Alessio Brugnoli's Blog, page 175

October 16, 2017

La fisioterapia è finita…

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Oggi è stato l’ultimo giorno di fisioterapia di Manu ! Finalmente, il mio tesoro si è rimesso… Anche se deve rafforzare ancora un poco i muscoli, facendo qualche esercizio a casa e camminando, il ginocchio è guarito alla perfezione.


No, non ho intenzione di togliermi ipotetici sassolini dalle scarpe, ma soltanto raccontare le strane emozioni di questi giorni… Anche perché, sembra strano, ma tutte queste sedute erano una sorta di metronomo che scandiva la mia vita.


Scappare dall’ufficio, per prendere al volo la navetta, correre via Machiavelli, per beccarsi qualche rombrotto dalle segretarie, per qualche timbro mancante o per una ricetta scritta male dal medico di famiglia, mai che ne imbroccasse una !


E poi, entrare nello strano mondo della palestra, accolti da Orio, gran maestro di cerimonie e fisioterapista. A dire vero, sull’USI ho sentito pareri contrastanti: che me ne ha parlato bene, chi ne ha detto peste e corna.


La nostra esperienza è positiva: Orio è un gran professionista, preparato, severo al punto giusto, con un aplomb invidiabile. Con le sue peculiarità e il suo humor anglosassone, non sfigurerebbe in un racconto di Sherlock Holmes o in una puntata di Doctor Who: però, in un mese e mezzo, è riuscito a fare ricamminare Manu


E godere della compagnia di tutti gli strani personaggi, degni di un romanzo, che ho incontrato queste settimane: dalla moglie dell’ambasciatore di uno staterello caraibico, con la sua saggia indolenza, all’ex giocatore della Roma di Herrera, un’enciclopedia vivente del calcio.


Dalla grande cuoca, con cui discutere per ore su come marinare al meglio i vari tagli di manzo, al Manuel Fantoni di turno, le cui avventure immaginarie, finalizzate a fare colpo sulle dottoresse del Centro Diagnostico, ci hanno rallegrato tra un esercizio e l’altro. Dal malato di tecnologia alla consulente filosofa, che ha cominciato a riflettere sul senso della vita, partendo da un malleolo rotto.


Dalla nonna dalla volontà d’acciaio al clone romano del commendator Zampetti, sempre al telefono a litigare con il suo broker. Da Osvaldo, una montagna dai capelli bianchi, saggio e pacato, a Franco, la locomotiva umana, che a settant’anni riesce ancora ad avere il fiato, la testardaggine e il coraggio di correre una maratona.


A loro modo mi mancheranno: spero di incontrarli presto, guariti e in piena forma, sotto i portici di Piazza Vittorio…


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Published on October 16, 2017 12:51

Suggerimenti

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Ieri, come tradizione, si è tenuto a preso la scuola Di Donato .il mercatino dell’usato e del consumo etico, occasione per conoscere le attività di tante realtà dell’Esquilino. Il sottoscritto, ovviamente, non si è fatto sfuggire occasione per andare a darci un’occhiata.


Non solo perchè le Danze di Piazza Vittorio hanno animato il pomeriggio, insegnando il Circolo Circasso e la Pizzica ai bambini della scuola, che, detto fra noi, se la cavano assai meglio del sottoscritto…


Perché, tra i tanti partecipanti, ve ne sono due a cui sono affezionato, non solo per ragioni di stomaco: il caseificio Cibo Agricolo Libero e il birrificio Vale la Pena. Esperienze tra loro diverse, ma che sono accomunate da un unico importante scopo, il reinserimento nella società di chi, nella vita, può avere commesso degli errori


Cibo Agricolo Libero è un caseificio, in cui le detenute lavorano il latte prodotto dalla Cooperativa Bio di Poggio Mirteto: iniziativa promossa da Vincenzo Mancini di Proloco DOL, il locale dedicato alla promozione dei prodotti e cibi del Lazio, che ha sede a Centocelle, proprio accanto a dove una volta vi era il leggendario negozio di abbigliamento I Ladroni


Il birrificio Vale la Pena è invece un progetto a cura dell’Istituto Agrario Emilio Sereni: entrambe le realtà, oltre agli ottimi prodotti, hanno la capacità, assai rara in questi giorni di ridare la speranza alle persone.


Cosa che a molti sembra sciocca, ma avendo qualche amico di infanzia al gabbio, mi rendo conto di quanto sia importante…


 


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Published on October 16, 2017 06:08

October 15, 2017

Il sarto che volle farsi re

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Per riprendere il discorso sui potenziali eroi dei romanzi steampunk italiani, oggi presenterò una carrellata di fenomeni da baraccone, che hanno reso la cialtronaggine una sublime forma d’arte.


Cominciamo da Walter Reinhardt, un avventuriero che aveva messo insieme un esercito mercenario composto da europei ed indiani, che si presuppone essere tedesco, visto che si ignorano il vero nome e la data e il luogo di nascita.


Reinhardt arrivò in India come impiegato amministrativo al seguito del governatore e ammiraglio francese, Bertrand-François Mahé de La Bourdonnais, nonno del famoso scacchista Louis Charles, che lo cacciò a pedate, vista la facile corruttibilità del soggetto in questione, tale da scandalizzare la Compagnia francese delle Indie orientali, che sulle integrazioni al reddito dei suoi addetti era assai di manica larga.


Per non morire di fame, Reinhardt si arruolò in reggimento mercenario svizzero al servizio della East India Company, ma disertò quasi subito, non volendo rischiare di beccarsi qualche fucilata.


Però, queste esperienze gli suggerirono l’idea di come ci si potesse arricchire a spese della complessa politica locale: nel 1764 mise su un piccolo esercito, 300 europei senza arte né parte e 2000 sepoys, arruolati nei bassi fondi di Delhi, perché chiedevano poco di stipendio, e si mise al servizio dei vari signori della guerra indiana.


La tattica bellica di Reinhardt era semplice: schierare le truppe nel punto più sicuro del campo di battaglia, sparare qualche colpo a caso, chiuderle a quadrato e aspettare l’esito dello scontro. Se avesse vinto il nemico, sarebbe passato, dietro un congruo pagamento, dalla sua parte. Se invece la vittoria era del suo datore di lavoro, avrebbe chiesto un adeguato aumento, visto che aveva combattuto e vinto senza perdite.


Il fatto che Reinhardt non finesse impalato, è perenne testimonianza della superiorità morale dell’India rispetto all’Europa.


Nel 1764 ebbe la faccia tosta di chiedere dei fantomatici stipendi arretrati al governo di Delhi. Il Gran Moghul, per toglierselo dalle scatole ed evitare che combinasse altri danni, lo nominò titolare di un feudo nel Sarghana.


Reinhardt, che era sposato con l’indiana Badi Bibi e aveva un figlio, Balthazar Aloysius, mentre era impegnato in queste ehm trattative, perse la testa per la prostituta persiana Fursund Azuzai, conosciuta in bordello di Delhi.


Fursund, forse era veramente innamorata di Reinhard, visto che lo tormentava con infinite scenate di gelosia: così l’avventuriero, per tenerla buona, inscenò a Sardhana un finto matrimonio, da cui nn

ebbero figli. Alla morte di Reinhard, Fursund ereditò feudo ed esercito: così trascorse dieci anni di avventure picaresche.


Ebbe un matrimonio segreto con un ufficiale scozzese, che provocò l’ammutinamento dei suoi uomini, che la legarono per una settimana alla bocca di un cannone, fu impegnata in una guerra senza quartiere con Balthazar Aloysius, che voleva a costo conquistare Sardhana, addirittura si sfidarono a un duello all’arma bianca, che vide prevalere Fursund, sconfisse più volte le truppe inglesi guidate da Wellington, finché dopo un ricco donativo, si schierò dalla sua parte.


In più, ottenne uno spropositato vitalizio di un milione di rupie annue da parte del Gran Moghul: dato che nulla è più facile da acquistare che la rispettabilità, l’ex prostituta di Delhi divenne così la leggendaria begum Sumroo, dal soprannome che aveva Reinhardt, l’hombre, il che ha fatto pensare a molti come potesse essere in realtà spagnolo o italiano.


In questo manicomio, di per sé già affascinante, si infila il buon Paolo Solaroli: nato da una famiglia di umili origini: il padre Antonio era un sarto originario della località di Bersano, vicino a Busseto, nel parmigiano, mentre la madre Agosta era una casalinga novarese.Ora, all’inizio Paolo cominciò a lavorare nella bottega del padre, ma visto che gli affari andavano male, si arruolò nell’esercito sabaudo.


Sfortuna volle che fosse assegnato a uno dei reggimenti che nel 1821 si ammutinarono per chiedere la Costituzione.


Per evitare il peggio Paolo si diede alla macchia, fuggendo prima a Londra, poi in Egitto, dove tentò di trovare lavoro come sarto nell’esercito di Muhammad Ali, con pessimi risultati, tanto da emigrare in India: lì, a quanto pare, campò facendo il venditore ambulante di elisir contro tutti i mali e di lunari, finché non incrociò il vicentino Antonio Reghellini, un poco paranoico, perché viveva perseguitato dalla paura di essere avvelenato dalla moglie, che essendo amante della begum, si era ritrovato controvoglia generalissimo del suo esercito.


Reghellini non ne voleva proprio sapere, essendo lui un architetto: dato che Fursund, per ottenere gratis il vino importato dall’Italia e dalla Francia dalle missioni cappuccine si era convertita al cattolicesimo, lui progettò, oltre al palazzo reale, la cattedrale, dedicata a Maria Vergine e il monumento funebre della begum, fatto scolpire a Roma a Tadolini. Per cui, trovando per caso un ex militare, decise di farlo nominare generalissimo al suo posto.


Paolo accettò, ma le sue funzioni furono sin dall’inizio assai diverse: fu una sorta di capo animatore della corte di Fursund, organizzatore di feste e delle parate ehm militari, in cui la begum appariva davanti alle sue truppe, cavalcando un elefante, fumando un narghilè, il tutto accompagnato da salve di cannone e fuochi d’artificio. In più, svolgeva il compito di grande stilista reale, disegnando ogni anno le divise della servitù e dell’esercito.


Dedicandosi al meglio a questi importantissimo compiti, fu preso in simpatia dalla begum, che le fece sposare la nipote, rendendo Paolo il principale erede, nominandolo principe del Principe di Sirdhanah. Nel 1834, però, la situazione precipitò di colpo, per le tensioni tra Russia, Gran Bretagna e Afghanistan. Bisognava in qualche modo, rimettere in ordine l’esercito del Sargath.


Reghellini si diede malato: Paolo, con un poco di buonsenso, consigliò di convocare un consulente esperto. Il primo che fu contattato fu Avitabile, con cui Fursund da giovane aveva avuto una storia, il quale senza troppi peli sulla lingua, suggerì di spellare vivi tutti i mangiapane a tradimento, ossia la quasi totalità delle truppe, per poi arruolare qualche soldato più dignitoso. Avitabile, dopo enormi ringraziamenti e doni, fu messo alla porta.


Fu così il turno del buon Rubino Ventura, che accettò la nomina a vice generalissimo e invase i territori afghani assieme a Paolo, impegnandosi in una complessa serie di marce e contro marce, all’unico scopo di stare ben lontano dal nemico. Data la sua famigerata fortuna, ottenne anche una delle sue straordinarie vittorie: avendo sbagliato strada, piombò in piena notte nell’accampamento nemico, cogliendolo nel sonno. Comunque, a togliere le castagne dal fuoco ai due compari, fu la morte di Fursund, il 27 gennaio 1835.


Le truppe tornarono in fretta e furia a Sardhana, vestite con una nuova divisa in blu e oro appositamente disegnata da Paolo, per partecipare ai solenni funerali della begun, a cui parteciparono le principali autorità inglesi in India e il vicario apostolico Gregorio XIV, che portava la sua benedizione: il Papa, infatti, sia per le donazioni all’obolo di San Pietro fatte da Fursund, sia perché di regine indiane cattoliche ce ne erano pochine in giro, si era convinto come lei fosse una devotissima figlia di Santa Madre Chiesa.


Il 1 gennaio 1836 cominciò la complessa causa legata all’eredita di Fursund: secondo gli accordi presi nel 1800, il Sardhana sarebbe dovuto diventare un possesso della Compagnia delle Indie, che avrebbe in cambio dato un immenso indennizzo a Paolo. Gli inglesi fecero orecchi da mercante, tanto che furono trascinati in tribunale. Gli echi di questa vicenda giudiziaria, tra l’altro, colpirono l’immaginazione di Verne, prese spunto per il romanzo I Cinquecento Milioni Della Begun, edito nel 1879. Nel racconto, due occidentali ricevono alla morte di una sovrana indiana con cui sono imparentati alla lontana una somma esorbitante, che di lì a poco utilizzano per costruire due città ideali, esempi di ideologie contrapposte.


Mentre era impegnato in questa disputa legale, Paolo, per accattivarsi l’opinione pubblica inglese, decise di raccontare in maniera creativa la sua biografia. Disse che, dopo i moti di Novara, era stato in Spagna con le truppe piemontesi nella guerra del 1823, riportando varie ferite, per andare in Egitto, allo scopo di organizzare una spedizione di soccorso alle forze indipendentiste greche, tra le quali si trovava Lord Byron , assediate dai Turchi a Missolungi.


La morte di Lord Byron aveva interrotto quel progetto e Solaroli era diventato istruttore delle truppe egiziane di Mehemed Alì. Lasciato l’Egitto era partito per l’India mettendo la sua spada al servizio degli Inglesi, distinguendosi nella campagna di Birmania, durante la quale aveva salvato la vita al generale sir Robert Brown, che le aveva fatto conoscere la begum.


Questa versione romanzata dei fatti colpì il cuore e la fantasia dei giudici inglesi, che gli fecero vincere la causa: così Paolo, ricco in maniera spropositato, decise di tornare a casa. Carlo Alberto, colpito sia dalle sue ricchezze, sia dalla sua biografia rivisitata, lo nominò barone e gli concesse il titolo di colonnello dell’esercito sabaudo.


Con lo scoppio dei moti del 1848, Paolo, che nel frattempo, non sapendo che fare, aveva studiato un poco di materia militare, con il massimo della faccia tosta chiese al comando di Torino un passaggio al ruolo effettivo col medesimo grado concessogli dal sovrano. Nel 1849 partecipò alla Battaglia di Novara dove, il che fa capire il livello medio degli ufficiali sabaudi, fece una buona figura, ottenendo la fiducia dell’allora principe ereditario Vittorio Emanuele


Quando quest’ultimo, di lì a poco, fu salito al trono sabaudo, incaricò Paolo di organizzare il ritorno in patria della salma del padre dall’esilio dove era stato costretto a Oporto, in Portogallo. Continuò a seguire il sovrano come suo aiutante di campo personale, prendendo parte prima alla campagna del 1859 e poi, settantenne, a quella del 1866 assieme a quattro dei suoi figli ed al genero, Carlo Brascorens di Savoiroux, comandante del Saluzzo Cavalleria.


Nel 1867, dopo la firma della pace con gli austriaci e la conquista del Veneto, ottenne dal re il delicato incarico di restituire al Duomo di Monza la corona ferrea asportata in precedenza dagli imperiali. Dopo questo atto Vittorio Emanuele II lo nominò marchese di Briona, dove di recente aveva acquistato un castello oltre a concedergli il titolo di generale ed alcune tra le massime onorificenze di stato


Ritiratosi a Briona, Paolo vi morì il 10 luglio 1878, ispirando poi la figura del buon Yanez a Salgari…


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Published on October 15, 2017 06:31

E fu luce…. anche a viale Manzoni!

Esquilino's Weblog


Stavolta evidenziamo un avveninmento positivo: sono state cambiate le lampade a viale Manzoni adeguandole ai nuovi standard dell’illuminazione a LED. Minori consumi e una maggiore visibilità. Forse qualcuno storcerà la bocca perchè siamo passati dalla luce gialla a quella bianca (vi ricordate tutte le polemiche di quest’estate?) ma vi possiamo assicurare che l’effetto è tutt’altro che disprezzabile, anzi…



Contestualmente ha riaperto anche lo show room della FCA (la ex FIAT di viale Manzoni tanto per intenderci) che con le sue nuove lampade e i nuovi faretti di ultima generazione  riesce ad illuminare ulteriormente anche l’incrocio con via Principe Eugenio e il pezzo iniziale di via di Porta Maggiore.



Beh, a viale Manzoni, mancheranno tante altre cose e c’è da lavorare parecchio per riportarlo a un livello decente di decoro urbano, ma almeno la luce notturna c’è, almeno quella….


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Published on October 15, 2017 03:24

October 14, 2017

Popoli del Mare ?

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In questi giorni si è tornati a parlare dei Popoli del Mare e della crisi che mise fine ai complessi equilibri politici ed economici presenti nel Mediterraneo nella tarda età del Bronzo. Il motivo è lastra calcarea lunga 10 metri e alta 35 centimetri è stata trovata nel 1878 nel villaggio di Beyköy, a 34 chilometri a nord di Afyonkarahisar nella Turchia moderna. L’archeologo francese George Perrot copiò l’iscrizione prima che la pietra venisse utilizzata dagli abitanti del villaggio come materiale da costruzione per la fondazione di una moschea.


La copia è stata riscoperta nella tenuta dell’inglese James Mellaart, studioso di preistoria, dopo la sua morte occorsa nel 2012 ed è stata consegnata da suo figlio al dottor Eberhard Zangger, presidente della fondazione Luwian Studies , perché fosse analizzata. Dalla traduzione parrebbe come un re di Mira, uno dei tanti stati dell’area Arzawa, una zona a lingua luvia dalla storia politica alquanto complicata, un coacervo di guerre civili, di vassallaggi agli hittiti, di ribellioni, che intorno al 1200 a.C. era riuscita a riavere un ruolo centrale nella politica anatolica, tanto che Šuppiluliuma II, l’ultimo imperatore ittita conosciuto, dopo avere riunificato i suoi domini, ne riconosceva al suo regnante il titolo di Gran Re, equiparandolo diplomaticamente al faraone egiziano, abbia organizzato un’alleanza tra i tanti statarelli luvi, organizzato una flotta e messo a ferro e fuoco i vicini.


Ora benché vi siano notevoli problemi sulla trasmissione testuale e sulla traduzione e che quanto contenuto con il testo non sia consistente con quanto narrato da Ramesse nella stele issata a Medinet Habu, in cui elenca, tra gli stati distrutti dai Popoli del Mare, oltre che la Terra degli Hatti, l’impero hittita, anche la stessa Arzawa, un paio di elementi a sostegno ve li ha.


Il primo é come molti stati luvi, come Kummuhi (Commagene in epoca classica), Milid (Militene), Tabal (Tubal nella Bibbia), Tiantis sul Tauro, sembrano essere stati immuni al caos dell’epoca. il secondo è come tale narrazione si incastri bene con quanto narrato nelle tavolette in lingua accadica concernenti la corrispondenza di Hammurapi III (1195-1190), ultimo sovrano di Ugarit (Ras Shamra, Siria), rinvenute nel suo archivio privato.


I passi più indicativi della corrispondenza di Ugarit datata al 1190 a.C. sono:

1) la segnalazione del sovrano di Cipro della presenza in mare di una flotta nemica e il suggerimento al re di Ugarit di allestire le difese . Questo sovrano sconosciuto era stato insediato a Cipro da pochi anni dal re ittita Suppiliuluma II, di cui è tramandata una vittoria sulla flotta cipriota, intorno al 1200 a.C., utilizzando – probabilmente – le navi di Ugarit.

2) la drammatica comunicazione del sovrano ittita Suppiliuluma II (1200-1182 a.C.), che attesta la sua sconfitta di fronte a un nemico di difficile identificazione e la devastazione del paese;

3) la risposta di Hammurapi III al re di Cipro, nella quale, dopo essersi giustificato di aver dovuto inviare le sue truppe e le sue navi in Licia (probabilmente per difendere il territorio degli Ittiti, essendone vassallo), comunica che l’attacco nemico era già iniziato e di non avere i mezzi per respingerlo . Tale nota non sarà mai spedita, a causa della distruzione della città.


Tuttavia, ciò lascia aperto anche due grossi problemi



Cosa abbia spinto una civiltà complessa e urbanizzata, come quella luvia, che aveva finalmente raggiunto uno status internazionale, a trasformarsi in una sorta di vichinghi dell’età del bronzo ?
Che legami vi sono tra questi eventi e ciò che è accaduto in Occidente, con il crollo della civiltà micenea ?

A livello di chiacchiere, senza alcuna pretesa di storicità, proviamo a formulare un’ipotesi, alquanto peregrina, visto le idee alquanto vaghe che abbiamo sul mondo miceneo, che da una parte, dalla corrispondenza diplomatica egiziana e ittiti, pare un’entità unitaria, mentre dalle scoperte archeologiche appare come un coacervo di tanti staterelli feudali, fortemente burocratizzati.


E’ possibile che questi staterelli si siano organizzati in una sorta di lega, in cui, in analogia con quanto accadrà nella Grecia Classica, ci siano state parecchie guerre civili: al di là di quanto riportato nei vari miti, dalle vicende degli Atridi ai Sette contro Tebe, vi sono segni di lotte e distruzioni a Micene, Tirinto e Tebe, che a pace raggiunta, furono seguiti da imponenti lavori di fortificazione, come la prima costruzione dell’Hexamilion.


A questo aggiungiamoci come nel XIII sec. a.C. alcuni terremoti devastanti colpirono i centri della Grecia di Tebe, Tirinto, Micene, Midea e Pilo . Recenti scavi hanno dimostrato che la redazione di alcune tavolette dell’archivio di Tebe fu interrotta bruscamente a causa di materiali edilizi precipitati improvvisamente dai piani superiori. Il che, in una società in cui magari, per legittimare il predominio di uno staterello sull’altro, vi sia stato una sorta di “protezione sacrale”, può aver logorato le basi ideologiche su cui si basava il tessuto sociale.


I contadini, gli artigiani e i mercanti, visto che gli dei potevano avere abbandonato i loro capi, potevano esprimere in diverse forme la contestazione e il malumore nei loro confronti, dalla ribellione allo sciopero bianco.


Comunque sia, gli staterelli micenei. che per mantenere la complessa e ridondante struttura amministrativa,che raccoglieva tasse e ridistribuiva beni, avevano quattro principali fonti di entrate: l’agricoltura, il commercio internazionale, l’esportazione di ceramiche, bronzi e tessuti e i proventi della guerra.


Tra il 1250 e il 1200 a.C., queste fonti entrano in crisi: la tarda età del bronzo è un periodo di forte cambiamento climatico, ben più estremo di quello che stiamo vivendo oggi. na ricerca dell’Università di Tolosa sui grani di polline ottenuti dai sedimenti del lago salato di Hala Sultan Tekke (Cipro) ha evidenziato l’esistenza di una terribile siccità nel bacino del Mediterraneo, nell’età del bronzo finale, che ebbe per conseguenza la riduzione drastica della produzione agricola. Lo stesso è testimoniato dai sedimenti estratti sul fondo del lago di Tiberiade (o mar di Galilea).


E la riprova di quanto fossero drammatiche le carestie connesse è stata fornita dai documenti egizi. Nel 1223 a.C.il faraone Merenptah acconsentì ad inviare navi cariche di grano “per tenere in vita la nella terra degli Ittiti” . Inoltre, le tavolette di Ugarit del 1200 a.C. circa, poco prima dell’invasione dei Popoli del Mare, confermano il prosieguo della drammatica carestia prodottasi nel regno ittita, che chiede a Ugarit di inviare 2000 misure di grano da Mukish a Ura .


Se nel Vicino Oriente e in Egitto gli impatti sono stati pesanti, possiamo immaginare che dramma abbiano vissuto gli agricoltori e gli allevatori micenei. Con la carestia, non si potevano più pagare le tasse al Palazzo, le terre feudali da cui l’amministrazione traeva lo stipendio non erano più produttive, la moria delle pecore avrà fatto collassare sia la manifattura, sia il commercio dei tessuti. A questo si associano le sconfitte militari, dovute alla reazione ittita alla presa di Wilusa, che porta alla cacciata dei Micenei dall’Asia minore e la crisi del commercio, dovute sempre all’embargo ittita.


Questa crisi economica è evidente negli ultimi documenti scritti dei palazzi micenei: nei ultimi mesi prima del collasso, alle fucine del Palazzi, che svolgevano un ruolo centrale nella produzione delle armi e dei beni di lusso da usare come status symbol e come beni da esportare, vengono consegnati appena pochi chili di bronzo.


Per cui, intorno al 1225 a.C., il complesso e fragile mondo miceneo entra in tilt: ci saranno state rivolte generalizzate e orde di profughi saranno migrati sia a ovest, verso l’Italia, integrandosi nella società tribali dell’epoca, che proprio per la minore organizzazione politica godevano di maggiore resilienza e ad Est, verso gli antichi partner politici e commerciali luvi. Questi, per evitare il collasso dovuto a questi arrivi inaspettati, forse decisero di cavalcare la tigre, imitando l’abitudine micenea di sottrarre risorse ai vicini tramite la guerra predatoria


P.S. non sapendolo, ho scoperto come Eberhard Zangger abbia formulato un’ipotesi assai simile alla mia


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Published on October 14, 2017 07:17

Blade Runner 2049 è il miracolo fantascientifico di cui avevamo bisogno (recensione senza spoiler)

David De Biasi




Sono passati più di 30 anni dall’uscita del primo Blade Runner che è entrato nella testa e nei cuori degli appassionati e cultori di cinema e fantascienza. Il film di Ridley Scott, ricordiamolo, fu un’opera senza dubbio innovativa nell’ambito fantascientifico sostanzialmente per una duplice ragione:




Perchè fu uno “spartiacque” per la fantascienza dell’epoca, che fino ad allora si era concentrata su navi spaziali, invasioni aliene, catastrofi tecnologiche, etc.,  in quanto per la prima volta si portava su schermo un noir futuristico di ispirazione dickiana: sul conflitto tra Deckard e gli androidi Nexus 6 si innesta non soltanto l’eterna questione etica e filosofica del confronto tra uomo e macchina, ma un discorso molto più profondo sulla nostra stessa identità di esseri umani.
Perchè entrò nell’immaginario collettivo: dalla famosa frase “io ne ho viste di cose…” alla sua inconfondibile estetica decadente, oltre a essere il capostipite di un’intera corrente quale il…

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Published on October 14, 2017 05:00

October 13, 2017

Marvel in Netflix














 


Mi sono abbonato a Netflix per un motivo assai banale: fare in modo che, durante la convalescenza, Manu non si annoiasse troppo e che passasse in qualche modo il tempo. Però, di fatto, mi è salita la scimmia sulla spalla e sono settimane che non accendo più la televisione, affogato nel vortice delle serie Marvel. Ieri sera, con l’ultima puntata di The Defenders, sono uscito dal tunnel. Così, per sfizio, ecco a voi le mie inutili pagelle


Devil stagione 1: voto 9. Spacca, perché rielabora in chiave contemporanea tutte le tematiche contenute in Man Without Fear di Miller, dall’eroe che spinge oltre i limiti il proprio corpo, allo spazio urbano decadente e violento. Grandioso è Vincent d’Onofrio, nella parte di Kingpin, che è il riflesso oscuro dell’eroe. Perché entrambi si confrontano con un Hell’s Kitchen in cui il male è palpabile, un veleno che percorre le strade, corrompendo ogni cosa. Non esiste integrità, ma azione. Sia Devil, sia Kingpin, vogliono redimere il proprio quartiere, usando la violenza come strumento, con l’ambizione di redimere i propri padri.


La differenza tra i due è nel rapporto che si ha con più deboli: per Devil, gli ultimi sono persone da difendere, per Fisk, ostacoli per la realizzazione del suo grande sogno


Jessica Jones: voto 7.5. Ok, sono pieno di pregiudizi, avendo amato Alias, sono rimasto con l’amaro in bocca. Ora benché la serie abbia tratteggiato bene una supereroina fin troppo umana, quasi alcolizzata, cinica, piena di sensi di colpa e in guerra con il genere maschile, però diluisce ed edulcora l’atmosfera dura e cattiva del fumetto. Poi, aggiungo il fatto che, secondo me, il ritmo delle prime puntate è troppo lento.


Ciò che risolleva la serie, è il cattivo: David Tennant, l’attore scelto per Killgrave, fornisce al personaggio un’interpretazione memorabile: sia lui, sia Jessica, in maniera differente, sono vittime di una violenza, che ha cambiato la loro vita, rendendoli diversi da ciò che avrebbero voluto. Ed entrambi, a modo loro, sono egoisti e autocentrati. Ma se Jessica cerca di superare le sue debolezze, Killgrave le asseconda e alimenta.


Devil stagione 2: Voto 8. Il grosso limite è nella mancanza di un centro narrativo, come poteva essere Fisk nella stagione precedente. Eppure affascina il tema della tentazione, che il filo conduttore di tutta la serie. Da una parte il Punitore, che detto fra noi è recitato in maniera superba da Bernthal,alter ego filosofico di Matt, che mette in dubbio la possibilità che esista una Redenzione, dato Castle non concede, né cerca perdono. Dall’altra Elektra, la tentazione del caos e del Nichilismo.


E Murdock, stavolta, non decide, non prende una scelta netta, ma si barcamena tra i due.


Luke Cage: Voto 7. Mettiamola così, alle prime puntate avrei dato un 10, per le atmosfere, le musiche, Luke Cage che è eroico non per la sua lotta con i cattivi, ma contro la sua paura di non essere all’altezza del ruolo, di non poter diventare quel modello di riscatto che Harlem vorrebbe imporgli. E soprattutto, per un cattivo, forse non epico, ma elegante e ricco di sfumature come Cottonmouth. Poi, il voto diventa 4. Gli sceneggiatori hanno deciso di avere osato troppo e tornano alle vecchie e un poco noiose storie da fumetto


Iron First: Voto 7. Dopo avere letto parecchie recensioni, temevo assai peggio… Sospetto però che il mio giudizio sia offuscato dal mio amore per i film di kung fu. Certo Danny Rand è un poco bamboccione, deve crescere e maturare, però la sua ingenuità è un ottimo controcanto alla una crudeltà gelida, impalpabile, indifferente al resto del modo di Madame Gao, che però, come tutta la mano, viene messa in ombra da quel ragno malsano che Harold Meachum.


The Defenders: Voto 7. Anche in questo caso, temevo un pasticcio di dimensione cosmiche, ma gli sceneggiatori sono riusciti a dosare bene i vari personaggio, con le loro diversità caratteriali, centrando la serie su due splendidi cattivi. Alexandra, Sigourney Weaver, è tanto spietata, quanto fragile e insicura, che ormai vive l’immortalità come un peso, dato che vive più di ricordi e nostalgie che di speranze, consapevole della caducità della vita.


Ed Elektra che finalmente acquisisce tutto il suo spessore di donna spietata e cinica, ma anche innamorata profondamente di Matt Murdock.


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Published on October 13, 2017 07:06

Ray Bradbury parla di Fahrenheit 451, l’intervista

KippleBlog




Ray Bradbury, uno dei più grandi autori di fantascienza del secolo passato, di sicuro non ha bisogno di introduzioni. Nel video che vi presentiamo oggi, Bradbury parla di uno dei capolavori che ha contribuito a renderlo uno scrittore immortale: Fahrenheit 451, edito in Italia col titolo “Gli anni della fenice”. È un’intervista molto interessante, che senza ombra di dubbio qualsiasi fan dell’autore saprà apprezzare. Buona visione!




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Published on October 13, 2017 01:49

October 12, 2017

Le case romane di Michelangelo

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Paolo Giovio racconta come il giovane Michelangelo, tornato da Bologna, ebbe commissionata da Lorenzo il Popolano una statua, raffigurante un Cupido Dormiente, pagata 30 ducati. Lo scultore, felicissimo, la realizzò in un batter d’occhio.


Così, il cugino di Lorenzo il Magnifico, decise di usarla per compiere una beffa ai danni del ricchissimo cardinale Raffaele Riario, nipote di Sisto IV. Fece sotterrare il Cupido per patinarlo come un reperto archeologico e con la complicità del mercante Baldassarre Del Milanese, lo appioppò come originale greco, per 200 ducati, al Riario.


Quando il buon Andrea Bregno si accorse della truffa, il cardinale andò su tutte le furie. Per riavere indietro i suoi soldi, spedì di corsa a Firenze il suo uomo di fiducia Jacopo Galli, notaio della Camera apostolica, un Uditore a capo di un settore dell’ufficio; anche gabelliere alla dogana di terra; e poi, per un anno, Conservatore, una sorta di sindaco di Roma.


Galli rimase assai sorpreso quando si accorse di come Michelangelo non solo non sapesse nulla di questa vicenda, ma come ne fosse, data la sua tirchieria, alquanto irritato, data la differenza notevole tra il suo onorario e quanto pagato dal cardinale. Da quel momento, nacque tra i due una grande amicizia.


Quando Michelangelo si trasferisce a Roma, Galli gli affitta, per un canone simbolico, una casa tra Palazzo della Cancelleria e Piazza Navona. Poi comincia a svolgere per l’artista il ruolo d’agente, firmando per lui i contratti, garantendo la bontà delle future realizzazioni e rilevando in caso di contestazioni, le sculture protestate.


Rapporto così stretto, che Galli firmerà al posto di Michelangelo il contratto per la Pietà, in cui vi è scritto


Infra un anno la farà; sarà la più bella opera di marmo che sia oggi in Roma; maestro nissuno la faria melior oggi; et versa vice prometto al dicto Michel che lo reverendissimo cardinal farà lo pagamento secundo che di sopra è scripto


Nel 1513, però Michelangelo trasloca in una casa messa a disposizione dagli eredi di Giulio II, affinché, si possa dedicare a quello che è una sorta di incubo che lo perseguiterà per tutta la vita: la tomba di tale Papa.


La casa , situata in una zona popolare della città, allora chiamata Macel de’ Corvi, una sorta di Esquilino dell’epoca, con problemi e lamentele simili alle nostre è modesta: comprende due camere da letto, la bottega al pianterreno, un tinello e la cantina. C’ è anche una loggia, la stalla e l’ orto. A capo della scala l’artista vi ha disegnato uno scheletro, con questa scritta:


”Io dico a voi, c’al mondo avete dato / l’anima e ‘l corpo e lo spirito insieme: / in questa cassa oscura è ‘l vostro lato.”


Secondo quanto scrive Michelangelo vi è vissuto


povero e solo come spirto legato in un’ ampolla,


rinchiuso nelle stanze


come la midolla da la sua scorza


La zona circostante è puzzolente, come la nostra via Principe Amedeo perché la gente che lavora nei dintorni la usa come discarica, buttandoci carogne di gatti e di altri animali, e come latrina


Eppure in quella casa, nonostante tutti questi piagnistei, vi si trova bene, assieme a una sorta di strampalata e bizzarra famiglia, lontano dai veri parenti, che considera un’orda di parassiti, sempre pronti a estorcergli denaro.


La sua quotidianità e il suo affetto li concede solo al suo garzone, Francesco di Bernardino detto Urbino – che non ha nessun talento artistico, ma che per Michelangelo è come un figlio, tenendo a bada una a sgangherata ridda di serve – fra cui la figlia di un pizzicarolo, che fu rapita dal fratello sotto gli occhi dell’ attonito Michelangelo ottantenne. Tutte queste donne del popolo, giovani e di costumi disinvolti, sono sopportate a malapena dal misogino padrone di casa, che spesso le scaccia dopo poche settimane, maledicendo il giorno in cui le aveva assunte. Alla fine, solo una certa Caterina, più testarda di lui, riesce a tenergli testa, facendogli compagnia sino ai suoi ultimi giorni.


Nel febbraio del 1564, l’ artista novantenne è sorpreso dal discepolo Tiberio Calcagni mentre si aggira sotto la pioggia. Confusamente, farfugliando, dice di stare male, e che non trova quiete in nessun luogo, e Calcagni lo riporta a casa. L’ ultima malattia è breve. Michelangelo trascorre tre giorni febbricitante accanto al camino,e tre giorni a letto. Tommaso Cavalieri, ormai invecchiato padre di famiglia, ma sempre devoto al geniale maestro che l’ aveva amato, l’ allievo Daniele da Volterra, che diventerà in futuro il famigerato Braghettone, Diomede Leoni e il servo Antonio gli leggono la Passione di Cristo.


Poche ore dopo, nelle stanze di Macel de’ Corvi entra il notaio e compila l’ inventario dei beni del defunto. Michelangelo, che aveva acquistato innumerevoli proprietà immobiliari per elevare lo status sociale dei suoi parenti, possiede solo vestiti frusti e fazzoletti logori, una lettiera di ferro, tre materassi, due coperte di lana e una di pelle d’ agnello, vasi di rame ammaccati. Nessun mobile di pregio, nessuna stoffa preziosa; né suppellettili dorate, specchi o quadri arredano le stanze spoglie. Vi sono però sacchetti pieni di monete d’ oro, ricchezze che da grande avaro che è, ha voluto ossessivamente, ma che non ha mai speso né goduto. E di tutte le opere che aveva sognato e mai finito lascia ben poco: qualche disegno, due o tre cartoni, tre marmi abbozzati, tra cui tra cui la cosiddetta Pietà di Palestrina, destinata a Santa Maria Maggiore (oggi conservata nella Galleria dell’Accademia di Firenze) sotto la quale, secondo il Vasari, Michelangelo avrebbe voluto la sua sepoltura.


Dopo secoli, la casa torna a far parlare di sé, alla fine dell’Ottocento, in occasione del primo Piano Regolatore di Roma del 1873. che ne prevede l’abbattimento, assieme a tutto l’isolato. Nel 1881 l’intenzione si traduce in realtà, per costruire l’Altare della Patria.


A causa delle proteste di artisti di tutto il mondo, la casa di Michelangelo, o meglio la sua facciata, inizialmente è trasferita vicino al Palazzo Valentini di Piazza Venezia, e precisamente al civico n° 212 di Via dei Fornari, come ricorda un’epigrafe affissa, dove rimane fino al 1902. In quell’anno, per la costruzione del Palazzo delle Assicurazioni Generali, è trasferita in Via delle Tre Pile, sul lato destro della scalinata del Campidoglio, ma durante il periodo fascista, in cui ritorna la mania del piccone risanatore, la si sposta di nuovo


La definitiva collocazione si deve ad opera dell’ingegnere Adolfo Pernier (Roma 1874-1937), direttore dei lavori di urbanistica, che individua nel Gianicolo il luogo più idoneo, più precisamente nel tratto della Passeggiata che va dal Monumento di Garibaldi a Porta San Pancrazio. Sul prospetto appaiono due epigrafi che spiegano, una, che si tratta del “Serbatoio Gianicolense” l’altra, che si tratta della “cosiddetta Casa di Michelangelo”… E speriamo che finalmente abbia pace.


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Published on October 12, 2017 12:58

Braciola, Panetto e gli altri (seconda parte)

giacomo verri




1 (5)Museo del Deportato 
Carpi, Fossoli 2015 ((Foto © Alessio Duranti http://www.alessioduranti.it)



Fu un giorno che pioveva a dirotto, e che di camminare non se ne parlava neanche con l’ombrello. Quella volta dovetti arrendermi e accettare l’invito; ma la Fiammetta non s’era sentita bene, e allora niente ragù, bensì brodo caldo di gallina.

«Quella vera, che le ho tirato il collo io, mica del supermercato!»

Ne mangiai due piatti pieni, tra lo stupore generale.

«L’ultima volta credo di averla mangiata che ero ancora bambino,» mi giustificai.

La Fiammetta volle saperne di più.

«Ricordo poco, ma c’era questo contadino che ogni tanto ci portava qualcosa: delle uova, qualche verdura, una gallina appunto».

«Noi s’è sempre avuta la terra, finché c’ha retto la schiena per lavorarla».

«E poi,» continuai, «ci siamo trasferiti in città per lavoro, e dalla finestra non vedevo neanche più le stelle».
«Le persone non lo sanno cos’è che…


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Published on October 12, 2017 05:16

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Alessio Brugnoli
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