mia mamma» concluse Amore.
Efesto rimase in silenzio per un minuto buono, interrompendo il proprio lavoro.
«È la tua mamma» ripeté il dio, livido di rabbia e ancora più brutto del suo solito «E chi è il tuo papà?»
«Ares, dio della lotta»
«Ti ha mandato lui?» chiese Efesto, impugnando il pezzo di metallo incandescente e voltandosi verso il piccolo, brandendolo come un’arma «È una sporca tattica per umiliarmi? Beh, puoi portare questo» e tese in avanti la lama mai finita, ancora rossa e bianca per la temperatura elevatissima «al tuo papà e dirgli che se lo può ficcare su per il...».
Insomma, Efesto non era molto signorile. All’udire una risposta simile, Amore lo guardò in modo così spaesato e un po’ intimidito che Efesto si calmò un poco, e scagliò il pezzo di metallo lontano da sé, in fondo alla stanza, lasciandolo a raffreddarsi.
Si sedette a terra, a gambe incrociate, portandosi una mano al volto.
Lo guardò attraverso le dita allargate della mano, e Amore non era sicuro di come decifrare quello sguardo. «Somigli così tanto a lei» Gli disse, con un filo di voce.
Amore si avvicinò a passettini e si lasciò cadere un po’ distante da Efesto, guardandolo dubbioso.
«Non posso toccare del metallo così caldo» disse il bambino, toccandogli un braccio «Però posso portare il messaggio»
«Lascia stare, ragazzo. Lascia stare».
Per quella volta Amore se ne andò, ma non fu l’ultima volta che si videro. La fucina di Efesto divenne un nuovo luogo favorito per i suoi giochi, e nonostante gli si rivolgesse in modo sempre brusco, Efesto iniziò a tollerare di buon grado la presenza di Amore nelle sue fucine; persino i ciclopi non potevano fare altro che avere in simpatia quella bestiolina alata.
Il giovane dio prese l’abitudine di portargli un regalino diverso per ognuna delle visite, sempre più frequenti, che faceva. A volte erano delle cose che credeva fossero graziose trovate durante le sue scorribande, altre degli oggetti di valore che gli venivano regalati o che barattava al mercato.
Ogni volta che dovevano salutarsi ed Amore se ne andava, Efesto si affacciava per vederlo discendere a salti e piccoli voli il pendio e allontanarsi dall’Etna, e si chiedeva perché diamine stesse subendo l’umiliazione di incontrare la creatura nata dai tradimenti di sua moglie.
Era difficile volergli bene quando oramai sapeva delle sue origini. Da quello che il bimbo gli raccontava, Ares non era granché coinvolto nel tirarlo su, ma pensare al loro collegamento lo faceva star male, ed ancor più lo faceva stare male il pensiero che potesse rivelarsi più simile di quello che pensava all’uomo che aveva osato umiliarlo così.
Infine, decise di donare al piccolo Amore qualcosa che fosse insieme un regalo e una prova, per decidere finalmente come avrebbe dovuto comportarsi con lui. Efesto fabbricò per lui delle frecce speciali: erano solo veicolo delle intenzioni e dell’anima di colui o colei che le scagliavano. Non erano letali di per sé, ma si sarebbero adattati perfettamente alla personalità dell’arciere.
Sarebbe stato come dare un’occhiata direttamente alla sua anima.
Così aspettò che venisse a trovarlo, e poi dispose tutte le frecce che aveva forgiato in una faretra.
«Ho finito un’arma speciale, marmocchio» Disse subito, senza salutarlo.
Amore si adeguò subito e a sua volta saltò i convenevoli, mettendoglisi accanto «Bello, io oggi ho portato la mia lira. Se mi fai vedere la tua arma speciale, ti suono una canzone»
«Per ora concentriamoci sulle armi» tagliò corto Efesto, tirando fuori un arco argenteo, alto quanto Amore in piedi e soppesandolo
«Papà mio dice che ogni uomo deve avere le sue armi»
«Ah sì? E tu vuoi usare delle armi come papà tuo?»
«No» rispose candidamente il bambino, allargando appena le ali «A me non interessa uccidere, Efesto mio»
«Non chiamarmi in quel modo. Mai più. Ti prendo a calci se lo rifai» Efesto grugnì e gli passò l’arco e le frecce che aveva creato, sbuffando: «Provali. Sono Frecce dell’Anima»
«A mamma mia il nome piacerebbe, e piace anche a me»
«Beh, non me ne frega un accidente se ti piace o no, si chiamano così. L’effetto colpisce l’anima di un’altra persona, e cambia a seconda di chi lo usa. Non servono ad uccidere, così puoi divertirti anche tu».
Ciò non toglieva che, ovviamente, agendo sull’anima avrebbe comunque provocato la morte di qualcuno se le avesse usate un bruto violento come Ares.
«Incredibile! Come hai fatto?»
«Sì, e vengo a dirlo a te, moccioso! Affacciati, dai. Vediamo che uomo sei» Gli disse «Tira».
Non dubitava che il figlio di Ares sarebbe riuscito a maneggiare delle armi senza che ci fosse bisogno di spiegargli nulla, così come non dubitava che avrebbe centrato il bersaglio.
Amore uscì dall’Etna e si mise in volo, guardando dall’alto in cerca di qualcosa da colpire. Amava vedere le reazioni di ogni tipo di creature, ma le reazioni degli umani erano le sue preferite; così individuò dall’alto una coppia di giovani guerrieri, due greci a giudicare dalla lingua che parlavano, che chiacchierava e mirò.
Scoccò la prima freccia che si infilzò nel tallone di uno dei due. Dato che era una Freccia dell’Anima, i due umani non la videro e forse neppure se ne resero conto.
«Che tiro scarso! Pensavo di regalarteli visto che tu mi porti tutti i sassi e le muffe che trovi, ma mi sa che delle armi così belle sarebbero sprecate per un buono a nulla come te» lo prese in giro Efesto, così Amore gli fece una linguaccia e scoccò una seconda freccia. Questa trapassò il secondo uomo al cuore con precisione incredibile.
«Per Giove» Disse Efesto, osservando sgomento gli effetti delle frecce scagliate da Amore… e si fece una grassa risata come non se ne faceva da tanto tempo.
Nessuno dei due era caduto morto. Anzi erano caduti… l’uno tra le braccia e dell’altro, e si stavano scambiando un bacio. Quel dannato marmocchio faceva innamorare la gente.


Il piccolo dio crebbe fino ad essere un giovane uomo, e la gente temeva i suoi capricci quasi più di quelli di qualunque altra calamità, ma non poteva esimersi dall’adorarlo comunque.
Alternava momenti di monellerie e allegria a momenti di riflessione, rannicchiandosi sulla spiaggia, su un prato, ovunque si potesse vedere la vastità della volta celeste. Non sapeva perché, ma ogni tanto, quando si trovava a guardare il cielo stellato, sentiva qualcosa affiorargli dietro le palpebre, qualcosa di più di un pensiero e meno di una fantasia. Era esattamente come la prima volta nella fucina di Efesto: un ricordo che doveva sforzarsi di rimembrare, che era importante, eppure…
Allora chiudeva gli occhi per qualche secondo, dando spazio a quella presenza dietro ai suoi occhi perché si manifestasse così che potesse identificarla. Ma allora tutto spariva.
Sentiva i rumori della notte e, anche se era convinto di non aver trovato quello che cercava in un evento tanto ordinario, la smania spariva subito e Amore si sentiva felice.
Altri secoli girarono lentamente su sé stessi, e lui divenne Eros, Cupido, Amor e cento altri déi.
Dovette adattarsi, mutare, perché non era più tempo degli déi come li conosceva, e pian piano scordava cosa era stato prima per calzare la pelle della sua nuova identità.
I pensieri di Gaia si concentrarono su altro, le preghiere dei mortali che tenevano in vita quelle sue manifestazioni smisero di arrivare e molti di loro si spensero come candele, mentre gli umani si costruivano altri déi e adoravano nuove idee.
Amore cambiò nome ancora e ancora, cambiò aspetto e cambiò come la gente lo vedeva e ricordava, ma il suo messaggio sembrava essere forte abbastanza forte da reggere per tutto quel tempo.
«Insegui i tuoi desideri, ama la bellezza nel prossimo» Disse.
«È l’amore che fa girare il mondo» Disse.
«Ama il prossimo tuo come te stesso» Disse, e forse quella fu la versione che piacque più di tutte.


Era incredibile che, dopo tutti i secoli e le vite che aveva vissuto, gli eventi che avrebbe insegnato ad Amore qual era il suo ultimo nome sarebbero avvenuti tutti in un unico anno: 2019, Anno Domini.
Iniziò tutto con una donna, delle orecchie da coniglio finte, una maglia buffa, un lago con le papere e un dio nascosto.
La giovane donna era un’insegnante delle elementari dall’aria afflitta che sedeva su una panchina in un parco. Il sole aveva iniziato ad abbassarsi pericolosamente verso l’orizzonte ed il parco era semi-deserto: più il cielo si scuriva più gli umani migravano verso case o bar a quell’ora.
La ragazza sospirò e si sfilò il cerchietto con le orecchie da coniglio e si appoggiò allo schienale, reclinando la testa con aria davvero molto stanca.
Proprio perché era poco frequentata, quella parte del parco le piaceva molto: era lì che andava a rilassarsi quando si sentiva tesa, e ogni volta le veniva una nuova idea per la lezione che avrebbe fatto con i bambini della sua classe l’indomani. Spesso e volentieri li portava proprio lì, e ormai i bambini conoscevano tutte le papere che vivevano nel lago lì accanto per nome, anche se erano stati loro ad assegnarglieli.
Le oche bianche iniziarono a raggrupparsi dalla sua parte del lago, speranzose di ricevere qualcosa di sfizioso da mangiare.
La giovane si riscosse di scatto: aveva sentito qualcosa, troppo vicino «Chi è là?!».
Udì quella che sembrava un’imprecazione soffocata, poi qualcuno uscì con le mani in tasca da dietro un albero. Era un bell’uomo dai capelli ricci e bronzei, che sembrava essere un po’ più giovane di lei. La guardava come se l’avesse conosciuta tanti anni fa e fosse stato felice di rivederla, il che era era un po’ strano, ma piacevole.
La luce sembrò riflettersi per un attimo in modo strano sulla sua schiena, come se avesse avuto… ma batté le palpebre e l’impressione svanì.
Aveva sentito dire che i momenti vicini al tramonto erano quelli che facevano i giochi di luce più strani, dai flash verdi a immaginarsi delle ali di luce. Probabilmente.
«Chi era?» Chiese lui.
Hai una bella voce” Avrebbe voluto dirgli lei, che era una persona sincera, e invece gli disse «Chi?»
«Quello che hai visto. Hai urlato “chi è là”, sembravi allarmata»
«Probabilmente tu» ridacchiò lei «Ti avverto che ho dello spray al pepe, sei hai cattive intenzioni»
«Non ho né uno ne le altre» rispose lui, alzando le mani in segno di pace, ma sorridendo. Aveva un taglio fresco sul polso, leggero, ma da cui erano stillate un paio di gocce di sangue
«Oh. Ti sei fatto male?».
Lui seguì lo sguardo di lei e sorrise. «Oh. Non era mai successo» Disse, come se trovasse la cosa divertente. Ci passò sopra un dito, sporcandosi appena i polpastrelli del poco sangue che ne era sgorgato.
«Ho anche dei fazzoletti, se vuoi»
«È solo un taglietto» rispose lui, ma ne sembrava affascinato, e alzò il braccio per osservarlo meglio da un’angolatura diversa.
«Caspita, sembra che non ti sia mai successo davvero»
«È così»
«È meglio pulirlo lo stesso. Vieni vicino, dai».
La donna si preparò ad aiutarlo, ma nel tempo che ci era voluto al giovane per coprire la distanza che c’era tra i due, la ferita aveva già smesso di sanguinare. Lei gli ripulì comunque il braccio dal sangue
«Pina. E tu come ti chiami?»
«Amore» disse lui, e fu quasi sorpreso quando quel nome affiorò dalle sue labbra. Era uno che non usava da tanto, tanto tempo… eppure parve così naturale usarlo che, dopo un attimo, tornò ad essere il suo. Nel giro di una conversazione con quella donna, già non ricordava più che nome avesse usato fino a qualche ora fa.
In un modo o nell’altro, i due iniziarono a chiacchierare, come attratti da una calamita misteriosa.
Lei gli raccontò del suo lavoro e della sua vita, di come apparentemente i suoi superiori la odiassero perché era troppo buona con i suoi studenti.
«Che problemi hanno?» Chiese Amore
«Forse nessuno è stato abbastanza buono con loro, quando loro erano studenti» rispose lei, stringendosi nelle spalle.
Lui le raccontò una mezza verità: era un matchmaker. Avrebbe potuto dimostrarle di essere un dio, ma voleva parlarle da pari a pari; lei parve trovare molto, molto interessante una professione del genere, e a lui gli aneddoti non mancavano.
«Posso provarle?» Chiese Amore, con una risata, accennando alle orecchie da coniglio «Sono bellissime!»
«Ma grazie» rispose lei, «Ecco a te».
Gli spiegò che sarebbero servite per una lezione l’indomani. Era più facile insegnare ai bambini quando si divertono.
«È vero, confermo. Io sto ancora imparando molte cose» rispose lui, con un sorriso birichino
«Quindi sei un discolo?»
«Credo di sì. E tu?»
«Mmeh» lei fece segno di “così così” con la mano, ed entrambi risero. Il sole era ormai sceso lungo l’orizzonte, e Amore pensò che la risata di quella donna era così bella da poterle perdonare la maglietta che stava indossando. “Più bella di Afrodite”, c’era scritto, e lui aveva deciso subito che doveva punirla affibbiandole una bella cotta per il primo accattone che passava; poi lei si era accorta di lui. Come? Come aveva fatto? Era sempre entrato dove voleva, era riuscito a passare inosservato ovunque avesse voluto. Neppure gli déi si accorgevano di lui se non lo desiderava, aveva eluso la sorveglianza dei ciclopi come se niente fosse, e quella donna, invece, lo aveva sorpreso. Quella persona unica, gentile, speciale.
Per la prima volta era stato maldestro con le frecce, e aveva finito per tagliarsi nel metterle via. E poi aveva visto lei.
«Vediamoci ancora» Gli disse lei d’impulso. Lui accettò.
E accettò ancora ogni volta che lei glielo chiese, per altri sei mesi intensi, bellissimi… ed infinitamente troppo corti.


«È successo troppo in fretta» Sussurrò lui
«È naturale»
«Non può esserlo. Non può fare così male!»
«Amore...»
«I-io. Non è passato niente. Sapevo che non saresti mai potuta vivere per sempre, ma speravo che almeno, avresti, avresti potuto accompagnare questo me. Fino alla fine. Fino ad un nuovo nome».
Lei non parve sorpresa da quelle parole: nella sua nuova condizione, era in grado di scorgere a sua volta l’anima dell’amato. Aveva capito, e nel suo cuore si sentì onorata di aver avuto per sé l’affetto di un dio.
«Anche il dolore è naturale, Amore»
«Non abbiamo passato neppure un anno assieme. È crudele. Non riesco a… è troppo presto. È la seconda volta che mi faccio male. Solo tu… solo tu hai questo potere».
Era la prima volta che Amore si vestiva di nero, e qualcosa in lui gli aveva chiesto di non farlo come si usava di questi tempi, solo per formalità, con abiti che non sentiva suoi. Era la parte di lui che aveva iniziato a risvegliarsi quando si era presentato come Amore dopo secoli, quella che cercava la risposta ad una domanda silenziosa nel cielo stellato. Indossava una tunica nera, e la sua figura era parzialmente nascosta allo sguardo del mondo da un mantello con un cappuccio che gli celava i riccioli.
Davanti ad una tomba, nel cimitero della città, Amore stava con i pugni chiusi, le spalle tremanti.
Erano venuti in tanti, al funerale. Molti di loro erano giovani, alunni presenti e passati. Molti avevano pianto.
«Che ci fai ancora qui?» Le chiese gentilmente, voltandosi verso lo spirito della donna che aveva amato.
Ai suoi occhi di creatura divina appariva quasi come se fosse stata ancora viva, un’illusione quantomai crudele, ma lei non poteva restare qui. Non era questo il posto di uno spirito. Eppure voleva così tanto che rimanesse lì...
«Ho paura ad andare» Rispose lei. Il suo tono si incrinò, e lei abbassò il capo «Non voglio essere da sola. Non potresti accompagnarmi, Amore? Per favore. Solo un tratto di strada, e poi potresti tornare indietro».
E con la consapevolezza di un dio innamorato, Amore seppe che poteva fare questo miracolo per lei.
Prese l’arco d’argento e vi posò sopra un bacio, poi vi incoccò una Freccia dell’Anima. Nonostante gli anni che erano passati, le Frecce che Efesto aveva forgiato per lui erano ancora incredibilmente sensibili al suo tocco.
Ad ogni uomo le sue armi, come diceva Ares.
Nel momento in cui percepirono risuonarono con la sua anima, che aveva in sé la mutevolezza di un figlio del Caos, la Freccia e l’arco capirono che non potevano più servire il loro padrone così come erano. L’asta dell’arco si allungò, la freccia si fuse con la corda tesa, la lama si allungò, catturando la poca luce che le nuvole grigie lasciavano filtrare nel cielo fosco.
Amore sospirò e si voltò a tendere la mano alla sua amata, brandendo la sua nuova Falce, nata per proteggere la donna nel suo viaggio finale.
Lesse per l’ultima volta il nome sulla lapide adorna di fiori, prima che lei lo prendesse per mano e iniziassero a camminare insieme, piano piano.
Giuseppina Psiche.


Tutto era diverso. Amore non sentiva più le costrizioni di un corpo mortale, e sentirsi così libero ed immenso per un attimo lo disorientò. Si sollevò dalla presa gentile di un abbraccio, confuso nel sentire quell’azione così facile.
«Ci siamo svegliati» Gli disse Notte, un po’ canzonandolo, ma con affetto «È stato un sogno lungo, Amore. Non ti ho svegliato, anche se non è stato sempre sereno. Ho fatto bene?»
«Grazie, Notte mia» disse Amore, sporgendosi a baciarle il viso scuro
«Sento tenebre nuove nel tuo cuore, Amore, eppure non sono stata io a prestartele. Cosa accade?»
«Non crucciarti, Notte» lui sorrise «Sono mie. E le terrò care».
Il tempo non vuole dire nulla per gli déi, quelli veri, e Amore ha ali veloci.
Non si dimentica delle creature che lo hanno conosciuto, né come infante né come giovane uomo vigoroso, e si premura di non lasciar mai affrontare loro l’ultimo viaggio da soli.
Molti di loro non lo riconoscono senza arco e frecce, quando porta con sé una falce perché il loro cammino sia sicuro e sereno. Ma quei pochi che riescono a scorgere i suoi lineamenti e lo riconoscono, sorridono.
Dicono che il suo volto sia come la canzone di Notte e appaia di diverso agli occhi di chiunque lo scorga ora, e che sia un accompagnatore gentile, attento a non lasciare mai che chiunque accompagni nell’altro mondo smarrisca la strada, sostenendolo con le sue ali d’oro e difendendolo con la sua falce. Ormai anche lui ha appreso qual è il suo ultimo nome, ma ha scelto di non abbandonare il primo, e dispensa ancora visite sia come fanciullo dalle frecce d’amore che come traghettatore con la falce.
Chi lo riconosce lo segue con un sorriso, un passo alla volta, vedendo per l’ultima volta il volto d’Amore e Morte.

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Published on March 08, 2020 03:08

March 5, 2020

Un boccaccio di Amuchina - 4. Come nacque tutto

<Precedente (Capitolo 3)

+ Come nacque tutto, una storia di Giangiorgio Gomblotti+
Non so quanto le persone che sono sedute qui con me siano coinvolte in questo sequestro, se ne siano vittime come lo sono io o se siano complici dalla parte del signor Lazzaretti, o cosa mi accadrà in questa grande casa. So che almeno due di voi sono cattive persone.
Va bene, so che è stato tutto orchestrato per avere qui me e la nonna, lo so.
Parlerò.
Anzi, c’è proprio bisogno che io parli: la libertà di un uomo finisce dove la sua bocca non dice più le parole che vorrebbe pronunciare, ma è costretta a ripetere quelle d’altri, o a tacere.
Cosa? No, che vuol dire? No che i muti non sono schiavi, possono comunicare benissimo in altri modi! Anche se… ora che mi ci fai pensare, è una cosa su cui dovrò fare delle ricerche quando, e soprattutto se, riuscirò mai ad uscire di qui con tutte le mie facoltà mentali.
Io lo so che un uomo come il signor Lazzaretti può aver orchestrato tutto questo solo per due ragioni: o per sapere quanto ne so prima di mettermi a tacere, non so se per sempre o asportandomi le mie memorie, o per sentire il materiale del mio audiolibro e rubare le mie idee, lo so.
Vada avanti, faccia pure se questo la fa stare meglio! Io non ho paura dei suoi muscoli. Io lo so che un normale umano non può raggiungere quella forma bozzuta senza l’aiuto di sostanze chimiche, e quindi so che i suoi muscoli sono vuoti come la sua casa e il suo cuore.
No, non voglio fare a braccio di ferro. Lei mi vuole assalire: lei, signor Lazzaretti, è un bruto.
Per ora mi piegherò al suo volere, ma non crediate che sia perché ho paura dei suoi bozzi, tutt’altro: lo sto facendo perché ho sentito ogni sorta di inaccuratezza da quando sono entrato in questa casa da tutti voi, e approfitterò di quest’occasione per spiegarvi in che razza di mondo viviamo.
Per capire al meglio le stravolgenti informazioni che ho su Caltaleone e che ho deciso di condividere con voi però, – sì, proprio questa città che ritenevate tanto sonnacchiosa ed innocua! Ma scommetto che non avete mai sentito parlare della Porta dei Triangoli Occulti! E che mi dite del Morto col Maquillage? Sorpresi, eh? – fino ad arrivare alle vere origini del complotto Coronavirus, dovrò partire da molto, molto tempo fa. Dall’inizio.
Ecco a voi la storia di come ebbe inizio tutto.
In principio l’universo era come un enorme scatolone quadrato in cui stavano due grandi biglie compatte che rotolavano dappertutto, una bianca e una nera: la prima era la materia, la seconda era l’anti-materia.
Gli scienziati vorrebbero farvi credere che all’inizio di tutto non ci fosse niente, e invece no! Sappiamo che niente si genera dal niente, dall’osservazione coi nostri propri occhi, quindi quella del Big Bang è una teoria stupida.
Lo scatolone doveva essere quadrato per forza, perché se fosse stato tondo le due biglie avrebbero potuto continuare a rotolare per sempre; invece c’erano degli angoli e rimbalzando le due biglie si scontrarono e, siccome erano opposte in tutto e per tutto, provocarono un’esplosione e un’anti-esplosione: l’anti-esplosione scombinò ciò di cui erano fatte le biglie, mentre l’esplosione le proiettò per tutto lo scatolone.
No, non è la stessa cosa del Big Bang. Ignorante.
Per sua natura, l’anti-materia non può toccarci senza generare un’anti-esplosione, e la materia è fatta per indagare e conoscere solo il resto della materia, perciò non poteva succedere altrimenti che la materia e l’anti-materia si evolvessero allo stesso momento ma del tutto separate, generando un universo e un anti-universo. Purtroppo non abbiamo modo di sapere come è fatto questo Universo Nero e se somiglia al nostro perché non lo possiamo percepire con i nostri sensi materiali, ma vi assicuro che c’è.
Siete scettici? E come mi spiegate i buchi neri, che si chiamano anche “neri”? Ah ah, scacco matto.
Ora, quando le due biglie bianca e nera si erano toccate per la prima ed ultima volta, un po’ di materia ed anti-materia si erano fuse insieme creando una terza cosa mai vista prima, il Principio Unico ed Inscindibile del Concetto Attivo Universale del Perfetto. O “Il Perfetto”.
Il Perfetto, avendo caratteristiche sia della materia che dell’anti-materia e potendo interagire con entrambe, era proprio… perfetto, e fu grazie alla sua influenza – che subiamo tutt’oggi, attenzione – che si originò un universo funzionante, frutto quindi di un disegno intelligente.
Se prima l’universo non funzionava? Ottima domanda, Pinocchio. Prima l’universo faceva schifo perché erano solo due palle scolorite che hanno finito per sbattersi addosso, quindi certo che no, bambino ignorante. Mi hai dato un calcio? Tu, bambino, mi vuoi aggredire. Tu sei un bruto.
Dicevamo: così l’universo, piano piano, iniziò a prendere forma.
Facciamo finta di viaggiare alla velocità della luce, saltiamo eoni in cui le rocce cominciavano ad attaccarsi insieme per fare delle rocce molto più grandi e la nascita di pochissimi ambienti adatti alla vita ed alla anti-vita, e arriviamo al momento in cui le prime persone escono dal brodo primordiale, tutte sporche, che ancora non sanno sbucciare le mele.
Anche loro si evolvono come tutti gli altri animali, guidati dal Perfetto, ma infine si elevano e, nei primi anni ‘90, nasce da quella nobile stirpe di animali intelligenti quello che diventerà il mio idolo: Kadam Admon!
Nasce da una famiglia che viveva nelle campagne, senza molto cibo ma con moltissima acqua, e nel verde della natura osserva il mondo e comincia a capirne gli ingranaggi. Non va a scuola, dove nessun insegnante può mettergli in testa delle false nozioni pilotate dal governo, e arriva con mente limpida e serena all’età di giovane adulto. Allora diventa guardiano di fiumi per professione, e con i primi soldi che guadagna con questa professione, decide che è il momento di comprarsi una macchina fotografica, per quanto costose fossero all’epoca. Comunque lui era molto bravo a guardare i fiumi, e quindi i soldi non gli mancavano.
La sua famiglia non capisce questa scelta e cerca quasi di ostacolarlo; è allora che nasce il celebre litigio da due frasi con il padre:
«Ma figlio» gli dice il padre «Non preferiresti una bici o un giornale con delle donne provocanti?»
«No» risponde Kadam. E così la ebbe vinta lui.
Questa macchina fotografica si rivela una risorsa di incredibile valore per il giovane Kadam, che si mette a scattare foto a raffica e a spendere tutti i soldi che guadagna fissando i fiumi per farle sviluppare. Dato che non gli rimane soldi per altro, campa con tre caramelle e una mela al giorno, oltre ovviamente a tutta l’acqua che vuole. Le foto dell’epoca che lo ritraggono ci mostrano infatti che era un giovane adulto molto sciupato, nonché l’inventore del selfie.
Osservando queste foto che scatta del mondo, che si appende sulla tesa del cappello per allenare la visione periferica e per poterle confrontare con la realtà che lo circonda, Kadam si rende conto di molte leggi fisiche: tipo il fatto che ci sono quattro stagioni che si susseguono, che a volte gli alberi muoiono e che le nuvole si muovono in cielo. Fino ad allora, ad esempio, molti alberi erano ritenuti immortali… e invece Kadam poté dimostrare che così non era.
Ma soprattutto, durante una giornata invernale in cui il suo fiume si è ghiacciato e quindi esserne il guardiano è ancora più faticoso perché, si sa, il ghiaccio può essere rotto, Kadam sente uno strano rumore provenire dal cielo. Fa così: wuhan wuhan wuhan.
Quando alza lo sguardo però, in cielo non c’è niente di niente tranne molte nuvole bianche. Così, dopo averle fotografate, decide di andare a controllare di persona cos’è che che continua a produrre quello strano rumore mai sentito prima.
Kadam si incammina, portando con sé la sua fida macchina fotografica. Ad un certo punto quella strana vibrazione smette, ma Kadam vede delle luci in cielo, così, sospese. All’inizio pensa che, siccome sta calando la sera, siano le prime stelle che si fanno vedere, poi si rende conto che sono grosse come un vitellino e allora decide di scattargli una foto per vedere meglio di che si tratta o potere, se ce ne fosse bisogno, mostrarla ad altri in cerca di consiglio.
Fu lì, signori miei, che venne scritta la storia! Lì cambiò tutto, tutto quello che credevamo di sapere venne stravolto nel tempo d’uno schiocco di dita!
Nella foto si vedeva un’astronave! Una di stile classico, un disco volante a tutti gli effetti, con tanto di piccolo alieno dai grandi occhi magro quasi quanto Kadam che salutava da uno dei finestrini.
Dalle foto che scattò quel giorno e dalla sua esperienza, Kadam Admon riuscì a ricomporre tutti i tasselli mancanti del puzzle: noi non eravamo l’unica civiltà intelligente che si era formata nell’universo.
Dalle parti di Zeta Reticuli, a seguito dell’evoluzione dell’anti-materia, dagli anti-brodi primordiali erano nate delle anti-persone!
Queste prime anti-persone, ad ogni modo, hanno dei vantaggi che noi creature materiali non abbiamo: mentre noi siamo del tutto ignari della loro presenza nel nostro stesso universo loro non solo sanno che ci siamo, ma possono anche osservarci tranquillamente senza paura di essere scoperti dato che la materia non può percepire, per sua natura, l’anti-materia, ma loro non possono toccarci direttamente senza generare un’esplosione!
Il fatto di poter osservare tutto, però, sia materia che anti-materia, ha fatto sì che questi esseri incredibili ed alieni si evolvessero molto più in fretta di noi, così al giorno d’oggi hanno anche un sacco di tecnologie avanzatissime e mezzi di trasporto per raggiungere la nostra Terra ed osservarci.
La cosa interessante e del tutto scientifica però, è che la luce è un’energia, e perciò interagisce sia con noi che con loro e noi materiali possiamo percepirla tranquillamente: ecco perché quel giorno Kadam vide le luci dell’astronave ma non il disco volante stesso, ed ecco perché invece riuscì a vedere la foto, perché era ormai solo colore e luce che veniva da un apparecchio materiale, quindi visibilissimo per lui!
Le foto scattate da Kadam sono ancora disponibili su Internet e su fonti del tutto rispettabili, come il profilo Facebook del dottor Truffaldonis, ufologo, sui siti “Alieni ed extraterrestri” e “Complotti Incredibili (ma veri)” e sul mio blog. Alcuni scettici e persone di scienza dicono che la foto non è attendibile perché è un poco sfocata, ma non tengono conto che Kadam non aveva nessun cavalletto o treppiedi con sé, quindi è normale che lo scatto sia venuto un pochino mosso.
E comunque, in realtà sia l’astronave che l’alieno sono facilissimi da distinguere, basta piegare la testa a quarantacinque gradi a destra, strizzare l’occhio destro più del sinistro e non respirare per una decina di secondi et voilà, li vedi subito, come averli davanti. Certe persone non sono pronte a fare nessuno sforzo per vedere la verità.
Credo che per percepire l’anti-materia ci voglia una certa quantità di Perfetto nella propria anima che rende più sensibili alla percezione di tutti i fenomeni, che questi uomini di scienza non hanno.
Comunque, dopo quell’incontro Kadam decise di allontanarsi dalla propria famiglia per non metterla in pericolo e venne a studiare proprio qui, a Caltaleone, dove dicono ebbe molti altri incontri con queste forme di vita extraterrestri e di diversa materia, ed inventò un ingegnoso metodo di comunicazione luminoso per poter parlare con loro.
A Caltaleone è morto serenamente di vecchiaia, dopo aver negoziato una pace momentanea con gli alieni che però si è infranta al momento della sua morte… e ve ne narrerò le conseguenze.
Si lasciò dietro un libro intitolato pressapoco “Memorie di un guardatore”, che è un po’ difficile da decifrare. Alcuni dicono che è perché era un illetterato che non è mai andato a scuola, ma io so che l’ha codificato per far sì che solo persone degne possano capire il suo lavoro e proseguirlo, e riuscirci è il mio sogno! Kadam Admon è diventato ai giorni nostri un vero eroe per tutti noi che cerchiamo la verità: il mio eroe.
Ed è così che, dopo avervi raccontato come è nato tutto e come è stato capito com’era nato tutto, arriviamo ai giorni nostri.
Ed alla grande, spaventosa verità: Caltaleone è la città più importante del mondo.
To be continued… Sì, l’ho detto ad alta voce, qualche problema?
Ora avete le basi per capire quello che vi dirò nelle prossime storie, ma attenzione, perché adesso portate come me il fardello della conoscenza. Riuscirete a sopportarlo?
O... impazzirete?
Wuhan, wuhan, wuhan.



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Published on March 05, 2020 01:30

March 4, 2020

Un boccaccio di Amuchina - 3. Un posto per bambini

< Precedente (Capitolo 2)

+ Un posto per bambini, una storia di Giuseppino Occhio+
Ora ve la racconto io una storia! Allora… c’era una volta… c’era una volta…
Un adulto. Un adulto che non voleva andare a scuola. Era un professore questo, sì, un professore che non voleva mai lavorare, perché gli scocciava di correggere tutti quei compiti e di dover sempre punire i bambini.
Era un professore bravo lui, che voleva solo che i suoi alunni si divertissero tanto, e allora gli comprava i gelati, le caramelle e le riviste dei videogiochi. Insomma, a scuola gli piaceva andare perché c’erano i bambini, ma si scocciava perché c’erano gli altri professori che erano tutti noiosi e cattivi.
Il preside lo rimproverava sempre e gli diceva «Sei troppo buono con questi bambini! I professori sono fatti per essere cattivi! Per farli spaventare sempre di prendere un due, per farli tremare, per mandare le note a casa! Che cos’è questa storia che li porti a prendere il gelato?».
E il professore bravo, che si chiamava Giuseppino, ecco, Giuseppino sorrideva con grande bontà e scuoteva la testa.
«I bambini non son fatti per prendere i due» Rispondeva «Son fatti per prendere il sole»
«Ma quale sole e sole?» strillava il preside «Son fatti per prendere le botte!».
E tutti i giorni il preside e il professore Giuseppino litigavano sempre di più. Una volta il preside diede un pugno al professore buono, un pugno forte in faccia, che lo fece cadere a terra e svenire.
Quando il giorno dopo Giuseppino andò a scuola, i suoi alunni si preoccuparono tantissimo nel vedere il grande livido blu intorno all’occhio del loro amato maestro.
«Oh, prof!» Gridò Giannina, arrabbiata come al solito «Chi è stato a farti questo? Se lo trovo, ah, se lo trovo gli mangio la testa!»
«Ma no, ma no Giannina, sono solo caduto dalle scale» disse il professore, ma ovviamente era una bugia.
Tutti i bambini capirono subito che era una bugia, perché se cadi dalle scale mica sbatti solo un occhio! Dovresti sbattere tutto, no? E magari avere le ossa rotte, un braccio ingessato, ma non un occhio nero che sembra una melanzana… qualcuno doveva aver dato un pugno fortissimo al loro professore e quindi loro dovevano fargliela pagare, al maledetto!
Dopo la scuola, tutti i bambini della classe si riunirono in cortile.
«Dobbiamo ammazzare chi gli ha fatto questo» Disse Giannina
«Ma ammazzare è vietato dalla legge» fece Giuseppino Junior, che era il più buono di tutta la classe
«E allora gli dobbiamo rompere le mani, così non lo fa più».
Tutti i bambini erano d’accordo: dovevano rompere le mani al coso che aveva picchiato il professore. Ma come avrebbero fatto a capire chi era?
«Indagheremo» Disse Marco, che aveva gli occhiali grandi grandi e tondi, e che era portato per fare il detective «Ho un’idea! Entreremo a scuola prima, domani, e uno di noi, a turno, seguirà sempre il professore Giuseppino, così scopriremo se qualcuno gli vuole male e gliela faremo pagare!»
«Sì» dissero tutti «Sì, è una bella idea».
E così il giorno dopo tutti i bambini della classe arrivarono a scuola alle cinque, si nascosero ognuno dietro un pilastro, dietro un muretto, dietro uno zaino, e aspettarono. Alle cinque e dieci minuti arrivò il preside, che era grosso grosso, con una pancia gigante, una faccia brutta da mucca con gli occhi da bassettoide e i baffi che facevano “swish swish” per quanto erano lunghi.
«Uhm, ha un’espressione molto cattiva» Disse Marco, sottovoce
«Sì, ma ce l’ha sempre» rispose piano piano Giuseppino «Non è mica una prova questa»
«Hai ragione. Continuiamo a guardare».
Il preside entrò e se ne andò in presidenza, dove si sedette dietro la sua scrivania nera e tirò fuori delle foto da dentro il cassetto. I bambini lo vedevano perché lo stavano spiando dalla finestra, comunque. Allora, il preside guardava le foto, che erano tutte di bambini, e le commentava.
«Ah, Gianni Vilardi!» Diceva, guardando un ragazzo con i capelli marroni «Ora è diventato grande e lavora al MecDonnel! È triste e gli abbiamo rovinato la vita, molto bene, molto bene! Così si diventa adulti, brutti e tristi!» e poi cambiava foto, la guardava e diceva «Ah, Annamaria Nonni, mi ricordo di lei: era una bambina sempre felice, che aveva un topolino domestico! Ora che è grande si è rassegnata e lavora con quelli che ammazzano i ratti e gli scarafaggi! Ah, che bello, quante responsabilità che ha adesso! Triste e piena di responsabilità, proprio come tutti gli adulti!».
E andava avanti così, guardando tutte le foto dei bambini che una volta erano stati alunni spensierati, ma che la scuola aveva costretto a diventare adulti poveri e tristi con lavori bruttissimi. Quei bambini volevano diventare attori, artisti, pittori, fumettisti, calciatori, coltivatori di zucchine, modelli dei costumi da bagno o guidatori di trerruote, ma a scuola li avevano consigliati male e li avevano costretti tutti a fare dei lavori terribili e che loro non volevano fare.
«Lui ce l’ha con i bambini» Disse Giannina «Non può essere stato lui, non picchierebbe un adulto, no? Gli piacciono gli adulti»
«Ma solo quelli tristi e musoni che fanno lavori brutti» rispose Giuseppino
«Già. E invece il professore Giuseppino è contento, perché gli piacciono i bambini e gli piace insegnarci mille cose divertenti» dedusse Marco, che amava molto il suo insegnante perché era da lui che aveva imparato come fare il detective e tanto altro, come la vita degli squali e dei serpenti.
I bambini però non avevano ancora prove, quindi si nascosero di nuovo e aspettarono di vedere gli altri professori.
Alle sei arrivò la professoressa di religione, la malvagia Nancy che odiava quelli diversi da lei. Si vestiva sempre con maglioncini alla naffatallina, pantalonazzi da circo o gonne ancora peggio, e aveva i capelli a caschetto biondi, ma finti biondi, e non le piacevano i bambini che la pensavano diversamente da lei. Una volta aveva detto al piccolo Raji, che adorava un dio elefante bellissimo, che sarebbe andato all’inferno, e un’altra volta aveva detto a Nina, che non andava mai a messa, che il Diavolo l’avrebbe punta tutta.
«Non potrebbe aver dato un pugno al professor Giuseppino» Ragionò Giuseppino «La sua religione dice che deve essere buona, no?»
«Ma lei è buona? Certo che no!» fece Giannina
«Però non credo che sia lei. La controlleremo, comunque».
E la controllarono, mandandole dietro un bambino perché guardasse cosa faceva, ma la malvagia prof Nancy si faceva soltanto il catechismo da sola, con mille segni della croce, e si bagnava tutta con l’acqua santa.
Poi, alle sei e dieci, arrivarono insieme la professoressa di matematica, una zitella acida con i capelli lisci lisci a spaghetto, e il professore di educazione fisica, un gorillone con le braccia tutte pelose e le sopracciglia a spazzola e i capelli a sopracciglio. Questi due stavano insieme, erano fidanzati e si baciavano. Come… che significa che se lei stava con lui non era una zitella? E questa era una zitella lo stesso. Acida. Tanto lo sapevano tutti che si sarebbero lasciati, perché quello di educazione fisica aveva mollato dieci mogli.
E smettetela di interrompermi.
Allora, che stavo dicendo? Ah, sì, c’erano questi due, che erano due piccioncini schifosi e si baciavano.
«Muah, muah, amore mio!» Diceva lui, tutto felice, passandosi la mano nella barbaccia sfatta
«Tesoro» gli faceva lei, proprio con la vocina acida da zitella «Ma oggi come li punirai, i bambini?»
«Li punirò non facendoli uscire e gli dirò che il pallone è bucato»
«Ma il pallone non è bucato, come farai?»
«Ah, ah, lo bucherò io, è chiaro!».
E mano nella mano entrarono nella scuola.
«Lui potrebbe essere stato» Disse Giannina «Guardate che bestione violento e cattivo! Ce lo vedete a dare un pugno in faccia al povero professor Giuseppino, vero?»
«Sono troppo impegnati a baciarsi» le rispose Giuseppino Junior.
Ma, e questa era la cosa preoccupante, Marco si aggiustava gli occhiali e guardava nel vuoto, proprio come quando stava per risolvere il mistero di un romanzo giallo dopo averne lette solo dieci pagine.
«Cos’hai, Marco?» Gli chiese Giannina.
Il giovane detective, preoccupato, la guardò.
«Sai» Disse «Il professore di educazione fisica è molto innamorato della professoressa di matematica, ed è anche molto geloso e violento. Se per caso Giuseppino le avesse rivolto delle attenzioni speciali...»
«No, mai!» gridò Giuseppino Junior «Il nostro amato insegnante non potrebbe mai essere innamorato di una come quella racchia malvagia! Di tutte le insegnanti è la più noiosa e non lo approva neanche, perché lei è allergica al divertimento e il professor Giuseppe è il più divertente».
Marco scosse la testa «L’amore» disse «È una cosa che gli adulti provano e non ha senso a volte. Mio padre si è innamorato di mia madre anche se lei non lo fa mai giocare a calcetto, per esempio».
Tutti si paralizzarono: che davvero il professor Giuseppino, che era tanto bravo e simpatico, si fosse innamorato della brutta zitella che insegnava matematica? E che fosse quello il motivo per cui aveva ricevuto un bell’occhio nero?
Alle sei e mezza arrivarono tutti i bidelli, sia quelli buoni che quelli cattivi. La bidella buona, siora Mimma, era cicciottella e ricciolosa, permetteva sempre ai bambini di usare il computer della sala bidelli per scaricare i giochi e aveva una voce come quella di un canerino. I due bidelli cattivi, Otto detto l’Orco e Fausto detto l’Orco Due, erano tutti pelosi, ma con la testa pelata, e anche se non erano fratelli erano proprio brutti uguali e facevano sempre un casino quando vedevano una macchia di sporco per terra, per di più erano anche amici del preside e facevano la spia.
«Potrebbero essere stati loro, tirano sempre botte e sono malvagi» Disse Giannina
«Ma no» fece Marco «Altrimenti il professor Giuseppino avrebbe due occhi neri, non uno solo: questi due lavorano sempre in coppia. Forse sono gay, oltre che orchi».
Giuseppino Junior rise tenendosi la pancia «Gli orchi finocchi!».
E così anche i due bidelli furono sospettati.
Alle sette e un quarto arrivò proprio… il professor Giuseppino! Aveva addosso una camicia nera, che faceva super figo, e i pantaloni rossi, e sulla testa portava un cappello con le orecchie da coniglio con cui di certo aveva intenzione di fare ridere tutti i bambini.
Appena lo vide dalla finestra, il preside scese le scale di corsa e andò a incontrarlo. I bambini allora entrarono nella scuola e si nascosero dietro le porte delle aule, per vedere e sentire che cosa succedeva in corridoio.
Il preside arrivò con la faccia cattiva, le mani tutte screpolate sui fianchi, e disse ad alta voce:
«Ah! Allora vedo che ne hai inventata un’altra delle tue, professore del malaugurio!».
Il povero prof Giuseppino abbassò lo sguardo.
«È per i bambini» Disse «Oggi studiamo il ciclo vitale dei conigli, come esempio per quello di altri mammiferi, e volevo essere simpatico»
«Levati quello stupido cappello!» ringhiò il preside «O vuoi che te le suoni di nuovo? Vuoi un altro occhio nero?».
Accidenti! Era stato proprio lui, quindi, a picchiare il povero professore buono!
«L’abbiamo scoperto, ora andiamo e picchiamolo» Disse Giannina, con i pugni stretti
«Non ancora» la fermò il suo compagno Marco, acchiappandola per un braccio e aggiustandosi gli occhiali con l’altra mano «Ho un’idea più bella! E poi non vorrai che il nostro prof Giuseppino si rattristi perché siamo diventati violenti, vero?».
Allora i bimbi misero in atto un piano: costruirono una bomba che misero nel cofano della macchina del preside, una di quelle che si accendono e fanno saltare tutto quando si apre il motore. Non volevano uccidere il preside, perché erano bambini bravi, e perciò non fecero una bomba molto forte. La fecero di cartone, questa bomba, tutta piena di polvere da sparo perché il papà di Giannina aveva un negozio di proiettili e fucili e di tutte le armi, compresi i coltelli.
Durante tutte le lezioni, i bambini sorrisero. Sì, lo fecero anche durante l’ora di matematica, quando normalmente avevano dei musi lunghi terribili, e la professoressa mise a tutti una nota perché lei odiava che i bambini si divertissero, figuriamoci se stavano sorridendo durante la sua lezione.
Alla fine, all’uscita da scuola, tutti i bambini presero a fissare la macchina del preside. Ovviamente, se fossero stati tutti lì in piedi, tutti assieme come i pinguini sul ghiaccio, la gente si sarebbe accorta che qualcosa non andava, perciò si nascosero tutti, chi dietro la spazzatura, chi dietro i pilastri e chi dietro i ragazzi più grandi o addirittura dietro alla bidella Mimma, che ne poteva nascondere tre.
Il preside salì in macchina, senza sospettare niente, mise in moto e… BUM!
BAM! BUM BAM! Esplosioni da tutte le parti. La macchina prese fuoco e furono chiamati i vigili del fuoco e l’ambulanza.
Il preside non morì, ma perse per sempre l’uso delle gambe e di una mano. Adesso non si divertiva più, quel cattivo!
No, ma che dite… non è una punizione esagerata! Era cattivo, malvagio! Doveva… avrebbe dovuto morire, capite, ma i bambini erano buoni e non l’hanno ucciso. E finitela di interrompermi!
Che stavo dicendo? Ah, sì: il preside adesso era triste, perché ora era miserabile e nessuno voleva un preside senza le gambe e senza una mano che era per giunta cattivo, perciò fu licenziato e fu povero come tutti quei poveri bambini che aveva mandato a lavorare al MecDonnel o alla dera… deratte… all’ammazzare i ratti.
Ovviamente il professor Giuseppino divenne il nuovo preside e, da quel momento in poi, la scuola divenne un posto per bambini, ma per bambini davvero!

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Published on March 04, 2020 04:30

March 3, 2020

Un boccaccio di Amuchina - 2. Damiano e il prezzo dell’ispirazione

<Precedente (Capitolo 1)
+ Damiano e il prezzo dell'ispirazione, una storia di Piera Elodea della Francesca +

D’accordo, d’accordo, inizio io.
Mi serve un’idea, però, per una storia… Ehm…
Beh, una volta conoscevo un uomo che continuava ad avere problemi con le idee, molto di più di quanti ne ho io adesso! Non che gli mancassero, anzi, però non riusciva mai a portarle a compimento come si deve. Potrei raccontare questo, ora che ci penso.
Per la storia, chiamiamo quest’uomo Damiano: in fondo viviamo tutti nella stessa città e non sarebbe giusto se io raccontassi queste cose su di lui facendovelo riconoscere, sarebbe come spettegolare. Perciò se lo riconoscete da qualcosa che dico, mi raccomando, fate finta di niente.
Damiano era un uomo semplice, senza moglie e senza figli, che viveva nel paese di Caltaleone.
Aveva solo un cane molto sporco, che si chiamava Cesare e mangiava davvero di tutto, dai calamari morti da tanti anni, che erano i suoi preferiti, ai sacchetti di plastica, che non gli piacevano tanto ma si accontentava. Una volta ho dovuto inseguirlo con la scopa, ma alla fine si è mangiato pure quella e si è sentito male, così ho pagato l’intervento dal veterinario per scusarmi.
Anche se era un uomo semplice, Damiano sognava di non esserlo più: voleva un giorno diventare un grande autore di opere teatrali, e ogni giorno si impegnava a scrivere nuove pagine delle proprie storie per esercitarsi e cercava di vedere più rappresentazioni dal vivo che poteva, per studiarle e diventare un grande artista.
Damiano, però, non era partito nelle migliori condizioni per realizzare il suo sogno.
I suoi studi arrivavano fino alla terza media e non c’erano tante occasioni di lavoro nel paese, perciò, in attesa di tempi migliori o di fare il grande salto come drammaturgo, faceva il badante, e quando i suoi amici erano impegnati, raccontava ai vecchi e ai malati le sue idee.
Lui amava raccontare storie che potessero colpire il suo pubblico e drammi di grande angoscia e pathos, perciò raccontava ai vecchi storie di anziani rapinati, abbandonati e morti di vecchiaia, ed ai malati storie in cui la loro malattia aveva un triste decorso e nessuno dei parenti li ricordava più. Insomma, i parenti continuavano a chiamarlo solo perché era bravo nel suo lavoro, perché se fosse stato per le persone che accudiva avrebbero preferito spedirlo in Kuwait, o andarci loro stessi, piuttosto che passare un altro solo giorno in compagnia di quella sciagura travestita da uomo.
Insomma, Damiano continuò per un anno, sei mesi e trenta giorni così, senza avere la grazia del colpo di fortuna che desiderava tanto disperatamente. Nessuna compagnia teatrale accettava i suoi copioni, i video fatti con i due figli dei vicini come attori non avevano riscosso nessun successo, neppure negli eventi locali. Ovunque si girasse non c’erano che porte chiuse, e quando erano semi aperte, gli venivano sbattute in faccia.
Non ho tenuto il conto di quanto tempo è passato, ovviamente, mi è solo capitato di rendermene conto ora. Ma certo che si può fare un calcolo così, su due piedi! E poi sono seduta.
Sì, lo so, era una brutta battuta, scusate.
A furia di fare questa vita, Damiano era diventato afflitto da una brutta bestia: la sindrome da pagina bianca. Non aveva affatto rinunciato al suo sogno, ma ogni volta che cercava di scrivere qualcosa, gli venivano in mente tutti i rifiuti e i fallimenti che aveva ricevuto e improvvisamente ogni idea che aveva in testa sembrava troppo brutta, troppo banale, troppo poco.
Sembrava che avesse finalmente smesso di appestarci coi suoi racconti tristi.
Un giorno nel paese arrivò una donna misteriosa, che aveva capelli biondi ed occhi unici, quasi del colore dell’uva spina. Questa donna, che chiamerò Lianna, veniva da lontano, ed era così riservata che solo una manciata di persone si accorsero che si aggirava nella nostra zona, anche se non ho mai capito dove alloggiasse la notte.
E tuttavia, parlando poi con gli altri che erano riusciti ad accorgersi della sua presenza, mi accorsi che tutti quelli che avevano avuto la fortuna di vederla erano rimasti sottilmente affascinati dalla sua figura e che tuttavia l’unica cosa che riuscivamo a ricordarci davvero erano i suoi occhi e i capelli straordinari, e il fatto che qualcosa in lei ci avesse stregati, anche solo per un attimo.
Damiano non era uno di quelli che si erano accorti di Lianna, ma per qualche motivo sembrava che fosse successo il contrario. Era un giorno scuro quando si incontrarono per la prima volta, il cielo era carico di nuvoloni grigi e prometteva pioggia da un momento all’altro.
Quel giorno ero lì vicino, del tutto per caso, e così potei sentire cosa si dissero.
«Io so cosa tu desideri» Gli disse la donna, che indossava un lungo abito nero, leggero come nebbia.
«Spero bene, l’ho detto proprio a tutti» rispose Damiano.
La donna rise, e sembrava un po’ che lo stesse compatendo. «Dolce uomo, io posso darti ciò che desideri. Ma io e la mia gente non mentiamo e non amiamo i bugiardi, perciò ti avverto: l’ispirazione arriverà come un temporale d’estate e le tue idee saranno amate da chiunque le ascolti, ma proprio a causa di questo, soffrirai e perderai ciò che ora possiedi»
«È una profezia?».
Vi sembrerà strano che le abbia detto questo in risposta, invece di “chi sei?” o “ma chi vuoi prendere in giro?”, ma vi assicuro che questo è perché non avete sentito parlare quella strana donna. Era impossibile dubitare di lei, anche se tutt’ora non saprei dirvi perché.
«No, dolce uomo» Gli disse Lianna «Ogni cosa che vive può scrivere il proprio fato, anche se non sarà mai l’unica mano. Se non accetterai, potresti rimanere per sempre nella tua condizione attuale, o persino scalare fino in cima con le sole tue forze. Se mi dirai di sì, tutto ciò che desideri ti sarà dato all’istante, ma se non lavorerai bene, sarà effimero e potrebbe segnare la fine anche di tutto ciò che avevi prima».
Se io fossi stata un’impicciona, gli avrei detto subito di non accettare, che era una follia mettere tutto a rischio così. E poi, devo essere onesta, non mi aspettavo che fosse tanto disperato.
Però Damiano non ebbe neanche bisogno di pensarci: «Certo» Le disse «E come no».
Io pensai che fosse un cretino.
Lianna però fece un piccolo sorriso che diede un’aria bella e malinconica al suo viso pallido, come un paesaggio invernale. Si sporse a dare un bacio sulla guancia a Damiano e gli disse qualcosa all’orecchio che non riuscii a sentire, poi si allontanò e non la vidi più.
Poco dopo, si mise a piovere e sia io che Damiano cercammo riparo dall’acqua, prendendo strade diverse. Non li vidi insieme mai più, ma sono convinta che non finì lì, e si incontrarono ancora molte altre volte mentre nessuno li stava vedendo.
Comunque, qualunque sia il modo in cui Lianna lo abbia aiutato, funzionò davvero: Damiano cominciò ad avere idee a raffica, ed erano cose davvero bellissime, fuori da questo mondo.
Mi raccontò qualcosa mentre eravamo alla fermata dell’autobus; giuro che non sta mai zitto un secondo quello, ho provato a rispondergli delle cose a caso ed era come non dirgli niente, non credo che ascolti nessuno quando parla. Cioè, sempre. Comunque, quando salii sul bus avevo gli occhi pieni di lacrime: quello che mi aveva raccontato era una storia bellissima e triste su una guerra immaginaria che avveniva proprio qui, in Italia, che mi fece soffrire come se avessi conosciuto personalmente le persone che avevano perso la vita nel suo breve racconto.
In quel periodo ebbe tante ideuzze, tutte belle, ma ora che aveva avuto quest’ispirazione incredibile tra le mani non si perse ad inseguirle tutte: aspettò l’idea che sarebbe stata il suo capolavoro, ed infine arrivò. Era una storia che parlava di un uomo che perde la sua famiglia per colpa di un’organizzazione criminale, così si improvvisa angelo vendicatore e cerca i responsabili per punirli. Lo so che a sentirlo non sembra granché, ma non lo avete letto, è difficile capirlo. Era un’opera viscerale, incredibile: se solo gli attori fossero stati in grado di trasmettere un quarto dell’emozione che lui aveva messo in quelle pagine sul palco, allora sarebbe diventata un’opera in grado di toccare i cuori di tutti.
Damiano inviò via messaggio il copione grezzo a tutti quelli di cui aveva il numero, insieme a un paio di pubblicità che promettevano di farti ricevere un Iphone gratis e che invece ti mettevano un sacco di virus nel telefono.
Ci mise il cuore in quell’opera, che chiamò “L’Uomo Buono in Guerra”, passò notti insonni a rifinire tutte le scene nella propria testa. Noi del quartiere ci eravamo accorti che praticamente non dormiva più e che la salute ne risentiva un po’ per questo: era sempre raffreddato, se ne andava in giro tutto imbacuccato e con due occhiaie così, però diceva che non poteva mollare proprio adesso che era vicino. Si sentiva un fuoco dentro, sapeva che ce l’avrebbe fatta.
Due giorni dopo che ci aveva fatto vedere il copione, nel teatro locale uscì un’anteprima in esclusiva di un’opera
E ufficialmente l’opera non era di Damiano.
Cos’era successo? Beh, presto detto. Anche se non era mai riuscito ad entrare nel mondo del teatro a pieno titolo, Damiano aveva nel tempo fatto amicizia con diverse persone che lavoravano nel settore: registi, attori, drammaturghi, compositori.
In pratica, mentre noi stavamo a prenderci i virus… sì, ridi, ridi, intanto mi avrebbe fatto comodo un Iphone. Comunque, mentre noi ci prendevamo i virus dai messaggi che ci aveva mandato, uno dei suoi presunti amici aveva ascoltato quello che Damiano aveva da dire, letto quel che c’era da leggere, e si era innamorato talmente tanto del concetto che Damiano gli aveva esposto che non aveva resistito. Quest’uomo, che chiameremo Matteo il Rubalavori, aveva riunito il personale necessario e, come in preda ad una febbre, in due soli giorni aveva scritto un copione e girato un cortometraggio completo, bello che pronto da proiettare con effetti speciali e tutto.
Proprio come aveva detto Lianna, chiunque sentisse la storia non poteva fare a meno di amarla… ma pure troppo.
Il lavoro di Matteo fu un successo, e qualche mese dopo vinse un premio in una piccola fiera.
Dopo cinque mesi esatti, vinse un premio molto prestigioso in una grande fiera, e Matteo il Rubalavori divenne piuttosto popolare, così continuò sulle proprie gambe a fare prima cortometraggi di successo, e poi film più lunghi.
Damiano, comprensibilmente, prese molto male com’erano andate le cose: una persona che aveva creduto suo amico lo aveva tradito, e l’opera che aveva curato con tanto amore gli era stata soffiata sotto il naso. Si sentiva come se gli avesse rapito un figlio dalla culla.
Certo, avrebbe potuto provare a produrla comunque, dato che non aveva mostrato altro a Matteo che la bozza non rifinita, ma temeva di essere accusato di plagio per un’opera che era stata sua a tutti gli effetti, e non avrebbe sopportato un’onta simile. Avrebbe comunque potuto portare avanti l’opera teatrale, dato che lui e Matteo avrebbero fatto media diversi, o confrontare Matteo il Rubalavori su quello che era successo, ma non fece nulla di queste cose. Il colpo era stato tale che non riuscì ad andare avanti e seppellì il copione nel giardino, ci pianse sopra e poi si chiuse in casa.
Siccome pianse moltissimo e non prese luce per una settimana intera, si avvizzì e il suo raffreddore peggiorò. Sembrava che qualcosa nel suo fisico si fosse rotto: non l’ho più visto del tutto sano, anzi, tutt’ora mi pare che più tempo passi più sia debole e peggiori.
E così, la prima opera si prese la sua salute.
Dopo un terribile periodo di assestamento in cui attraversò tutte le fasi del lutto, portò per l’ultima volta i fiori alla lapide che aveva fatto fare nel proprio giardino e decise di andare avanti. Non fu facilissimo, perché aveva piazzato la lapide, creata in memoria della propria opera rubata, proprio davanti la porta di casa, perciò non solo non riusciva più ad aprire completamente la porta e doveva sforzarsi di passare da uno spiraglio, ma ogni volta che ce la faceva subito si intristiva.
L’Ommo Buono in Guera” Diceva la lapide, che era stata commissionata a dei suoi amici poco acculturati per ottenere un prezzo di favore “Morto di rubamento”, e sotto la data di nascita e quella in cui era uscita l’anteprima del lavoro di Matteo.
Si impegnò nel lavoro di badante, e presto, tornare a fare questa professione che amava lo risollevò non poco. Non guarì mai dai suoi acciacchi, ma il suo motore creativo sembrava essersi rimesso in moto: anzi, era ancora più pronto di prima!
Non faceva altro che cianciare e raccontare i fatti suoi agli anziani e gli ammalati di cui si prendeva cura, e infine, mentre stava tagliando le unghie dei piedi ad una delle sue clienti, gli venne l’ispirazione che stravolse ancora una volta la sua vita. Stavolta il progetto era perfettamente formato nella sua mente, delineato in ogni suo più piccolo dettaglio: sì, se lo sentiva, “La Ragazza e Lo Spazio” sarebbe stato un successo incredibile.
Decise che non ne avrebbe parlato con nessuno dei suoi amici, o presunti tali, che avessero avuto a che fare con un qualunque settore creativo o artistico, escludendo così anche la sua amica d’infanzia Pina, che faceva cake design, dal privilegio di saperne qualcosa. Sentiva il bisogno di parlare con qualcuno de “La Ragazza e Lo Spazio” e voleva testare la sua idea su un pubblico, ma allo stesso tempo voleva essere sicuro che non avrebbero potuto rubargli questa nuova opera in boccio…
Alla fine, un lampo di genio! Decise che avrebbe narrato la sua nuova storia strappalacrime ai suoi clienti, che gli sembravano un pubblico piuttosto sicuro. Ed era vero: nessuno dei vecchi, malati e vecchi malati che egli badava gli rubò l’idea.
Ma ormai Damiano era diventato così bravo che aveva raggiunto perfettamente lo scopo che si era prefisso in passato: raccontare drammi che toccassero i cuori della gente e li turbassero. Queste persone, che avevano già i loro problemi a cui pensare, ora sapevano che ogni volta che Damiano avesse aperto bocca in loro presenza li avrebbe depressi oltre ogni dire.
I vecchi, i malati e i vecchi malati a cui raccontava queste storie non facevano che sentirsi miserevoli e turbati ormai, e i parenti se ne accorsero. Quando chiesero spiegazioni, gli fu detto come stavano le cose: il loro badante raccontava loro sempre la storia di una ragazzina che era scappata di casa da piccola e aveva frapposto fra sé e la sua famiglia troppa distanza, e un incendio aveva ucciso tutta la sua famiglia mentre lei era via. Così ora girava con una mappa pieghevole in tasca e il posto a cui corrispondeva la sua casa cerchiato, per ricordarle che, ormai, era troppo tardi per raggiungere i suoi familiari e lei non avrebbe colmato quella distanza mai più.
I parenti rimasero a loro volta turbati, e decisero che non volevano che Damiano mettesse più i loro cari in quello stato di desolazione.
E così, la seconda opera si prese il suo lavoro.
Man a mano che passava il tempo, diventava sempre più chiaro che quello che Lianna aveva detto era vero. Damiano era uscito malconcio da entrambe le sue grandi idee, e adesso aveva da parte solo i soldini che si era messo da parte con il suo lavoro di quegli anni, che non erano moltissimi; non tanto perché il lavoro fosse sottopagato, quanto perché non era un uomo in grado di gestire molto bene le proprie finanze e spendeva quasi tutti i risparmi alla prima occasione.
La sua reazione a questa seconda sciagura, però, ci sorprese tutti.
Se la prima lo aveva spezzato, la seconda sembrava aver acceso la sua mente di un’energia malsana: non la smetteva più di parlare tra sé e sé, era sempre fuori casa a passeggiare con le mani in tasca nonostante fosse cagionevole di salute; se prima era concentrato su sé stesso, adesso smise completamente di badare a noi altri. Non cercò un nuovo lavoro e non si chiese dove avesse sbagliato con gli approcci precedenti, ma continuò a passeggiare e fare progetti su progetti, senza portarne a termine nessuno: gli sembrava tutto meno importante di concentrarsi sulle idee che gli frullavano per la testa. Tutto poteva essere rimandato a più tardi: togliere quell’alberaccio che gli era cascato sul tetto durante l’ultimo temporale, fare la spesa, dormire, andare a farsi un bagno. Tutto poteva essere fatto dopo.
Alla fine noi del quartiere ci sentimmo in obbligo di intervenire, se non per lui, almeno per noi altri: la sua casa aveva iniziato a fetere e i gatti randagi, che normalmente abitavano nei cassonetti, avevano scelto il suo giardino come posto diletto per riposare e graffiarsi gli uni con gli altri, senza nessun rispetto per la lapide di fronte alla porta.
Così pagammo Geltrude, una donna delle pulizie con una mutazione che le impediva di sentire gli odori dalla nascita, perché ripulisse quello schifo una volta a settimana.
Aveva più o meno l’età di Damiano e i polsi da falegname, oltre ad essere una persona incredibilmente disponibile e ragionevole. Era l’unica che entrasse in casa di Damiano e che lo trattasse come una persona anziché un caso umano (e detto tra noi, lo trattavamo così perché era un caso umano ormai) e che non fosse disgustata da lui o dalla sua dimora. Il suo comportamento era dovuto sì alla sua natura di per sé affabile, ma principalmente perché era pagata per stare lì e perché non poteva sentire l’odore schifoso di quell’ambiente; ma per Damiano fu comunque qualcosa di così stravagante che riuscì a colpirlo, penetrando nella barriera di egoismo che si era creato.
La vedeva trattarlo con gentilezza, la vedeva sedare le liti tra i gatti selvaggi nel suo giardino e ripulire senza giudicare la sua lapide dedicata alla sua prima opera, e i battiti del suo cuore, ormai, non servivano più solo a sopravvivere, ma le erano dedicati.
Damiano si innamorò di lei: fu Geltrude a diventare musa della sua terza grande opera.
Ci mise molte settimane e ancor più tormenti a selezionare le migliaia di idee che lo assillavano come stormi di uccellini rumorosi e a cucirle perfettamente insieme per creare l’opera che l’avrebbe colpita e fatta innamorare di lui. La sua ultima storia si chiamava “Vittoria d’amore”, ed era una lunga, accorata opera che aveva bisogno di una sola persona per essere interpretata.
Passò una settimana a perfezionarla e la domenica seguente, quando la signora Geltrude tornò a pulirgli casa, lo trovò dritto di fronte al divano con un faretto che lo illuminava.
«Se si sposta» Gli disse «Posso fare sotto al divano, ci finiscono sempre un sacco di pelucchi».
Ma Damiano non si spostò; le spiegò che avrebbe messo in atto un’opera che aveva scritto in quei giorni e di cui andava tremendamente fiero, e lei sarebbe stata la prima e forse l’unica persona al mondo a vederla. Non ebbe ancora il coraggio di dirle che l’aveva creata per lei, le disse soltanto di mettersi comoda, perché sarebbe stata un po’ lunga.
Geltrude allora prese una sedia, si sedette con le mani in grembo e aspettò fiduciosa.
Capitò che io fossi casualmente vicino alla finestra di Damiano quel giorno, perché dei gatti si erano messi a litigare particolarmente forte ed ero uscita a controllare cosa fosse successo, così vidi quello che accadde poi e così adesso posso raccontarlo a voi.
L’opera “Vittoria d’amore” era un lungo monologo diviso in tre atti: nel primo il protagonista, Damiano (il nome è proprio quello fittizio che ho scelto di usare nel mio racconto), è un giovincello che si rivolge al mondo e parla di sé e come vive la sua vita nella società, col sostegno della sua famiglia, conoscendo l’amore dei suoi cari, ma desiderando di crescere in fretta.
Nel secondo atto, ormai uomo, Damiano parla a sé stesso e scopre quante cose sono cambiate rispetto alla gioventù, e di come ormai si senta di bastare a sé stesso ma rimpianga il desiderio di approvazione e l’amore che sentiva per gli altri quando era ragazzo.
Nel terzo atto, si rivolge senza risposta al sentimento amoroso personificandolo come un invisibile Cupido, rimpiangendo quando l’amore che aveva per sé stesso gli bastava: ma ora sente di amare una donna che non lo ricambia, e sente che l’unico modo per sfuggire al suo scontento è non arrivare al quarto atto. Nel finale, attraverso il dialogo, si capisce che anche Cupido è cresciuto insieme a Damiano e, posati arco e frecce, raccoglie una falce, rivelando di essere un tutt’uno con la Morte. Damiano promette di seguire Cupido/Morte, e poi si lascia cadere al suolo.
Idealmente il faretto avrebbe dovuto spegnersi, in realtà gli cadde in testa e rischiò di accopparlo, ma Damiano sopravvisse e guardò speranzoso la donna che amava.
«È bella» Gli disse Geltrude alla fine, gentilmente «È la storia triste più bella che io abbia mai sentito. Non so come ha fatto a scrivere una cosa fuori dal mondo come questa, è incredibile. Però a me, signor Damiano, piacciono le storie allegre».
Detto questo, fece le pulizie come era suo lavoro, salutò e se ne andò a casa propria. Damiano ci chiese di non farla venire mai più in casa sua, perché non ne sopportava la vista.
Ora per vederlo dobbiamo andare a trovarlo, e comunque non è mai granché. Possiamo andare quando vogliamo, tanto lascia sempre la porta aperta. Cosa dici? I criminali? Ah, certo che di quello non si preoccupa. La casa puzza, perciò i ladri non entrano proprio.
Prima o poi gliela prenderanno anche, questa casa, visto che ha smesso di pagare le tasse per avere i soldi con cui comprarsi da mangiare, ma sembra che sia una cosa che non gli interessa affatto ora che non ha più un sogno. Sa che ormai per lui non vale la pena aver nulla, perché ora che non ha avuto nulla e ha sognato di tutto, nulla gli basterebbe; così mi ha detto.
Come in quell’atto quarto che il suo alter-ego in “Vittoria d’Amore” ha preferito evitare.
È una cosa un po’ complicata: se l’avete capita voi, spiegatemela per favore.
E così, senza salute, senza lavoro e senza sogni, la terza opera si prese Damiano.



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Published on March 03, 2020 13:20

March 2, 2020

Un Boccaccio di Amuchina - 1. Villa Lazzaretti

<PRECEDENTE (Prologo)



La grande e sontuosa villa Lazzaretti, con le sue pareti bianche e la terrazza lussuosa e lussureggiante di sedani in vaso, si stagliava contro uno sfondo di palme che pareva accuratamente composto e disegnato da un artista fissato con i tropici.
Tre macchine percorsero il viale e attraversarono il grande cancello, poi si fermarono vicine ad una panchina, in un grande spazio ricoperto di ghiaia candida. Una delle tre auto era la Smart arancione degli Appestati, un’altra era il Chevy americano rosso che apparteneva a Belarda Cigna, la terza era una Panda vecchio tipo, polverosa e di colore indefinibile.
«Siamo arrivati!» Gridò Emilia Appestati, sporgendo un po’ la testa dal finestrino abbassato
«Secondo me lo hanno capito» disse suo fratello Pampineo «Perché si sono fermati»
«La signora Gomblotti ha ancora il motore acceso, però»
«Una volta ho sentito il suo motore acceso a mezzanotte, e la macchina era parcheggiata. Non c’era nessuno dentro».
Emilia Appestati rabbrividì, pensando che c’erano solo due possibilità: o la macchina della signora Rosetta Gomblotti era posseduta dai fantasmi, oppure la signora scaricava batterie a raffica tenendola sempre accesa. Per qualche motivo, entrambe le possibilità la inquietavano profondamente.
La portiera destra della Panda si aprì e lasciò uscire i due Gomblotti, nonna e nipote. Il nipote, Giangiorgio Gomblotti, sembrava abbagliato dalla luce e teneva gli occhi stretti, la testa bassa e una mano a mensoletta per proteggersi, strascicava i piedi e con l’altra mano si artigliava la maglietta (che recitava “gli alieni ci rubano il lavoro” in caratteri cubitali gialli) proprio sopra il cuore. La nonna, Rosetta Gomblotti, vestiva invece una specie di cappotto lungo di colore indefinibile, tutto sgualcito, con sopra uno scialle di colore indefinibile, tutto sgualcito, e da questa specie di cappa di indefinibilità spuntavano solo le mani, la testa e le scarpe di colore appena definibile (marroncino) e tutte sgualcite. Le mani rugose, callose e macchiate della signora Rosetta stringevano due enormi valigie, la sua e quella del nipote, esattamente identiche: marroni, vecchie, economiche e brutte.
«Nonna» Disse Giangiorgio «Che razza di posto è questo?»
«Una casa orrenda» rispose la vecchia, in tono sprezzante
«Vogliono rapirci, secondo te?»
«Ah, se ci rapiscono è buono» non potendo muovere le mani, occupate dalle maniglie delle valigie, la signora Rosetta gesticolava con la testa, in strane combinazioni che solo suo nipote poteva comprendere.
Dal Chevy rosso scesero invece tre persone. La prima persona era Belarda Cigna, che reggeva uno zaino e un gatto. La seconda persona era una giovane donna dall’aria un po’ timida, con i capelli lunghi e castani e una camicia a fiori, Piera Elodea della Francesca, che indossava un grosso zaino scolastico decorato con margheritine disegnate a pennarello argentato. La terza persona era un ragazzo dai folti capelli castani pettinati all’indietro, abbronzato, con una camicia aperta sul petto, crocefissino al collo che pendeva fra i (pochi) peli, jeans terribilmente aderenti, bagaglio a mano della Playboy, scarpe nere lustre che si sporcarono immediatamente appena toccarono la ghiaia polverosa e lo sguardo fisso sul fondoschiena di Piera che era proprio davanti a lui: era Eros Giannetta, un nome e una garanzia, conosciuto fin da bambino per essere un inguaribile corteggiatore di ogni umano di sesso femminile che sciaguratamente fosse entrato nel suo campo visivo, comprese le donne sposate, le vecchie e i fenomeni da baraccone. Sfortunatamente, né Belarda né Piera sapevano di questa sua particolarità, così lo avevano raccattato lo stesso per portarlo a villa Lazzaretti… così, perché sembrava simpatico.
Dalla Smart arancione scesero i due Appestati e la cassiera del supermercato, Nuan Huan, con la sua mascherina fatta in casa, i pantaloni fatti in casa e la t-shirt che aveva ricavato ritagliando una maglia a maniche lunghe.
Ad attenderli di fronte alla casa non vi era Daniele, ma una cagnolina piccina, dal pelo bianco e fulvo all’apparenza morbidissimo e le orecchie pendule. La cagnolina inclinò la testa da un lato, guardandoli interrogativi con grandi, teneri, occhi scuri, facendo tintinnare la medaglietta che aveva al collo, poi alzò il sederino peloso e rientrò in casa. Il portone non era del tutto chiuso, ma aperto quel tanto che bastava perché la cagnolina lo oltrepassasse.
«È un Cocker! Oh, che carino!» esclamò Piera, portandosi le mani alla bocca.
«Veramente, è un Cavalier King Charles Spaniel» obiettò Belarda, accarezzando la testa del suo micio
«È un topo che ci guida» proclamò Rosetta solenne, e appoggiandosi al nipote iniziò a farsi avanti per prima. La folla era rimasta un po’ impalata all’idea di entrare in quel posto sconosciuto, ma alla fine, spronati dall’esempio della vecchietta, si mossero tutti insieme.
Il fasto della casa era lampante: bastava metterci piede dentro per capire che il possessore era ricco, casomai non l’avessero capito dalle palme, il giardino, la macchina e… beh, se non l’avevano capito prima, ora era il loro momento di riscattarsi.
Il pavimento era liscio e coperto da un tappetto rosso che portava ai gradini di una scala di marmo, la quale si dipartiva dal centro della sala e conduceva al piano superiore. Due porte chiuse e speculari, una bianca a sinistra e una nera a destra, erano in fondo alla sala, raggiunte appena dalla luce proiettata da un lampadario di cristallo.
Alle pareti erano appesi numerosi quadri con cornici dorate; sembrava che tutti rispettassero lo stesso tema. Le dame si adagiavano languide sulle panche piane, Giuditta decapitava Oloferne buttandogli addosso un bilanciere nel sonno, con la sua dama di compagnia accanto, Narciso fletteva un braccio per rimirarsi nel proprio riflesso con l’acqua, Cupido tirava pesi contro gli innamorati.
Un quadro più grande degli altri troneggiava sulla parete a destra, dove uomini e donne dai fisici prestanti strisciavano sulle braccia, svenivano o si abbandonavano per terra. Una targhetta dorata ne rivelava il nome: “Leg day”.
Di fronte all’entrata c’era un appendiabiti modellato come un manichino in posa, leggermente piegato sulle ginocchia e con le mani allargate, come se fosse stato pronto a ricevere qualcosa sui palmi, rivolti verso l’alto.
«Mi fa impressione, perché è messo così?» Chiese Nuan Huan
«Ha problemi di stomaco» disse Neo, con compassione
«No, è un segnale occulto» si intromise Giangiorgio, con tono velenoso e convinto «Vedi? Sta allineando i suoi chakra»
«I chakra sono… già allineati» replicò la cassiera, perplessa
«Stanno facendo un sigillo allora! Un simbolo. Lo sta tracciando col suo corpo!»
«Dovrebbe shakerarsi per disegnare un sigillo con i chakra» sospirò Belarda, scuotendo la testa.
«Non sta facendo i bisognini e non sta mandando messaggi ai signori alieni, è in posizione da spotter» disse una nuova voce, interrompendo la contesa.
Daniele era apparso dalla porta bianca, che si era richiuso a chiave alle spalle, e teneva in braccio la sua cagnolina. Ora che era perlopiù ferma, tranne la coda che andava a mille, si poteva vedere il suo nome inciso sulla targhetta: Ivy.
Daniele aveva l’aria di uno che non vedeva l’ora che qualcuno capisse il genio di un appendiabiti in posizione da spotter, o quantomeno che qualcuno gli chiedesse cosa fosse uno spotter. Alla peggio, che qualcuno chiedesse cosa fosse un appendiabiti.
«Tanto lo sappiamo tutti che ti prendi le pillole» Disse la nonna Gomblotti, appendendo le scarpe alle mani del povero manichino.
«Mi fa piacere che vi troviate con queste preziose conoscenze» Replicò Lazzaretti senza battere ciglio «Non so che intende, ma auguri. Sono sicuro che anche lei prende molte pillole. Benvenuti!» esclamò, rivolgendosi ora a tutti gli altri «Benvenuti a villa Lazzaretti! Siete uno, due, tre… nove, non male! Dieci, contando il gatto. Ci siamo direi. Seguitemi, zii».
Daniele salì le scale senza mai voltarsi indietro. Se si fosse voltato avrebbe visto i suoi ospiti che camminavano tutti con passi diversi, chi titubante, chi baldanzoso, chi gonfiando il petto per farsi notare, chi lanciando occhiate sospettose.
«Sta andando verso la porta bianca» Sussurrò Emilia Appestati
«Lo stanno vedendo tutti» le rispose suo fratello, nello stesso tono
«Sì, solo… non è eccitante?»
«È una porta bianca»
«Ma cosa ci sarà dietro?»
«Più di quello che c’era al supermercato, spero...».
Il signor Daniele Lazzaretti aprì la misteriosa porta ed entrò, invitando gli altri a farlo con un gesto.
La prima fu Nuan Huan e da fuori gli altri la sentirono gridare «Incredibile!». Il secondo fu Giangiorgio Gomblotti, che gli altri sentirono esclamare «Non è possibile, che razza di complotto è mai questo?».
Tutti si affrettarono ad entrare allora, spintonandosi e correndo. La signora Rosetta Gomblotti cadde a terra con entrambe le valigie, maledisse la vecchiaia, promise vendetta, ma riuscì a rialzarsi ed entrò per ultima nella stanza.
Ora erano tutti dentro, disposti in cerchio intorno ad un tavolo dal ripiano di marmo, sorretto da quattro statue del famoso culturista Ronnie Coleman di squisita fattura. Ronnie Coleman fu però bellamente ignorato in favore di quello che c’era sopra il tavolo: un grosso barattolo pieno di un liquido denso e trasparente. Sul barattolo era stata applicata alla bell’e meglio un’etichetta che sembrava essere stata rubata ad un altro contenitore, la quale recitava “AMUCHINA” in grandi lettere blu scuro e sotto “soluzione DISINFETTANTE concentrata”.
«È efficace contro il coronavirus, dicono» Balbettò Pampineo
«Se la bevi quando stai morendo, evita che ritorni come morto vivente» mormorò Piera, stringendosi le mani al petto
«Sono una vecchia, usarlo spetta a me!» esclamò la signora Rosetta, lasciando cadere a terra le valigie e battendosi il petto con entrambe le mani, come un gorilla.
Si scatenò un grande putiferio, in cui ognuno diceva la sua e non sempre pacificamente. Giangiorgio Gomblotti minacciò che avrebbe sparato con il suo telefono, qualunque cosa significasse, mentre Eros Giannetta promise che non avrebbe mai più toccato una donna se non gli avessero permesso di igienizzarsi con l’Amuchina, così che tutto il genere femminile avrebbe perso l’uomo più seducente d’Italia, e forse del mondo.
«Calma, calma zii!» Esclamò il signor Lazzaretti, allargando le braccia che sembravano tronchi.
Il palestrato era talmente grosso che coprì la luce, stagliando sul pavimento e sui presenti l’ombra scura di un’enorme croce. Tutti si zittirono, spaventati da quel presagio nefasto, e guardarono verso il padrone di casa.
«Tutti voi potrete usufruire di codesta invenzione!» Continuò Daniele Lazzaretti «Personalmente scioglierò per voi poche gocce nell’acqua, ogni giorno, e voi potrete lavarvi le mani, farci i gargarismi o trastullarvi nel modo che ritenete più appropriato. Come vedete si tratta di una soluzione concentrata: basta un niente di questa per debellare il virus. MA!» e qui tutti sobbalzarono «Essa dovrà essere pagata!».
Belarda Cigna alzò la mano come una scolaretta in attesa di parlare.
«Mi dica, signorina!» Esclamò energico Daniele, indicandola.
Belarda prese un profondo respiro.
«Non vorrà farci pagare poche gocce di Amuchina ad un prezzo esorbitante?» Domandò «Ho idea che sia un po’ una truffa… e vede, io sono parte delle forze dell’ordine...»
«Non c’è preoccupazione, zia!» la interruppe il signor Daniele Lazzaretti «Non dovrete sborsare un solo centesimo per usare la mia Amuchina! Vi chiedo un pagamento» e congiunse le dita delle mani «In natura»
«Non sono gay!» quasi strillò Eros Giannetta «E non lo sarò mai!»
«Non quella natura» ridacchiò il signor Lazzaretti, cercando di trattenere l’ilarità per quella che, a quanto pareva, gli sembrava una gran bella battuta
«Non siamo coltivatori, non possiamo offrire frutta o verdura» disse sconsolata Emilia Appestati
«Io posso aggiustare tutto!» esclamò invece Nuan Huan, da dietro la striscia di tessuto che le copriva la bocca «Fare lavoretti, lavorare faretti e costruire mascherine anticontaminazione».
Il signor Lazzaretti scosse la testa, guardando tutti con un gran sorriso. Ci fu una pausa che parve lunga dieci secondi perché fu, effettivamente, lunga dieci secondi. Se pensate che si tratti di una pausa breve, provate a rimanere fermi e zitti per dieci secondi e capirete.
«Io amo molto le storie» Disse Daniele Lazzaretti, mettendosi di lato e flettendo leggermente il tricipite «Le amo così tanto, in effetti, che ho finito gli audiolibri da ascoltare mentre mi alleno. Su Amazon non ce ne sono più. Così ho avuto un’illuminazione: avrei barattato la mia ospitalità, e la mia Amuchina, per audiolibri nuovi, che nessuno ha mai sentito prima, raccontati dal vivo. Merce di grande valore!»
«E va bene, ti farò ascoltare in anteprima il mio audiolibro sulle abductions aliene di Caltaleone, se è questo che vuoi» sospirò Giangiorgio «Ma prima devo sapere come hai fatto a sapere che lo stavo scrivendo. Come mi spii? Hai messo un virus nel mio computer? Oppure una cara vecchia cimice?».
Daniele lo guardò chiaramente confuso, con la bocca semiaperta, poi decise di ignorarlo e tornò a far scorrere lo sguardo sul suo improvvisato pubblico. Gli piaceva fare i discorsoni, caspita se gli piaceva!
«Vi offrirò un vitto glorioso e proteico» Disse fiero, mostrando il bicipite che sembrava una palla di cannone impiantata sottopelle «Con variazioni sane e gustose come non ne avete mai provate in vita vostra! Vi offrirò il mio abbonamento a Netflix, il mio abbonamento a Sky, la mia rete Wi-Fi, perché possiate trastullarvi come si conviene ai miei ospiti! Vi offrirò acqua calda, una vasca a idromassaggio, due bagni e, cosa più importante di tutte, l’alloggio in questa mia villa lontana da ogni contagio, cosicché siate tutti al sicuro. Saranno giorni comodi, in cui potrete usare l’Amuchina, fare la doccia anche due volte al giorno e divertirvi come più vi aggrada, ma...»
«Qual’è la fregatura?» sospirò Belarda, così sottovoce che nessuno la sentì, anche se qualcuno la vide muovere la bocca
«… Ma dovrete pagarmi raccontandomi delle storie. Almeno una storia al giorno, per la precisione, e se la storia non mi sarà erogata, io non erogherò a voi nemmeno l’odore dell’Amuchina» concluse tutto fiero Daniele Lazzaretti, incrociando le braccia.
Nuan Huan si strinse nelle spalle: le piaceva costruire le cose, fare delle storie non doveva essere così diverso.
«Delle storie?» Chiese Eros Giannetta, con uno scintillio malizioso negli occhi «Tipo, vuoi sapere le storie che ho avuto con delle donne in passato? Perché ne ho da raccontare! C’era una tale che aveva...»
«Credo voglia dire solo dei racconti» gli spiegò Piera Della Francesca
«Beh, io gliele racconterei le mie storie con le donne!» Eros guardò speranzoso il signor Lazzaretti.
Il palestrato annuì.
«Avete ragione entrambi» Disse «Voglio solo racconti, ma questi racconti possono parlare di qualsiasi cosa. Le storie d’amore mi vanno benissimo, basta che non riguardino ancora Naruto e Sasuke. Mi sono stufato di Naruto e Sasuke. Oh, e anche dei baldi giovincelli chiamati One Direction, che ormai ho trovato le loro storie pure sul cartone del latte. Esclusi questi, potete raccontarmi qualunque storia desiderate, di qualunque genere, non sono impressionabile io!» e alzò il mento tutto fiero, irrigidendo gli avambracci come a dire “pensate che questi muscoli possano avere timore di una storiella dell’orrore?”.
«Quindi...» Disse Belarda Cigna, un po’ titubante «Dovremo semplicemente raccontarti delle storie, una al giorno? E in cambio avremo… il cibo, l’alloggio, l’Amuchina, la vasca idromassaggio… tutto?»
«Tutto» il signor Lazzaretti annuì fiero «Accettate?».
Considerati i supermercati presi d’assalto, le palestre chiuse, il paziente zero che forse se ne andava ancora a zonzo per il paese impunito e il clima barbarico che lentamente si stava instaurando a Caltaleone, quasi chiunque avrebbe accettato quell’accordo. C’era la vasca idromassaggio, per Giove!
Così, i presenti accettarono uno dopo l’altro.
«Molto bene» Disse soddisfatto il signor Lazzaretti, sorridendo «Allora credo proprio che vi richiederò… sì, vi richiederò la prima rata del vostro affitto. Sedetevi, fate un cerchio bambini! Su, fate come faccio io!».
C’erano dieci sedie nella stanza, addossate alle pareti, che furono spostate per formare un circolo tutt’intorno al tavolo su cui troneggiava il barattolo di Amuchina. Tutti si sedettero, ma una delle sedie rimase vuota.
«È quella per chi è?» Domandò sospettoso Giangiorgio, seduto tutto gobbo e spinto in avanti, con solo mezza chiappa che poggiava
«Doveva essere per la decima persona, quella che non siete riusciti a trovare» disse il signor Lazzaretti «Poco male, possiamo sederci il cane e il gatto, in due fanno un quarto di persona...».
Il gatto nero Dracula e la cagnolina Ivy furono fatti accomodare insieme nel posto vuoto. Nonostante la leggendaria rivalità fra cani e gatti, questi due sembravano abbastanza contenti di stare insieme, o almeno Dracula appariva impassibile e Ivy scodinzolava ad una velocità di poco inferiore a quella del suono.
«Voglio che ciascuno di voi mi racconti una storia...» Iniziò Daniele, ma si interruppe quando vide qualcuno entrare dalla porta.
Tutti girarono la testa.
«Chi è quello?» Domandò la signora Rosetta Gomblotti «Certo che sembra proprio bruttino...».
La persona che era appena entrata era un bambino magro magro, con una testa grossa, leggermente sproporzionata, ricoperta di foltissimi capelli neri. Sul suo corpo a bastone di scopa ricadevano vestitucci tutti colorati e a motivi floreali.
«Sono tuo nipote» Disse indispettito il bambino, rivolto alla vecchia Rosetta
«Mio nipote?» la donna strizzò gli occhi «Buondio, sei a malapena umano...».
Il bambino fece per andarsene, chiaramente stizzito, ma il signor Lazzaretti gli fu addosso in un attimo, lo afferrò per il colletto della camicia blu decorata a ibischi gialli e rossi e lo portò al centro della stanza, vicino al tavolo.
«Parla!» Gli ordinò.
Il bambino aprì la bocca. Chiuse la bocca. Si mise le mani sui fianchi e guardò in alto, poi strillò
«Sono Giuseppino Occhio!»
«Non ho nessun nipote che si chiama così! Non credetegli!» gracchiò la signora Rosetta, velenosa
«Ero in macchina con mia nonna» il bambino indicò la vecchia «E lei è venuta qui. Ho sentito tutto. Si sta qui, si raccontano le favole e si guarda la tv e si mangiano le caramelle, quindi voglio rimanere!».
A sentir nominare le caramelle, il signor Lazzaretti impallidì un poco e scosse la testa borbottando «No, no, niente dolciumi qui...».
Il bambino allargò le braccia, tutto allegro, emise delle strida incongrue da gabbiano e poi si sedette davanti alla sedia su cui c’erano il gatto e il cane, per terra.
«Quel piccolo selvaggio e io non abbiamo alcuna parentela» Reiterò Rosetta Gomblotti «E dovreste proprio buttarlo fuori»
«Ma lì fuori c’è il Coronavirus!» esclamò preoccupato Pampineo
«Già, non possiamo buttarlo lì fuori, poverino. Teniamolo qui con noi, almeno finché i suoi genitori non verranno a riprenderlo» supplicò Piera della Francesca.
Il bambino sorrise soddisfatto, sapendo di avere già vinto, dopotutto glielo diceva sempre la sua mamma: era adorabile. Adorabile e diabolico. Ma che fosse diabolico non era vero e forse, beh, nemmeno che fosse adorabile… era solo una cosa che gli diceva sua madre, niente di più.
Gli adulti discussero per un paio di minuti, ma la decisione finale doveva prenderla il padrone di casa.
«Va bene Pinocchio, siediti sulla sedia con il cane e il gatto» Disse magnanimo il signor Lazzaretti «Prendili in braccio, su. Così siete quasi… quasi una persona completa. Sì, una di taglia piccola…».
Il bambino obbedì con gran gioia, prendendo posto sulla decima sedia, cosicché ora tutto il cerchio era completo.
«Va bene» Daniele sospirò, sedendosi pesantemente «C’è qualche altro ritardatario? No? Ci siamo tutti? Molto bene. Adesso cominciamo. Raccontatemi le vostre storie. Chi vuole iniziare?».
Già, chi voleva iniziare?


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Published on March 02, 2020 05:56

March 1, 2020

Un Boccaccio di Amuchina - Prologo

<PRECEDENTE (Personaggi)

«Allora... cosa ci manca?» «Tutto» «Tutto? Ma se abbiamo fatto la spesa l'altro ieri! Lo sapevo che zio si mangiava tutto, quello ha la doppia gobba, davanti e dietro, ha le scorte come i cammelli. Sai che si è bevuto il Felce Azzurra? Non mi sono neanche potuto lavare, non so come fa ad essere ancora vivo. Io giuro che...» «No. Manca tutto» ripeté Emilia, interrompendo Neo a metà della frase ed alzandogli il mento dalla lista della spesa per mostrargli la desolazione della scena di fronte a loro. Dopo un momento di silenzio, il ragazzo disse, indicando una pila desolata alla loro destra: «Beh, non proprio tutto. Ci sono ancora quei libri per bambini con sopra il topo». Il sorcio alzò lo sguardo e li scrutò diffidente. Fece vibrare i baffi e saltò giù dalla pila di libri di Geronimo Stilton per intrufolarsi sotto uno degli espositori e sparire. I due giovani ebbero un brivido. Emilia e Pampineo, detto Neo, erano fratelli. Tra loro c'era la somiglianza che condividono persone che vengono dalla stessa zona, con lo stesso colore di pelle e i capelli scuri, ma una parentela tra i due non era ovvia. Emilia era piccina e rotondetta, con i capelli corti e il sorriso facile, Pampineo era alto e magro, con le sopracciglia spesse aggrottate di base in un'espressione confusa che era il suo marchio di fabbrica. Di davvero uguale avevano soltanto il naso, lungo e affilato come era tipico per la famiglia Appestati. Visto il loro cognome, entrambi i fratelli sapevano di non avere fortuna con i nomi; concordavano però che il ragazzo era tra i due quello che aveva avuto la peggio. Pampineo era un nome brutterello e lungo, ereditato da un nonno famoso in famiglia per essere un taccheggiatore, e per giunta difficile da abbreviare in modo soddisfacente: nella loro famiglia c'erano già quattro Pino, di farsi chiamare Pampi non se ne parlava, non restava dunque che Neo. Si dava il caso però che il giovane avesse, appunto, un neo proprio sulla punta del suo naso da Appestati e nessun nomignolo migliore. I due sapevano già dunque di non avere fortuna, quanto meno coi nomi, ma sembrava che la loro sfiga avesse deciso di espandere un po' i propri orizzonti. Il supermercato in cui avevano messo piede era affollato di gente e deserto di merci. Uomini e donne con carrelli pieni creavano file chilometriche alle casse, mentre le persone rimaste a bocca asciutta si aggiravano come avvoltoi tra gli scaffali alla ricerca di un piccolo trofeo da portare a casa: un barattolo di pelati, dell'avena in busta, o della polvere particolarmente simpatica. «Si sono presi tutta la pasta! Tutta se la sono presa!» Ululò Emilia con orrore, artigliando il braccio del fratello. Era vero: il reparto era stato completamente ripulito di tutta la sua merce, mostrandosi nella sua cruda, drammatica realtà. Penne, pennette, fusilli, spaghetti, era scomparso tutto. «Anche il sugo» aggiunse Neo, servizievole «Selvaggi! Bestie! Lasciare una ragazza senza pasta al sugo!» «L'Apocalisse...?» disse Neo, educatamente confuso «Peggio» scandì la sorella lentamente, pensandoci su. Che motivo aveva un supermercato di essere svaligiato così? Che necessità c'era di mangiarsi tutta la pasta nello stesso giorno? C'era forse lo zampino dello zio Pino Appestati? A meno che i suoi concittadini non stessero facendo scorte. E l'unico motivo per cui dovevano decidersi a fare scorte tutti nello stesso giorno era... Emilia completò il suo pensiero ad alta voce, lasciando che la gravità di ciò che aveva realizzato trapelasse nel suo tono: «L'unico motivo per cui dovrebbero fare scorte tutti oggi è che c'è stato un caso, proprio qui, nella nostra città». Non ebbe bisogno di specificare a cosa si riferisse; Neo impallidì, spaventato, mantenendo la sua aria educatamente confusa. Dalla fatidica data del 31 dicembre del 2019, l'anno morente aveva lasciato all'anno seguente un regalino, e quel regalino era un virus gemello diverso della SARS che si era sparso a macchia d'olio dall'Oriente, per cui nessuno aveva trattamenti né vaccini. Seguito dai media, aveva lasciato i paesi asiatici per terrorizzare l'Occidente come l'urlo di Chen ed era arrivato in Italia. Ed ora era lì, nella loro città. Emilia e Neo avevano sentito dire cose orribili sul coronavirus. Avevano sentito dire che era quello che succedeva quando qualcuno morde un serpente velenoso anziché il contrario. Avevano sentito che aveva un tasso dell'ottantasette percento di morti tra i contagiati, e che il quattordici percento tornavano in vita come creature della notte, ma perdevano i capelli. Avevano sentito che era un complotto ordito dalla Cina, ma che era idea anche dell'America, dei rettiliani, della Russia e dell'Italia, e doveva essere una roba davvero grossa per scomodare tutta questa gente. E ora lo sapevano, il coronavirus era tutto intorno a loro, li circondava. Potevano sentire i suoi occhietti maligni trafiggerli, la precisione con cui cercava di entrargli nelle vie respiratorie. Ogni superficie poteva essere contaminata, ogni persona presente poteva essere infetta. Neo guardò sospettoso Emilia e fece un passo indietro. La ragazza fece per mangiarsi le unghie, ma ora aveva paura di avvicinarsi le mani alla bocca. «Neo, noi non ne sapevamo niente, non ci siamo preparati... come faremo adesso? Oddio...» «Calma, respira» «Ci serve qualcosa che possa salvarci, Neo» «Qualcosa che elimini i batteri» «Che disinfetti ed igienizzi» «Qualcosa come...» «L'Amuchina!» urlarono trionfanti, se non proprio assieme, almeno con Neo che ripeteva quello che diceva la sorella. I due fratelli corsero con il loro carrello vuoto al reparto detersivi, ma ahimè, quale triste sorpresa li attendeva lì. Vuoto. Era tutto vuoto. Non c'era l'acchiappacolori per i capi colorati da buttare tutti insieme in lavatrice, non c'era Felce Azzurra per sostituire quella che si era bevuta lo zio Pino, non c'erano salviettine né altri antibatterici che potessero salvarli dal contagio. Ma l'Amuchina c'era. Un flacone, uno solo, di Amuchina gel all'aloe vera grande quanto una nocca, che troneggiava tutto solo al centro esatto del suo ripiano altrimenti del tutto vuoto. Costava trecentocinquantasette euro e novantanove. Dopo una pausa, Emilia disse lentamente «Beh, se ci vendiamo un rene ciascuno dovremmo...», ma non ebbe tempo di finire la frase che aveva iniziato. Un vecchio arrivò scatarrando a tutta forza, facendo ben attenzione a tossire in ogni direzione per allontanare i suoi competitori naturali prima di aggiudicarsi il flaconcino. Ci tossì sopra e corse caracollando come un bue zoppo verso le casse. La folla si aprì come il Mar Rosso al comando di Mosè, e quando il vecchio starnutì tre volte, fu lasciato passare senza pagare. «Guarda il bastardo!» Esclamò Emilia, indignata «Avremmo dovuto pensarci noi» fece Neo, mite, con una scrollata di spalle delusa. Alla fine presero velocemente solo un libro di Geronimo Stilton dal fondo della sua pila, giusto per scacciare il sentore di starsene andando del tutto a mani vuote. La cassiera della cassa veloce, la signora Nuan Huan, li guardò con occhi a mandorla ridenti – l'unica cosa visibile del suo viso, dato che era coperto da una gigantesca mascherina bianca che le si incollava alla faccia ogni volta che inspirava. Era la migliore, perché accettava anche i centesimi trovati per terra e rovinati fino a non capirne più il valore. Avevano strappato molti sconti così. «Ma respira?» Si chiese Neo ad alta voce, meravigliato, porgendole il libro. La cassiera lo prese con dei guanti che in realtà erano delle bende fatte di scotch. Emilia lo strattonò per il braccio: «Muoviti! Muoviti, dobbiamo uscire di qui! Sono tutti infetti» «Non dipende da me, Lia. Può fare un po' più veloce?». Nuan Huan mugugnò qualcosa, reso incomprensibile dal fatto che la sua mascherina le si era incollata alle narici e la stava soffocando. «Mi scusi, può...?» Chiese titubante Neo, indicandosi il viso. La signora annuì e si spostò la mascherina con un dito, approfittandone per prendere una boccata d'aria. «Vi piace? Non se ne trovano più, l'ho fatta in casa ritagliando della vecchia biancheria» disse con un bel sorriso, e rimise il rettangolo di cotone a posto. Prese le monete che le passarono e restituì loro il libro che avevano acquistato, con un cenno amichevole del capo. «Di questi tempi non si sa mai» Ebbe il tempo di dire, prima che il tessuto le si infilasse in bocca. «Okay, dobbiamo avvertire gli altri» Disse Emilia col fiatone, mentre i due si allontanavano a passo veloce dal supermercato «E poi... e poi...» «E poi?» la incoraggiò Neo. Emilia sospirò, massaggiandosi le tempie. Inspirò a fondo, e quando espirò alzò il viso e si sforzò di sorridere. «Hai trovato una soluzione?» «No, sorrido perché sono positiva» rispose lei «E sorridi? Quando ti sei fatta testare?» chiese Neo, facendo un salto indietro «Te l'ho detto che non si mordono i serpenti velenosi!» «Tu quoque!» esclamò un accattone che stava scassinando un pick-up rosso mattone incustodito. Si rimise al collo il suo cartello ricavato da un cartone ritagliato ("Ho dieci figli e dieci mogli, datemi soldi" diceva) e scappò col suo piede di porco. «Lascia perdere, non sono ammalata» Rispose Emilia, fregandosi le mani insieme come se fosse stata intirizzita. «Allora, che facciamo?»
«Ce ne andiamo. Torniamo a casa». Neo annuì appena, e i due si avviarono verso la loro minuscola Smart arancione. «Non leggere il libro del topo mentre guidiamo» Lo ammonì Emilia «Non. Lo. Leggere. Che poi ti senti male». Stavano per rientrare in auto, quando, un attimo prima che Neo finisse di chiudere la portiera dal suo lato del passeggero, videro qualcuno sfrecciare per il parcheggio all'inseguimento dell'accattone. «Ehi! Ehi, fermo!» Urlò la donna, vestita con una camicia di sangallo bianco troppo leggera per la temperatura esterna. Il terreno era liscio e perfetto e la donna era forte, nonostante il fisico atletico fosse appannato e le curve dei suoi fianchi fossero piacevolmente morbide per il consumo di troppi carboidrati. Era ormai a qualche metro scarso dal malfattore, i lunghi capelli scuri che le svolazzavano dietro per la velocità che aveva preso. Neo la guardò affascinato, vedendo anche a distanza (aveva un'ottima vista, venti su venti) la sua espressione concentrata da angelo vendicatore mentre si accingeva a placcare il suo bersaglio. «Neo, ma la chiudi la portiera?». Di punto in bianco, l'angelo cadde. L'accattone corse in mezzo alla strada ridendo, fu investito e rotolò sul parabrezza dell'auto che l'aveva colpito. Continuò a correre dall'altro lato della strada sparendo alla vista, ridendo sfiatato, tutto piegato da un lato, ma vittorioso. La donna, lunga distesa come una rana secca al sole, si issò sulle braccia con un'espressione di fastidio, forse per il dolore, forse per la sconfitta. Neo scese lentamente dalla Smart, come in un sogno. «Neo! Vedi che ti lascio qui se continui a... non so neanche cosa stai facendo. Torna indietro!» Minacciò Emilia. Questo bastò a fermare il fratello sui suoi passi, ma non a farlo rientrare. La donna sembrava essere un po' più grande di lui, doveva aver superato i venti anni ed avviarsi verso i trenta. Aveva il viso tondo, con lineamenti comuni, ma l'intelligenza che li animava la facevano sembrare davvero graziosa. Specie agli occhi di Neo. «E il mio equilibrio fa schifo, come al solito. Non lo sapevamo già, signori miei?» Disse la donna, con un po' di amarezza. Aveva un accento strano; di sicuro non era cresciuta nella loro stessa città. Sibilò forte tra i denti mentre si metteva a sedere e ritraeva una gamba, controllando delicatamente il danno. «Ahi» Fece, con enfasi, come se stesse rimproverando qualcuno. Sembrava essersi storta una caviglia, e forse si era anche sbucciata un ginocchio nonostante la protezione dei jeans. La donna si guardò attorno e cercò di alzarsi, ma il piede non la resse e, senza appigli, cadde di nuovo a sedere. Sospirò e fece un suono di trombetta triste all'angolo della bocca. Neo, in quel momento, esitò. Da una parte, la donna poteva essere un'emissaria del coronavirus, e poteva essere una trappola. Dall'altra, poteva essersi fatta davvero male, e non controllare era quantomeno poco cavalleresco. La donna lo intercettò, fermo e dritto come una scopa a fissarla. Lo scrutò con i suoi occhi espressivi, color nocciola, studiandolo. «Aiuto?» Chiese, in tono più dubbioso che speranzoso. Però bastò perché Neo si decidesse. Percorse a grandi passi lo spazio che li separava, offrendole il libro di Geronimo Stilton perché vi si aggrappasse: «Ecco, magari puoi...». La ragazza alzò le sopracciglia, ma non commentò. Con l'aiuto di Pampineo, la giovane in maniche di camicia si rimise in piedi, tenendo una gamba su come se fosse stata pronta a sferrare il calcio della gru. «Quanto hai visto?» Gli chiese. «Da quando hai detto "Ehi"» «Insomma, tutto». La giovane donna arrossì, e Pampineo non aveva mai visto nessuno arrossire così tanto e così in fretta. Sembrava che le avessero buttato una cascata di sugo sulla faccia; le si erano colorate persino le orecchie! «Grazie, giovane misterioso» Disse lei alla fine, cercando di saltellare verso il suo pick-up rosso. «Pampi» si presentò lui senza pensarci, e sperò che il coronavirus lo prendesse in quell'istante e cancellasse lui e quella presentazione. No, no, non poteva. Avrebbe contagiato Emilia, e anche... «Scusa, cosa? Cosa faccio io?» Chiese la ragazza si fermò e aggrottò le sopracciglia, voltandosi un po' col supporto della sua auto «No, tu non pampi. Io Pampi. È un verbo, esiste? No, è-è il mio nome» «Ah. Belarda Cigna» disse lei, estendendo la mano. Anche lui lo fece, automaticamente, ma poi entrambi ci ripensarono e si infilarono le rispettive mani in tasca. «Posso chiamarti Bella?» chiese lui, educatamente confuso «No, per favore. Puoi chiamarmi Belarda però» «Oh, grazie» «Non so perché dovresti chiamarmi, comunque, ma va bene. Quindi, hmm... tu ti chiami Pampi, eh? Grazie, Pampi, ci... vediamo in giro. Credo» «Neo» si affrettò a rettificare lui «Cioè, Pampineo. Non Pampi. Neo.». Belarda, dal canto suo, vedeva un uomo con un neo sul naso che si agitava e faceva versi casuali. Ridusse gli occhi a due fessure, sospettosa. Emilia suonò il clacson impaziente, tre volte. «Neo! E ti muovi?!» «Pampineo Appestati. Non siamo appestati, siamo Appestati» Concluse la sua presentazione il ragazzo, educatamente confuso. Belarda aprì la portiera del suo pick-up con una mano, indietreggiando senza togliergli i suoi occhi sospettosi di dosso e cercò qualcosa in tasca. Un gatto nero miagolò da dentro la vettura. «Non puoi guidare una macchina» Osservò lui «Non ne sembri molto convinto» «È la mia faccia. Ho una faccia confusa». Sentirono il rumore di una portiera che sbatteva non troppo lontano, ed Emilia si presentò accanto a loro scuotendo la testa con disappunto. Per esprimerlo al meglio, fece grande mostra di come si metteva le mani sui fianchi, facendole cadere dall'alto molto, molto adagio. Gli occhi di Belarda e Pampineo seguirono il movimento in silenzio. «Salve signorina, tutto bene?» Esordì Emilia
«Sì» Rispose Belarda, quasi timidamente «Bene. E allora, ci muoviamo, Neo? Mi è appena arrivato un messaggio» «Da chi?» Chiese il fratello «Dalla mamma» «Cosa dice?» «Non lo so, non ho visto» rispose lei, come se fosse ovvio. Alzò le sopracciglia e accennò col mento alle proprie braccia, piantate sui suoi fianchi per mostrare il massimo disappunto. Pampineo capì che non poteva abbandonare la propria posizione di giovane donna arrabbiata e annuì appena, abbassandosi a prenderle lo smartphone dalla tasca per leggere il messaggio. ":O LOL!! Il signor Lazzaretti vuole parlarvi IRL ASAP >:\ ". I messaggi di mamma Appestati erano tutti così. O non aveva bene afferrato come usare le varie espressioni che servivano alla comunicazione virtuale o aveva saltato le sue pilloline, difficile a dirsi. Dopo aver fissato lo schermo per una trentina di secondi, Pampineo tradusse: «Mamma dice che il signor Lazzaretti è venuto a trovarci a sorpresa, e che è venuto perché vuole parlare con te e me, Emilia». Essere contattati dal signor Lazzaretti era un affare grosso. Nonostante avesse avuto una sfortuna nel cognome pari quasi a quella dei due fratelli, la signora bendata gli aveva invece arriso in tutti gli altri aspetti della sua vita. Era ricco, potente, bello e aveva completato tutte le collezioni dei Calciatori Panini, tutti gli anni. Insomma, non si diceva di no ad un incontro con il signor Lazzaretti. Era un grosso affare non solo incontrarlo, in effetti, ma lo era anche il signor Lazzaretti in sé, con i suoi oltre cento chili di puro muscolo, cosa questa che rendeva ancora più difficile prendere alla leggera delle chiacchierate improvvise da lui volute. Cosa poteva mai desiderare da due giovani come loro? «Come... se posso chiedere, come facevi a sapere che era tua madre ad averti mandato un messaggio, se non lo avevi controllato?» chiese Belarda ad Emilia, un po' sorpresa «Beh» disse la ragazza lentamente, riprendendosi dallo shock «Ho una suoneria speciale per la mamma, ed anche per i messaggi» «E come fa?» chiese Neo «Fa piripipipì» Disse Emilia, serissima. Belarda trattenne a stento una risata, che le scappò sotto forma di pernacchia che si originava dalle sua cavità nasali. Arrossì come un peperone e cercò di reprimere una seconda risata imbarazzata, che produsse invece una seconda pernacchia, stavolta imbarazzata. «Le trombe degli angeli» Sussurrò sottovoce Pampineo «Eh?». Pampineo non poteva ripeterlo. «Le tombe degli agnelli» Disse invece, e Belarda si precipitò in auto e chiuse la portiera alle proprie spalle. «No aspetta! Ti diamo un passaggio» Si offrì Neo, giungendo le mani. Appena Belarda si ritrovò seduta di fronte al volante, però capì cosa Neo aveva voluto dire con "non puoi guidare una macchina". La caviglia destra le faceva male e si era già gonfiata, e non aveva ancora premuto il piede su un bel niente. Belarda Cigna era una poliziotta, figlia di poliziotto e nipote di poliziotto e bisnipote di erborista, quindi aveva un forte senso della giustizia e sapeva che era il momento di fermarsi, pensarci su e prendere la decisione giusta. Poteva solo immaginare in che guai avrebbe rischiato di cacciarsi se si fosse inserita nel traffico con quel suo catorcio che era in grado di piegare le Volvo come ciambelle e una distorsione grave come quella. C'era persino la possibilità di una frattura del malleolo peroneale. Nella sua vita aveva attirato davvero molte disgrazie e, anche se ne era uscita grazie alle proprie risorse quasi indenne, meno qualche dente e qualche notte di sonno, sapeva che a volte era importante capire in cosa si era disposti a farsi coinvolgere quando ne si aveva la possibilità. In quel momento, valutò se la disgrazia peggiore che potesse capitarle era cercare di guidare zoppa in mezzo al traffico o accettare un passaggio da due sconosciuti in una Smart arancio, di cui uno si chiamava Pampineo (forse) e belava e parlava di agnelli morti. «Tu che ne dici, Dracula?» Chiese a bassa voce, girandosi verso la sua destra. Sul sedile del passeggero, il micio nero di Belarda la guardò con occhi fiduciosi, fece un colpo di fusa, uno solo, e si leccò il sedere nel suo trasportino. Belarda si emozionò. Non poteva rischiare di fare un incidente con Dracula a bordo. «Okay ragazzi» Disse lei, sporgendosi dal finestrino con un braccio «Quell'invito per il passaggio è ancora valido?». Pampineo la guardò con occhi stellanti, ed Emilia, finalmente si sciolse in un piccolo sorriso. «E quindi sei venuta a trovare tuo cugino?» Chiese Emilia «Sì. Potreste anche conoscerlo, si chiama Adalrico Merlo» rispose Belarda, accucciata sui sedili posteriori con il trasportino di Dracula sulle gambe. Il micio, che aveva dei dentoni che spuntavano dal labbro superiore e gli occhi rossi, era un gatto molto tranquillo, che viaggiava volentieri in auto. Ora che erano in quattro nell'auto, micio compreso, l'impressione era quella di stare in una macchina per clown o un TARDIS al contrario. «Forse, non mi è nuovo» Considerò l'altra, sorridendo nonostante avesse gli occhi sulla strada. Belarda era molto severa riguardo le regole della strada, e la fierezza di fare bella figura e la paura di una multa donavano ad Emilia capacità da pilota di Smart fenomenali. «Non ti ho mai vista da queste parti» Disse Neo, mite «Non lavoro qui, anche se mi piacerebbe starci» ammise Belarda, in tono un po' nostalgico «No, lavoro in America. Beh, sono nata là. Però mio padre è di qui, è il fratello della signora Cigna» «La signora Cigna, certo!» esclamò Emilia «Io mica la conosco» fece il fratello, imbarazzato, grattandosi il neo sulla punta del naso. Aprì il libro di Geronimo Stilton «Non lo leggere!» lo ammonì la sorella, poi tornò a rivolgersi alla loro ospite «Di certo saranno tutti alla grande mangiata» «La grande mangiata?» ripeté Belarda, incuriosita «Sì, ci sarà tutta la città, o quantomeno quelli che riescono a muoversi. È per festeggiare Carnevale, sai» spiegò Emilia, contenta della prospettiva «Ci saranno di certo anche i Cigna, credo che il loro panificio sia uno degli sponsor» «L'avrebbe avvertita se fosse alla festa però» osservò Neo «In realtà è un'improvvisata» confessò la donna, mettendo una mano nel trasportino per accarezzare il pelo soffice di Dracula. Il micio partì immediatamente a fare le fusa, chiare e sonore, strusciando la testa contro l'indice della sua padrona. Neo tamburellò sulla copertina del libro. Non doveva aprirlo. Non doveva apirlo. Si sarebbe potuto distrarre alla festa, ci sarebbero stati tutti in fondo! Il panettiere, le maestre, il sindaco, il paziente zero con il coronavirus... «Lia! Alla mangiata potrebbe esserci il paziente zero!» I due fratelli si guardarono, inorriditi. Un luogo pieno pieno di persone, in un posto senza Amuchina e con possibili contagiati. Nessuno dei due voleva morire, né tornare alla vita lasciandosi indietro i capelli. «Occhi sulla strada!» ammonì Belarda, battendo una mano sul sedile accanto a sé, e i due si voltarono di scatto. «Aaah, il colpo della strega» lamentò Neo. Ad ogni modo, entrambi i fratelli sapevano che al signor Lazzaretti non si diceva di no, e quindi gli toccava almeno andare a parlare con lui. Nulla li obbligava ad andare anche alla mangiata, decisero: avrebbero fatto semplicemente la cosa più sicura e poi... poi si sarebbero tappati in casa, cosparsi di sapone per depurarsi dell'aria infetta del mondo esterno, e non ne avrebbero parlato più. «E andiamo allora» Esortò ad alta voce Emilia «E che Dio ce la mandi buona». Quando arrivarono a destinazione, si accorsero che un'auto li aspettava già nel vialetto e da quanto era grossa, tirata a lucido e apparentemente costosa, si capiva subito che poteva essere solo della persona che aveva chiesto di parlare con loro: il signor Daniele Lazzaretti. Certo, magari aiutava anche il fatto che Lazzaretti fosse proprio lì accanto, facendo attenzione di stare appoggiato contro l'auto ma solo con il sedere. Faceva abbastanza freddo, ma lui indossava un paio di jeans e una canottiera nera che gli stava appiccicata ai muscoli come se fosse stata solo dipinta sul suo fisico; teneva le braccia scoperte incrociate al petto e contrattissime, così poteva fare notare la definizione dei suoi avambracci. Erano contratte da un quarto d'ora perché voleva che i ragazzi pensassero che erano fatte sempre così quando l'avessero visto per la prima volta e ora gli facevano male, ma lui parve soddisfatto lo stesso. «Bella zii» Disse lui baldanzoso non appena li vide scendere. Belarda batté le palpebre, continuando ad accarezzare il suo gatto. «Voleva parlarci, signor Lazzaretti?» Fece mite Neo, che guidava il trio: la sua statura gli consentiva di essere una buona sentinella in caso di pericolo e scorgere il Paziente Zero dall'alto.
«Cosa sono io, un nonno? Sono il tuo nonno?» Tuonò il signor Lazzaretti «Ehm, io veramente...» «Devi pensarci? Hai un nonno bello allora, complimenti» Daniele sorrise, mostrando denti piccoli e bianchi «Però non sono il tuo nonno. Chiamami Daniele». E gli tese la mano. "È una trappola" Pensò Neo, chiedendosi se il Paziente Zero non fosse proprio il suo interlocutore. "È una trappola" Pensò ancora, quando abbassò gli occhi e constatò la circonferenza di polso e avambraccio che gli venivano offerti. Nonostante questo, gli strinse la mano. E... Non successe nulla di fuori dall'ordinario, perché non era una trappola. Daniele si presentò ai tre e invece di perdersi in chiacchiere, passò subito al sodo: «Signori, vi dirò le cose come stanno» esordì, e i presenti ascoltarono attentamente «Non c'è un goccetto di Amuchina a pagarlo oro in tutta Caltaleone, e abbiamo dei casi in forse di persone contagiate nel nostro ospedale. È sparito anche il Felce Azzurra e l'alcool...» «Zio ci fa fare sempre brutta figura» sussurrò Neo alla sorella, parlando dall'angolo della bocca «... E sembriamo condannati a vivere nello sporco, sempre se non prendiamo il virus e ci ricoverano, e allora magari un po' di alcool, ammetto, ce l'avranno all'ospedale» Daniele fece una pausa, alzando le mani. Bisognava concederlo, l'ospedale di Caltaleone era efficiente, e il personale aveva pazienza con tutti. Tutti i visitatori dell'Ospedale dei Bambinelli Santi aveva storie interessanti da raccontare a riguardo, oltre a chiedersi a cosa si riferisse quest'allusione a multipli bambini divini. «E perderei massa muscolare se fossi malato, quindi non si può fare. O almeno» proseguì Lazzaretti «Voi sembrate condannati. Perché io, a casa mia, ho le proteine in polvere, scorte di cibo e acqua, l'alcool e anche l'Amuchina» «L'Amuchina?» ripeterono i tre in coro – se non proprio assieme, almeno Neo ripeté quello che Belarda ed Emilia avevano detto per prime. «Sì. Un boccaccio così» Lui fece come per abbracciare un contenitore immaginario per mostrare loro la taglia, ma i tre non la capirono perché furono distratti dai suoi bicipiti «Perciò mi basta chiudermi in casa mia finché non è sicuro uscire e il gioco è fatto. Ma io sono bravo. Sono generoso, io. E allora sono venuto a raccontarlo a voi» «E in che modo sei bravo se vieni a dirci che moriamo nello sporco?» chiese timidamente Belarda, in tono sconsolato «Perché io non vi lascerò morire nello sporco, si concentri signorina, si concentri! Ho fatto i miei calcoli e posso condividere la mia villa con ben altri nove signorini e signorine per almeno un mese e mezzo, se non prendiamo qualcuno che mangia come una bestia, perciò facciamo in modo che in casa mia non ci entri nessuno che mangia come una bestia. Dovrebbero aver circoscritto il virus per allora, oppure troveremo altri modi per fare provviste» Daniele annuì alzando gli occhi azzurri al cielo, come per completare un calcolo nella propria testa «Sì, proprio così. E dato che sono molto molto solo da quando il sindaco ha chiuso le palestre, non posso chiudermi in casa da solo per due mesi, oppure divento pazzo io. Divento pazzo. Quindi, che ne direste di farmi compagnia, ragazzi?». Concluse sfregandosi energicamente le mani, scrutandoli a turno per valutare le loro reazioni. Gli Appestati erano presi in contropiede e facevano la faccia da carpe per l'incredula felicità che provavano. Neo la apriva e la chiudeva anche la bocca, lentamente. Ma Belarda e il gatto Dracula sembravano pensierosi, rimuginavano su qualcosa. «Noi siamo solo tre» Disse Belarda per prima, lentamente «Hai detto che hai spazio per nove persone» «Mru» disse Dracula per secondo «Sì, brava, signorina, ti sei concentrata» Daniele annuì con foga, ignorando la questione del gatto «Voglio che andiate anche a trovare altre persone da portare, nove in tutto con voi. Siate generosi, siate buoni! Salvate le vite! Se siete cattivi, non se ne fa niente. Avete una quarantina di minuti, io vi aspetterò qui nel vialetto» «Dobbiamo andare a prendere la mamma» esclamò Neo, che non ne sembrava convintissimo (anche se lo era); sia lui che Emilia fecero per sorpassare Lazzaretti e Cigna per rientrare in casa. «Fermi» disse Belarda, poggiando una mano sul braccio di Emilia. Neo fece dei passetti avanti e indietro sul posto sperando di essere fermato anche lui, ma Belarda stava usando l'altro braccio per reggere Dracula. L'unica cosa che ottenne fu che Daniele gli dicesse in tono un po' interrogativo: «Hai le colichette tu». «Fermi» Ripeté Belarda, e scosse piano la testa «Se davvero tutte le persone alla mangiata sono ad alto rischio di contagio e la vostra famiglia è lì, non possiamo portarli con noi» «Brava, signorina, lei sa. Lei vede» approvò Daniele «Quindi...» disse Emilia sconsolata «Le uniche persone che è sicuro portare sono persone al di fuori della festa, che conoscete e non sembrano malate» elencò Belarda «So che è dura, ma se anche mio cugino è là dentro, non è sicuro contattarlo. Potrebbe farci ammalare tutti. Che poi lo so che la malattia è quello che è, però non voglio prenderla e passarla a tutte le persone a rischio» I due fratelli si guardarono: Emilia preoccupata, Neo confuso. «Potremo uscire quando vogliamo però, vero?» Chiese Belarda, rivolta al signor Lazzaretti «Asso-lu-ta-mente sì, zia» rispose Daniele, entusiasta, ma aggiunse, in tono molto più serio: «Una volta usciti però, non si potrà più tornare indietro». Belarda annuì. I tre si prepararono a risalire in auto, ma la più anziana dei due Appestati aveva ancora una domanda da fare. «Perché proprio noi?» chiese Emilia «Per due motivi» disse Daniele, mettendo le mani sui fianchi. Sembrava ora così largo che Belarda si spaventò alla prospettiva che un terzo pettorale gli fosse spuntato tra i primi due. «Il primo è che siete gli unici che ero sicuro non fossero alla festa. Il secondo è che sapevo che Emilia – grande, Emilia! – è una brava scrittrice, e vorrei qualcuno che sa raccontare delle storie nella mia casetta per passare il tempo» «Ma io scrivo solo fanfiction» «E io le leggo» «Ma io sono sotto pseudonimo» «Hai solo messo due numeri alla fine e scritto "Appescati" invece di Appestati. Hai la tua faccia come avatar sul sito» «Ho davvero scritto Appescati?» «Sì» «Devo cambiarlo più tardi». Con le rispettive curiosità soddisfatte, i nostri tre eroi salirono sulla Smart arancione, la quale a breve sarebbe stata colma più di una scatoletta di sardine da arditi cantastorie che si contorcevano per stare nell'abitacolo tutti insieme. Arditi cantastorie col mal di schiena. Daniele salutò Neo, Emilia e Belarda con la mano mentre uscivano dal vialetto, poi tornò ad incrociare le braccia e fece ballare i pettorali. I fratelli Appestati avevano già una mezza idea di quali posti visitare... a partire dal supermercato. «Ultima chance per non metterci nei guai» Sussurrò Belarda, mentre la loro piccola auto si allontanava sempre di più dalla figura a braccia conserte del signor Lazzaretti «Perché io ho dato per scontato che lo conosceste voi questo Daniele, dato che si è parcheggiato davanti casa vostra e ha il numero di vostra madre, ma quell'ultima domanda che hai fatto, Emilia... non è un pazzo psicopatico, vero? Siete sicuri?» «No, certo che non è uno psicopatico» disse Neo «Speriamo bene» disse Emilia. Sarebbero tornati mezz'ora dopo dalla loro fruttuosa caccia, e così facendo avrebbero messo in moto una serie di eventi che avrebbero cambiato per sempre diciannove vite, contando tutte e nove quelle di Dracula.


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Published on March 01, 2020 01:15

Febbraio 2020 - Cosa abbiamo creato?

Febbraio 2020 è finito: Ecco cosa abbiamo postato online questo mese, grazie anche al supporto dei nostri beneamati patrons!



+++DISEGNO++++
Il Cammino delle Leggende (The Way Of Legends) / OCs
Salmerito matching icons |

The Way of Legends' Lupus in Aula (webcomic)  
Chapter 2 page 6 | Chapter 2 page 7 | Family pack (black and white) |

Sara's fitness blog (webcomic)
Coronavirus [Patreon][Tapas] | Full Moon [Patreon][Tapas] | Overhead press [Patreon][Tapas] |

Steven Universe
Jambudweek #1 - Exploration | Jambudweek #2 - Singing | Jambudweek #3 - Sleep | Jambudweek #4 - Together | Jambudweek #5 - Drive | Jambudweek #6 - Shield | Jasper vs The Undertaker (crossover) | Jambudweek #7 - Future | You're mad 'cause you're single |

Furry, anthro and animals (not commissions)
Tojio Ichijoji reference sheet | Minis 238 - Skalma Silverfall | Desert rain frog (Breviceps macrops) | An angel with her pets |

Commissions
Royal judgement (black and white) | Biker gang | The flute player (black and white) | Look at me while I kill her | Royal judgement | The flute player | Matching icons for G_The_Husky | Minis 239 - Billie Kane | Sidonas the ice dragon | Minis 240 - Edwin DeLauren | Minis 241 - Hunter George |

Other
Chibi doitsu koi mermaid |

Patrons only!
The flute player (WIP) | Look at me while I kill her (WIP) | Artanis the dragon (WIP) | Lupus in Aula chapter 3 cover (WIP) | The love of a mother (WIP) | Winged Thomas wolf (WIP) | Old drawings from 2009 collection (exclusive for patrons) | Royal judgement (pack for patrons) | The flute player (pack for patrons) | Colorable linearts vol. 30 |

Due gatti rossi "remastered" (ITA) - Tapas
Stelvio (parte 1) | Stelvio (parte 2) | Stelvio (parte 3) | La gatta preferita | Buone maniere | Stelvio vs Gatto | Oh, stai zitto gatto ! | Come cane e gatto | Anche sotto la pioggia | Eterno raffreddore | Cosa vuoi, esattamente? |

+++SCRITTURA+++Io sono il Drago (Wattpad)
La città sorta in un giorno |

Autobiografia (forse romanzata) di un drago dorato (Wattpad)
9. Ramirez in costume | 10. Terza favola |

Un barattolo di Amuchina
Presentazione [blog] | Personaggi [blog][wattpad] |

Schede dei personaggi, specie, luoghi e varie (Blog)
Personaggi: Alejandro de Rocamora | ICDL illustrazioni - Umani parte 3 |


Totale dei lavori pubblicati:60
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Published on March 01, 2020 00:35

February 29, 2020

ICDL illustrazioni - Umani parte 3

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Ancora esseri umani? Ancora esseri umani. Perché gli umani vanno celebrati e quelli del Cammino delle Leggende non sono da meno.

1. Questo è Paul Hersen, con la sua abbronzatura da maglietta e pantaloncini (che porta sempre, anche quando è in spiaggia). Compare per la prima volta nel capitolo " Finto vampiro " di Urban Legends ". Se vi chiedete perché è in mutande... è solo perché questo è uno studio sulla sua corporatura. È probabilmente l'inventore/scienziato umano più grosso di tutti i nostri cicli narrativi! Una curiosità su di lui: il naso importante e i lunghi capelli biondi sono ispirati a quelli del wrestler HHH, ma le loro somiglianze finiscono qui.


2. Enrico Rotelli e la sua gatta Rotella! Questi due sono praticamente i protagonisti del nostro webcomic Lupus in Aula. Non siete in molti a conoscerli (sembra che i nostri lettori più affezionati preferiscano i romanzi ai fumetti!) ma è bene includerli comunque! Enrico è un giovane licantropo che ha appena scoperto di esserlo, mentre Rotella è una micetta affetta da ipoplasia cerebellare felina, una condizione neurologica non progressiva e non contagiosa in cui il cervelletto, che controlla la coordinazione motoria, alla nascita risulta sottosviluppato. Insomma, sono un lupetto spaventato e una miciuzza tremolante! (E a volte sono tremolanti entrambi).
Eccoli in un'illustrazione fatta con la penna a sfera.


3. E anche Sheridan de "L'Uomo dei Cimiteri" è un essere umano, quindi pure lei si merita di stare in questa lista!
Qui la nostra misteriosa Sheridan Grimm è ritratta insieme al suo corvo messaggero, il nero e intelligentissimo Morrighan.
Anche questa è un'illustrazione veloce fatta con la penna a sfera nera. È stata realizzata durante l'Inktober del 2019, per il tema "corvo (crow)". Appropriato, no?


4. Chibis! Anche i Ministri Oscuri sono umani (o, almeno, hanno molto spesso una base genetica umana...) e quindi questa rientrano nella categoria "illustrazioni di esseri umani". Questi sono Sheridan Grimm e Bartholomeus Lasyr, rispettivamente la Ministra Oscura e il Ministro Luminoso di due tempi abbastanza distanti fra loro (1800 vs 2000), ed è un'illustrazione per la scheda comparativa fra il Ministro Luminoso e quello Oscuro. Di Sheridan è possibile che abbiate già letto, ma Barthomoleus... beh, aspettate un po' e conoscerete anche lui ;)

5. Ecco un'altra illustrazione fatta con la penna a sfera! Chi sarà mai questo simpatico pazzerello che indossa multipli cappelli, una pelle di serpente intorno al collo e una marionetta per dito a forma di scimmia? Lui è il Folle Teo, uno dei personaggi di Shadowfawn, e qui sta indossando parte della sua peculiare collezione di oggetti misteriosi...
Teo non è un pazzo come gli altri, no: lui è folle. E qual'è la differenza fra un pazzo e un folle? Oh, beh, dovete leggere il romanzo per scoprirla! O chiederla a Teo, che è sempre ben disponibile a spiegarla a chiunque.



6. Questo sketch è stato realizzato con le penne a sfera (blu e rossa) per l'Inktober del 2018. La cara Sheridan Grimm di solito indossa il cappuccio e una lunga tunica che ne copre completamente il corpo, ma quando è completamente sola, a volte, si scopre il capo... specie quando deve realizzare incantesimi complicati.
Cosa starà combinando qui?

E per ora basta così. Ne vedremo ancora alla prossima ;)

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Published on February 29, 2020 05:15