Alessio Brugnoli's Blog, page 178
October 4, 2017
Giovanna Repetto vince il Premio Short Kipple 2017 | Bando Premio Kipple 2018
Giovanna Repetto vince il Premio Short Kipple 2017 col suo fulminante racconto La legge della penombra, un delirio weird che sorprende con i suoi continui stravolgimenti di fronte.
La redazione Kipple si complimenta con la bravissima autrice e con tutti gli altri partecipanti al contest per l’elevato livello narrativo raggiunto, standard che continua ad alzarsi a ogni edizione dello Short.
L’opera di Giovanna Repetto verrà pubblicata all’inizio del 2018 in ebook nella prestigiosa collana Capsule, con tutta la fierezza che noi in Kipple stiamo provando in questo momento.
Inoltre, siete pronti al Premio Kipple 2018? Qui di seguito trovate il bando: misuratevi con i romanzi di genere fantascientifico o weird e continuate a stupirci! Noi non chiediamo di meglio, vogliamo essere sorpresi da voi!
Grazie!
Bando Premio Kipple 2018
Kipple Officina Libraria bandisce per l’anno 2018 l’XI edizione del Premio Kipple per il miglior romanzo digenere fantastico
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October 3, 2017
Esiste la Catalogna ?
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Piccolo post antipatico, relativo alla questione catalana. Che Madrid, negli ultimi anni, abbia avuto il pugno duro, nel reprimere ogni tipo di protesta, è purtroppo un dato di fatto: i primi a farne le spese, malmenati a sangue dalla polizia, furono gli operai, gli impiegati e i disoccupati che protestarono contro le politiche di austerity, di riduzione dei diritti dei lavoratori e delle tutele sociali.
Ma essendo queste richieste dall’UE e funzionali a un modello economico che vuole contrastare la concorrenza cinese non con l’innovazione tecnologica, ma con la creazione di una classe di working poors, intellettuali e opinionisti preferirono guardare dall’altra parte,
Cosa che non avviene adesso: il collasso economico che potrebbe verificarsi con l’indipendenza di Barcellona, viene visto come un’opportunità dalla speculazione internazionale, per cui non questo argomento, sui media, non è più tabù.
Il problema, però, è che la Catalogna, come nazione, è tanto inesistente quanto la Padania. Dal punto di vista culturale e linguistico, non è che la periferia dell’Occitania. Se parlare un dialetto provenzale è un giusto motivo per aver l’indipendenza, allora ne avrebbe diritto anche il comune di Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza.
Poi, se la lingua è così determinante, perché Palma di Maiorca, in cui la maggioranza degli abitanti è castigliofona, non dovrebbe chiedere la secessione dalla Catalogna ? Perché Valencia o Minorca, in cui si parlano dialetti occitanici diversi dal catalano di Barcellona, non dovrebbero essere indipendenti ?
Dal punto di vista storico, la Catalogna non è indipendente dal 1137, quando la contea di Barcellona e del regno d’Aragona si fusero come conseguenza del matrimonio di Ramon Berenguer IV, conte di Barcellona, con Petronilla d’Aragona.
Ramon Berenguer che, senza troppi problemi di identità nazionale, si sbrigò ad assumere il titolo di re d’Aragona: certo, la cortes, il parlamento locale di Barcellona, ebbe un ruolo importante, ma questo valeva per tutte le città spagnole,sino alla rivolta dei comuneros, in cui tra l’altro, Barcellona, per pagare meno tasse, si schierò con Carlo V.
Lo stesso motivo che portò, durante la guerra dei trent’anni alla rivolta del 1640, Corpus de Sang, che nonostante la retorica indipendentista, aveva motivazioni più economiche e sociali, che politica. Tanto che, per tenere a bada le richieste dei contadini e dei creditori, i nobili catalani decisero di allearsi con il re di Francia, Luigi XIII, il peggior nemico di Filippo IV, concedendo ai francesi l’accesso ai porti catalani. Il cardinale Richelieu, desideroso di logorare la potenza spagnola, inviò immediatamente tremila uomini in Catalogna, per pattugliare il contado.
La paura della rappresaglia di Madrid, che avrebbe fatto piazza pulita di tutta la nobiltà locale convinse poi l’ambiguo e intrigante presidente della Generalitat de Catalunya, Pau Claris i Casademunt, sempre pronto a vendersi al migliore offerente, prima alla proclamazione di repubblica indipendente sotto il protettorato del regno di Francia, poi alla sua annessione a Parigi. Alla faccia dei separatisti odierni, si trattava quindi di una Catalogna non indipendente, ma con un diverso padrone, ben più esoso del precedente.
Luigi XIII nominò un viceré francese e riempì l’amministrazione nazionale di filo-francesi. L’esercito francese costava ai catalani molto più di quello spagnolo e in più si comportava nei confronti delle popolazioni come una forza di occupazione. Anche dal punto di vista economico i mercanti francesi furono favoriti rispetto a quelli catalani. Per tutti questi motivi, uniti alla situazione continua di guerra, alle epidemie e alle carestie, si sollevò un enorme malcontento verso il nuovo governo, che favorì la riconquista da parte di Madrid nel 1652 e la proibizione da parte di Luigi XIV, di parlare il catalano nel Rossilione.
Sentimento antifrancese, che ai tempi della guerra di successione spagnola portò Barcellona a schierarsi con gli Asburgo, invece con i Borbone, che dopo la vittoria e la presa della città del 1714, portarono a conclusione il processo di centralizzazione amministrativa cominciato dalla precedente dinastia.
Ora, se queste sono i motivi storici per cui avere l’indipendenza, il ducato di Massa e Carrara, autonomo sino al 1829, ne avrebbe allora assai più diritto… Il problema è che a Barcellona, dall’inizio del Novecento in poi, vi è stata una classe dirigente egoista che, per mantenersi aggrappata al potere e al contempo contenere il malcontento delle classi popolari nei suoi confronti, si è creata un nemico immaginario, la Castiglia, riscrivendo la Storia a proprio uso e consumo
Un’operazione degna di Orwell: ciò che sta accadendo questi giorni, con la disoccupazione che continua a crescere e i lavoratori sempre più poveri, è l’ennesimo atto di questa politica sconsiderata e avventurista…
Annihilation: il primo trailer del film tratto dal romanzo di Jeff VanderMeer
Annihilation(Annientamento) è il primo capitolo della trilogia di romanzi che ha sancito il successo internazionale dell’autore di fantascienza Jeff VanderMeer. Primo capitolo che grazie alla Paramount troverà sbocco anche nelle sale cinematografiche, sotto la regia di Alex Garland (Ex Machina), con un film che a giudicare dal trailer che vi mostriamo in coda al post sembra promettere bene. Segue la trama del film che vede Natalie Portman nei panni della protagonista principale:
Per trent’anni l’Area X – un territorio dove un fenomeno in costante espansione e dall’origine sconosciuta altera le leggi fisiche, trasforma gli animali, le piante, sembra manipolare lo stesso scorrere del tempo – è rimasta tagliata fuori dal resto del mondo. La Southern Reach, l’agenzia governativa incaricata di indagarne gli enigmi e nasconderla all’opinione pubblica, ha inviato numerose missioni esplorative. Nessuna però è mai tornata davvero dall’Area X: chi, inspiegabilmente, ricompariva al di qua…
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A Palermo Giacomo Serpotta e il suo tempo
A Palermo sino al 1 ottobre 2017 nella meravigliosa cornice dell’Oratorio dei Bianchi è protagonista Giacomo Serpotta, colui che rivoluzionò l’arte dello stucco facendola assurgere alla dignità stessa del marmo. I suoi putti bambini, giocosi e innocenti, svolazzanti tra angeli e santi, lo hanno reso uno dei più grandi stuccatori d’Europa. Serpotta ha avuto la capacità di infondere nelle carni dei suoi putti sottili finezze psicologiche, realizzando così una straordinaria miscela di realismo e gioiosa allegoria che non ha eguali fra il tardo Sei e il primo Settecento in Europa. Nell’esposizione Serpotta e il suo tempo, curata da Vincenzo Abbate, vi sono riuniti per la prima volta oltre 100 opere tra dipinti, marmi, stucchi, oreficerie, avori, coralli, disegni, stampe e testi antichi, che raccontano, uno dei momenti più affascinanti e significativi della cultura figurativa palermitana.
Il percorso al pianoterra dell’oratorio è stato interamente dedicato alle opere del Serpotta. Si possono ammirare a…
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Giovanni Boldini. La stagione della Falconiera in mostra a Pistoia
G.Boldini, Scorcio della stanza (Decorazione della sala da pranzo della Falconiera), 1868, Pistoia, Musei dell’Antico Palazzo dei Vescovi
In occasione di Pistoia Capitale Italiana della Cultura, presso il Museo dell’Antico Palazzo dei Vescovi gestito da Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia, dal 9 settembre 2017 al 6 gennaio 2018 è ospitata la mostra “Giovanni Boldini. La Stagione della Falconiera“, curata da Francesca Dini con la collaborazione di Andrea Baldinotti e Vincenzo Farinella. L’esposizione fa luce sulle esperienze e sulle frequentazioni in Toscana del pittore ferrarese, che fu tra i più importanti interpreti della Belle Époque. La rassegna riporta in luce in particolare lo straordinario momento creativo vissuto del maestro ferrarese in epoca giovanile, quando muovendosi tra Pistoia, Firenze e Castiglioncello, si trovò al centro di una rete di importanti relazioni amicali e professionali che ne segnarono positivamente l’inarrestabile ascesa artistica.
Il titolo della mostra prende…
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October 2, 2017
Boeucc e Trani
Quando abitavo a Milano, nella mia casetta a Via Pavia, spesso la sera non avevo voglia di cucinare, di dedicarmi a un aperitivo fighettino o mangiare qualche piatto etnico, avevo tre soluzioni. Quando mi sentivo terribilmente pigro, traversavo in ponticello, per andare a comprare una puccia o panzerotto all’Ambasciata Tarantina, l’equivalente della nostra Radici a Conchetta, dove il buon Cosimo, dalla mole imponente, testimonianza del suo amore per la buona cucina, che condivideva con gli avventori, mi deliziava con i suoi racconti sulla Puglia.
Quando invece, per liberarmi dai troppi pensieri, volevo dedicarmi a una lunga camminata, per andare a mangiare in una boeucc, una tradizionale osteria, in cui la sciura, oltre che rimpinzarmi di piatti tipici, aveva deciso di trasformarmi in un milanese doc, capace di parlare di parlare alla perfezione il dialetto meneghino. I risultati furono disastrosi, ma lei non gettò mai la spugna. Ogni tanto mi manda ancora mail, rimproverandomi di avere abbandonato l’ombra della Madonnina.
Non era la mitica Briosca, in via Ascanio Sforza 27, locale che risaliva al 1600, rilevato nel 1968 da Luciano Sada, detto “il Pinza”, ma chiuso nel 1973 a causa della speculazione edilizia o la la Cassina de’ Pomm (delle mele), una locanda con mulino del Quattrocento sul Naviglio della Martesana che nel Settecento fu osteria frequentata perfino da Giacomo Casanova e da Stendhal (che scrisse: «La Cascina delle Mele è il Bois de Boulogne milanese»).
Neppure somigliava all’ Osteria dei Tre Re o al Rebecchino, gli avventori andavano per ubriacarsi ma anche per giocare a dadi, all’Osteria del Galletto si riuniva la Compagnia della Teppa o alla Nos (la Noce), fuori del dazio di Porta Ticinese, ritrovo della Scapigliatura, Carlo Porta aveva un suo tavolo fisso.
Anzi, con il suo arredo datato e per citare il buon Gozzano
Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone,
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col mònito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,
le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,
i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,
avrebbe fatto storcere il naso a tanti radical chic. Eppure ero affezionato a quel luogo, al suo strano e ondulato campo di bocce, dove i pensionati giocavano infinite partite, tragugiando i loro mezz liter e in cui dividevo il tavolo con studenti senza un euro in tasca, presunti artisti, stanche segretarie, navigate prostitute, composti ragionieri e ligera abbonati a San Vittore.
Tutti assieme a mangiare pescetti fritti, nervetti, lingua salmistrata e mondeghili e a bere un quai coss de bagnà. Ogni tanto, qualche sciroccato, assai brillo e stanco di giocare a carte e a morra, si azzardava a suonare una chitarra scordata, che, secondo la sciura, era appartenuta al leggendario artista di strada Enrico Molaschi, più noto come il Barbapedana, il “menestrello divino”, che morì in povertà alla Baggina nel 1911 lasciando in ricordo al vicino di branda la sua unica ricchezza: il cappello a cilindro con cui si esibiva gratis e che aveva la coda di uno scoiattolo cucita dietro.
Quando invece ero nella media, me ne andavo in un’osteria pugliese a fare il tranatt… Già, Trani a Milano indica il locale in cui si vende il vino: questo perché, quando a causa della guerra doganale di Crispi alla Francia, non arrivava più vino da oltralpe, i pugliesi colsero l’occasione a volo, aprendo le mescite del loro vino tra Porta Ticinese e Porta Romana.
Così mi godevo un’ottima cucina, a volte in compagnia di un vecchio e sciroccato amico, che imitando Gaber, per tutta la serata mi rompeva l’anima canticchiando male Trani a gogò? o la Ballata del Cerrutti Gino tanto per fare il simpatico…
Un’ulteriore osservazione sulla pista ciclabile di Santa Bibiana
Se qualcuno ancora non fosse al corrente della creazione della pista ciclabile ricavata all’interno del tunnel di Santa Bibiana pubblichiamo un esauriente video di “RomaFaSchifo” che evidenzia le molte contraddizioni e criticità di questa opera. Siamo assolutamente d’accordo che il cervellotico passaggio ciclabile sul marciapiede e il conseguente divieto di transito per i pedoni non può che generare una guerra tra poveri e che in ultima analisi gli unici a rimetterci sono proprio i pedoni che si vedono costretti ad autentici “giri di Peppe” per attraversare in sicurezza sia dalla parte di via Giolitti sia dalla parte di via Tiburtina.
In più vorremmo aggiungere una cosa che nessuno ha fatto notare e che rende ulteriormente più difficoltosa la vita dei pedoni che utilizzano un mezzo pubblico per recarsi al lavoro o comunque per spostarsi in città: per realizzare questo capolavoro è stata soppressa (non spostata) la fermata della linea 71…
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October 1, 2017
Abu Tabela, sindaco de Roma !
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Uno dei limiti della narrativa steampunk italiana è la sua esterofilia, l’incapacità di valorizzare i tanti folli e strampalati personaggi che popolano il suo Ottocento. Così, più per gioco che per altro, nelle prossime settimane mi dedicherò a buttare giù una carrellata, sia per fornire qualche spunto ai miei compagni di viaggio, sia perché, prima o poi, faranno una comparsa nei miei romanzi.
Comincio da quello che è forse il più famoso, Abu Tabela, Paolo Crescenzo Martino Avitabile, la tigre di Peshawar, che non avrebbe sfigurato nelle pagine di Salgari, in compagnia di Tremalnaik e di Yanez. Un uomo sempre in bilico tra coraggio, onore, lucida follia, avidità sfrenata e senso del dovere.
Paolo nasce ad Agerola il 25 ottobre 1791, da una famiglia non nobile, ma benestante e possidente di proprietà agricola; crescendo, come Fabrizio del Dongo, visse in pieno la fine dell’epopea napoleonica. Entra nella milizia ausiliaria nel 1807, a sedici anni, e da lì passa nell’esercito regolare del Regno di Napoli, all’epoca sotto Murat. Avitabile dimostra subito grandi doti tecniche e fa carriera in artiglieria, venendo promosso al grado di aiutante, il più alto raggiungibile dai non ufficiali, e guadagnandosi una medaglia.
Non partecipa alla battaglia di Tolentino, è abbastanza intelligente da capire l’aria che tira, e aderisce all’esercito borbonico, tanto da partecipare all’assedio di Gaeta, città che di fronte agli Austriaci di Delaver aveva chiuso le porte e che avrebbe resistito per due mesi (giugno-agosto 1815). In questa occasione, comanda una delle batterie di cannoni che fanno fuoco ininterrottamente durante l’assedio, fino a distruggere le mura e la torre della città, e durante una delle azioni, pur ferito alla testa da una scheggia di metallo, rifiuta ostinatamente di lasciare il comando. Questo suo gesto viene notato dal comandante delle truppe austriache, che lo raccomanda per una promozione ed una medaglia.
Invece, a causa di un commilitone invidioso, che lo accusa di essere un bonapartista convinto, non solo non ottiene alcuna promozione o medaglia, ma viene anzi messo a mezza paga nella fanteria leggera. Vista la situazione, Paolo decide di cambiare aria: da buon uomo del sud, sogna di emigrare in America e per potersi pagare il biglietto, comincia a fare la spola tra Baleari, Algeri e golfo del Leone, dove naufraga a bordo di un veliero spagnolo.
Riesce a salvarsi, sbarcando però in un’area infettata dalla peste e viene messo in quarantena nello Chateau d’If, di fronte a Marsiglia. Rilasciato, ma in condizioni miserevoli e senza denaro, viene tratto in salvo da alcuni ex ufficiali bonapartisti, che gli consigliano invece di dirigersi in Oriente, per mettersi al servizio di Costantinopoli, dove da una parte il sultano Mahmud II era impegnato nel suo duello mortale con i giannizzeri, dall’altra Mehmet Ali tramava per trasformare l’Egitto in suo dominio personale.
Fra gli ufficiali che incontra, vi sono Jean-François Allard e Jean Baptiste Ventura, due veterani di Waterloo che avrebbe poi rincontrato anni dopo in India. Ventura, che come tradisce il nome aveva origini italiane (emiliane, ad essere precisi: il padre era un ebreo di Modena), era stato in fanteria, aveva combattuto a Wagram e preso parte alla campagna di Russia, mentre Allard aveva prestato servizio nei corazzieri di Ney con il grado di capitano, distinguendosi per il suo coraggio a Waterloo, dove aveva partecipato alla sfortunata carica della cavalleria francese.
Tra loro, Paolo non sfigurava a giudicare dai quadri che ci restano di lui, faceva la sua bella figura in uniforme: era alto un metro e ottanta e i favoriti che portava sul volto gli davano un’aria marziale. A Costantinopoli, però, non se lo fila nessuno: per cui, senza un soldo il tasca, decide di dare retta a Beraud, un ex capitano della Guardia Imperiale, che lo convince a trasferirsi in Persia, dove, a causa di una delle sue tradizionali guerre civile, c’era più possibilità di riempirsi lo stomaco.
Guerra civile combattuta tra i figli dello shah Fat’h-Ali della dinastia dei Qajaridi, succeduti ai Safavidi nel 1794: da un lato, c’è l’erede nominato, Abbas Mirza, che controlla Teheran ed è sostenuto da consiglieri e militari inglesi; dall’altro, Mohammed Ali Mirza, figlio maggiore e governatore del Kermanshah, che invece ha nel suo seguito uno stuolo di europei non inglesi, perlopiù francesi, a cui si aggiunge anche Avitabile: inizialmente a Paolo sono affidate mansioni minori, come l’addestramento delle truppe, ma ad un certo punto ottiene l’incarico, difficile ma importante, di ridurre all’obbedienza ai riottosi capi tribù curdi e far pagare loro le tasse.
Visto che i curdi, come oggi erano poco propensi a entrambe le cose, Paolo decise di adottare una linea dura, che ai nostri tempi lo avrebbe fatto definire un pericoloso criminale di guerra, instaurando un regime di terrore, che però risulta tanto efficace, da fargli ricevere il titolo di khan, il grado di colonnello e uno sproposito di medaglie, di cui Mohammad, che aveva interpretato con particolare entusiasmo il detto napoleonico
Ogni soldato francese porta nella sua giberna il bastone di maresciallo di Francia
ne era assai generoso.
Alla morte improvvisa di Mohammad per gotta, Paolo, per non finire impalato dai curdi , passa al di là della barricata e viene accolto a braccia aperte da Abbas Mirza, che in ragione della sua abilità lo riconferma nelle posizioni svolte fino a quel momento. Però, visto che la guerra civile è terminata, di oro se ne vede di meno e la noia aumenta sempre più: Dopo sei anni dal suo arrivo in Persia, Avitabile si trasferisce nuovamente, passando al servizio di un principe indipendente indiano, Ranjit Singh, il fondatore dell’impero dei Sikh.
Per pagare le spese di viaggio, durante il quale viene accompagnato da un altro reduce francese, un tenente di fanteria di nome Claude Auguste Court, egli si porta dietro un ricco bagaglio di oggetti preziosi, che vende lungo la strada. Giunge a Kabul nel 1826 e le sue referenze vengono fornite al Maharaja Ranjit da Allard e Ventura, i due ufficiali conosciuti a Marsiglia. Anche qui, all’inizio gli viene assegnata l’artiglieria e la sovrintendenza degli arsenali e delle fonderie, ma già l’anno successivo Ranjit gli affida la provincia di Wazirabad, nel Punjab, dove Paolo mostra un lato inaspettato del suo carattere, l’amore per il bello e per l’arte, facendo costruire, il bazar, la torre ottagonale della fortezza sikh e il suo nuovo palazzo.
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Nel 1834, Ranjit Singh lo nomina Govenatore di Peshawar,la Gandara di Alessandro Magno, città ritenuta un castigo di Dio dai credenti. L’Afganistan all’epoca è tale e quale ad adesso. Paese di infinite etnie. Ognuna gelosa della propria libertà e irriducibile nemica di un governo centrale, anche se autoctono. Terra di feroci guerrieri e bande dalle infinite bandiere, che attirava uomini disperati, come falene la luce.
Peshawar è circondata da magnifiche, verdi campagne e abitata dai più riottosi, imprevedibili, anarchici, pericolosi individui, pronti a tagliare la gola per mezza rupia. Polverosa e caotica all’interno, la città è come oggi, assolutamente ingovernabile. Paolo vi arriva come un improvviso inverno. E gli abitanti sono governati di colpo da un uomo che racchiude i lati oscuri di Tamerlano, di Barbablù e di Vlad l’impalatore.
Appena arrivato, Paolo fa piantare dei pali di legno fuori delle mura della città, con delle corde deposte in terra. Gli abitanti della città cominciano a deridere questa stranezza del governatore, dicendo per reggere una città come la loro servono spade e fucili, non corde e pali di legno. Ma poi Avitabile prende a far impiccare cinquanta persone al giorno e le cose iniziano cambiare, trasformandolo in Abu Tabela, l’Uomo Nero con cui le mamme afghane spaventano ancora i figli discoli.
Il suo motto è
“per ogni crimine, una testa”
e non passa giorno senza che vi siano delle esecuzioni capitali. I corpi delle vittime sono poi lasciati marcire in bella vista, per spaventare i predoni che infestano quelle terre. Paolo usa anche impalare e spellare vivi certi condannati a morte, quando la gravità del crimine, a suo insindacabile giudizio, rende necessario uscire dalla norma.
Ha fatto modificare il minareto della moschea di Mahabat Khan per trasformarlo in un trampolino di lancio per i condannati a morte, che crepano schiantandosi al suolo, per risparmiare sui costi del patibolo.
Uno di questi, una volta, riesce ad attaccarsi al cornicione e urla che Allah l’aveva miracolato, e i due boia non riescono a riacciuffarlo. Paolo, per risolvere quella impasse scrive la sua grazia su di una pergamena dicendo di consegnarla al disgraziato e una volta ripreso lo fa ributtare giù al grido di:
“Allah perdona, Avitabile no”
diventando così famoso per non avere mai concesso la grazia a nessuno. Nei momenti di quiete, Paolo caccia con i falconi, visita antiche rovine, scrive poesie, si gode la quiete del numeroso harem. Gli inglesi, che pur sopportandolo a malapena, hanno bisogno del suo aiuto per condurre il Grande Gioco contro i Russi, sostengono che gli afghani guardino Avitabile con la paura e la reverenza con cui gli sciacalli scrutano da lontano la tigre.
Joseph Wolff, un bizzarro missionario tedesco, scrive invece che Paolo, nonostante abbia ammassato una gran fortuna, sogna sempre di tornare a Napoli e mormorando:
“Per amor di Dio, fatemi uscire da ’sto posto”.
Alla fine, pieno di soldi e preso dalla nostalgia, torna in Europa nel 1843. Viene ben accolto a Parigi e Londra, dove tra le tante cose, compra un torello, due vacche gravide e una vitella di razza Jersey. Arrivato a Napoli, i Borboni lo assumono come una sorta di consulente nella loro interminabile lotta contro i corsari barbareschi e contro la tratta degli schiavi, si dedica all’agricoltura e selezione una nuova razza di mucche, l’Agerolese, molto rustica, con un latte di qualità eccezionale, impiegato sia per la produzione del “provolone del Monaco” la cui paternità e’ rivendicata anche da Arola di Vico Equense, paesino alle falde del Faito, dove vi sono ancora tanti Caseifici specializzati in questo tipo di lavorazione.
Poi, atteggiandosi a gran signore, fonda un teatro e fa costruire anche un bel palazzo vicino al paesello natio, facendo demolendo le rovine della chiesa benedettina di San Severino, sul cui portone principale fa incidere la massima di San Bernardo
O beata solitudo, o sola beatitudo
In più, per non fari mancare nulla, sposa la figlia di suo fratello, di quarant’anni più giovane di lui, dopo aver ricevuto la dispensa dalla Chiesa, che era gia fidanzata con un altro e fu cosi che, il 28 marzo 1850 alla vigilia di Pasqua, gli fa mangiare dell’agnello avvelenato. Dopo qualche ora di agonia nel suo palazzo appena intonacato, Paolo muore, mormorando:
“Mi hanno avvelenato, ma vi faccio vedere io chi è Avitabile…”
Insomma, dove non erano arrivati gli assassini afghani, sono arrivati i parenti, che si scanneranno per anni in una complessa e folle causa legata alla sua eredità.
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La lapide della tomba di Paolo è ancora visibile. Riporta le principali tappe della sua vita
NAPOLI, PRIMO TENENTE
PERSIA, COLONNELLO
LAHORE , GENERALE
PESHAWAR, GOVERNATORE.
Sulla parte inferiore spicca in bassorilievo l’impettito busto del generale tra un affusto di cannone ed alcuni fucili.
L’epitaffio conclude con l’elenco delle varie decorazioni del generale:Cavaliere della Legione d’Onore e di S. Ferdinando Merito, Commendatore dell’Ordine di Durani e di Ranjit Singh, Gran Cordone del Leone e Sole di Persia, Gran Cordone dei due Leoni e la Corona di Persia, Gran Cordone della Stella Brillante del Punjab.
O’Leary al pub
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Una piccola storia, tratta da Mondo Birra, che però ci fa riflettere su tante cose 
No, non abitavamo in Svizzera, ma ci avevate promesso un cambiamento
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Gentile Paola Taverna, no, noi non vivevamo in Svizzera: anzi, vivevamo in una città che con tutti i suoi problemi di infrastrutture, corruzione, degrado sociale era molto più simile a Calcutta che a Berna.
Vi abbiamo dato fiducia, proprio per assomigliare un poco di più alla Svizzera, perché ci avete ripetuto in tutte le salse che voi sareste stati onesti e competenti e come in un battere di ciglia avreste risolto tutti i problemi, alcuni millenari, di questa città.
Non lo avete fatto. In più, non ha avete neppure dato prova di particolare virtù e capacità… Legga cosa ha scritto il vostro Stefàno
Il nostro compito è difficile, difficilissimo, forse più di quello che ci aspettavamo. Non basta una volontà politica forte (che finalmente c’è) per cambiare questa città, c’è una macchina amministrativa e burocratica che va completamente rifondata.
Talvolta, dopo l’ennesimo parere contrario della Polizia Locale perché ”i cordoli per proteggere le preferenziali sono pericolosi” oppure perché ”sono pericolose le bike lane” lo scoramento è alto. Che aumenta dopo l’ennesimo verbale che il Dipartimento si perde e quindi una conferenza dei servizi su un cordolo per una preferenziale si chiude dopo quattro mesi. Oppure quando manca solamente una determina dirigenziale per istituire una nuova corsia (già progettata e finanziata) ma gli uffici non la redigono perché sono “oberati” e non possono fare tutto.
Non parliamo poi di quando per la realizzazione di una preferenziale manca solo lo spostamento di una bancarella (di competenza del Municipio) che però devi spostare in un luogo equivalente, dove ahimè lo stesso Dipartimento boccia tutti i luoghi alternativi. O quando non riesci a spostare di qualche centinaio di metri un capolinea perché l’area non è collaudata, e per anni va avanti il rimpallo tra Dipartimento e Municipio e ogni mese devi rimettere al tavolo tutti.
O le diverse aree pedonali pronte, progettate, dove manca solamente la stesura di una (semplice) Delibera di Giunta da parte degli uffici.
Un caos, dove anche l’operazione più banale si trascina per mesi (anni) all’interno di una macchina burocratica che o per incapacità, o per malafede, o per pigrizia, ti rema contro. Poi spesso ci sono le eccezioni positive, per carità, ma che purtroppo tali restano.
Alcuni risultati recenti, sicuramente minimi ma molto significativi (parapedonali a S. Lorenzo e 720 a Ciampino) sono stati possibili solamente grazie a un continuo lavoro di coordinamento e stress dei Dipartimenti competenti (che hanno cercato in tutti i modi di rimpallare dicendo addirittura che il sottopasso fosse di competenza di RFI, o che hanno tenuto fermo il progetto di prolungamento per mesi perché non hanno voluto firmare contratto per lo stallo con ADR).
Tutto questo quadro, di per se critico, è stato ulteriormente peggiorato da una normativa nazionale che non aiuta e sta uccidendo tutti gli enti locali. Dai blocchi assunzionali per cui al massimo puoi assumere una persona ogni quattro che vanno in pensione, al nuovo codice degli appalti che impone la progettazione esecutiva (non più definitiva) per andare in gara.
Qualche volta quindi ti balena un pensiero “Roma non cambierà mai”. Poi però alzi gli occhi, vedi la bellezza straordinaria di questa città, e rifletti che non può finire così, non possiamo gettare al vento un patrimonio di questa portata. Non possiamo condannare la Capitale di un Paese del G7 al sottosviluppo, all’anarchia, al degrado. Perché la macchina in doppia fila o l’assenza di una ciclabile sono strettamente connesse alla disoccupazione e al ristagno economico.
Per fortuna alle fermate, mentre aspetti il bus, incontri tante persone che ti riconoscono e ti incoraggiano ad andare avanti, che vedono l’impegno che mettiamo in questa ”missione” e l’impresa titanica che abbiamo davanti, dove c’è un sistema da ricostruire.
Come diceva qualcuno, loro non si arrenderanno mai, noi neppure.
Sono scuse e piagnistei che sentiamo da decenni, siamo consapevoli dell’esistenza di tali problemi: ma vi abbiamo votato perché li risolveste, anche in tempi rapidi, non che li usaste come alibi. Perché, è nostro diritto protestare per le vostre promesse non mantenute.
Per cui, invece di insultare i vostri elettori, che non credo sia un metodo assai intelligente per conservare i loro voti, rimboccatevi le maniche: parlate più con i cittadini, piuttosto che dare retta alle paturnie dei vostri ultras e rimanete ancorati alla realtà, senza inseguire slogan senza senso.
Faccio un esempio concreto: i parco di via Statilia, danneggiato dal crollo di un pino marittimo. La vicenda ha scatenato una discussione su FB; dopo un rimpallarsi di responsabilità, su cui non mi pronuncio, perché conosco poco i fatti e non sono esperto di alberi, i rappresentanti delle varie forze politiche sono stati concordi nell’attivare il servizio giardini del comune. Tutti tranne una vostra consigliera, nemica della street art, tranne quando è dipinta da vostri attivisti, che invece di dare un contributo fattivo alla discussione, se ne è uscita con un
“Prove tecniche di Rosatellum”.
Questo è il vostro limite: parlate male, pensate male, agite peggio… Avete ancora quattro anni, per invertire questo trend, però sbrigati che il Tempo vola e Roma non può più aspettare
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