Alessio Brugnoli's Blog, page 170
November 21, 2017
The Maker, lo stupendo corto in stop motion con 7 milioni di visualizzazioni
The Maker è il secondo cortometraggio in stop motion realizzati da Zealous Creative (dietro a cui troviamo la mente e il talento del regista Christopher Kezelos), dopo un altro cortometraggio che 6 anni fa ebbe anch’esso molto successo: Zero. The Maker è una storia commovente, profonda, molto ben curata nei dettagli, che riesce a racchiudere in solo 5 minuti quella che è un po’ la storia di qualsiasi artista: dai successi e fallimenti inevitabili nel processo creativo, alla solitudine, all’amore. Buona visione!
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November 20, 2017
Pittore raro e in molte virtù studioso
Poi, quello strano sogno. Per fortuna, non mi è apparso Alan. Ero nello studio di un pittore, che sembrava uscito da una rappresentazione di drammi shakespeariani. Aveva pochi capelli, una barca sporca di colore e una pancia degna di Falstaff.
Alle pareti vi erano strani ritratti, dalle fisionomie grottesche ottenute attraverso bizzarre combinazioni di una straordinaria varietà di forme viventi o di cose. Uno era composto di fiori, un altro da frutti. Sul tavolo, tra alambicchi e pennelli spelacchiati, spuntava una maschera ricoperta totalmente di conchiglie.
La porta si aprì all’improvviso. Entrò un giovane, dal viso imbronciato. La sua barba era curata; sembrava uno degli armigeri che ogni appaiono nel Macbeth o nell’Amleto, però la sua spada appariva affilata. Il suo pomolo aveva la forma di un’aquila scaccata.
Il pittore accennò a un sorriso.
– Buongiorno Lotario, come posso esserti utile? Scusami se non m’inchino, ma ho paura che la mia schiena mi tradisca o che le mie braghe si rompano definitivamente.
– Cercavo il mio compagno di viaggio.
– Sendovigius? Sei arrivato tardi: è passato non più di due tocchi fa, lasciandomi l’incombenza di riparare quella maschera. Certo che è proprio brutta Dice di averla ottenuta da un viaggiatore di ritorno dal Messico, ma o mente o è stato truffato. Riconosco quelle conchiglie, sai? Se ne trovano a mille, sulle spiagge nei pressi di Genova.
Il giovane strinse con forza l’elsa della spada.
– Non mi fido di lui…
– Allora rifiuta con diplomazia la richiesta di Rodolfo… In finale, troverai qualche usuraio romano che sarà capace di anticiparti l’oro per affrescare il palazzo nel tuo feudo, o no? Anzi, se vuoi te lo faccio io gratis… Mi sono un poco annoiato di Praga. Ho voglia di visitare posti nuovi o di tornare nella mia Milano.
– Non posso: papa Clemente mi ha minacciato di cedere il ducato ai Colonna, se rifiuto. Lo sai quanto è lunatico Rodolfo. Potrebbe legarsela al dito e così,addio crociata contro i turchi.
Il pittore intinse un pennello in un vasetto di colore e incominciò a rifinire una tela, in cui il viso sembrava essere fatto di cacciagione.
– Allora ti tocca fare buon viso a cattivo gioco. Se ti può consolare, anch’io mi fido poco di quell’alchimista, benché debba ammettere che, nonostante la sua fissazione con il salnitro, sia uno dei pochi che abbia ottenuto dei risultati concreti. Hai sentito il suo accento? Tanto polacco quanto il mio; sospetto sia una spia di Mattia.
Lotario annuì con vigore, poi cominciò a rimirarsi in uno specchio.
– Lo temo anch’io… Ma non possiamo denunciarlo, se abbiamo care le nostre teste. Rodolfo lo venera come un maestro, e tutto per inseguire il sogno della pietra filosofale.
– Non credo sia questo. Rodolfo è ossessionato dalla brama di sapere ed è pronto a tutto pur di ottenerlo. Sendovigius si vanta di avere una spiegazione per tutto, dimostrando come ogni cosa che si osserva faccia parte di un’unità più grande e di un ordine armonico.
– A Roma lo brucerebbero a fuoco lento. Giù a Campo de’ Fiori.
– Lo farebbero anche con noi, però ho altri sospetti su di lui. A sentire Tycho, pare che trascorra la notte evocando entità dell’abisso, apportatrici di morte e di caos. Dice di avere visto Sendovigius parlare con alberi che camminano, con il tronco cosparso di fauci fameliche.
– Il tuo amico astrologo dovrebbe bere di meno, pisciare di più e trascorrere le notti andando per bordelli, invece che a scrutare le stelle. Sono cose che riequilibrano gli umori, liberando il cervello dagli effluvi dell’immaginazione.
Il pittore si allontanò dal quadro e con lo stesso pennello tracciò sulla tavola degli strani geroglifici, che incominciarono a brillare per poi dissolversi in una luce verdastra. Si carezzò la barba e da un cassetto tirò fuori una pergamena scritta in ebraico. La porse a Lotario.
– Me l’ha donata il rabbi Judah Loew; dovrebbe proteggere te, la tua stirpe e il tuo palazzo da qualsiasi maleficio possa ideare Sendovigius. Contiene i nomi segreti e potenti dei Malakh, i servi di Dio.
Lotario la osservò con attenzione, puntando con l’indice un paio di sillabe. Poi se la infilò in una tasca.
– Te ne sono grato… Ma il prezzo da pagare? Farò la fine di Faust?
– No, nulla di questo… Tuttavia, potrà essere che i tuoi discendenti siano,come dire, un poco eccentrici…
– Roma è la capitale universale della follia. Nessuno vi farà mai caso.
E’ un brano di Lithica che ho ambientato nella Praga di Rodolfo II in cui faccio incontrare a uno degli strampalati antenati dei miei eroi il buon Arcimboldo, pittore che con il suo cercare l’armonia nascosta delle cose e gli enigmi di un apparente caos mi ha sempre affascinato.
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Per cui, non potevo non fare a meno di andare alla sua mostra romana a Palazzo Barberini, anche per distarmi dalle vicende del mio pappagallo… Giudizio: mostra piccola, ma ben allestita e non superficiale nei contenuti. Il personale gentilissimo e disponibile, le audioguide sintetiche ed efficaci.
Il problema grosso, però, sono stati gli spazi, troppo ristretti, a mio avviso. Ieri pomeriggio, mancava l’aria e specie nello spazio dedicato alle Quattro Stagioni e ai Quattro Elementi, a causa delle visite guidate, a volte troppo fracassone, mancava la possibilità di godersi a pieno le opere, la loro bellezza e il loro simbolismo, che rappresenta sia il continuo fluire della vita, sia una complessa allegoria politica: l’immagine dello Stato, il cui variegato e multiforme popolo assume una propria forma e identità grazie al governo del Sovrano, signore del Tempo profano e delle forze Arcane del Creato.
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November 19, 2017
Giovanni Battista Belzoni, esploratore
Mentre incrocio le dita, in attesa di notizie da Pippi, anche se le cose sembrano volgere in positivo, seguendo i suggerimenti del buon Augusto, mi dedico a raccontare la vita di un uomo, Giovanni Battista Belzoni, capace di far impallidire parecchi personaggi di romanzi e film…
Giovanni Battista nacque il 5 novembre 1778 a Padova, all’epoca ancora parte dei domini della Serenissima, da Giacomo e da Teresa Pivato, donna dalla statura fuori dal comune, che fu ereditata dal figlio che fin da bambino fu soprannominato il Gigante e Giambatta, nella zona di Borgo Portello, cuore popolare della città del Santo. Un tempo il quartiere era circondato dall’acqua, un’isola urbana avvolta da un ramo del fiume Bacchiglione, a pochi passi dalla chiesa di Santa Sofia, una delle più antiche di Padova, costruita sulle fondamenta di un tempio romano dove si celebrava probabilmente un culto sincretico agli dei solari Apollo e Mitra. Il suo vero cognome era Bolzon, ma in età adulta, per darsi un tono, lo cambiò in Belzoni e millantò di essere “di famiglia romana, stabilita da lungo tempo a Padova”.
Il padre era un barbiere e avendo una bottega avviata, tento di educare Giovanni Battista alla nobile arte del rasoio, della forbice e del pettine: ma lui non volle sentire ragione, tanto che a 13 anni, assieme al fratellino Francesco di 9, scappò da casa, aggregandosi, come il buon Goldoni, a una compagnia d’attori girovaghi.
Raggiunto dal padre a Ferrara, a forza di schiaffoni fu costretto a tornare a casa e a più miti consigli: ma dato che era più testardo di un mulo, ritentò l’impresa; a sedici anni si trasferì a Roma, per studiare idraulica forse presso il Nazareno, dove gli Scolopi, grazie a Padre Gaudio, avevano messo su un’ottima scuola dedicata a tale branca della fisica.
Per risparmiare sulla retta, Giovanni Battista prese gli ordini minori: cosa abbia fatto in quel periodo, poco si da, però, a volte, mi piace pensare come la sua figura erculea, era più di due metri di muscoli, abbia ispirato l’immaginario romano, dando spunto per il leggendario zifrà Antonio, una specie di Bud Spencer in abito talare, che a inizio Ottocento, a suon di mazzate convertiva i reprobi nelle viuzze del Rione Monti.
A ogni modo, il catechismo non era il maggiore interesse di Giovanni Battista: con l’arrivo delle truppe napoleoniche, gettò la tonaca ai rovi: però vista la sua stazza, a qualche ufficialone francese venne l’idea di arruolarlo a forza; ma lui a tutto pensava, tranne che a farsi prendere a schioppettate per la gloria dell’Imperatore. Per cui, si nascose nella cripta dei cappuccini, in quella che è adesso via Veneto, da dove poi scappò nascosto in una botte vuota, simile ai nani de lo Hobbit.
Non sapendo come campare, si trasferì a Parigi, dove si mise a fare il venditore di santini; ma visto che all’epoca la religione tirava poco, tornò a Padova. Assieme al fratello,All’inizio del 1800 insieme al fratello minore Francesco parte per Amsterdam per cercare di migliorare ancora le sue conoscenze di ingegneria idraulica. Non riesce tuttavia a trovare lavoro e torna di nuovo a casa, dove si lancia in una nuova impresa imprenditoriale: apre uno spettacolo di lanterne magiche, che ebbe ebbe un discreto successo che attirò delle gelosie.
Accusato di avere malmenato un gruppo di soldati francesi, prese baracche e burattini e cambia aria di nuovo: visti i problemi passati, sfruttando la breve tregua garantita dal trattato di Amiens, decise di trasferirsi nell’unico posto in cui non poteva avere problemi con Napoleone, Londra.
Il problema era come campare in terra d’Albione: sfruttando il suo fisico, si buttò negli spettacoli circensi, interpretando il ruolo di “Patagonian Samson” (“Sansone Patagonico”) e di Black Congo, il capo di una tribù di cannibali africani. al teatro Sadler’s Wells e al circo Astley di Londra, vicenda che forse ispirerà Verne nel raccontare le vicende giapponesi del Jean Passepartout, ne Il Giro del mondo in Ottanta Giorni.
Se l’idea di interpretare un capo cannibale a noi moderni può apparire scontata, più strana può apparire quella del patagone: ma all’epoca, questo tipo di selvaggio andava assai di moda. Nel 1797, infatti, lo scienziato e poligrafo Carlo Amoretti aveva scoperto nella Biblioteca Ambrosiana, dove era bibliotecario, le relazioni di viaggio del buon Antonio Pigafetta, che si credevano perdute, in cui parla proprio dei primitivi dei primitivi della Patagonia, che così entrarono nell’immaginario collettivo.
Lo spettacolo di questo colosso dai riccioli rossi e gli occhi azzurri, vestito con calzari di corda e un gonnellino di pelle, un copricapo di piume sulla testa, l’ampio torace nudo, che indossava un’imbragatura di metallo con due pedane laterali, su cui dieci acrobati costruivano una piramide umana, colpì l’immaginazione del londinese medio.
In più, in questo periodo trovò anche moglie: durante le tournée teatrali in Gran Bretagna Giovanni Battista conobbe Sarah Banne. Fu un colpo di fulmine; la sposò dopo poco mesi. Di lei abbiamo una descrizione particolare niente meno che di Charles Dickens in un suo articolo dal titolo The Story of Giovanni Belzoni che ne parlò come una giovane donna carina dall’aria delicata. Sarà pure, ma per vivere accanto a Giovanni Battista, doveva avere un carattere forte come l’acciaio.
Dovendo così mantenere famiglia, Giovanni Battista non solo si mise in proprio, ma cominciò a dedicarsi a spettacoli all’estero: si esibì in Spagna, Portogallo e Palermo, per poi trasferirsi a Malta, con l’idea poi di andare a cercare fortuna a Istanbul. Ma a La Valletta, la vita di Belzoni cambiò di colpo. Per caso, conobbe Ishmael Gilbratar un agente commerciale di Mehemet Alì, il pascià d’Egitto che cercava tecnici per rendere più efficiente la gestione delle acque del Nilo.
Giovanni Battista si ricordò di quanto studiato in gioventù e decise di tentare la sorte. Sbarcò ad Alessandria d’Egitto il 9 giugno 1815, accompagnato dalla moglie e da un servitore irlandese, mentre era in corso un’epidemia di peste. Appena poté raggiunse Il Cairo dove rimase estasiato dalle bellezze archeologiche. Così scrisse nel suo diario di viaggio
La vista di che godemmo allora era d’una bellezza tale, che la penna tenterebbe invano di potere descrivere. La nebbia distendeva sulle pianure d’Egitto un velo, che andava alzandosi e scomparendo a misura che il sole si approssimava all’orizzonte : nello sciogliersi quel velo leggero ci lasciò vedere tutta la contrada dell’antica Menfi
Al Cairo conobbe il console generale inglese Salt, grande collezionista di antichità, l’esploratore svizzero Johann Burckhardt, lo scopritore di Petra, che si era convertito all’Islam e che si faceva chiamare Sheikh Ibrahim e una bislacca compagnia di piemontesi, a cui capo vi era console francese di Alessandria d’Egitto, Bernardino Drovetti, nato a Barbania nel 1776
Ufficiale napoleonico, si guadagnò la fiducia nientemeno che di Giocchino Murat salvandogli la vita nella battaglia di Marengo, Bernardino si stava arricchendo con il commercio dei reperti faraonici. Con lui vi erano Antonio Giovanni Lebolo, originario di Castellamonte, anche lui ex militare napoleonico fuggito in Egitto dopo Waterloo. Era talmente dentro la sua parte che abitava in una tomba nella Valle dei Re. Scavò per anni e una sua mummia è diventata pietra miliare nella storia dei mormoni (venne venduta al teatrante americano Michael Chandler, insieme a alcuni papiri che poi vennero tradotti in modo totalmente fantasioso e furono la base del canone della dalla chiesa mormone fondata da Joseph Smith). Il compagno di Lebolo era il sabaudo Giuseppe Rosignani, disertore dall’esercito francese che si unì a Drovetti dal 1811 al 1834: è ricordato per il tentativo di uccidere Belzoni. Infine,veniva da Moncalieri il dottor Filiberto Maruchi (o Marucchi), medico curante del governatore di Tebe.
Giovanni Battista, in tutt’altre faccende affaccendato, ignorò gli affari di codesti tizi, finché non riuscì a ottenere il tanto sospirato incontro Mehemet Alì, al quale presentò il progetto di una macchina a forza animale che con un complicato sistema di ruote e corde prelevava l’acqua dal fiume per poi distribuirla sui campi.
Mehemet Alì, guardò il progetto sia al dritto, sia al rovescio. Si spostò il turbante, per grattarsi la testa, per poi riguardare di nuovo il tutto, per poi uscirsene con l’equivalente arabo del
“A pischè, me stai a cojonà co’ sto triccheballacche ?”
al seguito del quale Giovanni Battista capì come fosse il caso di inventarsi un altro mestiere. Così, agghindato da beduino, andò a chiedere a Salt di impiegarlo nelle sue campagne di scavo per British Museum. Salt, più per toglierselo dalle scatole che per altro, gli affibbiò il compito di recuperare un busto, del peso di sette tonnellate, che giaceva tra le rovine di Tebe e che era nota come il Giovane Memmone (ma che in realtà era del faraone Ramses II)
In maniera inaspettata per tutta, combattendo contro il caldo, la lentezza degli operai locali, la corruzione e le menzogne dei capi tribù pronti a vendersi al migliore offerente, Giovanni Battista ce la fece.
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Fece costruire un’enorme barella al falegname che si è portato dietro da Alessandria: facendola rotolare sui pali avrebbe permesso di arrivare alla barca. Ma prima bisognava riuscire a metterci sopra la statua. Con l’aiuto di quattro leve, Giovanni Battisti fece sollevare il busto fino a poterci infilare sotto la parte posteriore della barella. Poi ripeté l’operazione con la parte anteriore. Una volta caricata, si trattava solamente di farla avanzare un po’ alla volta in sicurezza fino al fiume. Ci vollero 14 giorni. La vicenda, poi, ispirò Shelley per il suo sonetto Ozymandias (e quindi Belzoni è alla base di Watchmen…)
Durante il viaggio di ritorno avvistò un obelisco sull’Isola di Iside sul Nilo e ne prese possesso in nome delle autorità britanniche Si diresse quindi verso Assuan dove il suo amico Burckhardt nel 1813 aveva notato le rovine di un tempio ricoperto di sabbia presso Abu Simbel. Lì Giovanni Battista accarezzò l’idea di aprire un varco e di essere il primo a penetrare all’interno del tempio. Ci avevano già provato in tanti, tra cui l’inglese William Bankes, Giovanni Finati, un italiano di Ferrara, convertito anche lui all’Islam ed ex soldato dell’esercito del pascià e l’immancabile Drovetti.
Giovanni Battista tentò anch’egli nell’impresa titanica di spostare l’enorme quantità di sabbia che ricopriva le rovine. Finite le risorse finanziarie, Salt era noto per il braccino corto, decise di rimandare il progetto, non prima tuttavia di incidere il suo nome su una statua di Ramses II.
Sulla via del ritorno Giovanni Battista trovò non poche difficoltà dovute agli ostacoli che da quel momento in poi riceverà da Drovetti, che aveva cominciato a temere il nuovo concorrente nel mercato della antichità egizie. Si arriverà ad una vera e propria guerra di spie, con tanto di attentati, sabotaggi e minacce di morte. Drovetti arrivò addirittura a orchestrare la distruzione di 12 statue che Giovanni Battista aveva rinvenuto nell’Isola di Philae presso il Tempio di Iside. Il padovano tuttavia non sembrava prestare molta attenzione a questi sotterfugi e ritornando verso nord proseguì gli scavi tra Karnak
e la Valle dei Re, riportando alla luce un’altra importante statua, quella del faraone Sethi II e aprendo al contempo un passaggio attraverso la tomba del faraone Ay, una delle 8 tombe reali che Belzoni scoprirà nella sua carriera di archeologo.
Rientrato al Cairo con il Giovane Memmone Giovanni Battista scoprì che Salt, il suo finanziatore, aveva cominciato a finanziare anche un altro italiano, Giovanni Battista Caviglia, da Genova, capitano di mercantile ed esploratore, che aveva individuato l’ingresso della piramide di Cheope e lavorato al dissotterramento della Sfinge.
Salt cercò di fare collaborare Belzoni e Caviglia. Il padovano ammirava il genovese ma, come scrisse nel suo resoconto di quei giorni, voleva andare per la sua strada:
Pensando che non fosse giusto dividere la gloria di un uomo che aveva di già fatte tante cose da solo non volli prestarmi.
Giovanni Battista cercava gloria personale e convinse Salt a finanziargli un secondo viaggio nell’Alto Egitto: gli sarebbero state pagate le spese e avrebbe ottenuto una lettera di raccomandazione dalla Society of Antiquaries di Londra a cui vendere eventualmente i manufatti trovati, ma non avrebbe ricevuto nessun compenso.
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Nella sua seconda spedizione, accompagnato da un uomo di fiducia di Salt, Henry Beechey e fronteggiando gli atti di sabotaggio di Drovetti, Belzoni riuscì a portare alla luce a Luxor la testa del faraone Thutmosi III, anch’essa oggi al British Museum.. Il 1° agosto, dopo varie difficoltà logistiche e ambientali riuscì poi a penetrare nel tempio di Abu Simbiel, scoprendo delle sale magnifiche, ma nessun oggetto di valore trasportabile. Ritornato poi a Luxor, fece un ritrovamento sensazionale, la tomba del faraone della XIX dinastia Sethi I (padre di Ramses II) con undici stanze affrescate e un sarcofago di
alabastro finemente scolpito.
Un trionfo, guastato tuttavia dalle incomprensioni con Salt, che lo definisce un suo “impiegato”, cosa che offese a morte Giovanni Battista, convinto di lavorare per l’Inghilterra e per il British Museum. Poco dopo ricevette anche la notizia della morte per dissenteria del suo amico Buckhardt a soli 32 anni.
In questo momento di profondo scoramento, Giovanni Battista cominciò a studiare la piramide di Chefren che gli espertoni locali ritenevano non avesse un ingresso e che fosse in realtà una struttura senza camera funeraria. Belzoni non era convinto e non volendo essere da meno di Caviglia cominciò una metodica osservazione del terreno circostante. Non ne parlò con nessuno, perché così vicino al Cairo la probabilità che orecchi indiscreti avessero potuto rubare le informazioni era ancora più alta. Nel corso dei rilievi all’inizio del 1818 si convinse che certi segni visibili sul lato nord fossero l’indicazione che sotto al terreno sabbioso vi fosse l’ingresso della piramide
Lo scavo fu una fatica immane e durò in tutto un mese. Ma i fatti gli diedero ragione, perché dopo 4500 anni in cui nessun uomo aveva messo piede nella tomba di Chefren, Belzoni poté entrare nel tempio funebre e incidere nella roccia la scritta “Scoperta da G. Belzoni. 2. mar. 1818.”, una scritta visibile ancora oggi.
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Arrivato a Tebe per la sua terza spedizione , dall’aprile 1818 al febbraio 1819, Giovanni Battista scoprì come Salt e Drovetti si fossero spartite le aree di scavo, non lasciando nulla ad agenti indipendenti. Tuttavia, con un colpo di fortuna, riuscì in due giorni di lavoro a trovare una statua di Amenophis III, anch’essa oggi al British Museum. Poi precedendo un agente di Drovetti Fréderic Caillaud, identificò i resti di Berenice, il porto sul Mar Rosso fatto costruire da Tolomeo II, assieme al medico ed artista Alessandro Ricci.
Quando Giovanni Battista giunse nuovamente a Tebe incontrò Salt ed il grande esploratore ed egittologo inglese William John Bankes, che gli commissionarono il trasporto dal tempio di Philae fino a Luxor dell’obelisco di cui aveva preso possesso nel primo viaggio. Tale obelisco, scoperto nel 1815 dallo stesso Bankes, recava incise, oltre ai geroglifici, le corrispondenti frasi in greco antico; nel 1822 comparando queste incisioni l’egittologo francese Champollion avrebbe avuto una decisiva verifica della sua decifrazione dei geroglifici Belzoni riuscì a trasportare il monumentale reperto a Luxor e
Drovetti, che da anni progettava di essere lui a portarlo in Europa, quando lo vide andò su tutte le furie arrivando alle mani con Giovanni Battista. Drovetti era un personaggio troppo influente, tanto da essere anche il consigliere militare del Pascià; con questo incidente Belzoni si rese conto che la sua carriera di esploratore in Egitto era finita.
La causa processuale che ne seguì fu lunga e, con i buoni uffici di Salt, si risolse in un nulla di fatto, ma costrinse Giovanni Battista a trattenersi in Egitto anziché tornare subito in Europa come aveva previsto. Fu così che si mise ancora in viaggio, scoprendo l’oasi di Siwa dove si trovava il tempio dell’oracolo di Amon, famoso nell’antichità per aver predetto il futuro ad Alessandro Magno
A settembre del 1819 i Belzoni furono a bordo di una nave con destinazione Venezia. Arrivarono a Padova i primi di dicembre. Qui le accoglienze furono grandi. L’eco delle sue imprese di Giovanni Battista e le due statue che regalò alla municipalità spinsero i governanti ad attribuirgli grandi onori, tra cui il conio di una medaglia commemorativa. Le statue rappresentano due sfingi che sono ancora oggi custodite nel Palazzo della Ragione in città. Giovanni Battista strinse amicizia con l’architetto neoclassico Giuseppe Jappelli, dandogli l’ispirazione per il progetto della sala egiziana nel famoso caffè
Pedrocchi.
Dopo due soli mesi si imbarcò per Londra dove arrivò il 31 marzo 1820. Poco dopo l’editore inglese John Murray pubblicò i resoconti della sua esperienza egiziana Narrative of the Operations and Recent Discoveries in Egypt and Nubia, riccamente illustrato da Alessandro Ricci e dallo stesso Belzoni
Il libro fu un grande successo, tradotto in molte lingue tra cui il tedesco e l’italiano. Per Belzoni fu il culmine del successo che ha sempre desiderato, le sue frequentazioni londinesi diventarono altolocate e di prestigio. Nel 1821 organizzò con William Bullock quella che è a tutti gli effetti la prima grande mostra dedicata all’Antico Egitto. Occupò le sale di un palazzo di Piccadilly che William Bullock voleva trasformare in un luogo di spettacolo, un po’ museo, un po’ circo, un po’ teatro. Mostra in cui vi fu esposta anche la ricostruzione della tomba di Sethi I e in cui Giovanni Battista tornò su di un palcoscenico quando, di fronte a una grande folle che faticava ad entrare, effettuò live la dissezione di un mummia.
Nello stesso anno, nella loggia massonica dell’arca reale, di cui faceva parte anche il duca di Sussex, organizzò una mostra di gran successo a Parigi e nel 1822 fu invitato in Russia dove a San Pietroburgo fu accolto con grandi onori dallo zar Alessandro I in persona, che gli regalò un prezioso anello con un topazio.
Il problema è che Giovanni Battista si annoiava: così la sua sete di avventure ed il bisogno di denaro lo spinsero ad accettare l’offerta che nel 1823 l’associazione africana di Londra gli fece per compiere una spedizione alla ricerca delle sorgenti del Niger. Questo fiume era pressoché sconosciuto agli europei, ed era stato raggiunto per la prima volta pochi anni prima dal grande esploratore scozzese Mungo Park, che vi aveva rinvenuto la antica città di Timbuctu poco prima di morire sul fiume stesso. Da anni questa associazione si era posta come obiettivi primari la scoperta delle sue sorgenti e di quella leggendaria città. Burckhardt era morto alla vigilia della sua partenza per una spedizione, finanziata dall’associazione, che si proponeva di arrivarci da oriente
Così Giovanni Battista partì da Londra ai primi del 1823 e iniziò nella primavera una penetrazione verso l’interno africano a partire dalle coste del Marocco. Ricevuto amichevolmente a Fez dallo sceriffo, s’inoltrò lungo le montagne dell’Atlante ma, appena ebbe oltrepassato la regione dei Tafilalet, dovette tornare alla costa atlantica per lo stato di guerra che regnava ai confini del Sahara. Imbarcatosi poco dopo, senza seguito, alla volta del golfo di Guinea, sbarcò nel possedimento britannico di Cape Coast da dove, in compagnia del mercante britannico John Houston e con un salvacondotto del re del
Benín, partì il 22 novembre. 1823 verso l’interno. Giunti a Gwato però Giovanni Battista venne colpito dalla dissenteria, e in pochi giorni morì, con l’assistenza del solo Houston, il 3 dicembre 1823.
Houton, che lo accompagnava in questa spedizione, lo fece seppellire ai piedi di un albero alla periferia di Gwato, e sulla tomba fece apporre un’epigrafe recante il nome e la data di morte di Giovanni Battista. Fece anche scrivere la seguente preghiera:
Il gentiluomo che ha messo questa epigrafe sulla tomba del celebrato e intrepido viaggiatore, spera che ogni europeo che visiti questo posto faccia pulire il terreno e riparare lo steccato intorno, se necessario
Un viaggiatore europeo che tornò sul luogo circa quarant’anni dopo non trovò nient’altro che l’albero
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La Porta Magica a Piazza Vittorio: la sua storia, il suo significato e le notizie sul mondo dell’alchimia in tre interessanti filmati
Sulla Porta Magica di Piazza Vittorio ci sono molte pubblicazioni, tutte interessanti, che ne descrivono la storia, cercano di decifrarne i simboli impressi e analizzano il mondo esoterico e dell’alchimia in generale. Ma crediamo che sia la prima volta che vengano realizzati dei filmati che espongono in maniera chiara ed efficace tutti questi concetti. Pubblichiamo quindi queste tre interviste che sicuramente aiutano ad avere un’idea più precisa sia sulla Porta Magica sia sul mondo dell’esoterisno e dell’alchimia a Roma che, a suo tempo, ha caratterizzato la vita di Massimiliano Palombara marchese di Pietraforte che fu l’ideatore di questo incredibile ed unico monumento.
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November 18, 2017
Agata di Pilo
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Oggi ho poca voglia di scrivere: come molti di voi sanno, ho un pappagallino agapornis roseicollis, Pippi. Ieri sera si è sentito male, stamattina sono corso dal veterinario che lo ha ricoverato in terapia intensiva.
Saprò nelle prossimi due giorni se si potrà salvare: lo so, può sembrare scemo, ma sento un poco giù: mi ero abituato al suo rumoreggiare, al vedermelo svolazzare sulla spalla, litigare con il mouse o danzare al suono della musica di Youtube.
Vedere la sua voliera vuota, mi mette tristezza… Incrociamo le dita… Per distrarmi, butto giù qualche riga sulla cosiddetta Agata di Pilo.
Due anni fa, dalla tomba del grifone a Pilo, il regno omerico di Nestore, gli archeologi portarono alla luce un tesoro di almeno 1.500 oggetti, inclusi pettini d’avorio, coppe d’argento, una spada dal pomolo decorato in oro, oltre 1.000 perline di pietre preziose, una corazza di bronzo, una collana d’oro e oltre 50 gemme.
Tomba che risalirebbe al 1450 a.C. ossia, utilizzando la cronologia italiana, lievemente diversa da quella anglosassone, risalirebbe alla fine del Tardo Elladico I e quindi antecedente alla costruzione del primo megaron, datato al 1300 a.C.
Un periodo, questo di profondo cambiamento nella civiltà in Grecia: a causa dell’incremento della produttività agricola e del sempre maggiore scambio commerciale con il mondo minoico, la struttura della società muta a fondo.
Si passa da un modello di popolamento diffuso, con un governo di tipo chiefdom, a uno protourbano, che vede affiancare a una classe nobiliare una burocrazia strutturata: ciò implica l’abbandono da parte della popolazione dei villaggi più piccoli, per concentrarsi in aree ben specifiche, come Tebe, Atene o la cosiddetta costellazione del Peloponneso, centrata su Micene.
E in cui i rapporti con il mondo minoico, prima esempio da imitare, poi inglobato nella cultura del Commonwealth Elladico, variano profondamente: Se questo cambiamento radicale è legato a dinamiche di conquista militare, come ritenuto da alcuni archeologi italiani, o di acculturazione e circolazione delle élites, come invece sostengono i loro colleghi anglosassoni, è difficile a dirsi.
La tomba del grifone può essere infatti usata come argomento a favore di entrambi le tesi: può essere vista sia come di capo locale filo minoico, sia come quella di un guerriero circondato dalle sue prede di una razzia a Creta, sia come quella di un mercenario, che dopo aver fatto carriere nell’esercito di Cnosso, ha utilizzato la ricchezza acquisita per affermare il suo dominio sulla comunità di origine.
In ogni caso, data la presenza di anelli con la tauromachia e l’adorazione delle sacerdotesse, il defunto ben conosceva i valori e la visione del mondo minoica.
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Ora, in tutto il ben di Dio che gli archeologi stavano tirando fuori da quella tomba, non hanno degnato di un’occhiata un oggetto incrostato, lungo solo 3,5 cm. Però, dopo un anno di restauro, è saltata fuori una pietra preziosa con un sigillo, un disegno che poteva essere impresso su argilla o cera. L’immagine è l’impressionante rappresentazione di un guerriero che ne combatte altri due. I dettagli sono particolarmente raffinati, e alcune caratteristiche sono appena visibili a occhio nudo.
La pietra, che poteva essere la riproduzione di un dipinto palaziale cretese, veniva montata su una fascia indossata sul polso, come i nostri orologi, pone due grossi problemi. Il primo è come sia stata realizzata: se devo dire la mia, viste anche le caratteristiche dei tanti anelli a sigillo dell’epoca, non me la sentirei di escludere potessero dei cristalli di rocca molati, come una sorta di lente di ingrandimento, analoga a quella di Nimrud.
Il secondo, più interessante, è il senso dell’immagine rappresentata. Di fatto potrebbe non essere una scena di battaglia vera e propria: al di là delle ipotesi su come combattessero i minoici, che a differenza di quanto pensasse Evans, tutto erano, tranne che dei pacifisti, i tre contendenti adattano la stesse tipologie di armi, che si ritrovano nelle rappresentazioni palaziali. In più, benché gli abiti sembrino differenti, entrambi sono associati nei dipinti egiziani ai Keftiu, i cretesi.
Per cui o l’agata di Pilo rappresenta una guerra civile a Creta, ancora non documentata dall’archeologia, oppure ha un significato differente: la rappresentazione di un mito cosmologico, una sorta di antecedente della Titanomachia, il che dovrebbe rimettere in discussione tutte le nostre idee sulla religione minoica o un sorta di ludo gladiatorio o duello sacro.
Il che, visto che a Creta si praticavano i sacrifici umani e forse il cannibalismo rituale, non è da scartare.
Starship Troopers: il video del dietro le quinte
Starship Troopers – Fanteria dello spazio (1997) di Paul Verhoeven è stato tanto amato quanto odiato. A vent’anni dall’uscita del film, oggi vi presentiamo il video del behind the scenes, ovvero del dietro le quinte. Il video mostra fra l’altro le fasi di costruzione degli alieni di Starship Troopers, che includevano un sistema meccanico per il movimento. Tutti i fan del film sapranno di certo apprezzarlo. Buona visione!
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November 17, 2017
Il lapis Satricanus
[image error]Lapis Satricanus. Base iscritta (CIL I 2832a), tufo, IV sec. a.C. ca. dalle fondazioni della peristasi Est del tempio di Mater Matuta, Borgo le Ferriere (Latina). Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.
[…] Da un quarto di secolo ha suscitato e suscita vivissimo interesse e discussioni una nuova testimonianza epigrafica scoperta a Satricum, località situata poco a sud di Roma (quindi fra Roma e la Campania); la pietra su cui è incisa l’iscrizione (lapis Satricanus), fu riutilizzata come materiale edilizio nelle fondamenta di un tempio della Mater Matuta, un’antichissima divinità latina del mattino, che venne poi identificata con Ino Leucotea e che aveva un tempio anche a Roma, nel Forum Boarium (il “mercato dei buoi”). L’iscrizione viene datata in…
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Il sepolcro di Largo Talamo
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Quando ero giovane, magro e universitario, mi capitava spesso, più per motivi di bisboccia che di studio, bazzicavo spesso san Lorenzo: passando a Largo Talamo, sempre di fretta, con la coda dell’occhio, davo uno sguardo a uno strano edificio, chiedendomi sempre cosa fosse. Una volta provai persino a chiedere lumi a un amico, presunto espertone della zona, che, accompagnando le sue parole con uno sguardo di profondo disprezzo, mi rispose:
“Ma come, ignorante non lo sai ?”.
“Se l’avessi saputo, che lo chiedevo a fare ?”.
“E’ il bunker antiaereo di San Lorenzo… Sapessi le nottate che c’ha trascorso mio nonno”.
Anche se mi pareva strano, mi ricordavo che uno di questi bunker, crollato sulla testa degli operai della Fiorentini, fosse più in la, mi sono stato zitto… Poi io conosco quelli dell’Esquilino, mica quelli di San Lorenzo (e non credo neppure tutti: da quello che so io, oltre quello immenso di Piazza Dante, ve ne era uno a via Merulana 264 e 272/274, sotto il dipartimento di Informatica a via Aristo e sotto la Di Donato… e sono sicuro di averli elencati tutti).
Così, ho dato per scontato che avesse ragione… Dopo parecchio tempo, invece, ho scoperto come si trattasse di un antico sepolcro romano,il cui schema architettonico ricorda in piccolo quella del Mausoleo di Cecilia Metella: al di là dei pernacchioni dati al mio amico, è un luogo che ha una storia da raccontare.
Per prima cosa, come tanti monumenti romani, ha la strana abitudine di cambiare posto a seconda delle esigenze dei palazzinari: il sepolcro di Largo Talamo fu rinvenuto nel 1935 in viale S. Lorenzo angolo via dei Sardi, lungo l’antico tracciato della via Collatina, che coincide con l’odierno vicolo di Malabarba. Accanto gli si erano appoggiati colombari, mentre in epoca relativamente recente al di sopra vi erano stati costruiti altri edifici. Per non demolirlo, fu deciso di trasferirlo nella nuova sede, dedicata a un politico che è stato tra i promotori delle case popolari a Roma e della scuola Montessori.
In origine il sepolcro era composto da un basamento parallelepipedo rivestito da lastre di travertino, su cui si impostava un tamburo cilindrico: la fronte era a ovest, mentre l’ingresso era situato a Sud. Il basamento è alto m 2,70, ed ha i lati di m 5,70; lungo la fronte correva un sedile con elementi a rilievo a zampa di leone con la funzione decorativa che forse sostenevano un sedile per la sosta dei viandanti; alle estremità del primo filare di blocchi di travertino sono incise in due cartigli (le dimensioni del monumento: IN FR(ONTE) P(EDES) XXXII, IN AGR(O) P(EDES) XX (Fronte strada piedi 32, nel senso della profondità piedi 20). Scritta che doveva certificare il rispetto della “concessione edilizia” dell’epoca, evitando gli abusi costruttivi a cui i romani dell’epoca erano particolarmente propensi.
Sulla fronte la maggiore lunghezza del lato era data dalla presenza di un piccolo vano che fungeva in origine da vestibolo (poi riutilizzato come colombario, quando dopo un passaggio di proprietà, il nuovo possessore decise di dedicarsi alla speculazione funebre, attività commerciale abbastanza remunerativa nell’antica Roma e poi interrato nella tarda antichità).
Della cella circolare manca il pavimento, mentre è parzialmente conservato il bancone che correva tutt’intorno, dedicato ai banchetti funebri. Sono anche conservati anche i pilastri di travertino sormontati da pulvini su cui si impostava la copertura a volta o a cupola, andata distrutta. Tra i pilastri vi sono delle nicchie con incassature rettangolari ( formae), nelle quali, al momento della scoperta, furono trovati due cinerari ed una sepoltura ad inumazione.
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La cella è costruita in cementizio con paramento di opera reticolata, rivestita da intonaco dipinto: la parete ed il bancone hanno fondo rosso con fasce più scure e rombi formati da festoni di foglie e fiori, i pilastri in bianco e fasce scure agli angoli. La parte superiore della parete è decorata da una fascia con cespi di foglie e fiori, posta sopra un’altra,più stretta, con un fregio di quadratini con punto al centro. Sopra le nicchie si riconoscono al centro ghirlande sospese su nastri.
La tipologia dell’edificio funerario, le tecniche costruttive e decorative indicano per il monumento una cronologia alla prima metà del I secolo d.C. All’interno della cella furono trovati due sarcofagi di terracotta murati e rivestiti di intonaco di epoca posteriore: i 5 bolli doliari delle murature di rivestimento sono databili al II-III secolo.
Pressoché al centro della camera sepolcrale sul pavimento vi è un pozzo circolare, coperto da una lastra in travertino, che serviva a fare defluire l’acqua piovana. Al momento della scoperta durante lo sterro dell’ambiente completamente interrato furono trovati numerosi oggetti: un’ara, statuette, vasi fittili e in vetro, anelli. L’ara ci ha permesso tra l’altro di identificare i proprietari della tomba, i due fratelli Pomponii, appartenenti a una gens plebea di origine sabina, che si vantava di discendere da Numa Pompilio e a cui apparteneva lo straricco Attico, amico fraterno di Cicerone.
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November 16, 2017
Edicolarte Per Aurora
Dietro al progetto di Gaetano Koch di Piazza Vittorio, vi era un’utopia: portare un angolo di Torino a Roma, in modo che, ridefinendo lo spazio urbano, si potesse proporre una nuova visione del Mondo e un nuovo sistema di valori, tali da trasformare la città papalina, un fossile vivente, in una capitale moderna.
Come sempre accade, i buoni propositi naufragano dinanzi alla Realtà, che vince su qualsiasi progetto costruito a tavolino, senza tenere conto del contesto locale. Così il quartiere piemontese si è romanizzato con una rapidità impressionante, forse anche grazie al mercato, il vero cuore della città: mi ricordo ancora i pollaroli che vendevano le galline vive, le piramidi di stoccafisso e baccalà, zifrà, il cappuccino con la barba bianca, che chiedeva sempre l’elemosina per i poveri o i banchetti del gioco delle tre carte
Dinanzi a tale caos vitale, non c’era rigore sabaudo che potesse tenere. Eppure, un filo rosso continua a legare Torino con il nostro Rione: le similitudini tra spazi e realtà sociali, fa sì che idee e soluzioni di riqualificazione urbana sperimentati sulle rive della Dora possano essere replicate anche da noi.
E’ valso per la street art, dove con un poco di fatica, dovuta agli egoismi di casta e a alla miopia di una certa politica, si sta cercando di replicare all’Esquilino quanto già realizzato da anni nel MAU torinese. Ora può valere per un’altra idea..
Manuela Bongioanni è il rappresentante dei giornalai di Torino, città in cui la crisi sta falcidiando tale attività e vi sono sempre più edicole abbandonate.
Come sa bene chi abita nella nostra Piazza Vittorio, in cui edicole abbandonate non mancano, il problema è cosa farne dopo.
La vulcanica Togaci ha avuto un’idea: invece di lasciare arrugginire la lamiere, ha fatto nascere Edicolarte Per Aurora, il suo nuovo progetto di guerrilla e public art, per combattere il degrado con il bello, riportare l’Arte al centro della Vita, sbeffeggiando l’idea che purtroppo hanno molti, chiamiamoli così, addetti ai lavori, che questa sia un qualcosa di settario, capace di regalare piacere a pochi prescelti, non si sa bene da chi o da cosa.
L’Arte, invece, non è egoismo, ma un fuoco che brucia e per alimentare le sue fiamme, deve diffondersi per il Mondo… Perché come diceva D’Annunzio
Io ho quello che ho donato
E nell’Arte il donare è mettere in comune, condividere, compatire, mettere in comune anima, sensibilità e pensiero, affinché diventino dei semi, capaci di crescere e rendere meno arido il comune quotidiano.
Così Togaci ha donato qualcosa di più di uno punto di aggregazione al loro quartiere: hanno donato un sogno… E l’obiettivo è replicare la stessa cosa a Piazza Vittorio. Perché, come scriveva Herb Caen
Una città non si misura dalla sua lunghezza e larghezza, ma dall’ampiezza della sua visione e dall’altezza dei suoi sogni.
17 novembre 2017 Presentazione del libro “Gli Angeli e l’Apocalisse” presso il Palazzo del Freddo
Venerdì 17 novembre, alle ore 18, la Sala Giuseppina della gelateria Fassi torna ad ospitare il genere fantasy con una saga di ispirazione biblica.
L’apocalisse profetizzata nella Bibbia si avvera, devastando la Terra e decimando l’umanità. I principali fautori dell’Armageddon, i cavalieri della Violenza, della Carestia, della Morte e della Guerra, quattro potentissimi angeli, decidono di rimanere nel mondo materiale per diventarne i sovrani assoluti e si pongono a capo di eserciti di creature oscure per attuare la propria conquista. Fortunatamente, anche sette schiere angeliche restano a combattere per gli uomini sopravvissuti contro le brame di potere di chi li vuole sottomessi o morti. Jonathan White è un ragazzo che viene prescelto per contribuire alla lotta tra bene e male. Verrà chiamato Erenvir, ovvero portatore della nuova era, ed il suo primo compito sarà quello di condurre in salvo i sopravvissuti in un luogo indicatogli come Terra Promessa. Affronterà un…
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Alessio Brugnoli's Blog

