Moony Witcher's Blog, page 15
August 1, 2016
Il sentiero proibito su Fantasy Magazine
Su Fantasy Magazine recensione dell’ultima opera di Moony, Il sentiero proibito.
Andate QUI per leggere l’intero articolo mentre di seguito un estratto dello stesso:
Il romanzo è una storia avvincente sui grandi valori delle vita, soprattutto sul tema del perdono per l’Anno del Giubileo della Misericordia, il cui obiettivo è:
Il valore dell’amicizia si valuta non solo nella fedeltà ma anche nel tradimento.
Solo il perdono può quietare la rabbia.
Solo il perdono riporta l’armonia e mostra quanto sia splendido vivere con la consapevolezza che l’amore è la vera luce che ci avvolge, nel bene e nel male.
L’amore è il tesoro che non ha forma materiale.
L’amore non si vede ma si sente.
L’amore è la felicità di capirne il senso senza voler vedere ciò che non può apparire.
Il romanzo è dunque pregno di valori che, nell’adolescenza, spesso si perdono o si dimenticano, per correre verso altre mete, che alla fine risultano spesso deludenti. Perdonare è quindi un atto d’amore.
Ma è soprattutto una storia di amicizia, di amore vero e di perdono.
– Pino Cottogni, Fantasy Magazine
July 19, 2016
Biennale di Venezia 2016: Moony crea un piatto dedicato alla Natura
July 14, 2016
1.000 cuori per Remo Brindisi: dopo l’evento
Sabato 9 luglio si è svolto a Lido Di Spina l’evento 1.000 CUORI per Remo Brindisi, in occasione del ventennale della morte del Maestro. L’incontro organizzato dalla nipote Linda Brindisi ha riscosso un deciso successo vedendo un affluenza continua di persone fino alla mezzanotte. Adulti e bambini si sono presentati alle porte di Casa Museo desiderosi di divertirsi e, prendendo in mano un pennello, ricordare una persona che all’arte ha dedicato la vita. L’incontro è stato inoltre occasione per visitare il Museo, la collezione lì esposta e la tomba del maestro sita nel giardino della Casa.
1.000 CUORI PER REMO BRINDISI è un’iniziativa che Linda Brindisi ha ideato e promosso attraverso il suo progetto Pittura.In.Movimento. Un evento quindi completamente auto-finanziato da lei stessa a cui in molti si sono dedicati volontariamente per supportarla.
Un esempio è dato dai sei CUORI d’artista di Alessandro Mendini, Moony Witcher, Emilio Isgrò, Mustafa Sabbath, Lella Avanzino oltre allo stesso di Linda.
Incomprensibilmente, le Istituzioni non hanno partecipato all’evento. L’Assessore alla Cultura di Comacchio non si è presentato nemmeno per un saluto, nonostante iniziative come queste promuovano la cultura. Se un Assessore alla Cultura ripetutamente non partecipa, non parla con gli artisti e non sostiene la cultura stessa…allora non serve.
Sono state realizzate, in ogni caso, video e fotografie che possono essere viste in fondo al post. Le fotografie sono a cura di Davide Folegatti e il video, a cura di Gianluca Caprara, sarà pronto tra una quindicina di giorni e arriverà in mano a Vittorio Sgarbi.
I 1.000 CUORI sono stati dipinti tutti, donati alle persone che volevano conservarli e i restanti installati accanto alla tomba del Maestro.






Intervista a Moony Witcher su DECKARD
Il segreto della Foresta di Mezzo di Camilla Carniello – Primo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

Il segreto della Foresta di Mezzo
Camilla Carniello
Corso di Scrittura Online – Secondo Livello Adulti
Vi narro, Signori, di un assai antico tempo,
di quando ancora non vi era l’uomo mortale.
Quattro i Grandi che vinsero la lotta fatale
E che di una nuova era diedero l’avvento.
In quattro avevano creato molte e diverse creature,
come figli a cui un giorno dare il comando,
ma crebbero esse di volta in volta mutando
e tristemente divennero infine anime oscure.
In una guerra crudele, come il figlio uccide il genitore,
la creature con odio e avidità sempre crescente,
distrussero tutto con il frutto del loro odio furente.
Fu così reso il mondo di testimonianza il portatore.
Si elevarono i Grandi Quattro, Signori di Vita e di Morte,
contro i figli ripudiati, assassini senza cuore,
instaurando una guerra di paura e terrore
e chiudendo per sempre del perdono le porte.
La lotta di Isil, Dea della Luna, si poté vedere,
al fianco di Murne, del Sonno il Signore,
e con l’aiuto di Anor, del Sole il fautore,
ed infine Calif, che del Risevglio ha il potere.
Isil e Murne, di equilibrio e giustizia i guerrieri,
placarono di Anor e Calif le ire molto più accese
e trovarono un accordo a di tutti le pretese:
i figli avrebbero relegato a grado di prigionieri.
Ma soli e distrutti dalle memorie della guerra,
I Grandi Quattro vagavano senza pace sulla terra.
Un giorno si riunirono ancora e vollero riprovare
a dare nuova speranza per poter ancora amare.
Tra le braccia di questa terra, ormai sopita,
sui quattro elementi soffiarono e ci diedero vita.
Dalla ballata
“Genesi dell’Era Umana”,
canto primo, quinta decade della II Era.
Capitolo Primo
Il vento sussurrava piano, quella notte d’estate, e le verdi chiome degli alberi accoglievano quel dolce solletico con un velato piacere. Le stelle lampeggiavano silenziose, tenendo per sé i propri segreti e il mondo stava lentamente cadendo in un sonno ben meritato, cullato dal mezzo sorriso romantico che la luna offriva. Tutto appariva tranquillo come negli arazzi più belli, quelli che raffigurano fate turchine e principesse del Nord occupate a rimirare l’orizzonte e circondate da una natura idilliaca.
Già immaginava la morbidezza del cuscino sotto la guancia Padre Solio dell’antica famiglia dei Casales, Sacerdote Inferiore dell’Ordine dell’Ovest e protettore del tempio dell’Ordine nella città di Almena. Quella mattina i suoi compiti l’avevano svegliato all’alba e l’immenso amore che nutriva per i suoi fedeli l’aveva fatto girare per tutta la periferia per la solita spartizione di benedizioni e consigli. Era stremato e il giorno seguente non sarebbe di certo stato più clemente con i suoi reumatismi; per questo diede in fretta un’ultima spolverata all’altare che solo lui poteva toccare, chiuse le finestre e si accinse a spegnere le innumerevoli candele sparse per tutta la navata del tempio. Era arrivato al lato destro e gliene mancavano ancora una mezza dozzina quando sentì tre fievoli colpi battere impazienti sul portone di legno massiccio.
Si chiese chi mai potesse essere a quell’ora tarda quando un brivido freddo e improvviso frustò la sua schiena stanca.
No, non poteva essere. Non così presto. Erano passate meno di due settimane dall’ultima volta, era troppo presto.
Dopo qualche secondo i colpi ripresero, stavolta più forti.
Come riscosso dal più terribile degli incubi Padre Solio sbatté più volte le palpebre e scrollò le spalle. Forse in fondo era solo la stanchezza a tirargli brutti scherzi e, forse, il suo istinto non faceva più il suo lavoro tanto bene. Non poteva trattarsi di quello.
Quando per la terza volta una serie di colpi risuonò all’interno del tempio, il povero sacerdote decise che non si trattava né di un incubo, né tanto meno della stanchezza. Appoggiò lo spegni candele e si affrettò ad aprire.
Una figura incappucciata scivolò nella penombra tremolante, quasi tentando di rendersi il più invisibile possibile.
Era minuta, tremante e sconvolta. Quando una mano piccola ed esile scivolò fuori dalle pieghe scure e fece cadere indietro il cappuccio, un viso distorto dal dolore spuntò fuori, incorniciato da onde di capelli ramati e spettinati. Gli occhi della ragazza, azzurri e gonfi di lacrime già cadute e di altre pronte per fuoriuscire, saettarono da una parte all’altra, percorrendo tutta la superficie visibile della costruzione, come per accertarsi che non ci fosse nessun altro.
– Talia! Cosa ci fai qui?- esclamò Padre Solio, ignorando il brutto presentimento che gli aveva attanagliato le viscere.
La giovane incatenò i suoi occhi in quelli del sacerdote, lasciando parlare il turbinio di disperazione che vi si agitava dentro.
– Ancora… Non è possibile, dimmi che non è vero! Sono passate solo due settimane!- sussurrò l’uomo.
Talia non ebbe più la forza di guardarlo in faccia e il dolore che la squarciava da dentro iniziò a scuoterla in un pianto senza fine.
Padre Solio si avvicinò e la sorresse circondandola con le sue braccia. Scossa dai singhiozzi la ragazza fu solo in grado di dire:
– Aiutami Padre, aiutami… E’ successo ancora. Io…ho ucciso ancora.
Capitolo Secondo
La Terra del Nord non era certo famosa come territorio caldo e ospitale. Anzi, sembrava che il calore fosse quanto di più lontano possibile dal clima e dall’ospitalità degli abitanti. La temperatura e il carattere della gente andavano di pari passo da secoli ormai e il ghiaccio era diventato, almeno nei mesi più rigidi, una costante di entrambi.
Questo era il pregiudizio più diffuso nelle restanti Tre Terre che componevano il Mondo Conosciuto; in realtà, si sa, le voci sono sempre ben lontane dalla verità e il popolo nordico era pacifico e di buon cuore come tutti gli altri e lo diventava ancor di più in compagnia di vecchi amici e di un paio di boccali di quella birra che solo lì erano in grado di fare tanto buona.
La mattina colse il giovane Roen, terzogenito di Beidor appartenente alla dinastia dei Norwindal e re della Terra del Nord, ancora addormentato ai piedi del suo grande letto a baldacchino.
Indossava i calzoni scuri di tela pesante e la camicia di seta, verde come quegli occhi celati dalle palpebre abbassate, che aveva indosso la sera precedente. Il sonno lo aveva investito come un cavallo in corsa solo un paio d’ore prima, quando in compagnia di un manipolo di compagni aveva fatto la fortuna dell’oste che aveva la sua bottega subito fuori dalle mura del palazzo.
– Roen, maledizione svegliati! – esclamò un giovane alto e allampanato irrompendo nella camera, – E’ la volta buona che il maestro ti spedisce a pulire le stalle.-
Con un mugolio indistinto Roen si girò a pancia in giù, strisciò fino al cuscino e ci nascose sotto la testa. Un lancinante mal di testa gli perforava le tempie.
L’amico, Herald di Terin, totalmente incurante di quella reazione, un rituale che si ripeteva da quando Roen aveva acquistato abbastanza senno da distinguere acqua da acquavite, spalancò le tende e le finestre, lasciando entrare l’aria frizzante dell’estate nordica.
– Herald farò mettere una taglia sulla tua testa… – biascicò il principe mettendosi a sedere e cercando di fare mente locale. Non ricordava gran parte della nottata precedente.
– Quando lo farai ricordati che la tua di testa è attaccata al collo solo grazie a me. – gli rispose quell’altro mentre gli lanciava un cambio pulito. Avrebbe preferito scaraventargli addosso un’ascia al posto dei panni morbidi. – Il maestro è furioso per il tuo ritardo e tuo padre lo imiterà a breve se non ti muovi.-
Roen si alzò a fatica e nonostante ogni muscolo gli urlasse maledizioni cominciò a sfilarsi i vestiti sgualciti con cui aveva dormito. Si avviò nel grande bagno adiacente ai suoi alloggi con un mezzo sorriso da monello mentre qualche ricordo di gesta senza senso cominciava a riaffiorare.
Un quarto d’ora dopo stavano percorrendo il corridoio dell’ala ovest e, passata la sala degli arazzi in cui erano esposti ritratti dei membri delle varie dinastie del passato, giunsero finalmente nella sala d’armi dove un più che incollerito Morn, eccellentissimo maestro di combattimento, stava aspettando da più di un ora.
– ROEN, FIGLIO DI BEIDOR! Dove diavolo eri finito? Non hai il minimo rispetto per i pochi doveri che ti spettano come figlio della Corona?! Sei un irresponsabile e ingrato, sia gloria a tuo padre, Sua Maestà, per la pazienza che porta… Come ti permetti?! – inveì l’uomo contro il principe.
A quel saluto, e alla fremente ramanzina che seguì, Roen si limitò a rispondere con arrogante sfacciataggine: – Buongiorno a lei, maestro.-
Da quando il giovane si era reso conto di essere il terzogenito della famiglia reale, cosa che lo esonerava dall’ereditare la corona e il governo della Terra del Nord a dall’intraprendere una spiacevole e noiosa carriera religiosa, aveva scelto di godersi quel che la vita aveva deciso di donargli: una ricchezza spropositata, pochi doveri e responsabilità che puntualmente ignorava e un infinito numero di opportunità per divertirsi con chi, come e dove voleva.
Re Beidor aveva lasciato correre inizialmente, dando la colpa a sé stesso per non aver potuto essere sempre presente nella vita del figlio e al destino, per avergli portato via la moglie molti anni addietro. Quando però il principino non aveva dato alcun segno di voler cambiare stile di vita, nemmeno con la maggiore età e l’arrivo di nuovi incarichi, il sovrano aveva consumato sempre più la sua pazienza, giudicando il comportamento di Roen assolutamente inadatto ad un membro della famiglia reale e del tutto inammissibile entro i confini del suo regno. Ogni proposito di redarguirlo risultava però inutile e l’unico in grado di salvarlo in extremis dalle ripercussioni delle sue stesse azioni era l’amico e compagno Herald di Terin, di qualche anno più vecchio e, forse per questo, più maturo.
L’allenamento con le spade a lama smussata iniziò e il maestro Morn non risparmiò i due giovani; sorrideva beato, ora che poteva far loro eseguire gli esercizi più difficili e urlar loro dietro quanto fossero imperfetti, lenti e assonnati. Con l’arrivo della stagione calda potevano approfittare del bel tempo e allenarsi all’aria aperta, nel vasto cortile interno alle mura. Ben consapevole di essere sotto gli occhi dei domestici e di chiunque bazzicasse l’affollatissima corte, Morn ne approfittava per riprendere i due allievi più del dovuto. La certezza del continuo viavai di servi e funzionari per i porticati che davano sull’interno del castello che solo buttando l’occhio in basso avrebbero potuto vederli, dava al maestro l’opportunità di prendersi una piccola vendetta per il poco rispetto che gli avevano dimostrato. Ora l’avrebbero sentito, era lui che comandava in quelle due ore mattutine.
– La lotta è un intrico mortale di scatti felini, movimenti audaci e ragionamenti freddi e calcolati. Ricordate: l’attenzione e la prontezza sono elementi fondamentali. Non si combatte dormendo, ragazzi! Sareste già belli che morti ora… – ripeteva in continuazione. Anche se appariva come un uomo rozzo e burbero, bisognava dargli atto del fatto che Roen non perdeva occasione per fargli perdere le staffe e questo giustificava il suo atteggiamento severo nei suoi confronti.
Ad ogni modo, nonostante la fatica e il mal di testa causato dalla sbornia, Roen amava allenarsi. Sentiva i muscoli guizzare sotto la casacca di flanella, era cosciente di ogni spostamento del suo avversario, in questo caso Herald, e si cimentava con destrezza in ogni mossa.
Era un po’ come ballare: un passo a destra, uno indietro e affondo. Una piroetta con la spada sollevata e una parata. Inclinare la schiena leggermente a destra e affondo di nuovo.
Il clangore del metallo su metallo risuonava in tutta la stanza rimbombando, scandendo gli attimi e scacciando i pensieri.
Herald, a dispetto della sua statura elevata e dei suoi arti troppo lunghi, era agile e veloce, si sentiva a suo agio nel combattimento con le spade, anche se preferiva il tiro con l’arco e la balestra. Tuttavia la rapidità e la flessuosità di Roen erano praticamente impareggiabili e l’amico stentava a credere che fosse davvero in grado di muoversi in quel modo dopo appena un paio d’ore di riposo e una bevuta colossale alle spalle.
Quando suo padre lo mandò a chiamare Roen era nella sala degli arazzi. Herald lo aveva lasciato una manciata di minuti prima, dicendo di dover andare a dare un’occhiata a certi conti di famiglia. Lui era un tipo affidabile, pensò il principe. Herald era il tipo di ragazzo che ogni padre sogna di avere. Quasi seguendo un filo logico iniziò a pensare a sé stesso. Era tutto l’opposto. Si divertiva, faceva baldoria con chiunque avesse un po’ di tempo da offrirgli e non dava alcun peso ai compiti che gli venivano affidati. Eppure non erano né tanti, né difficili. Lui stesso si interrogava sulle ragioni del suo comportamento. Quando si chiedeva il “perché?” si rispondeva automaticamente con un “perché no?”. Non si sentiva un principe e non voleva esserlo. Sarebbe sempre stato felice di non essere al posto del fratello maggiore, la guida di un intero popolo non era il suo destino e, se lo fosse stato, avrebbe provveduto in fretta a cambiarlo. D’altra parte era altrettanto felice di non dover diventare un Sacerdote Maggiore dell’Ordine del Nord, come l’altro suo fratello maggiore, il secondogenito.
La sua spiccata abilità nell’arte del combattimento aveva convinto suo padre ad indirizzarlo verso la carriera militare, che gli lasciava ampio spazio di scelta e, soprattutto, tempo per capire meglio sé stesso.
Roen stava pensando a tutto questo mentre rimirava i quadri e gli arazzi dei suoi antenati e delle dinastie che avevano preceduto la sua. Tra tutti c’era il ritratto di una fanciulla molto bella, dai lineamenti dolci e regolari. Capelli scuri e occhi neri, fissava l’osservatore dritto in faccia, senza ritegno, quasi lo volesse sfidare. Il mento girato verso l’alto e le spalle dritte lasciavano intendere l’alta concezione che aveva di sé stessa che l’artista era stato in grado di riportare perfettamente sulla tela. La targhetta sotto la cornice recitava quel che Roen sapeva a memoria: Donna Sirinna Maelia Terza, figlia di Vorden della dinastia Fier, Anno 780 della I era. Era il quadro preferito del ragazzo, perché la giovane raffigurata sembrava tanto dettagliata da poter prendere vita e saltar fuori a testimoniare un passato che il giovane non avrebbe mai conosciuto se non dai canti dei menestrelli.
Il principe era ancora assorto nei suoi pensieri quando un inserviente bussò educatamente e gli riferì che suo padre desiderava riceverlo nella Sala del Trono. Con il suo mezzo sorriso impertinente, Roen si avviò per i lunghi e sontuosi corridoi Sala del Trono voleva dire solo una cosa: guai in vista.
Capitolo Terzo
Talia camminava lungo la parete con la grande vetrata che dava sul limitare della Foresta di Mezzo. Non era una camminata nervosa, la sua, era piuttosto lenta, come se fosse stata costretta a rallentare sotto il peso di mille riflessioni. Ed infatti la testa della ragazza era presa da una miriade di pensieri diversi, ma in quel garbuglio poco chiaro una cosa stava prendendo forma, si stava affermando e stava prendendo peso. Era come se un pensiero stesse ingrassando e stesse diventando pian piano più pesante degli altri, tanto da adagiarsi giù, sui piedi di Talia, facendoli rallentare e dando loro quella lenta cadenza.
Non voleva tornare ad Almena, questo stava pensando. Nonostante il suo viaggio fosse iniziato proprio con uno stratagemma che le permettesse di tornare a vivere in tranquillità nell’unico posto che riconosceva, Talia si era resa conto che ciò che voleva non era la placidità di Almena. La cittadina di pianura le era estranea tanto quanto tutto quello che le era successo fino a quel momento. Tornare lì semplicemente perché era l’unico luogo che le sembrasse familiare le appariva ora non come una rassicurazione, quanto piuttosto come una terribile tortura.
Le parole del Sommo Sacerdote Maruk, però, le risuonavano nelle orecchie e contribuivano a quel ronzio di pensieri da cui non riusciva a liberarsi. Lei, una trovatella senza passato e senza radici, era in realtà una prescelta. Le uccisioni non erano ciò che sembravano. Non era un’assassina, ma la mano degli Grandi Quattro che avrebbe ripulito il Mondo Conosciuto dalla terribile minaccia degli Oscuri.
Stava intensamente ripensando agli occhi di ghiaccio del Grande Sacerdote e alle sue parole rivelatrici, quando Roen entrò nella stanza. Si fermò, le sorrise e avvicinandosi mormorò:
– Troppe novità in una volta, vero?
La ragazza scosse la testa:
– Non è la novità in sé. Penso di essermi abituata alle cose che mi sfuggono di mano – mormorò con un sorriso mesto, – E’ che continua a non avere senso… –
Allo sguardo interrogativo del ragazzo, proseguì:
– Dai, Roen, ci credi davvero? Io la prescelta? Non può essere. E anche se fosse, questo non spiega perché non ricordo nulla della mia infanzia, della mia adolescenza. Perché non so chi sono, né da dove vengo? Qualcosa che spieghi quest’orrendo buco nero deve esserci e non è quello che mi sono sentita dire.-
-Come fai ad esserne così sicura? – tentò di rassicurarla lui, – Il Sommo Sacerdote non è certo uno sprovveduto, non parla solo per dar aria alla bocca, Talia. –
La ragazza ebbe un moto di frustrazione, diede le spalle a Roen e incrociò le braccia. Il cielo si stava lentamente scurendo, un altro giorno era giunto al termine. Sul vetro lucidissimo, si riflettevano ora le sagome dei due ragazzi, sempre più definite sullo sfondo scuro dell’orizzonte che si prospettava loro davanti. La grande foresta appariva sempre più fitta e sempre più oscura, la degna dimora delle leggende che la abitavano.
– Niente per me ha mai avuto un senso. Mi sono svegliata un giorno e mi trovavo ad Almena. Mi hanno dato un nome, una casa e qualcosa da fare. Ma non ho mai saputo perché facessi quello che facevo, non ho mai saputo perché mi trovassi lì. Non mi sono mai sentita a mio agio… – la ragazza si interruppe, con la voce che tremava e il respiro bloccato in gola. – Mi sento così meschina a dirlo, ma da quando tutto questo ha avuto inizio. Le uccisioni, le trance, ci vedo dietro un legame con chi realmente sono, con il luogo da cui provengo. Dire che sono una prescelta incaricata di salvare gli uomini dagli Oscuri che riescono ad evadere dalla Foresta di Mezzo, questo spiega il perché faccio quello che faccio, ma non spiega niente del prima, del come ci sono arrivata, del chi sono. Manca qualcosa… Ancora non so cosa, ma c’è un pezzo mancante in tutto questo. –
L’arrivo di Padre Solio interruppe il discorso. Il sacerdote era accompagnato; i due sacerdoti maggiori, uno con la tunica arancione dell’Ordine dell’Est, uno con la tunica blu dell’Ordine dell’Ovest, scortavano padre Solio con un portamento regale e austero. Le loro espressioni gravose scrutarono la sala e si soffermarono entrambe sul viso crucciato di Talia.
– Siamo pronti? – chiese il sacerdote inferiore.
I due ragazzi annuirono impercettibilmente.
– Non dubitate mai del potere della Sacra Tetrade. – intervenne il sacerdote dalla tunica blu, – Grande è il loro amore per noi e imperscrutabili le loro decisioni. A noi uomini è dato solo applicare la loro volontà.-
Più che una frase di congedo sembrava un ammonimento.
– Ora che abbiamo la vostra benedizione e che la vostra saggezza ci ha illuminato il cammino, i nostri dubbi sono dissipati. Perdonate la mia confusione, Padre. Non era mancanza di fede, ma preoccupazione per la fanciulla. – proferì Padre Solio, rivolto al suo superiore dell’Ordine dell’Ovest. Talia, dal canto suo, la pensava in modo molto diverso e questo, il sacerdote maggiore sembrava percepirlo chiaramente, perché aveva fissato il suo sguardo in quello della ragazza, come a volerle leggere l’anima.
I tre viaggiatori si accinsero a imboccare il grande corridoio sontuoso che conduceva all’uscita della dimora del Sommo Sacerdote. I due sacerdoti maggiori rimasero nel salone dalle grandi vetrate.
– La ragazza ha causato non pochi problemi. – proferì l’uomo dalla tunica arancione.
L’altro annuì:
– Molti più di quanti pensassimo. Non sarebbe dovuto andare così. Gli imprevisti erano calcolati, ma questo ormai è fuori controllo.-
Il sacerdote dell’Ordine dell’Est sogghignò e, allo sguardo di rimprovero del suo interlocutore disse: – l’idea della Luna Nera è tua, come pensi di risolverlo ora?-
– Con qualunque mezzo a nostra disposizione. Il rimedio è sempre proporzionato al problema. Non ridere di me, il Progetto ha lo scopo di salvarci tutti, lo sai. Se fallisco io, muori anche tu. Ma andiamo ora, riuniamo il Consiglio e poniamo fine a questa scomoda faccenda, il Sommo Maruk attende.-
Il confine della Foresta di Mezzo appariva sempre più nebuloso e sfilacciato nel buio della notte. Padre Solio, Talia e Roen cavalcavano avvolti nei propri mantelli, l’umidità si appiccicava ai loro vestiti come una brutta maledizione. Stavano percorrendo la via che li avrebbe condotti al primo avamposto della Terra del Sud, quando Roen tirò le redini del proprio cavallo e intimò il silenzio più totale.
Allo sguardo interrogativo dei suoi compagni rispose mormorando:
– Qualcuno ci segue. –
In quell’istante un dardo lanciato da una cerbottana colpì il cavallo del ragazzo che cominciò a barcollare senza controllo. Roen tentò di liberarsi dalle staffe, ma il cavallo cadendo a terra privo di sensi lo trascinò con sé incastrando la sua gamba sotto il proprio peso.
Altri due dardi colpirono gli animali del sacerdote e della ragazza che erano però riusciti a smontare nel frattempo. Talia estrasse la daga che teneva in vita e si mise sull’attenti, mentre l’uomo tentava di aiutare Roen a liberarsi.
Dall’oscurità della Foresta emerse una luce tremolante. Lilyven apparve tra gli alberi recitando una litania melodica. La sua mano sinistra aveva il palmo rivolto verso l’altro e qualcosa vi bruciava sopra, producendo quella luce che l’aveva annunciata, ma che non sembrava ferirla in alcun modo.
– Non voglio farvi del male, vi prego fidatevi di me! – esclamò la vecchia.
– Chi sei?! – urlò Talia, spaventata, poi riconobbe i lineamenti della donna, – Tu sei la vecchia pazza che ha tentato di ucciderci!
– Non voglio ucciddervi. Anche se i miei modi e i miei mezzi sono rozzi ed estremi non è il vostro male che voglio. Fidatevi di me, non c’è tempo! –
Padre Solio afferrò Talia per un braccio e la nascose dietro di sé.
– Tu… tu sei un Oscuro! – esclamo infine con voce tremante.
La vecchia annuì gravemente:
– Sì, questa è la mia natura, ma nulla di ciò che pensate su di me e sul mio popolo è reale. Il tempo è agli sgoccioli, rischiate di morire, fidatevi, dovete seguirmi nella Foresta!
Una grande tensione si poteva palpare nell’aria.
– Perché dovremmo fidarci di te?- sibilò Talia.
Gli occhi di Lilyven si rovesciarono all’indietro, strane parole iniziarono ad uscire dalla sua bocca. Sembrava come una continuazione della litania che si era sentita poco prima, ma più intensa, concitata, quasi servisse uno sforzo più grande a pronunciare quelle frasi misteriose. Il corpo addormentato del cavallo di Roen iniziò allora a muoversi. Sembrava avesse ripreso vita, se non fosse che il capo dell’animale ciondolava smorto ancora sotto l’effetto dell’anestetico di cui era impregno il dardo che l’aveva ferito. Il grande quadrupede si tiro in piedi, fece qualche passo ciondolante più in là e si riaccasciò al suolo. Roen era libero.
La vecchia smise di recitare quella strana magia:
– Ve lo ripeto, se non mi ascoltate rischiate tutti di morire tra qualche istante. I Sacerdoti non sono chi pensate che siano, siete in grave pericolo. Non posso aiutarvi se vi ostinate a rimanere fuori dai confini della Foresta. Il loro potere qui è troppo forte, mi troverebbero subito se uscissi io e lì siete sotto la loro influenza. Venite! –
Confusi, i tre viaggiatori si guardarono l’un l’altro. Roen si massaggiava la gamba dolorante, cadendo doveva essersi storto una caviglia. All’improvviso non erano più troppo sicuri dell’ostilità della strana donna che portava il fuoco sulla mano, ma non vi fu il trascorrere di un istante che Talia si prese la testa tra le mani e inginocchiandosi al suolo inziò ad urlare di dolore.
– Aiutala Padre!- esclamò Roen, impotente.
– Io non posso far nulla, non so cosa stia accadendo!- rispose il sacerdote in preda al panico.
Lilyven si appoggiò al tronco dell’albero accanto a lei e si sporse in avanti:
– Entrate nella foresta vi prego! Sono i sacerdoti, la stanno uccidendo, io posso salvarla!-
Zoppicando Roen tirò la giovane per un braccio, mentre Padre Solio la prese per l’altro e, insieme, se la caricarono in spalla e avanzarono verso gli alberi. Talia urlava sempre più forte ed era presa da frenetiche convulsioni finché del suo dolore non rimasero che gemiti e un lieve tremolio del corpo. La adagiarono in uno spazio erboso tra due tronchi imponenti.
– Sciocchi e lenti… – mormorò Lilyven, come a rimproverarli di aver tardato così tanto. Si chinò sulla ragazza, le mise il pollice della mano destra tra gli occhi e iniziò a mormorare la solita litania. Quando si zittì la ragazza non si mosse e non diede segni di vita.
– Ci vorrà più del previsto. Non muovetevi da qui per nessuna ragione. – ordinò perentoria. Lilyven allora mise entrambe le mani a coppa sulle orecchie di Talia, le sollevò il capo e soffiò dolcemente il suo fiato caldo tra le labbra della giovane, poi, senza più forze si accasciò accanto a lei.
Passarono i minuti, che si trasformarono in ore. Fu solo alle prime luci dell’alba che entrambe le donne sbatterono le palpebre e si risvegliarono, con sommo stupore e gioia degli altri due compagni. Roen e Padre Solio abbracciarono Talia con un impeto che stupì loro stessi.
– Sei stata tu a salvarmi, vero? – chiese la giovane.
Lilyven annuì, appoggiata al tronco del grande olmo che le stava dietro. Era stremata.
-Perché l’hai fatto? – continuò Talia.
– Perché tu sei un caso unico. – iniziò la vecchia, – non pensavo i sacerdoti avrebbero mai osato tanto, ma l’hanno fatto e questo potrebbe essere la salvezza del mio popolo.-
Padre Solio intervenne acido: – Cosa centrano i sacerdoti in tutto questo? E’ un’accusa quella che leggo tra le tue parole? –
La vecchia annuì ancora e fissò con arroganza i suoi occhi in quelli del sacerdote.
– Come osi, tu, dire questo? – rispose infatti.
– Vi ho salvati tutti, penso di avere il diritto di raccontare la mia parte senza che venga considerata menzogna. – rispose placida la vecchia.
– E sia. – disse Talia, zittendo con lo sguardo il sacerdote, ma rimanendo sul chi va là.
– Sede tutti, non sarà breve. – Iniziò Lilyven – Molti secoli or sono il Mondo Conosciuto era popolato da un antico popolo che viveva e prosperava grazie alla comunione con la natura. Certo traevamo beneficio dai suoi prodotti, ma non ne abusavamo; si chiamava Ayerae Beiur, che nell’antica lingua significa Primi Abitanti, perché non vi erano tracce di alcun popolo venuto prima.
– Un giorno però, da Sud Est giunse un altro popolo, I Nomadi Veloci. Erano uomini, scaltri e intelligenti, abituati a viaggiare in continuazione. I Primi Abitanti non avevano mai avuto a che fare con quella razza prima, ma non vi furono attriti, erano in grado di coesistere sulla stessa terra e si scambiarono i reciproci saperi; fu così che i Nomadi Veloci appresero della vita sedentaria e decisero di rimanere. Ma aumentarono sempre più; sempre più numerosi provenivano dalle loro terre lontane e si installavano abbandonando la loro vita nomade. Il problema della razza umana è l’avidità. Così numerosi non erano più in grado di condividere tra loro, sembrava come se la paura di rimanere senza il necessario per vivere avesse ottenebrato la loro mente.
– Iniziarono a lottare e, infine, trovarono il capro espiatorio nel diverso da loro: i Primi Abitanti. L’errore del popolo indigeno era stato quello di aver condiviso poteri troppo grandi con creature che non erano in grado di saziarsi mai. Fu così che gli uomini, forti del legame con la natura che era stato insegnato loro dai Primi Abitanti, iniziarono una feroce guerra che durò per molte molte decadi. Grandi e incalcolabili furono gli sconvolgimenti naturali, fino a ché la nostra bella terra si ribellò e un grande cataclisma colpì il centro del nostro mondo.
– Dove ora sorge la Foresta di Mezzo vi era un tempo una distesa d’acqua che nutriva e dava vita a tutte le piante e le creature conosciute. Avendo abusato dei poteri conquistati, i Primi Abitanti e gli Uomini avevano causato un forte terremoto che aprì la terra e fece sprofondare tutta l’acqua. Quella era l’unica fonte di vita di tutto il continente.
– Decimati, i Primi Uomini persero la guerra e furono relegati a condizione di schiavi. Furono privati del loro sapere e costretti nell’ignoranza per le decadi a venire. Gli uomini assunsero il controllo e costrinsero il popolo sconfitto ad estrarre acqua dal sottosuolo e convogliarla verso le terre del Mondo Conosciuto, in modo da mantenere la vita e, con essa, il proprio stato di supremazia. Attorno all’area in cui vi era la grande distesa d’acqua crebbe una foresta, sempre più fitta e sempre più rigogliosa. Per paura, gli uomini relegarono con potenti magie i Primi Abitanti all’interno dei confini della foresta, in modo da poter disporre di loro per l’acqua e in modo da poter nascondere la loro stessa esistenza.
– Fu così che i Primi Abitanti divennero una leggenda che infestava gli oscuri antri della foresta e, da questo, presero il nome di Oscuri. Gli uomini si resero conto del grande rischio che correvano nel lasciare gli Oscuri in vita, eppure non potevano sterminarli perché qualcuno doveva estrarre l’acqua dal sottosuolo. Allora idearono la menzogna della Sacra Tetrade, con cui incatenavano la mente degli uomini stessi a credere ciecamente in un potere superiore da non mettere mai in discussione.
– I Primi Abitanti persero la memoria del loro popolo, ma lo stesso fecero gli uomini. Tutti i documenti risalenti a quell’epoca vennero distrutti e il passato venne riformulato. Ora i Sacerdoti custodiscono questo grave segreto e vigilano sulla vita artificiosa che hanno creato, ma sono gli unici a conoscenza della verità.
Un grave silenzio calò tra i presenti. Padre Solio spostava scomodamente il peso del proprio corpo in ogni direzione:
– Come possiamo credere a tali parole? Come fai tu a sapere tutto questo se, come dici, hanno mantenuto il tuo popolo nell’ignoranza?
Lilyven lo fissò negli occhi e con fermezza rispose:
– Io c’ero. – fece una pausa, – Non ero che una ragazzina, ma sono una delle poche rimaste che ricorda proprio perché l’ha vissuto. Agli occhi del mio stesso popolo sono una vecchia pazza che racconta di una vita mai esistita. – si girò verso Talia, – So come ci si sente a non aver un posto nel mondo. –
La giovane era confusa, non sapeva ancora se credere o no a quella strana donna che aveva davanti.
– Talia cosa c’entra in tutto questo? – intervenne Roen.
– Talia non è Talia e tu questo lo sai. – mormorò la vecchia di risposta, – Tu l’hai riconosciuta, quella notte, fuori dalla locanda, quando li hai liberati da me, vero? L’ho letto sulla tua faccia che l’hai riconosciuta subito. –
la giovane si girò di scatto verso Roen: – Cosa vuol dire questo? –
il ragazzo la guardò e annuì: – Sì, è vero. Il motivo per cui io e Flinn siamo venuti a cercarvi è che questa donna stava passando davanti alla locanda in cui eravamo a scommettere; il tuo viso si è scoperto e… Il fatto è che tu sei la goccia d’acqua di una mia antenata. Ho visto il suo ritratto alla corte di Narya migliaia di volte. Lo conosco a memoria perché è uno dei miei quadri preferiti e tu sei identica. Anzi, no, non sei identica, tu sei la ragazza di quel quadro. E hai il portamento di una regale, lo stesso modo di fare di una donna di palazzo. Non sembri un’orfana trovatella. Non ne ho mai fatto parola perché mi sembrava di essere pazzo, ma ammetto che sia questo il dettaglio che più di tutto mi ha spinto a seguirvi e aiutarvi. Non mi capacitavo di come fosse possibile… –
Lilyven annuì, come se le parole di Roen fossero una spiegazione abbastanza logica da bastare a tutti. Padre Solio scosse la testa, ancora più confuso di Talia.
– Spiegateci cosa significa tutto ciò. – esclamò esasperato il sacerdote.
– Cosa ti hanno detto i sacerdoti, ragazza? Che sei una semidea che salverà il mondo? O magari che sei la mano destra di Isil? – domandò la vecchia, – Ti hanno fatto credere di essere destinata a compiere la missione dei Grandi Quattro, non è vero? Lo immaginavo. Tu non sei niente di tutto ciò. –
-Dimmi chi sono. – intimò Talia, il cuore che le batteva sempre più forte. La vecchia riprese a spiegare:
– I Sacerdoti hanno relegato gli Oscuri nella Foresta di Mezzo, costruendo potenti magie per recintarci qui e per rendere il resto del Mondo Conosciuto un posto in cui non possiamo legare con la natura, che rappresenta la fonte dei nostri stessi poteri. Qui dentro siamo abbastanza liberi, ma non possiamo uscire e fuori dalla foresta siamo impotenti. All’incirca una decade fa, con un amico, sono riuscita a trovare un modo per evadere con pochi altri. Il nostro scopo era nasconderci e far uscire altri per trovare un modo definitivo di liberare il nostro popolo. Facevamo progressi, ma i sacerdoti ci hanno scoperti. Hanno cominciato a braccarci in ogni modo, fino a che non hanno scelto te.
– Tu, ragazza, non sei che un loro esperimento. Sembri tanto simile all’antenata di questo giovane perché tu sei quest’antenata. Tu sei il suo corpo. Il corpo dei reali, quando viene seppellito, viene protetto con alcune magie che ne preservano le sembianze nel tempo; sono tecniche che gli uomini appresero dai Primi Abitanti. Capisci che risvegliare un morto il cui corpo è stato preservato risulta molto più efficace che risvegliare uno scheletro in decomposizione. Tu eri morta, Talia. Ti hanno risvegliata con un’antica magia estremamente potente e ti hanno plagiata in modo da poterti usare per uccidere chiunque tra gli Oscuri riuscisse ad evadere dalla Foresta di Mezzo. Tu, per i sacerdoti, non sei che una di una lunga serie di cavie sfruttate a questo scopo. Prima di te hanno provato molti altri modi, che si fanno via via più efficaci, ma anche più azzardati.
– Risvegliare i morti scuote poteri che nessuno, neanche tra i Primi Abitanti, ha mai conosciuto. Ora sei in pericolo perché sanno che non sta funzionando, che la loro arma fa fatica a collaborare. Hai sollevato troppe domande e per questo hanno tentato di ucciderti.-
Talia boccheggiava in cerca d’aria. Le spiegazioni che tanto aveva agognato le erano state date, ma non si erano rivelate un sollievo, come aveva sperato. Più andava a fondo e più si sentiva legata in un destino che non avrebbe mai voluto. Con disperazione guardò prima i suoi amici e poi Lilyven; quello che voleva in quel momento non era una spiegazione, ma speranza.
– Non posso prometterti speranza, ma posso proporti un aiuto. Il mio in cambio del vostro. – disse la vecchia. – Aiutateci a divenire un popolo libero e io farò quanto in mio potere pur di aiutarti a ritrovare una via d’uscita da questa vita che ti è stata imposta.-
Due grosse lacrime bagnarono il volto della giovane; si sentiva dilaniata, usata e violata come non si sarebbe mai aspettata di sentirsi.
Padre Solio le circondò le spalle con il suo grosso braccio e mormorò: – Figliola, ritroverai te stessa. Ce la faremo, vedrai. In un modo o nell’altro siamo insieme in questo. – non sapeva bene neanche lui quanto credere alle proprie parole, ma si rifiutava di abbandonare quella giovane al destino cui era stata condannata. In tutta una vita spesa rincorrendo un ideale traballante, aveva trovato in quella ragazza e amica un legame così prezioso che l’avrebbe spinto ben oltre le sue stesse paure.
Anche Roen si avvicinò e le mise una mano sul braccio; un po’ insicuro anche lui le sorrise: – Riprenderemo la tua vita, sistemeremo le cose, vedrai. Anche io sono con te. –
Lilyven sorrise. Da molti secoli non sentiva questa flebile speranza che si stava ora spandendo per le sue vene come fuoco caldo in una notte d’inverno; guardò Talia negli occhi e disse:
– E questo non è che l’inizio.-
June 30, 2016
1.000 cuori per Remo Brindisi: partecipate con il vostro! + intervista a Moony
(non perdete la breve intervista a Moony, in fondo all’articolo!)
Vi ricordo che il 9 luglio la nostra amica ed artista Linda Brindisi, nipote del grande maestro Remo Brindisi, terrà il suo Assalto di Colore a Lido di Spina, presso la Casa Museo Remo Brindisi. L’evento è completamente gratuito, da lei organizzato e finanziato senza il supporto di nessun ente pubblico (nonostante Casa Museo sia stata donata dal Maestro allo Stato italiano).
Il pubblico -sia adulti che ragazzi che bambini- potrà partecipare attivamente dipingendo, a proprio piacere, uno o più dei 1000 cuori di carta messi a disposizione, assieme alle pitture, da Linda stessa. Ogni partecipante potrà poi conservare il cuore in ricordo di una giornata unica e importante per Linda e per l’Italia intera. Si tratta infatti del ventesimo anniversario dalla morte di Remo Brindisi e l’evento in programma sarà proprio dedicato a ricordare il Maestro e la sua arte.
Linda spiega:
“Il mio intento, in questo caso, è di far capire che non per forza gli artisti si muovono sempre a pagamento, alle volte fare una cosa per l’amore di farla e farla bene dovrebbe bastare. Zio mi ha sempre insegnato che l’arte deve essere aperta a tutti, condivisa e il più possibile libera, purtroppo non è così soprattutto oggi.
Il 2016 è il Ventennale dalla morte del Maestro Remo Brindisi, pittore del ‘900, sepolto nel giardino di Casa Museo Remo Brindisi. I 1.000 CUORI X REMO BRINDISI sono dedicati a lui per ricordarlo in questa particolare ricorrenza. Brindisi dopo la morte, nel luglio del 1996, donò allo Stato Casa Museo Alternativo Remo Brindisi con all’interno l’intera collezione e patrimonio artistico e culturale. Lo Stato dovrebbe porre maggiore attenzione su questo immenso patrimonio e collezione unica in Italia.”
Una quarantina di cuori, precedentemente dipinti a Milano da Linda e amici di Brindisi (quello di Moony è nell’immagine qui sopra) -che con il loro cuore vogliono dedicargli un ricordo e un saluto- verranno installati sul luogo dell’evento.
Sarà quindi anche occasione per visitare il Museo e conoscere la vita di Brindisi, oltre ad avere modo di osservare le opere lì esposte.
ASSALTO DI COLORE di Linda Brindisi
c/o Casa Museo Remo Brindisi – Lido di Spina (FE)
Via Nicola Pisano, 51
GIORNO 9 Luglio 2016: performance pubblica GRATUITA
ORARIO: dalle 17.00 fino a sera, in giardino
In caso di mal tempo si svilupperà in interno/taverna
Durante l’evento le fotografie saranno a cura di Davide Folegatti e il video verrà realizzato da Gianluca Caprara.
Piccola intervista a Moony, in occasione della partecipazione all’evento:
1. Perché hai accettato di realizzare il ❤️?
Linda è una donna geniale. L’arte le appartiene. E’ la sua ragione di vita. per questo ho accettato di dipingere un Cuore per lei e in memoria di suo zio Remo Brindisi. Un artista che merita di essere ricordato con vivacità ed estro.
2. Cosa ne pensi dell’iniziativa?
L’iniziativa che ha ideato Linda è una piccola-grande manifestazione per dimostrare che l’arte vive. E’ vita. E’ ribellione e regola. E’ il principio che segna quella linea sottile che unisce intelligenza ed emozione. I Cuori pulsano solo se si comprende il valore stesso dell’arte.
3. L’arte deve essere finanziata?
L’arte va finanziata, tutelata, nutrita, valorizzata. Sempre! La cultura di un Paese si misura anche su questo. E per prima cosa si deve puntare sui giovani artisti come Linda che con tenacia e dedizione ha intrapreso questa strada. La politica, quella seria, quella che fa gli interessi dei cittadini, ha l’obbligo civile e morale di finanziare attività culturali. Il ritorno sarà sempre positivo.
June 20, 2016
L’incompiuta di Giovanna Ruffatto – Secondo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online
L’incompiuta
di Giovanna Ruffatto
Corso Adulti – Secondo Livello
Il sole abbacinava, sbattendomi in faccia i suoi riflessi dai vetri delle auto parcheggiate in fila indiana.
Ero appena uscita dal motel. Avevo dimenticato gli occhiali fotocromatici.
Camminavamo una dietro l’altro, non ci tenevamo neppure per mano. Luigi non voleva, a me non importava.
Luigi a testa bassa, io dietro, che facevo i conti sottovoce con i miei sensi di colpa.
Mi fermai un attimo. La scarpa slacciata. Sarei potuta inciampare. Non dovevo inciampare proprio li.
Il mio cellulare si mise a squillare ,inatteso.Un nome verde sul display:” MAMMA”.
“Ma’, scusa non posso parlare adesso, sono al lavoro”, dissi fingendo un tono noncurante.
“Senti Ceci che ne diresti di andare noi due sole all’Incompiuta, oggi? La dottoressa mi ha detto che ho bisogno di sole” tossisce, le ho detto mille volte che fuma troppo.
“No, mamma oggi no. Vengo domani e ne parliamo, dai”.
” Ma cucciola io ho bisogno di mare, proprio oggi”, continuo’.
Dovevo chiudere. “Mamma, ti vengo a trovare domani. Ciao”. Clic.
Un attimo, disnea. Stava arrivando. Dovevo fermarmi, come se non stesse succedendo niente.
Le pasticche erano in borsa. Avrei dovuto tenerne una in tasca come quando andavo al mare in bicicletta, d’estate, lungo l’Incompiuta, con Gianni e nostro figlio Alberto.
Anche mia madre da piccola mi ci portava sempre.
Oggi no, non ci saremmo potute andare.
Luigi era già andato avanti. Non se ne era accorto.
Gli uomini non si accorgono mai di nulla. Neanche quelli che credono di essere più intelligenti.
Un attimo, la mano nella tasca interna come una ladra di professione . La sicurezza di gesti ripetuti da quando avevo quindici anni. Ora me ne mancavano tre ai quaranta. Mi consideravo un’esperta.
Un attimo e la pasticca scivolo’ sotto la lingua. Anche stavolta mi sarei salvata.
Tirai su la testa, mentre Luigi adesso si era voltato a guardarmi. Sorrideva. Com’è bello quando sorride, pensai.
Un attimo e l’auto accanto a cui mi era accovacciata diventò familiare. Anche senza guardare la targa la riconobbi subito.
Non può essere, pensai.
Non qui,non adesso.
Maledizione, che cosa ci fa qui, davanti a questo maledetto motel la macchina di Gianni?
A quest’ora mio marito sarebbe dovuto essere in ufficio.
Come me.
Devo chiamare Luigi, ma non riesco. Lo raggiungo di corsa.Gli tiro la giacca. “Ceci ma che fai? Dobbiamo andare. Abbiamo fatto tardi”. Strizza gli occhi, non capisco se per la luce o per ammiccarmi.
Ingoio un grumo di saliva e di pasticca.
“No, io resto.”dico.
“Ma che fai? Tu tremi. Santo Dio non ti mettere a fare storie. Non è il momento. Dobbiamo andare via”.
Ingoio il reflusso come un ruminante.
“Io resto. Quella è la macchina di mio marito. Doveva essere al lavoro stamattina”.
“Tu sei pazza. Anche io e te dovevamo essere in ufficio stamattina. Ma tu guarda che razza di casino. “.
“Io resto. Me la vedrò da sola. Tu vai. Gli dirò che l’ho seguito perché avevo dei sospetti. Non penserà mai che noi. Che io…”.
Guardo Luigi che si allontana, mentre accellera il passo, mentre scuote il capo.
“Ti chiamo dopo, non mi fare preoccupare”, sento l’eco delle sue parole vuote già in lontananza.
Non sembra più lo stesso di un’ora fa. Neppure quello di quando ci siamo rincontrati, per caso, in ospedale.
Strana cosa, il destino. Mescola le carte e si prende gioco di noi, quasi sempre.
O ci mette alla prova. Per giocare lui.
Luigi lo rincontrai dopo quindici anni, o così ci sembrò dal conto, che facemmo ridendo.
Mi congedai, non dopo che ci fummo scambiati notizie riguardo la nostra vita trascorsa da allora. Io sapevo che lui aveva lasciato la mia collega, sua fidanzata storica. Io avevo un marito ed un figlio. Anche lui si era sposato e aveva due figli. Chi lo avrebbe detto.
Da quel giorno, ci incontrammo di sfuggita durante i suoi giro visita con la caposala, più spesso riuscivamo a parlarci durante le visite nell’ambulatorio, le volte che vi venivo assegnata.
Lui cominciò a chiedere della mia vita, a farmi complimenti, che cercavo di glissare trasudando noncuranza. Sentivo aria di guai e non mi piaceva.
Poi con una scusa mi chiese il numero di telefono e cominciò a chiamarmi nei turni del pomeriggio. Ed i pomeriggi passavano più in fretta, ed i compiti parevano più brevi, il lavoro più veloce, la mia vita più ebbra.
Lui avrebbe voluto che lo facessimo nello studio alla sera, dopo che se n’erano andati tutti gli altri. Ma io non avevo ancora deciso. E poi volevo che fosse un evento da ricordare.
Allora per la prima volta Luigi si fece prestare la casa da un amico . Era il giorno del suo compleanno. E mi aveva telefonato. Prendere o lasciare.
Ma che scherzi? Un figo pazzesco, con due occhi azzurri che ti si incollano addosso e non li scordi più. “Va bene” avevo detto, con una sicurezza che non mi apparteneva.
Fino ad allora avevo sempre tergiversato. “Ora e posto” dissi, invece.
Camminai lungo la piccola via pedonale, sentendomi una star , che la Walk of Fame, mi faceva un baffo:tacco alto, jeans, maglietta fina,tachicardia, cardiopalmo, i soliti.
Ingoiai una pasticca e suonai al citofono stabilito, seconda scala a destra, questo è il cammino, ascensore e la porta che si apriva con uno scatto secco.
Luigi mi prese per mano, tremava.
“Ciao”,non riuscivo a parlare mentre mi accompagnava a vedere il loft e il terrazzo sulla città , splendida . Con il Duomo, la collina,il fiume. Era tutto a posto.
Cominciammo a baciarci, mentre non mi lasciava le mani e poi fu tutto un turbinio di corpi, umori, saliva.
Lui perse l’orologio, io il lume della ragione, mentre mi portava in braccio sul divano, bianco, immacolato, intonso.
Ho perso il senno e la testa nello stesso istante, mentre quel corpo desiderato e non da mesi, ed il mio si fondevano in un tutt’uno, nonostante i movimenti, tra i movimenti , le bocche, il cercarsi ed il sentire di essersi trovati, in una confusione di sensi e l’ imbarazzo di emozioni non più provate da tempo. Troppo.
Dopo rimanemmo abbracciati in confusione, in una quietezza che non conoscevo. Mi sembrava di aver finalmente ritrovato me. Quella Cecilia giovane e spensierata, che poteva pensare solo al sesso.
Mi rivestii piano, senza più imbarazzo.
Un piccolo asciugamano dell’amico ad asciugare gli umori, un bacio veloce, l’amico che stava tornando, l’appuntamento da lì a breve, il percorso a ritroso, dove non sarei mai stata più la stessa, neanche lungo la stessa Walk, neanche più a casa mia.
E poi le telefonate per tutto il pomeriggio: come stai, stai bene, come ti senti.
Mi sento come da quindicenne, quando lo feci per la prima volta, lungo le scale che dal pianerottolo scendevano in cantina, dietro una porta chiusa a chiave.
Ad ansimare piano, ad ascoltare i rumori che arrivano lontani dall’androne, a sopportare un dolore lungo e dolce.
Ecco come mi sento.
Peggio di lui che alla fine mi ha detto: ” Quando sono con te non capisco più niente”.
Non avevo capito che mentiva. O ricacciai quella sensazione pesante di pietra, lontano. Il più lontano possibile.
Lo guardo mentre sgomma, mentre inforca nervoso gli occhiali scuri, gia voltato verso l’uscita del parcheggio.
L’ho sempre saputo che gli uomini sono dei vigliacchi.
Mio padre tradiva mia madre, mio nonno mia nonna.
Devo tornare a casa. Non potrei lavorare.
Devo pensare. Anzi fermare i pensieri.Un’altra pasticca scivola in bocca mentre cerco il telefono.
Digitare il numero . Fare in fretta. Tornare a casa.
Mentre il taxi scivola lungo la tangenziale, mi fisso sul grigio delle onde del metallo del guard rail.
Io e Gianni siamo una coppia normale, con quindici anni di convivenza, una madre, un figlio, una suocera, due cognati, qualche altro parente sulle spalle.
Siamo riusciti a mediare su tutto: mia madre malata, lui che non si interessa ma a cui sembra importare solo andare dalla sua,il ragazzino a cui badare, la casa da sistemare.
Tutto ,il più delle volte da sola.
Quando è che era iniziato il declino non lo ricordavo più.
Eravamo stati così entusiasti di incontrarci, dopo le nostre esperienze fallimentari passate.
E allora era stato facile parlare di progetti, tre bambini ed un gatto ed un giardino, per cominciare.
Era stato facile dormire assieme dopo aver fatto all’amore e non staccarsi mai.
E poi era stato facile fare un bambino, vero.
Sembrava tutto facile, allora, e noi due saremmo stati invincibili.
E allora com’e che adesso, anziché parlarsi sottovoce abbracciati sul divano, nella penombra di una camera e cucina , si urlavano addosso da un piano all’altro?
Dove era iniziata l’intolleranza velenosa ed insidiosa come una biscia al sole?
E la perdita della pazienza? E poi il cominciare a fare passare tutto perché c’era il bambino e le famiglie non si disfano?
E la goccia piccola, unica, che aveva fatto traboccare il vaso, qual’era stata?
La verità è che non trovava più tempo per se’. Correva dal parrucchiere quando capitava, usciva quando poteva, dopo aver preparato la cena per tutti.
Sai cosa significa non ricordare più chi sei?
Tranne che per le crisi. Quelle arrivavano sempre, inaspettate, silenziose. Chissà da dove.
Solo Gianni le conosceva quasi quanto lei. Ma ormai faceva finta di niente, se usciva all’improvviso da un supermercato o da un cinema. Lo aspettava all’uscita e per tutti e due era diventato normale.
Gianni però aveva smesso di farglieli i complimenti, ne’la faceva piu’sentire bella com’era ,quando si erano conosciuti.
Allora , proprio allora e’ apparso Luigi. Non prima.
E allora ha ricominciato a mangiare, a rimettere i suoi vecchi, bei vestiti e comprarne di nuovi, a sentirsi bene dentro.
E si guardava allo specchio con soddisfazione, e non le importava più se Gianni non la guardava, perché era bella e basta ed il sugo se lo facessero da soli, perche sai che c’è? Mi compro un nuovo paio di scarpe e sembro pure più alta. Anzi sono piu’alta e basta.
E da li’ come se niente fosse si era’ fatto presto passare da uno squillo ad un’ora al telefono , da un caffè ad un albergo a ore, che fa pure un po’ squallido ma pareva una reggia al confronto della casa di sua suocera, dove non ci sarebbe entrata più, se solo non ci fosse stato Alberto, se solo avesse potuto scegliere.
Perché li dentro, accanto ad un uomo che potrebbe essere stato chiunque, riesciva a trovare quella se che aveva perso, tra la polvere di casa e le ciabatte e le tute sformate e le russate che non la facevan piu’ dormire la notte.
E tutta quella noia in cambio dell’ l’adrenalina dei preparativi, i tentativi goffi di coprir le occhiaie, il provare a ritrovare chi era.
Perché insieme a qualcun altro, cerchiamo sempre i noi stessi che abbiamo perduto.
Qualche donna ha il coraggio di soprassedere: si compra tre paia di scarpe,una borsetta, e ridipinge il soffitto di tutta la casa o di qualche stanza mentre copula per dovere coniugale.
Ma Ceci non era mai stata coraggiosa.
Qualche donna, e son debolezze, ingoia pasticche e cede.
All’illusione che con un altro potrebbe essere stata una vita migliore.
La differenza, enorme, decisiva, la farà Gianni stasera, quando tornerà a casa. Non Alberto e neanche sua madre ammalata.
Ma se Gianni sarà ancora capace di alzare lo sguardo dubbioso quando la troverà nel letto. E la guarderà E a si avvicinerà per carezzarne i capelli, come faceva per ore, quando si erano conosciuti, mentre le chiedeva cosa c’era che non andava.
Senza stancarsi mai.
Digito un messaggio veloce a Luigi.
“Penso sia meglio che non ci vediamo più. Devo risolvere una questione importante con mio marito”.
Nessun messaggio in arrivo. Non sarebbe arrivato comunque.
Era uno di quei momenti della vita dove devi fare un salto, ben fatto, su di una gamba sola.
Come quando da piccola sul marciapiede di via Quintinetto giocavo alla settimana.
O saltellavo come si doveva fino al fondo, mantenendo l’equilibrio fin dove ero riuscita a lanciare Ia pietra, lontano, il più lontano possibile.
O dovevo ricominciare da capo.
Il giorno dopo andai a trovare mia madre.
Estrella aprì il portoncino d’ingresso, dopo che ebbi suonato due volte ,a lungo.Era il nostro segnale convenzionale.
Lo usavamo solo noi figli: io e Silvano .E per motivi importanti. Era una regola tassativa.
Mia madre mi aspettava sulla porta, con il chiavistello tirato, aveva la fissa che le spie che segregavano Aldo l’avrebbero rapita.
Era in vestaglia, verde, macchiata di caffè, la sigaretta da cui pendeva la cenere, praticamente spenta.
“Scusa Ceci, era una cosa importante. Altrimenti non ti avrei disturbata, lo sai”, sbiascicò.
“Lo so, ma’. Non c’è problema, lo sai” risposi con gli occhi bassi.
Estrella la guardava con quegli occhi verdi, esoftalmici, come quelli di una rana che era appena stata svegliata, per sbaglio.
Sfilò piano il chiavistello.” Hai controllato che per le scale non ci sia nessuno? Sai, mi spiano. Suonano e grattano dei segni sulla porta.
Ma io li frego, quelli, non esco mai”.
E rise mostrando quei denti gialli a forza di nicotina, una volta bianchissimi e splendidi.
Cecilia se la ricordava quando era maestra sua madre.
Allora li svegliava a lei e Silvano sempre in orario. Mentre era già dalle sei che si preparava. Caffè , sigaretta, malox e poi ogni mattina un vestito diverso.
E poi sempre indosso la collana, abbinata agli anelli e agli orecchini.
Alternava giornate coi capelli biondi sciolti e ondulati sulle spalle a capigliture austere che si era fatta mettere in posa dalla signora Martinetto, che acconciava in casa a tutte le ore, per arrotondare, il pomeriggio prima.
Ed Estrella usciva per tornare a casa con due riccioli accanto alle orecchie che Cecilia non aveva mai visto a nessun’altra.
Era una donna austera, i cui tacchi risuonavano sul marmo dell’entrata, tra un urlo e l’altro per farli alzare.
Poi anche loro ,dopo essersi vestiti in fretta e furia e bevuto il the, dovevano partecipare al controllo delle sigarette accese, che era l’unica cosa che pareva la terrorizzasse, allora.
Allora lei e Silvano passavano in ciascuna stanza a controllare dove ogni oggetto cavo era diventato un portacenere. Un contenitore da someiller sul comodino, la tazzina del caffè, il posacenere di vetro di Murano.
Si erano divisi la casa per far presto. A lei toccava cucina, soggiorno e bagno.
A lui entrata e camera da letto.
Ma quando eran pronti sull’uscio, a Estrella prendeva la smania di controllar le luci, poi di nuovo le sigarette.
Alcune volte il gas.
Ora a Cecilia sua madre faceva pena. Un misto di tenerezza e pena.
Attraversò l’entrata seguendola tra il puzzo che arrivava dal bagno, il puzzo dei mozziconi spenti nei piatti accanto alle bucce delle arance.
“Sai che così profumano la casa? Non senti anche tu?” disse, mentre la vedeva guardare la tavola.
A Cecilia mancava l’aria, tachicardia, vertigine, per poco non cadde sul divano, dove poggio’ la borsa.
“Mamma devi cambiare aria” disse .”Che dici, Ceci? Non me ne andrò mai, quelli non aspettano altro che prendermi l’oro”.
“Mamma bisogna aprire le persiane e le finestre, non si respira qui”.
“No”. Estrella urla.
Insomma non riesce a respirare.Ed eccola. Ti prego non qui, non da lei, che non sa nulla.
Vede la bottiglia mezza vuota appoggiata sul fornello.
Da quando Aldo l’aveva lasciata per una ragazza più giovane di vent’anni “Vent’anni, capisci?” le aveva detto piangendo, non si era più ripresa. Beveva cognac a tutte le ore, poco diceva.”Mi fa dormire meglio”.
Cecilia va verso la finestra piccola della cucina, ruota la maniglia, apre, un respiro lungo, un altro. Si calma.
Guarda verso il cortile, gli altri condomini appena la scorgono si ritraggono. Si sente un’appestata. Di più, figlia di un’appestata che non riesce a far più ragionare.
L’alternativa sarebbe stato il ricovero coatto, ma sua madre non usciva e non faceva male a nessuno. Ogni tanto la chiamavano per degli scarafaggi sul pianerottolo ma Estrella non li faceva entrare. E allora poi Cecilia assicurava ai condomini che ci avrebbe pensato lei alla sanificazione.
Portava sua madre in camera con una scusa , mentre il deblatizzatore, suo amico, procedeva in fretta mentre Estrella non doveva accorgersene, se no erano guai.
Ogni tanto riusciva a convincerla a farle fare le pulizie, almeno quelle grosse, la lasciava a fumare in camera e procedeva svelta.
Border line era stata la diagnosi, al bordo del limite. “Si può curare con la terapia adeguata ” le aveva assicurato la psichiatra.
Ma Estrella le pastiglie le nascondeva, Cecilia ne aveva trovata qualcuna anche nelle serrature, anziché inghiottirle.
E Cecilia a sua madre proprio non ce la vedeva in clinica, con le matte. In fondo lei sembrava stare abbastanza bene, a parte il non uscire e l’aver litigato prima con tutti i negozianti. Erano sempre motivi futili con cui cominciava, che poi diventavano irreparabili.
Come tutti i rapporti umani della sua vita.
Tranne che con lei, che era sua figlia.
Cecilia aveva chiesto se questa cosa, non sapeva come chiamarla, perché malattia vera e propria non le pareva, fosse ereditaria.
No, perché magari invecchiando se la sarebbe ritrovata appiccicata addosso, all’improvviso, come una mosca sulla carta moschicida.
E invece no, la psichiatra per fortuna aveva parlato solo di familiarità, e visto che c’era solo sua madre in famiglia, insomma le possibilità sarebbero state minime, ecco.
“Mamma, come stai?” le chiese.” Mamma? “. Ma lei era già sul balcone ad occuparsi dei fiori.
“Hai visto che belle gerbere che mi son cresciute? Guarda Ceci , puoi far m’ama non m’ama”. E poi ancora:”Guarda i narcisi, ho piantato i tulipani, non mi credevi quando ti dicevo che non sarebbero seccati i bulbi quest’inverno”.
Faceva sempre così, quando non aveva voglia di stare ad ascoltare.
O parlava di Aldo e della polizia che lo aveva rapito perché aveva scoperto essere una spia :” Ed è costretto, sai a vivere con quel ragazzetta, sai? Non lo lasciano tornare a casa. Se no tornerebbe subito da me , sai?”. E giù a piangere di un pianto sordo, mentre si dondolava piano, inconsolabile.
Che ne avrebbe fatto di sua madre? Di quella madre che le era sempre sembrata una bambina?
Silvano andava poco, un po’ si vergognava.
Gianni anche.
Luigi non sapeva neanche che lei avesse ancora la madre ,forse non gliene aveva neanche mai parlato.
Non si parla di patemi mentre si fa solo sesso .
Eppure questo tarlo della familiarità qualche volta la stringeva, come un paio di tenaglie.
“Mamma vieni in camera. Ti accendo la filo diffusione che ti piace tanto, io intanto rassetto”, disse calma.
E sua madre la seguì mentre la teneva per mano, le dita storte e nodose, tra le sue, la camminata lenta e trascurata.
Chiuse la porta.
La lasciò mentre fumava, seduta sul letto.
Per un po’ sarebbe stata tranquilla.
Rassetto’ la tavola, portò i piatti in cucina, prese il detersivo da sotto il lavello. Era appoggiato su carta di giornale ingiallito. Non lo aveva mai visto prima.
1950 Salasso, li 21 giugno.
Tentato suicidio.
La giovane Cecilia B., operaia 40enne, addetta allo stabilimento manifatturiero,
attentava ai suoi giorni, ingoiando pastiglie di sublimato corrosivo.
Fu ricoverata in tempo all’ospedale ma nonostante la lavatura di stomaco non potè scampare alla morte.
Causante: i soliti dispiaceri d’amore.
Cecilia cominciò a vedere tutto intorno roteare, prima piano, poi sempre più velocemente.
Doveva arrivare alla finestra, sarebbe stata ancora una volta salva.
Invece cadde sul tappettino lordo della cucina, accanto al lavabo, tra il frastuono dei piatti che caddero con lei dalle mani e le schegge che le pungevano la faccia.
“Ceci, amore, ci sei?”.
Sua madre aprì la porta della camera da letto.
“ Mamma, si. Aspetta lì, tesoro. Ho aperto la finestra , aspetta un momento”.
Estrella richiude la porta, Cecilia sente il clac secco.
Respira, respira,respira piano.
E mano a mano il lampadario smette di roteare.
Cecilia suda. Lo stesso nome suo.
Cecilia , la madre di sua nonna, morta per tisi.
Le avevano sempre raccontato che la prese nei rifugi, dove scappava con le figlie, durante i bombardamenti in città.
Perché le avevano mentito tutti?
Ora la familiarità aumentava. La possibilità che succedesse anche a lei aumentava.
L’unica possibilità che le rimaneva era credere che la pazzia avesse il carattere recessivo, verde verde giallo giallo, come i piselli di Mendel.
Una possibilità su quattro di scampare alla follia.
Voleva salvarsi. Andò in soggiorno , trovo’ la sua borsa che era rimasta aperta sul divano. La mano scivolo’ nella tasca,inghiotti’ una compressa a secco, un colpo di lingua e non si sarebbe incastrata in gola.
Poi raggiunse sua madre in camera.
Cecilia la salutò.
Alla fine non era riuscita a parlarle come al solito: né dei suoi patimenti, né del segreto che aveva scoperto in cucina, ne’ del viaggio.
I soliti dispiaceri d’amore , appunto.
Quando Estrella aveva conosciuto Aldo, allora si che le era sembrata una donna diversa. Aveva raccontato a Cecilia con entusiasmo del loro incontro segnato dal destino, di come lui subito era voluto venire ad abitare da lei, di quella nuova vita sessuale :” Che mi pare di essere tornata ragazzina, che tu non puoi capire, sei così giovane Cecilia. E’giusto che sia cosi”.
Allora gli occhi verdi le brillavano, questo se lo ricordava.
Ora, anche a Cecilia le pareva un po’di più di capire che cosa aveva voluto dirle sua madre allora. Ora, che non se ne poteva più parlare.
Li incontrava mentre lei andava dalla nonna, per darle cena, quando sulla tangenziale un’auto sportiva le zigzagava innanzi. Prima li malediceva, poi quando le si affiancavano, Cecilia riconosceva la madre nel suo foulard colorato, con gli occhiali scuri che le faceva segno di accostare.
“Cecilia amore della mamma , ciao”. Rideva mentre apriva la portiera ” Ma’ , ma che fai?Non dovevi aspettarmi dalla nonna?” Cecilia rispondeva spazientita.
“Hai ragione Ceci, ma io e Aldo andiamo a cena. Sai, mi porta in un posto speciale” glielo sussurrava all’orecchio, mentre abbassava la voce in modo confidenziale.” Alla nonna ci pensi tu cara, no, che lo fai anche per lavoro? Adesso noi andiamo tesoro eh? Ciao ciao” ed Estrella era già saltata sulla macchina sportiva da cui Aldo non era neppure sceso. L’aveva salutata dal finestrino con la mano.
Che ne avrebbe fatto di quella madre, che le era sempre sembrata una bambina a cui badare?
Estrella non l’accompagnò neppure alla porta, però sorrideva. Stranamente.
Mentre stranamente teneva incurvato il viso come faceva da bambina quando si metteva in posa per le foto di famiglia.
Mentre Cecilia varco’ l’uscio le parve di sentire sua madre che diceva:”Eppure si muore per amore”.
Ma non ne era sicura.
Il chiavistello venne tirato.
Stava già sigillando l’entrata.
Due giorni dopo era una mattinata autunnale, di quelle dove l’odore dell’umido ti entra dentro.
Mi hanno telefonato dalla portineria del tuo condominio, mamma.
“Un odore strano”, disse la portinaia annoiata ” Se ne lamentano anche i pazienti del dottore, mentre aspettano, almeno da un paio di giorni”.
Poi continuo’:” Non capisco perché non si faccia vedere dal dottore, sua madre, è così bravo. E lei sembra così malata”, finì mentre me la immaginavo smaltarsi le unghie, con il telefono trattenuto tra l’orecchio e la spalla.
E in effetti mia madre era tanto malata. Più di quando lei ed io ci aspettassimo che capitasse.
Anzi la malattia, ultimamente era diventata indomabile.
Ma quanto quanto ti sei sforzata di non farmi scorgere, neppure per sbaglio, che stavi impazzendo?
E quanto hai resistito per cercare di dominare il mostro che si era impossessato di te?
E quando hai capito che farla finita era l’unico modo dignitoso che ti era venuto in mente per non disturbarci più?
E ti sei chiesta, almeno per un momento, un baleno, un lampo, se ci saresti mancata?
Mancata da morire?
Così, quella maledetta mattina, quando la portinaia mi ha telefonato, ho capito perché l’ultima volta ti avevo scorto che sorridevi, mentre incurvavi il viso, come da bambina nelle foto di famiglia.
Non felice, ma neanche più con quella malinconia che non ti lasciava mai, con lo sguardo sullo schermo del cellulare che non si staccava più, aspettando una maledetta telefonata che non sarebbe più arrivata.
“Lui non ti amava più, non ti ha mai amata” ti avevo detto, cogli occhi bassi la voce bassa , mentre tu già guardavi fuori coi tuoi occhi verdi e grandi da rana spaurita e persi ad immaginare una vita che non sarebbe più esistita, mentre non mi stavi neppure ad ascoltare.
Cognac e pasticche che avevi fatto finta di nascondere, le trovammo nel sacco dell’immondizia, per dormire di piu. Per addormentarti e non dover piu pensare e non dover piu far niente, e non dover piu aspettare.
E così ti ho trovata, dopo che mi hanno telefonato, dopo che ho corso all’impazzata contro il tempo, dopo che ho visto l’auto dei carabinieri sotto casa e i capanelli di gente ,sperando di poterti salvare, dopo che ho visto anche Silvano sulla porta.
Lui che non veniva mai e che invece era arrivato prima di me, che mi ha urlato di non entrare.
Dopo che ho perso le chiavi e la borsa, dopo che non ti ho potuta vedere in viso, dopo che ho arretrato anch’io al puzzo irrespirabile che sentivano i pazienti del dottore, dopo che ho visto i vestiti ben ripiegati, dopo che calpestato la cenere della tua ultima sigaretta.
Dopo che ti ho chiesto: “Perché l’hai fatto?”, dopo che ho urlato:” Ti prego, non farmi questo”.
Dopo che non ti ho potuta mai più abbracciare.
Dopo che ho avuto paura, paura davvero.
E la crisi arrivò.
Più forte delle altre, come una tempesta di grandine: dove alzai le mani per ripararmi dai colpi, dove cominciai a vomitare raggiungendo il bagno, dove mi trovarono che tremavo e sbavano, cercando disperatamente di non soffocare.
Non respiravo più.
Ecco, sarei morta anch’io , accanto alla tua stanza, sopra la pelle nuda della barella dove mi trascinarono di peso, dove il dottore mi punse mentre mi diceva :”Stai tranquilla”, solo un muro non portante che mi divideva da te.
Invece poco a poco mi tranquillizzai, scesi dal lettino a piedi nudi ed uscii dallo studio del dottore.
Attraversai il pianerottolo ed il chiacchiericcio dei vicini accorsi a guardare, e ti raggiunsi nella tua camera, senza più paura.
Ecco cos’era.La paura che prima o poi sarebbe successo.
Era da quando ero piccola che ne avevo il terrore.
Senza averlo mai capito prima.
E li rimasi, ai piedi del tuo letto, solo in compagnia dell’unica colpa imperdonabile di non essere riuscita a badare io a te.
Telefonai a Gianni: “Vieni subito. Mia madre si è uccisa”.
Mio marito stette in silenzio, un silenzio di minuti lunghi come secoli, memtre le mie parole mi rimbombavano nella testa.
Poi disse, deciso : “Resta lì , amore mio. Sto arrivando. Resta al telefono con me. Continua a parlarmi”.
E , mentre cominciai a piangere, e restavo ad ascoltare le parole dolci con cui Gianni mi faceva compagnia, metà delle cose erano già tornate al loro posto.
Poi sono stramazzata sul divano, scalza , quando vidi i due fogli sul tavolo.
E cercai la forza di rialzarmi e di leggere.
Due lettere.
” Caro amore mio, immenso e unico,
Non so se ti sei reso conto del male che mi hai fatto.
Non parlo del tradimento, perché quello non c’è stato, lo so per certo, ma per avermi abbandonata così, in un incubo senza fine.
Non so perché tu lo abbia fatto, probabilmente hai pensato che avrei accettato più facilmente un tradimento che non la verità su ciò che hai combinato.
Io però non posso più vivere così, ho tentato , ma non ce l’ho fatta.
Eppure ti ho dato mille appigli per dirmi la verità,ma non hai voluto coglierli, sperando che trattandomi male , io mi staccassi da te.
Sarai anche un delinquente, ma io ti amo e ti amerò anche oltre la vita.
Non lo faccio per te, ma per me stessa, te l’ho già anche detto.
Mi sono pentita di non averlo fatto prima, mi sarei risparmiata tanto dolore, tante lacrime, tante inutili attese.
Ti amo ma sono troppo stanca.”
Cecilia ripiego’in quattro il foglio, lungo linee già tracciate e se lo mise in tasca.
“Lui non ti amava più, non ti ha mai amata”, ripeté sottovoce come un mantra, gli occhi bassi la voce bassa.
Poi prese il secondo foglio. Era per lei.
“Ciao piccola,
forse speravi che il tuo sostegno, mi aiutasse a superare il mio dolore, ma non è così.
Io non sono più una donna e l’essere mamma e nonna non mi bastano, mi dispiace tanto.
La tua vita è piena di impegni e dover accudire una madre “pazza” come sto gradatamente diventando non ti aiuterebbe di certo.
Ti voglio tanto bene e soltanto andandomene ti farò del bene, te ne renderai conto a suo tempo.
Io senza Aldo non posso più vivere, non sono certa che mi abbia veramente tradita, perché so certe cose che non ho detto a nessuno,
ma resta il fatto che io mi sento ogni giorno che passa più vuota, inutile e sola.
Non esistono al mondo medici o medicine che possano alleviare il mio dolore, non ce la faccio più, la vita non ha alcun senso se diventa così pesante.
Non è vero che non si muore per amore.
Ciao per sempre.
Mamma.
Per favore fai in modo che la nonna venga accudita bene anche senza di me. Grazie”.
Silenzio.Vuoto. Nulla.
Nelle lettere pareva di nuovo una madre ragionevole.
Anche la calligrafia si era acquietata.
La mano aveva fluito con la penna leggermente inclinata a destra, come mentre correggeva i compiti in classe che si portava a casa, impilati al fondo del tavolo di marmo, anche mentre la tavola era ancora apparecchiata.
Sempre teneva la tovaglia un po’ più in là, perché avrebbe continuato anche dopo cena , fino a notte fonda a volte, tra il fumo delle sigarette, la televisione muta e la luce tenue del lampadario del tinello , tra i benino e puoi fare meglio, i bravissimo , i male che sottolineava con vigore.
A volte Cecilia la trovava addormentata sui quadernoni e allora le dava un bacio della buonanotte e allora Estrella ricominciava fino a che non aveva finito.
Cecilia ritirò anche la sua lettera nell’altra tasca.
Avrebbe potuto raccogliere gli indumenti di Aldo che Estrella teneva nell’armadio per un suo ritorno all’improvviso , glielo aveva confidato un giorno, farsi trasferire il numero di telefono sul suo fisso e rispondere alle chiamate al posto di sua madre.
“Pronto, sono Aldo”.
Lui avrebbe richiamato, ne era certa.
” Quando posso ritirare la mia roba? Sai non ho i soldi per comprarmene di nuova”.
“Ciao”, avrebbe potuto rispondere Cecilia ” la roba è al Cimitero , campo 10, seconda fila di tombe, la quinta sulla destra”.
E attendere il clic.
Che sarebbe arrivato, anche di questo ne era certa.
Gli uomini sono dei vigliacchi.
Oppure.
Sua madre le diceva sempre che i quarant’anni sono quelli delle certezze.
E i cinquanta quelli in cui si inizia a nuotare verso grandi mari.
Per chi ce la fa a resistere, aggiunse Cecilia.
Cecilia raccolse tutte le forze che ancora aveva .
Chiamò le pompe funebri, fece uscire tutti , in fondo era stata l’unica ad occuparsene , e tutti accettarono senza porre resistenza.
E si accordo’ sui particolari.
Il giorno del funerale le avrebbero consegnato di nascosto il vaso con le ceneri.
Pagando , si ottiene tutto.
Questo lo aveva imparato nella sua età delle certezze.
Dopo avrebbe detto a tutti che aveva bisogno di stare sola.
E sarebbe partita per l’Incompiuta.
Sua madre ce la portava sempre da piccola.
Andavano in bici lungo la strada sterrata, con gli scogli contro cui si infrangevano le onde da una parte , e dall’altra le rocce ancorate alle pareti con le reti di protezione.
E lì, pedalavano con il vento che scopriva i loro visi dai capelli.
Cecilia a volte rallentava per guardare verso il basso, oltre la rete.
Le vertigini dovute all’altezza le facevano paura ma allo stesso tempo la eccitavano.
Poi sentiva la voce di Estrella che la chiamava per proseguire fino alla spiaggia.
Sua madre stendeva la stuoietta e poi l’asciugamano , dopo che erano scese lungo il sentiero che portava alla spiaggia, tenendosi per mano, perché credevano entrambe di aver trovato il modo di non cadere.
Cecilia poi le si stendeva accanto e cominciava a leggere un libro.
Estrella invece si alzava quasi subito, non sopportava il sole:”Mi viene l’eritema” diceva a voce alta, mentre rideva, ed andava a raccogliere conchiglie e sassi colorati sulla battigia.
Lì avevano passato, loro due sole, i giorni più felici.
Lì, loro due sole , senza patimenti, senza dispiaceri d’amore, senza uomini.
Lì, sua madre sarebbe voluta andare , glielo aveva detto quella mattina al telefono, che aveva bisogno di sole.
Li, avrebbe aperto il vaso, versato la cenere che si sarebbe sparsa grazie al vento del mare d’inverno, lì avrebbe liberato sua madre verso i grandi mari, come si meritava.
E lì, sarebbe ritornata ,ogni volta che la vita le fosse parsa così pesante da non avere più senso.
June 4, 2016
Lost Worlds: Mondi perduti di Andrew Lane

Andrew Lane
DeAgostini Young Adult
Pag 255
€ 9.90
Calum Challenger, sedici anni, ha perso l’uso delle gambe nell’incidente che ha ucciso i suoi genitori. Appassionato di scienze e informatica, trascorre le giornate nel suo appartamento londinese setacciando Internet alla ricerca di notizie sui criptidi, creature leggendarie o considerate estinte. È convinto che il loro dna possa racchiudere la chiave per sconfiggere alcune rarissime malattie e, forse, ridargli la possibilità di camminare. Quando sulle montagne del Caucaso viene avvistata una creatura simile a uno yeti, chiamata Almasty, Calum si attiva immediatamente. Grazie a una squadra di amici che si offrono di partire al posto suo – e che lui può seguire a distanza tramite un super-computer – si mette sulle tracce della creatura misteriosa, deciso a raccogliere un campione del suo dna per studiarlo e proteggerlo. Ma non ha fatto i conti con la Nemor Inc., una potente multinazionale che opera nell’ombra e vuole impossessarsi dei segreti dell’Almasty per scopi molto meno nobili. Inizia così una rocambolesca missione in un territorio pieno di insidie, dove niente e nessuno è come sembra.
Andrew Lane è l’autore di una ventina di libri precedenti a questo. Alcuni sono romanzi originali ambientati negli stessi universi dei programmi televisivi della BBC Doctor Who, Torchwood e Il mio amico fantasma, alcuni sono romanzi contemporanei scritti sotto pseudonimo e altri ancora sono libri di saggistica dedicati a specifici personaggi di film e di programmi televisivi (in particolare James Bond e Wallace e Gromit). Ha scritto anche per il Radio Times e per il suo corrispondente statunitense, TV Guide.
Andrew vive nel Dorset con la moglie, il figlio e una vasta collezione di libri di Sherlock Holmes.
Resta con me fino all’ultima canzone di Leila Sales

Leila Sales
DeAgostini Young Adults
Pag 320
€ 14.90
Farsi degli amici non è mai stato semplice per Elise. Per sedici anni è stata ignorata, offesa, ferita. Il bersaglio preferito di scherzi di ogni tipo. Ma adesso ha deciso di voltare pagina e prendere in mano la sua vita. Ecco perché per tutta l’estate ha osservato le ragazze più popolari della scuola: per diventare come loro e iniziare il secondo anno alla grande. Peccato però che le cose non vadano affatto come previsto. Nessuno sembra accorgersi dei suoi sforzi, ed Elise si ritrova sola. Questa volta è pronta ad arrendersi, certa che per lei la musica non cambierà mai. Ma una notte, durante una passeggiata solitaria per le vie della città, s’imbatte per caso nello Start, un locale underground che suona i brani più belli che abbia mai sentito. E proprio qui, nel posto più stravagante del mondo, in mezzo al più stravagante gruppo di persone che si possa immaginare, Elise trova finalmente quello che ha sempre cercato: la musica giusta, gli amici giusti e forse anche il ragazzo giusto.
Leila Sales è cresciuta nei sobborghi di Boston, in Massachusetts, e si è laureata all’Università di Chicago. Proprio come Elise, la protagonista del suo libro, anche Leila adora rimanere sveglia la notte ad ascoltare musica a tutto volume. Quando non sta scrivendo oppure organizzando l’ennesima festa, passa il tempo a sognare a occhi aperti, e rimugina sul senso della vita. Vive a Brooklyn, New York.è cresciuta nei sobborghi di Boston, in Massachusetts, e si è laureata all’Università di Chicago. Proprio come Elise, la protagonista del suo libro, anche Leila adora rimanere sveglia la notte ad ascoltare musica a tutto volume. Quando non sta scrivendo oppure organizzando l’ennesima festa, passa il tempo a sognare a occhi aperti, e rimugina sul senso della vita. Vive a Brooklyn, New York.
May 26, 2016
9 luglio 2016: Arte auto-finanziata, 1.000 cuori per Remo Brindisi
Torna con sempre nuova energia, entusiasmo e colore la nostra amica ed artista Linda Brindisi, nipote del grande maestro Remo Brindisi.
Il 9 luglio prossimo, infatti, terrà un suo Assalto di Colore a Lido di Spina presso la Casa Museo Remo Brindisi. Un evento completamente gratuito, da lei organizzato e finanziato, a cui il pubblico (sia adulti che ragazzi che bambini – come ci insegna Linda, non c’è limite d’età per la creatività) potrà partecipare attivamente. Chiunque andrà a trovare Linda potrà divertirsi a dipingere su uno o più dei 1000 cuori di carta messi a disposizione, assieme alle pitture, da Linda stessa. Ogni partecipante potrà poi conservare il cuore in ricordo di una giornata unica e importante per Linda e per l’Italia intera. Si tratta infatti del ventesimo anniversario dalla morte di Remo Brindisi e l’evento in programma sarà proprio dedicato a ricordare il Maestro e la sua arte.
Una quarantina di cuori, precedentemente dipinti a Milano da Linda e amici di Brindisi -che con il loro cuore vogliono dedicargli un ricordo e un saluto- verranno installati sui corrimani che conducono al primo piano della Casa Museo.
Sarà quindi anche occasione per visitare il Museo, donato dal Maestro allo Stato, per conoscerne la vita e avere modo di osservare le opere lì esposte.
ASSALTO DI COLORE di Linda Brindisi
c/o Casa Museo Remo Brindisi – Lido di Spina (FE)
Via Nicola Pisano, 51
GIORNO 9 Luglio 2016: performance pubblica GRATUITA
ORARIO: dalle 14.00 fino a sera, in giardino
In caso di mal tempo si svilupperà in interno/taverna
GIORNO 10 Luglio 2016: installazione dei Cuori in Casa Museo