Alessio Brugnoli's Blog, page 182

September 12, 2017

Il primo contatto extraterrestre come problema politico

Il tredicesimo cavaliere 2.0


  alieno extraterrestre senziente eptapode lingua traduzione




Il film Arrival ,giunto nelle sale nell’inverno del 2017, è un esempio di fantascienza intelligente e nello stesso tempo straordinariamente ottimista circa l’esito di un eventuale primo contatto con esseri extraterrestri senzienti. Intelligente, perché gli alieni sembrano credibili come risultato di un processo evolutivo non terrestre, e straordinariamente ottimista, sia perché gli extraterrestri sono benevoli esattamente come gli esseri umani hanno sempre desiderato che fossero i propri dei, sia perché gli Umani alla fine riescono decodificare la loro lingua (1). Gli Eptapodi di Arrival appaiono all’improvviso sulla Terra a bordo delle loro navi interstellari ma poi aspettano che gli esseri umani passino un difficile ma non impossibile test linguistico. Mettere alla prova gli Umani per determinare il loro valore è una tema ricorrente in mitologia e religione, e la sua presenza nel film tradisce un’attrazione verso il pensiero magico.



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Il film Life – Non oltrepassare il…

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Published on September 12, 2017 03:13

Stephen King: arriva un nuovo film tratto dal racconto breve Suffer the Little Children

KippleBlog




Stephen King sembra ormai avere conquistato del tutto sia il piccolo che il grande schermo: dopo il successo ai botteghini di It, è arrivato l’annuncio che verrà girato un altro film, questa volta ispirato a un suo racconto breve del 1972: Suffer the Little Children. Sarà Sean Carter a scrivere e dirigere il film, autore del successo indie The Killing Room (2009). Ma questo è solo l’inizio, in quanto presto arriveranno altre pellicole, sempre ispirate ai romanzi e racconti del re dell’horror.


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Published on September 12, 2017 03:09

September 11, 2017

Un restauro innovativo per la statua di Santa Bibiana di G.L. Bernini

Esquilino's Weblog




Nei giorni scorsi la statua di Santa Bibiana, opera di Gian Lorenzo Bernini, ha lasciato per la prima volta dal 1626 l’omonima chiesa a via Giolitti. Dopo una iniziale sensazione di stupore ci siamo documentati e, con estremo piacere, abbiamo scoperto che il motivo è senz’altro più che positivo, infatti, la statua è stata spostata per poter effettuare un accurato lavoro di restauro presso la Galleria Borghese. Dopo gli affreschi di Pietro da Cortona e Agostino Ciampelli negli anni ’90 e l’esterno della chiesa tra il 2014 e il 2015 si chiude il cerchio dei restauri con la statua della Santa per ridonare l’originale splendore a questo monumento troppo  spesso bistrattato se non addirittura nascosto dal 1870 in poi.



Vorremmo aggiungere che si tratta non solo di un lavoro meticoloso e altamente professionale ma è forse la prima volta che il restauro rappresenta un evento da vivere in tutte le…


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Published on September 11, 2017 02:14

Tolleranza nella Sicilia islamica ?


 


Oggi Manu ricomincia con la fisioterapia, sperando che i miglioramenti siano analoghi a quelli della scorsa settimana: se fosse così, potrebbe a breve ricominciare a camminare senza stampelle.


Per cui, incrociamo le dita: in attesa di una riunione bislacca su una cosa di cui poco capisco e ancora meno so, tranne che devo maltrattare il fornitore, riprendo il vecchio discorso sulla Sicilia Islamica


Periodo che, come evidenziavo, per motivi ideologici, è soggetto a una sorta di revisionismo, che tende a denigrarlo: essendo basato su pregiudizi intellettuali, legati al contingente, qualsiasi discussione sul tema, basata sui fatti, dal paragone con realtà analoghe ai dati economici e archeologici, invece che portare a conclusioni costruttive, termina con un nulla di fatto… O meglio con un


Amari aveva torto, l’arabi in Sicilia non erano tolleranti


Il baco di questo ragionamento è nel volere proiettare un concetto moderno, quello della libertà religiosa, a un contesto culturale e storico differente.


Citando lo storico Hubert Houben


Ma dobbiamo chiederci subito: il termine “tolleranza” qui usato, come del resto anche nel recente libro della Menocal, di cui dicevo all’inizio, è veramente appropriato per il Medioevo? La riposta non può che essere negativa, perché si tratta, come ho avuto modo di sottolineare già qualche anno fa,di un termine moderno che ha una storia complessa, ma non risale al Medioevo, anzi è, come vedremo, del tutto improprio per quest’epoca. E questo è anche il motivo per cui l’ho evitato nel titolo della mia conferenza usando invece di “tolleranza” “rispetto”.


“Tolleranza” nel senso del riconoscimento degli stessi diritti a tutte le comunità religiose è un concetto nato soltanto in età moderna in seguito alla Riforma protestante (inizio sec. XVI), che distrusse il monopolio di una confessione sola, quella cattolica. Questo concetto di tolleranza fu sviluppato poi ulteriormente dall’umanista Erasmo da Rotterdam e successivamente nell’età dell’illuminismo. Sono fondamentali a questo proposito le idee di John Locke († 1704) (Essay Concerning Toleration, 1667, e quattro lettere sulla tolleranza 1685-1704), il quale sostenne che le opinioni religiose debbono essere libere, a condizione che esse non danneggino la società politica; quindi una specie di principio della tollerabilità delle opinioni.


Insomma, il concetto moderno di tolleranza religiosa presuppone concetti come la dignità intellettuale, la libertà della persona e il diritto alla coscienza individuale, che nel Medioevo non si erano ancora sviluppati. Nel Medioevo “tolleranza religiosa” può quindi essere intesa soltanto nel senso limitato di una “tolleranza di fatto”, vale a dire: gli appartenenti ad altre fedi venivano tollerati nel senso che non si cercava di convertirli con la forza alla propria religione; quindi una più o meno indisturbata convivenza di appartenenti a religioni diverse. Ciò non vale soltanto per il Medioevo cristiano, ma anche per l’area del dominio dell’Islam, dove agli ebrei ed ai cristiani era permesso di mantenere la propria fede, ma con una conseguente caduta in un ruolo giuridicamente e socialmente subalterno (come dhimmi, “protetti” che dovevano pagare tasse particolari, tra cui un testatico detto gizya).


Per cui, parlando di tolleranza secondo questa interpretazione, al di là dell’anedottica, ad esempio il racconto del poeta Ibn Hamdis del secolo XI, il quale ricorda che, quando egli era adolescente, i giovani musulmani di Siracusa erano soliti andare di notte in un monastero femminile per bere del buon vino vecchio offerto da un’anziana suora, questa variare nello spazio e nel tempo


Spazio, perché le disposizione sui dhimmi, variano a seconda dei luoghi: nelle città, che in epoca tardo antica si erano spopolate, migrando progressivamente la popolazione nelle tenute agricole, questi sono una minoranza e, come raccontato per la comunità ebraica, sono più stringenti. Nelle campagne, in cui il controllo della burocrazia araba è più labile e si deve affidare all’indirect rule, scendendo a patti con i potentati locali, anche religiosi, diventano più lasche, come testimoniato dal fenomeno architettonico delle cube basiliane e delle tracce linguistiche di una cultura mozarabica specifica della Sicilia


Tempo, perché la storia della Sicilia Islamica non è monolitica, ma basata su diverse stratificazioni: gli emiri Aglabiti, vedevano loro stessi come ghazi, combattenti per la fede, in prima linea nella lotta contro i Rhomanoi, per cui vedevano i dhimmi come possibile quinta colonna del nemico. I Fatimidi avevano un comportamento ondivago, legato alle paturnie del loro imam al Cairo. I Kalbiti, dopo una prima fase, in cui la Jihad è la scusa per mettere su un’economia basata sulla pirateria, cominciano a commerciale con le varie città italiane: per cui, data l’ ampia e documentata presenza di mercanti cristiani, è assai probabile che si sia chiuso un occhio sulle loro pratiche religiose.


Nella Balarm repubblicana, in cui si preferisce commerciare con il Nord Africa, Egitto e Al Andalus, invece che con l’Italia, il che avrà come conseguenza l’appoggio di Pisa ai Normanni, le regole sui dhimmi saranno diventate di nuovo più restrittive..


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Published on September 11, 2017 02:00

September 10, 2017

La guerra di Troia

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Causa diluvio, oggi sul fronte Manu non ci sono molte novità: ci impigriamo in salone, in attesa che spiova, per andare a fare la spesa. A pranzo cucinerò tagliatelle con i funghi porcini, a cena, sperimenterò degli involtini.


Così, ne approfitto per parlare di un argomento che mi ha sempre affascinato: non so per quale strano motivo, a mio papà non piaceva raccontarmi le favole… Così, per farmi addormentare, mi raccontava le vicende della guerra di Troia. E per rendere più interessanti le sue parole, mi faceva vedere le immagini di una vecchia edizione dell’Iliade, con la traduzione del Monti


il traduttore dei traduttor d’Omero


in cui Achei e Troiani erano, in maniera alquanto anacronistica, vestiti come antichi romani


Alle Medie, poi, mi capitò tra le mani un’antologia in si raccontavano le imprese di Schliemann: così le vicende di Ilio e dei ben coturnati Achei mi sono rimaste nel cuore… E grazie all’archeologia, ormai sappiamo molte cose sulla sua storia.


Che la presunta città scoperta da Schliemann era molto più antica, risalente al II millennio a.C. e che era l’Acropoli di un’area urbana molto più vasta. Che apparteneva all’area Arzawa, una sorta di federazione feudale di lingua luvia, i cui membri passavano il tempo e litigare tra loro e a rompere le scatole ai vicini, specie se Ittiti, che a loro volta, cercavano di sottometterli, per controllare le coste dell’Egeo e trattare direttamente con i Minoici prima e con i Micenei, che fornivano le materie prime provenienti dal lontano, misterioso e selvaggio Occidente,


Troia, o meglio Wilusa, che i Micenei chiamavano Wilios da cui la nostra Ilio, era posta nell’estrema periferia dell’area Arzawa: per cui, per evitare rogne dagli altri litigiosi stati luvi, decise di dichiararsi vassallo Ittita.


Situazione che imponeva pochi obblighi in politica estera e lasciava totale indipendenza nelle politiche interne, garantendo viceversa ai re wilusiani di essere protetti dalla potenza militarmente più forte del periodo; la lunga fedeltà dei sovrani agli Ittiti e la stabilità che ne deriverà, consentiranno alla città di Wilusa di svilupparsi e prosperare economicamente e culturalmente, con elevati standard di vita per l’élite dominante.


Standard testimoniati delle ricche dimore a torre della cosiddetta Troia VI: nell’acropoli, dove una volta si trovavano case a schiera, furono costruite edifici lunghi per più di 2 metri e sviluppati in altezza per diversi piani, realizzati con blocchi di pietra con cura. Inoltre, nelle loro tombe, sono stati trovati numerosi oggetti di importazione micenea e cose più esotiche, come uova di struzzo decorate.


La presenza di spade e il fatto che le case dell’Acropoli fossero fortificate, fa pensare anche a una situazione analoghe alle città medievali italiane, con tanti clan famigliari in perenne lotta tra loro per il potere.


Questa situazione cambia intorno al 1300 a.C., in cui Wilusa, che era più grande di Ugarit, aveva sui 20.000 abitanti, fu flagellata da un terremoto: catastrofe che cambiò la struttura politica della città, le grandi case a torre, furono sostituite da case a megaron, come se le esigenze di difesa interna fossero scomparse e il potere centralizzato in una dinastia stabile e pur non impattando sulla crescita economica, dall’archeologia appare un boom agricolo e delle produzione tessile e metallurgica, creò un vuoto di potere nell’area, di cui ne approfittarono i Micenei.


Intorno al 1285 a.C., appare nei documenti ittiti il famigerato Pyama-Radu, descritto come un pirata, un agitatore, un sobillatore, un sovversivo riottoso al giogo di Hattusa ed inafferrabile per le milizie imperiali, che per decenni tenne in scacco la prima potenza del Vicino Oriente. Insomma, una sorta di Che Guevara dell’epoca.


Sappiamo che, con un contingente militare fornito dai Micenei, prese il controllo dello stato arzawa Terra del fiume Seha, poi da lì marciò versò Nord invadendo Wilusa: da quello che sappiamo dall’archeologia, visti i ritrovamenti di frecce e frombole, occupò la città bassa, strinse di assedio l’Acropoli, ma forse non riuscì a conquistarla. La reazione dell’imperatore ittita Muwatalli II non si fece attendere: inviato un contingente militare agli ordini del generale Kassu, riconquistò la città ristabilendo l’ordine e scacciando Piyama-Radu.


E’ suggestivo pensare che di questa vicenda, possa essere rimasta traccia nel mito, quando si parla delle prima presa di Troia, compiuta da Ercole. In ogni caso, Piyama-Radu, non si arrese, dedicandosi alla guerriglia anti ittita e sobillando rivolte, sempre finanziato dagli Achei.


Nel 1274 a.C. l’imperatore Ittita infatti, mandò un’ambasciata in Grecia, per chiedere al Gran Re, è probabile che gli altri stati anatolici avessero idee altrettanto confuse degli archeologi attuali sull’organizzazione politica micenea, forse basata su leghe di città che si riconoscevano in un capo religioso, il wanax e il lawaghetas, una sorta di generalissimo, comuni, per chiedere di la consegna di Piyama-Radu o per lo meno di smettere di appoggiarlo.


Eventi che impattano su Wilusa: inizialmente vi sono i segni di un forte diminuzione della popolazione, poi un ripopolamento, che però non sembra essere di popolazioni di lingua luvia: cambiano infatti le modalità di costruire le case e la ceramica, che sembra più simile a quella usata nei Balcani, che in Anatolia. Insomma, è probabile che vi sia stata un’immigrazione pacifica dalla Tracia, di cui rimarrebbe traccia nell’epica greca nelle vicende di Reso.


Nel 1225 a.C. nell’ambito di una probabile guerra tra Ittiti e Micenei, legata al controllo della colonia achea di Millawata, la nostra Mileto, e all’imposizione dell’embargo ittita al commercio proveniente dalla Grecia, testimoniato dal trattato tra Tuthalija IV e Sausgamuwa di Amurru, in cui Tuthalija richiede al re vassallo di non permettere alle navi achee di accostare nei porti di Amurru, Wilusa viene conquistata dai Micenei.


Infatti l’imperatore ittita Tudhaliya IV scrive al suo vassallo Tarkasnawa re di Mira, che di fatto fungeva da viceré per dell’area Arzawa, di riportare Walmu, re di Wilusa sul trono: fatto testimoniato anche dall’archeologia, che data a quell’epoca tracce d’incendio e ritrovamenti d’armi sull’acropoli di Troia, il che coincide, con la datazione data dagli annalisti greci delle vicende narrate da Omero


Comunque sia andata, questa guerra contribuì al collasso miceneo, dovuto più a motivi interni, che la mitologia trasfigurò nelle vicende degli Atridi. che alla non testimoniata invasione dorica: nel cosiddetto trattato con Shaushgamuwa, risalente al 1223, poco prima della conquista assira di Babilonia siglato da Tudhaliya IV con un sovrano vassallo, appare un episodio curioso: nella lista dei Grandi Re sono elencati, oltre a quello Ittita, il Faraone Egizio, il sovrano Assiro, il re di Babilonia ed il re di Ahhiyawa; ma poi il nome di quest’ultimo è cancellato con una riga orizzontale, come se proprio durante la stesura del documento questo sovrano “acheo” non meglio precisato avesse perso il proprio status di Grande Re…


Pochi anni e tutto questo complesso mondo dell’Età del Bronzo scomparve, travolto dai Popoli del Mare, ossia probabilmente, i profughi armati in fuga dal collasso del Commonwealth greco-miceneo…


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Published on September 10, 2017 06:50

September 9, 2017

Perché danziamo ?


Come alcuni sanno, oggi con Manu abbiamo fatto una lunga passeggiata, da casa nostra a via dello Statuto… Era un mese, che non lo faceva… Si è stancata, ma neppure tanto, però è molto soddisfatta di questo bel successo !


Per cui, visto che tra poco ricominciano i laboratori invernali de Le Danze di Piazza Vittorio, presso la scuola Di Donato, mi dedico ai miei tradizionali spot pubblicitari, provando a rispondere a una domanda assai banale


Perché danziamo ?


Perchè siamo capaci di individuare il ritmo: negli ultimi anni gli scienziati sono riusciti a individuare i pattern neurali dedicati a tale funzione.


Pattern che oltre a individuare gli schemi ricorrenti dei segnali acustici e di formulare ipotesi sulla cadenza dei tempi successivi, attivano altre reti neurali della pianificazione del movimento, che associano, nel cosidetto entrainment, i ritmi con i nostri gesti.


Pattern che non esistono solo negli umani, basti pensare a come muove a tempo la testa il mio pappagallo quando ascolta la musica, ma in molte specie di animali che sanno imitare i suoni e esterni e che utilizzano i vocalizzi per comunicare.


La differenza però è che gli umani, tranne il sottoscritto non si limitano a scuotere solo la testa di qua e di là, ma li associano a movimenti coordinati del torso e delle arti. Questo, secondo il paleoantropologo Lieberman, è un imprevisto effetto collaterale del fatto che i nostri antenati ominidi che vivevano nella savana dovevano correre dalla mattina alla sera per riempirsi lo stomaco e, a loro volta, non diventare il pranzo di qualche predatore.


Questo, nel corso dei millenni, ha permesso lo sviluppo dei tre canali semicircolari dell’orecchio interno, permettendoci di mantenere l’equilibrio e la coordinazione nel caso di movimenti complessi.


Danziamo perché è piacevole: dagli studi dell’Università di Oxford, l’attività fisica sincronizzata verso un obiettivo comune accresce nei membri di in un gruppo la soglia di tolleranza al dolore, incrementando l’emissione di endorfine, che cresce, se associata alla musica.


Danziamo, perché così rafforziamo i nostri legami sociali: anche se è metodologicamente poco corretto paragonare le nostre società di raccoglitori e cacciatori con gli umani del Paleolitico, la danza li accomuna. Nelle grotte dei Pirenei francesi, sono stati trovati flauti d’osso che risalgono a 35.000 anni fa.


La danza, abbattendo le barriere tra persone, permette loro di condividere un mondo invisibile, identificando le radici comuni che superano le differenze. Presso gli Hadzabe, la danza è una narrazione condivisa, che rafforza la relazione tra generi, evidenziando la loro uguaglianza, in finte battaglie di sessi, in cui le donne stuzzicano gli uomini e questi rispondono a tono. Insomma, nulla di diverso dalla Viddanedda, dalla Pizzica e dalla Tammurriata…


Per cui, qualsiasi sia il motivo per cui vogliate ballare, veniteci a trovare… Perché la danza aiuta a riscoprire noi stessi e apprezzare di più il prossimo..


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Published on September 09, 2017 09:19

September 8, 2017

Terme Eleniane

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Stasera, dopo un mese di convalescenza, con Manu andremo a mangiare una pizza: cosa buona e giusta, che così si distrae un attimo e riprova degli enormi progressi fatti in questi giorni. Così, visto questo impegno, utilizzo la pausa pranzo per un breve posto su un altro dei luoghi archeologici dell’Esquilino


Per decenni, gli archeologi si sono interrogati sulla naturale delle terme Eleniane, adiacenti al palazzo Sessoriano: solo negli ultimi anni, grazie alle campagne di scavo connesse al giubileo del 2000, le idee sembrano essersi chiarite.


Si è compreso, grazie ai bolli laterizi e una dedica a Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, che fossero costruite in contemporanea al complesso ad Spem Veterem e che fossero inizialmente a uso pubblico: probabilmente l’imperatore voleva risarcire gli abitanti dell’area per aver sottratto alcuni horti, connessi al santuario, all’uso della cittadinanza. Forse, la loro costruzione sarà stata contemporanea alle cosiddette Terme Severiane del Palatino.


Eliogabalo non ci mise bocca, dato che non aveva avuto idee su come destinarle a uso religioso, Alessandro Severo le abbellì e la costruzione delle mura aureliane vi impattò: in un periodo imprecisato tra Aureliano e Massenzio, le Terme andarono a fuoco e furono distrutte.


Elena, preso possesso del Sexorianum, tra il 323 e il 326 le fece restaurare e riaprire al pubblico. Un’epigrafe incisa su un cippo ritrovato in loco e oggi conservato nei Musei Vaticani recita infatti che:


“La nostra signora Elena, madre augusta del venerabile signore nostro Costantino e nonna dei nostri felicissimi e fiorentissimi Cesari, (queste) terme, distrutte da un incendio, ripristinò”


Le terme furono poi utilizzate, come Balnea connessi al complesso di Santa Croce in Gerusalemme sino all’epoca carolingia.


I pochi resti ancora visibili nel Cinquecento furono completamente distrutti o interrati al tempo di papa Sisto V (1585-90) per la realizzazione della via Felice, che collegava Trinità de’ Monti a S.Croce in Gerusalemme, anche se, raccogliendo materiali per i prossimi romanzi del ciclo de Il Canto Oscuro, mi sono ritrovato tra le mani alcune foto scattate da Ashby al casino di Villa Conti a Santa Croce, dove si vedono chiaramente dei ruderi, che potrebbero essere di pertinenza delle Terme: per cui, la loro definitiva distruzione dovrebbe risalire al 1910.


Le Terme furono esplorate ai tempi di Urbano VIII, da Lelio Orsini, Duca di Bracciano, e a metà XVIII secolo da Alessandro Simeoni, un antiquario che aveva le vigne in zona: non abbiamo molte informazioni su questi scavi, ma attraverso disegni e appunti del Palladio e di Antonio da Sangallo il Giovane conosciamo, seppure parzialmente, la loro pianta, che appare una sorta di compromesso tra quella delle grandi terme imperiali e quella dei complessi balneari minori, disposta in modo asimmetrico e con il settore settentrionale cinto da un’alta muratura che proteggeva il complesso dai venti freddi del nord.


Le Terme erano infatto un edificio a pianta asimmetrica con orientamento est ovest, L’ingresso, fornito di colonne, era ad est, davanti la facciata della cisterna posta poco più in alto. Seguivano due stanze rettangolari, gli spogliatoi, cui seguivano il frigidarium con ingresso colonnato e, più a sud, il calidarium con abside, di m 9 x 11,80, e stanze di soggiorno con nicchie e colonne, il susatorium e il tiepidarium con sale rettangolari, e più a ovest la palestra e i giardini, abbelliti con colonne e statue.


Di tutto questo sono rimaste visibili solo otto delle dodici camere intercomunicanti, poste su due file parallele, che facevano parte di una grande cisterna, probabilmente alimentata da una derivazione dell’Acquedotto Alessandrino, poste tra all’incrocio fra le moderne via Eleniana e via G. Sommeiller.


Nel Medioevo uno di questi ambienti fu sistemato a cappella cristiana (nei documenti dell’epoca indicata col nome di “S. Angelo”), della quale si conservavano lacerti di affreschi ancora nel XVIII secolo


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Published on September 08, 2017 03:22

September 7, 2017

IA, Big Data e Car Sharing

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Anche oggi, buone notizie dal fronte del ginocchio di Manu: non solo riesce a eseguire le trazioni con il ginocchio a novanta gradi, ma ha fatto anche qualche passetto senza stampelle. Domenica scorsa non l’avrei mai ritenuto possibile !


Così, per ammazzare il tempo questa sera, con in sottofondo un programma di cucina, prima di correre a vedere Daredevil su Netflix, mi ha ormai preso la scimmia, butto giù due boiate su come la Singolarità stia, in pochi anni, cambiando un mondo che sembrava impermeabile a qualsiasi cambiamento: quello dell’automobile.


La prima rivoluzione, più evidente e immediato, è la diffusione della sharing economy: l’automobile privata, che in media risulta essere ferma per il 96% del tempo, è il soggetto naturale per questo modello economico. Nei prossimi anni, soggetti come Car2go o Enijoy, che già hanno tassi di crescita annui del 30%, avranno un boom, espandendosi anche in nuove aree geografiche, causando anche la nascita di servizi di broker, dedicati alla comparazione dell’offerte e all’ottimizzazione del loro utilizzo.


La seconda rivoluzione, ancora più incisiva, è legata alla diffusione dell’Intelligenza Artificiale, non solo legata alla nascita di più efficienti sistemi di guida automatica, ma anche alla loro integrazione con sistemi di pianificazione dei percorsi e della condivisione della auto, basati sull’utilizzo di Big Data.


Un esempio di tale integrazione, che parrebbe pura fantascienza, è nel progetto HubCap di New York, che partendo dai dati sulle corse dei taxi locali, in particolare coordinate dei punti di salita e discesa passeggeri e tempi di percorrenza, ha permesso di sviluppare un modello matematico di car sharing, che condivide i percorsi, oltre che le auto a guida automatica, che a fronte di un aumento del 1,5% della durata media del viaggio, ha permesso una riduzione dell’80% delle automobili circolanti.


Pensiamo ai vantaggi: minore impatto ambientale, specie se l’IA si associa a motorizzazioni ibride o elettriche, spostamenti più rapidi, amplificati dalla sostituzione, possibile in un contesto del genere, dei semafori tradizionali con un modello di gestione a slot degli incroci, minori costi per la manutenzione delle infrastrutture, recupero di spazi urbani, oggi sprecati in parcheggi, che potrebbero essere trasformati in piste ciclabili, giardini, percorsi fitness, spazio di nuova socializzazione e coworking.


Ovviamente, ci sono anche i rischi: il più immediato, è quello della sicurezza. Immaginiamo cosa potrebbe succedere, se un hacker mandasse in tilt i sistemi di guida automatica delle automobili o quelli di pianificazione del traffico. Oppure, questo car sharing evoluto potrebbe cannibalizzare le altre forme di trasporto pubblico. Chi prenderebbe un bus dell’Atac, se avesse a disposizione un servizio del genere, più rapido ed efficiente ? Il che potrebbe fare aumentare il traffico urbano, invece che ridurlo…


Inoltre, i veicoli autonomi sarebbero programmati per rispettare in pieno il codice della strada: i comuni italiani non avrebbero più la possibilità di fare quadrare i bilanci con autovelox e limiti di velocità insensati… Il che però, degraderebbe il già basso livello di servizi offerti alla collettività.


Insomma, ci troviamo sulle soglie di un cambiamento epocale, figlio della tecnologia: che questo migliori o renda pessimo il nostro quotidiano, non compito dell’Ingegneria, ma della Politica…


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Published on September 07, 2017 12:32

September 6, 2017

Dark Matter

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Devo ammettere che, prima di portare Manu a fisioterapia, ero preoccupato, perché mi avevano detto peste e corna del centro dove dovevamo andare: invece, il fisioterapista è di una professionalità e bravura incredibile.


In tre sole sedute, Manu riesce a salire la scale, a piegare il ginocchio a novanta gradi, a sedere a tavola: pochi giorni fa non ne avrei scommesso un euro.


Così, per festeggiare, torno a parlare di un argomento che ha molto a che vedere con la fantascienza: la Materia Oscura, che non è quella che si accumula nei secchioni di viale Manzoni quando l’Ama si scorda di passare.


Per chi non bazzica la cosmologia, un piccolo excursus storico: nel 1933 l’astronomo Fritz Zwicky stava studiando il moto di ammassi di galassie lontani e di grande massa, nella fattispecie l’ammasso della Chioma e quello della Vergine. Zwicky stimò la massa di ogni galassia dell’ammasso basandosi sulla sua luminosità e sommò tutte le masse galattiche per ottenere la massa totale dell’ammasso. Ottenne poi una seconda stima indipendente della massa totale, basata sulla misura della dispersione delle velocità individuali delle galassie nell’ammasso; questa seconda stima di massa dinamica era 400 volte più grande della stima basata sulla luce delle galassie.


A Zwichy venne un coccolone. rifece i calcoli un’infinità di volte, per scoprire il madornale errore che doveva di certo esserci. Nulla, quadrava tutto. Oltre le stelle, nelle galassie doveva esserci uno sproposito di materia in più, che aveva però il bruttissimo vizio di non essere osservabile, non emettendo radiazione elettromagnetica, come per esempio la luce o onde radio, ma avendo solo effetti gravitazionali.


Quando Zwichy presentò questa scoperta, fu preso a pernacchioni dalla comunità scientifica, finché negli anni Settanta, dopo una quantità industriale di conferme sperimentali, gli fu dato ragione. Così, i cosmologi cominciarono a porsi la domanda: di che diavolo è fatta questa Materia Oscura ?


La prima ipotesi, fu abbastanza banale: esiste nell’universo un oggetto di grande massa, con un campo gravitazionale così forte e intenso che nulla al suo interno può sfuggire all’esterno, nemmeno la luce,il buco nero. Per cui si ipotizzò che le galassie fossero circondate da buchi neri, effetti collaterali del Big Bang. Così, sfruttando il presunto effetto lente gravitazione sulle stelle più periferiche della galassia, si pensava che fosse semplice individuarli… Dopo anni di osservazione, non si tirò fuori un ragno dal buco.


Così sì passo all’ipotesi Wimp: strane particelle, dotate di massa che interagisce debolmente con la materia normale solo tramite la gravità e la forza nucleare debole. Anche queste, non sono mai saltate fuori: per cui, come nel Monopoli, si è passati per il via, tornando all’ipotesi iniziale.


Anche perchè, secondo le simulazioni sulle origini e crescita della Galassie, queste dovrebbero essere circondate da decine di compagne formato mignon, una sorta di tanti Mini Me del Dottor Male. Invece non ci sono, come se fossero state spazzate da una sorta di aspirapolvere spaziale.


Poi vi è la questione dell’inflazione cosmica: per spiegare il fatto che l’Universo sembra essere ottimamente descritto da una geometria con curvatura pari a 0, che sia omogeneo su scale così ampie da non essere causalmente connesse e che non ci siano in giro stranezze come i monopoli magnetici, abbia subito, poco dopo il Big Bang, una fase di espansione iper accelerata.


Il problema è che questa teoria, per dirla alla Popper, non è falsificabile: però, uno dei tanti modelli teorici dell’inflazione cosmica, prevede la nascita, poco dopo l’espansione, di milioni di buchi neri, di massa variabile e tutti accalcati, come passeggeri sui bus Atac, in volume di poche centinaia di anni luce. Se questi saltassero fuori, sarebbero una prova della concretezza dell’inflazione.


Quindi si è aperta la caccia, nonostante due grossi, grossi problemi. In un modello del genere, le collisioni tra buchi neri dovrebbero essere molto, molto frequenti. Non solo Ligo dovrebbe individuare molte, molte più onde gravitazionali, ma dato che i buchi neri quando si scontrano, si fondono, generandone uno più grande, non solo al centro, ma nella periferia delle galassie dovrebbe esserci un buco nero supermassivo. Però, se esistesse, per gli effetti gravitazionali, le galassie dovrebbero essere molto meno stabili, di quanto siano realmente.


Poi, i buchi evaporano, ossia perdono progressivamente massa, per la radiazione di Hawking: per cui questi buchi neri primordiali o sono scomparsi da parecchio tempo, oppure la materia oscura dovrebbe diminuire nel tempo, il che implica come le galassie più lontane da noi dovrebbero essere ben diverse da quelle più vicine… Ma allo stato attuale, non vi è evidenza di ciò… Però, da scrittore di fantascienza, sarebbe interessare immaginare un universo, con le galassie imprigionate da muri di buchi neri, che con il Tempo, scompaiono nel nulla


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Published on September 06, 2017 13:32

September 5, 2017

Le Danze di nuovo in Piazza

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Stasera, martedì in piazza con le Danze di Piazza Vittorio… A causa dell’emergenza medica io e Manu daremo buca: tra l’altro, stasera, dopo la fisioterapia, abbiamo anche la riunione, nel salotto di casa Brugnoli, per organizzare la presentazione della raccolta La cosa marrone chiaro e altre storie dell’orrore di Fritz Leiber, uno dei grandi della narrativa fantastica del Novecento, edita dalla Cliquot che si terrà il 15 settembre, dalle 19.00 in poi, alla Sala Giuseppina.


Presentazione tenuta da Umberto Rossi, critico, giornalista letterario e traduttore, un’autorità nel campo e Federico Cenci, editore della Cliquot, traduttore e curatore della raccolta, in cui, per i casi della vita, vi è un racconto il cui la scena finale è ambientata nei giardini di Piazza Vittorio…


Così, pieno di nostalgia, approfitto di una pausa della gara che sto seguendo, per cercare di svicolare da un dibattito in cui mi stanno tirando per la giacchetta: quello su Esquilino. Tre ricognizioni di Nicola Lagioia.


Dibattito a cui non partecipo, per il banale motivo che non ho letto il libro o meglio ho solo dato uno sguardo al brano apparso su Repubblica, che comincia


Esquilino, il quartiere dove abito, è uno dei fallimenti più interessanti nel fallimento generalizzato di Roma. Alla fine degli anni Novanta (quando ancora ci si illudeva che l’Europa avrebbe preso un’altra direzione) si scommetteva sul fatto che quest’area abbastanza centrale che va da viale Castrense a piazza dei Cinquecento sarebbe presto stato il più moderno quartiere multietnico della penisola. Italiani, cinesi, indiani, pakistani, bengalesi avrebbero intrecciato le loro vite diventando l’avanguardia di una rivoluzione culturale in salsa mediterranea che avrebbe portato non solo integrazione, ma anche ricchezza esistenziale e benessere economico. Questo era il tipo di gergo che si usava allora, specie in ambienti progressisti.


Il quartiere negli anni non è esploso e non si è gentrificato. Il quartiere è crollato su se stesso sotto il peso di vecchie e nuove povertà. Questo non ha tuttavia trasformato l’Esquilino in una zona pericolosa, e in fin dei conti nemmeno in un umbratile quartiere in preda alla disperazione com’è accaduto per certi spazi dell’estrema periferia. L’Esquilino è diventato una sorta di vivace zona franca in cui si affonda tutti insieme. Poca violenza. Pochissimo razzismo. Niente integrazione come la si era immaginata. Poca bellezza ma anche poca solitudine


Come scrivevo, qui l’integrazione si è realizzata in modo molto diverso da come ci si aspettava. Le anime belle, negli anni Novanta, sognavano da queste parti la nascita di tutta una serie di aziende del terziario avanzato. Si sarebbe dovuto trattare di imprese multietniche, moderne, sostenibili, competitive. Case discografiche? Case editrici? Giornali? Catene di negozi alimentari? Marchi di abbigliamento? Software- houses? Non è mai stato davvero chiaro. Si immaginava a ogni modo che in queste imprese del futuro gli indiani ci avrebbero messo l’intelligenza, i cinesi la costanza, i nord-africani la salutare discontinuità del ritmo e gli italiani l’estro. Equipaggiati in questo modo, avremmo fatto concorrenza a Zara e magari persino a Google. È chiaro che non è successo.


Premesso che sarebbe il caso di spiegare a Lagioia la differenza tra Rione e Quartiere, ho sempre pensato che il concetto di fallimento sia legato soprattutto alle aspettative e ambizioni personali: ad esempio, il fatto che il Rione non si sia gentrificato, ma che abbia mantenuto e arricchito la sua anima folle e popolare, io lo vedo come un enorme successo. Avendo avuto esperienza diretta di aree urbane in Francia e Gran Bretagna, note ai radical chic forse solo per titoli sui giornali, dove l’odio tra culture e persone è palpabile e la violenza pervade la quotidianità, considero l’integrazione dell’Esquilino un incredibile successo.


E di bellezza e creatività, ce ne è ben di più di altre zone di Roma e d’Italia: basta saperla cercare e viverla… Se dovessi definire il vero fallimento dell’Esquilino è il fatto che, in oltre un secolo di vita, si siano riusciti a risolvere i suoi problemi infrastrutturali, legati al suo essere periferia del Centro Storico. Se leggo un giornale del 1900, del 1920, del 1940, del 1960 e del 1980, alla fine, le lamentele sono sempre uguali: i palazzi abbandonati, i cittadini lasciati a se stessi, le “nuove povertà”, che alla fine sono sempre le stesse, cambiano solo le vittime.


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E che un fenomeno storico come l’immigrazione, sia usato a seconda delle stagioni sia usato come panacea o come capro espiatorio di questi problemi storici, dimostra la trasversale inadeguatezza di una classe politica… Fortuna che a Piazza Vittorio abbiamo le spalle grosse e ci abituiamo a tutto. Tante ne abbiamo viste e tante ne vedremo, scuotendo la polvere dai nostri calzari…


Alla fine, ce la caviamo sempre con le nostre forze, a volte brontolando a mezza bocca, a volte ridendo, con azioni pesanti come la marcia di un elefante o leggeri come un passo di danza…


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Published on September 05, 2017 04:54

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Alessio Brugnoli
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