Alessio Brugnoli's Blog, page 156
March 18, 2018
Serate fiorentine
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Da giovane, mi capitò di leggere un romanzo, che immagino quasi dimenticato, di Pratolini: Le ragazze di San Frediano. Il buon fiorentino, per riempirsi le tasche, in fretta e furia buttò giù la versione moderna di una novella del Boccaccio, con Bob, un seduttore da strapazzo, un bischero parolaio, beffato dalle donzelle sedotte con le sue chiacchiere.
Oltre allo spirito allegro e bizzarro che ne anima le pagine, mi rimase impresso il primo capitolo, una panoramica su San Frediano, un mucchio di case al di là d’Arno e me ne innamorai (quindi potere capire la mia perplessità, quando scoprii che Pratolini, di Santa Croce, non c’entrava nulla con quella zona… E come se il sottoscritto si mettesse a scrivere un romanzo ambientato a Ponte Milvio!)
Però, quel suburbio mi era entrato nel cuore: appena capito a Firenze, faccio i salti mortali per piazzarmi da quelle parti. Al massimo, proprio quando voglio fare l’originale, me ne vado lungo via Romana.
Lo faccio, perché poco mi garbano i turisti: preferisco bere con gli amici scrittori bohémienne, nei canti dietro Santo Spirito, anche se i locali ogni volta che vengo, mi sembrano sempre più simili a quelli che lascio a Roma a San Lorenzo.
Però, ciò che conta è la compagnia: qualche pettegolezzo, due risate, l’amico poeta di notte e ragioniere di giorno, che convinto d’essere Carmelo Bene ne La Cena delle Beffe, all’improvviso grida nella notte
E chi non beve con me, peste lo colga!
facendo rischiare un coccolone a qualche sbarbatello di passaggio… E io li guardo sorridendo, con malinconia, perché l’età e la pigrizia mi costringono a essere virtuoso.
Il piacere di cenare nelle taverne, una volta fabbriche o fonderie, in allegra compagnia, tra un frittone e un peposo dell’Impruneta, il piatto preferito dai fornacini e dal Brunelleschi, sorseggiando un buon rosso.
O di incontrare per caso un amico scultore, per andare con lui ad ammirare una sua installazione in nel Cenacolo di Fuligno, sconosciuto ai più, dove il Perugino si ubriaca d’Infinito.
O imbucarsi, in maniera alquanto bizzarra, al Bellini o a Palazzo Coverelli, oppure seguire la propria passione di cacciatore di Street Art (e fatemi togliere un sassetto dalla scarpa… Se un murale può stare in santa pace a via dei Neri, può farlo anche al Mercato Esquilino, senza politicanti da strapazzo e artisti invidiosi a rompere l’anima…)
Ballare twist all’anniversario di matrimonio di un’amica, tra panini al lampredotto e salsa verde e birre steampunk, per poi trovarmi nella versione fiorentina di Taxxì di Pirés e Besson.
Far spesa alla fieruncola, sorridendo nel guardare una vecchietta che sotto la pioggia, rimbrotta il nipote dicendo
Donne e oche, tienine poche.
Alla fine, tra i canti di San Frediano si ripete sempre: cambiano i volti, i nomi, ma ci sarà sempre un rubacuori di suburbio, per cui le ragazze continueranno a tormentarsi, finché, stanche, gli faranno pagare tutto gli interessi
E tornado a casa, alla solita vita, mi torna in mente un aforisma di Borges, che mi accompagna come un rimorso o un rimpianto.
Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges
Il tempo passa, mi logora o smussa i miei angoli, ma non in fondo, mi costringe a vivere ciò che sono
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March 15, 2018
Vinland
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La notizia che Adamo di Brema avesse nella sua opera storica parlato del Vinland, ossia del Nord America, ha provato molte sorpresa tra i miei amici, convinti che con il procedere del Medio Evo se ne fosse persa la la memoria.
In realtà non è così: ad esempio secondo gli Annali Islandesi del 1121 il vescovo Erik Gnupsson, lasciò la sua sede groenlandese di di Gardar (oggi in lingua inuit, Igaliku) per recarsi intorno al 1120 in Vinland, per benedire i campi stagionali in cui si raccoglieva la legna, si cacciavano gli animali da pelliccia e si pratica, quando non finiva in rissa, il commercio muto con gli indiani.
Commercio muto, testimoniato, oltre che dal famigerato Maine Penny, anche dal ritrovamento, presso l’insediamento groenlandese, di una freccia indiana di quarzite del Labrador.
Il Vínland è citato anche in tante altre opere , fra cui l’Islendingabok («Libro degli islandesi», di Ari Thorgilsson,ancora più dettagliato dal punto di vista geografico rispetto ad Adamo di Brema
“A sud della Groenlandia si trova Helluland, quindi Markland e, non molto oltre, Vinland.”
Il quale descrive con precisione anche la rotta per la Groenlandia
da Stand in Norvegia si arriva, con una navigazione di sette giorni, ad Horn nella parte orientale dell’Islanda; e da Snaefellsnes [in Islanda] … con tre giorni di mare si arriva nella Groenlandia occidentale … chi fa vela da Bergen verso ovest per giungere a Hvarf in Groenlandia seguirà una rotta che passa a settanta miglia, o più, a sud dell’Islanda
E da li giungere nel Vinland era assai semplice, perché partendo da un punto compreso fra Holsteinborg e l’isola di Disko le imbarcazioni vichinghe avrebbero navigato solo una giornata in mare aperto prima di raggiungere la parte meridionale dell’isola di Baffin e da lì, spinti dai venti da nord che soffiano attraverso lo stretto di Davis, proseguire per la baia di Hudson, il Labrador e Terranova, potendo praticamente quasi sempre navigare lungo la costa.
Altre citazioni del Vinland, sono presenti in un’iscrizione runica incisa su una pietra a Honen, in Norvegia, negli Annali Islandesi all’anno 1347, in varie saghe islandesi del XIII secolo e nei trattati geografici islandesi del XIV secolo.
Insomma, la sua esistenza era ben nota nel Nord Europa, sia tra i dotti, sia nel popolino e forse anche più a sud: dal 1200 in poi, baschi, galiziani e bretoni cominciarono a pescare merluzzi e aringhe al largo di Terranova. Non è così impossibile che qualcuno di loro, per riparare le reti o produrre lo stoccafisso, vi sia anche sbarcato.
Cosa che potrebbe spiegare il perché Cartier, nella sua ricerca del passaggio a Nord Ovest, rischiasse un coccolone nel sentirsi salutare in bretone dagli Irochesi, spiegare l’origine della leggendaria Terra do Bacalhau, che dovrebbe trovarsi proprio in corrispondenza di Terranova, e dell’isola di Hy-Brasil, disegnata, ad esempio, nel portolano genovese di Angelino Dalorto datato 1325-1330, dove figura collocata a sudovest dell’Islanda. A partire dal 1480 (poco dopo il passaggio del Colombo in questo porto), i marinai di Bristol intrapresero una spedizione l’anno per scoprire o riscoprire “Brasil”. Colombo lo sapeva certamente, come prova la lettera che un mercante inglese, John Day, gli indirizzò alcuni anni dopo (lettera rintracciata e pubblicata da L. A. Vigneras, in “Hisp. Am. Hist. Review”, XXXVI [1956], pp. 503-509): parlando di Giovanni Caboto che nel 1496 sbarcò su di un litorale sconosciuto, Day scrisse al Colombo che si trattava sicuramente di “Brasil”, già scoperta “in otros tiempos”, cioè molto tempo prima.
E lo stesso Colombo, ha avuto a che fare con il Vinland: nel 1477, dopo essere stato a Galway, dove con molta fantasia, scambiò per i cinesi i cadaveri di due pescatori affogati, si recò in Islanda, dove probabilmente ebbe notizia della Groenlandia e delle terre circostanti.
Inoltre secondo quanto citato da trascritto da Fernando Colon (figlio dell’esploratore) e da Bartolomé De Las Casas, Colombo, parlando delle cinque terre emerse e della loro abitabilità come descritte da Isidoro di Siviglia nei suoi Etymologiae e De natura rerum, scrisse
Nel mese di febbraio 1477 ho navigato per cento leghe oltre Tile fino ad un’isola la cui parte meridionale dista 73 gradi dall’Equatore e non 63 come alcuni dicono; essa non si trova nell’Occidente di Tolomeo, bensì molto più ad ovest.
Su quest’isola, grande come l’Inghilterra, gli inglesi – specialmente quelli di Bristol – approdano con le loro merci. Mentre mi trovavo lì il mare non era ghiacciato, ma c’erano maree molto grandi, che in alcuni punti si alzavano ed abbassavano di 26 braccia
La meta di questo misterioso viaggio potrebbe essere stata la Groenlandia: però, all’epoca, era già stata abbandonata dai vichinghi, quindi, non si capisce perché mercanti inglesi dovessero recarvisi. In più, al di là delle perplessità sulle distanze citate, maree di tale ampiezza non avvengono nella terra degli Inuit, ma più a sud, sulle coste di Terranova e del Labrador.
Quindi ricapitolando, nel Medio Evo si conosceva il Nord America: ciò che mancava era l’idea di alterità. Quelle terre, magari ricche, ma troppo distanti per essere sfruttate, abitate da selvaggi talmente rozzi e primitivi che non valeva neppure perdere troppo tempo per cristianizzarli, erano viste come un’appendice del Nord Europa.
Solo da Colombo in poi, furono considerate per quello che erano: parti di un Nuovo Mondo
March 14, 2018
Adamo di Brema
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Pochi conoscono Adamo di Brema: storico e geografo nato nella Saxonia superior, in un anno ignoto. Però, dato che, accennò alla sua opera storica, cominciata il 1074, come a un “ardimento giovanile” , si può ipotizzare come tale data non si sia discosta molto dal 1050.
Doveva provenire da una famiglia benestante, visto che ebbe la possibilità di studiare, come allievo dello storico Lamberto di Hersfeld, nella scuola della cattedrale di Bamberga, sorta attorno alla biblioteca fondata dall’imperatore Enrico II.
Nel 1066, in cerca di un impiego stabile si trasferì a Brema, per mettersi al servizio, come canonicus e magister scholarum, del vescovo Adalberto, una delle personalità più importanti della corte di Enrico IV. Adalberto, come si usava all’epoca,per celebrare la sua diocesi, incaricò Adamo di scriverne una storia.
Adamo prese questo incarico con estrema serietà, dedicandosi a una ricerca forsennata di informazioni, tanto da recarsi nel 1067 presso la corte di Svein di Danimarca, per raccogliere informazioni sulla storia e la geografia del Grande Nord.
Lavoro di ricerca, andato tanto per le lunghe, che la sua opera storica Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum, fu stata scritta addirittura dopo la morte del committente nel 1075. In compenso, Adamo fu assai veloce nella stesura, tanto che nel 1076 la consegnò a Liemar, successore di Adalberto.
Opera, la Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum, che è articolata in quattro libri: i primi due sono dedicati alla storia antica dei Sassoni. Per fare questo Adamo saccheggia decine di opere precedenti: Vita Willehadi di Anskario, la Vita Anskarii di Rimberto, la Vita Rimberti e altre, la Vita Caroli Magni di Eginardo, una rielaborazione della Translatio S. Alexandri di quest’ultimo, gli Annali di Fulda e di Corvey, l’opera storica andata perduta dell’abate Bovo di Corvey.
Il terzo libro è invece dedicato alla figura di Adalberto, il committente, che con le sue contraddizioni, grandi virtù morali unite a una smodata ambizione, spiazzava Adamo, che, per descriverlo al meglio, decide di riprendere, modernizzandolo, il ritratto che Sallustio fa di Catilina.
Alla trattazione storica, condotta sostanzialmente su principi geopolitici ed etnografici, segue come quarto libro la famosa Descriptio insularum aquilonis, nella quale Adamo si dimostra il più importante geografo di tutto il Medioevo. La geografia e l’etnografia non avevano più fatto, dagli antichi in poi, alcun progresso. Adamo ci inizia per primo alla conoscenza dei paesi nordici. Le sue fonti sono Orosio, Macrobio e Marciano Capella, i racconti favolosi di Solino. E pure egli non trascura nessuna fatica, pur di procurarsi notizie attendibili, specialmente da quel re Svein di Danimarca,
“il quale conservava nella sua memoria l’intera storia dei barbari, come scritta in un libro”
Così, alle tante leggende del Medioevo, i popoli favolosi degli antichi, Amazzoni, Cinocefali, Ciclopi, Himantopodi, unisce numerosi dettagli che stupiscono noi moderni, come ad esempio la descrizione del tempio vichingo di Upsala
Ora diremo qualche parola sulle credenze popolari degli svedesi. Quella gente ha un famoso tempio chiamato Uppsala, situato non lontano dalla città di Sigtuna e Björkö. In questo tempio, interamente addobbato in oro, le persone adorano le statue di tre divinità in tal guisa che il più potente di loro, Thor, occupa un trono al centro della camera; Wotan (nome germanico di Odino) e Frikko (latinismo per “Freyr”) sono posti ai suoi lati.
Il ruolo di questi dei è il seguente: Thor, si dice, presiede l’aria, che disciplina i tuoni e i lampi, i venti e le piogge, il bel tempo e le colture. L’altro, Wotan amministra la guerra e conferisce all’uomo la forza per combattere i suoi nemici. Il terzo è Frikko, che dona pace e piacere ai mortali.
Vicino a questo tempio si trova un grande albero con diversi rami, sempre verde sia d’inverno che d’estate. A quale specie appartenga nessuno lo sa. C’è anche un pozzo in cui i pagani sono soliti fare i loro sacrifici, e un uomo a volte vi si getta dentro. Se non riesce a tornare in superficie, sarà concesso il desiderio del popolo.
Una catena d’oro gira intorno al tempio. E’ appesa a partire dal timpano (struttura architettonica) del palazzo e invia il suo scintillio da lontano a chi si avvicina, perché il santuario si trova su una superficie piana, con montagne in prospettiva, come in un teatro.
I sacerdoti hanno il compito di offrire sacrifici in nome del popolo. Se la peste e la fame minacciano le loro terre, un’offerta viene versata per l’idolo Thor; se infuria la guerra, a Wotan; se vengono celebrati dei matrimoni, a Frikko.
E’ consuetudine presso Uppsala, svolgere una festa generale di tutte le province della Svezia a intervalli di nove anni. Nessuno è esentato dal parteciparvi Re e tutti devono mandare i loro doni a Uppsala. L’entità del sacrificio avviene in questo modo: di ogni essere vivente maschio, offrono nove teste con il sangue necessario per placare gli dei. I corpi vengono appesi nel bosco sacro che confina con il tempio.
Feste e sacrifici di questo tipo sono celebrate per nove giorni. Ogni giorno offrono un uomo con altri esseri viventi in numero tale che nel corso dei nove giorni saranno fatte offerte di settantadue creature. Questo sacrificio dura circa il tempo dell’equinozio di primavera.
Oppure la notizia della prima spedizione polare intrapresa da quei Frisoni che partirono da Brema fra il 1035 e il 1043, i quali giunsero nel luogo in cui il mare si trasforma in ghiaccio: essendo quello il periodo dell’optimum climatico medievale, non è così peregrino pensare che si siano molto avvicinati al Polo Nord
Infine, è uno dei primi, fuori dalle saghe a parlare del Vinland, il Nord America scoperto dai Vichinghi: a proposito di una sua conversazione con il re danese Svein Estridsson, riferisce:
“Egli mi parlò di un’altra isola ancora, da molti osservata in quell’oceano, chiamata Terra del Vino per il fatto che la vite vi cresce spontaneamente e produce vino eccellentissimo. Che vi si trova in abbondanza frumento non seminato è notizia non appresa da voci favolose, ma dai resoconti, degni di fede, dei danesi”
March 13, 2018
I limiti delle Stringhe
La teoria delle stringhe, per chi non segue Big Bang Theory, è una teoria che tenta di conciliare la meccanica quantistica con la relatività generale. Per fare questo, si basa sul principio secondo cui la materia, la radiazione e, sotto certe ipotesi, lo spazio e il tempo siano in realtà la manifestazione di entità fisiche fondamentali che, a seconda del numero di dimensioni in cui si sviluppano, vengono chiamate stringhe oppure p-brane.
Teoria complessa, affascinate, che implica la presenza di n dimensioni nascoste, con n che varia a seconda delle formulazioni, rispetto a quelle delle spazio tempo di Einstein, che con le loro vibrazioni danno danno origine a “brane” tridimensionali che fluttuano in uno spazio multidimensionale e dove in ciascuna di esse esiste un determinato universo; queste brane, tra loro non sono parallele e nelle occasioni in cui si scontrano, danno origine a big bang multipli ognuno dei quali causa la nascita di un nuovo universo. In particolare, la teoria stima l’esistenza qualcosa come 10 elevato alla 500 universi, ciascuno dei quali con diverse leggi fisiche e costanti cosmologiche
Teoria su cui si sono costruite tante carriere accademiche, ma che ahimè ha due grossi problemi: manca sia di un’univoca e certa verifica empirica, sia del rispetto del requisito popperiano della falsificabilità, ossia deve essere “confutabile”: in termini logici, dalle sue premesse di base devono poter essere deducibili le condizioni di almeno un esperimento che, qualora la teoria sia errata, ne possa dimostrare integralmente tale erroneità alla prova dei fatti, secondo il procedimento logico del modus tollens, in base a cui, se da A si deduce B, e se B è falso, allora è falso anche A. Se una teoria non possiede questa proprietà, è impossibile controllare la validità del suo contenuto informativo relativamente alla realtà che presume di descrivere.
Ora decine di fisici, per giustificare il loro stipendio, hanno cercato di aggirare questi due bachi, applicando come giustificazione alla teoria delle stringhe una serie di argomenti non empirici, ossia validazioni non basate su osservazioni ed esperimenti.
Tali argomenti sono distinguibili in esterni, basati sul confronto con altre teorie, e in interni, ossia fondati sulle caratteristiche intrinseche della teoria stessa. I principali argomenti esterni a difesa della teoria delle stringhe sono:
L’assenza di teoria alternative, capaci di provvedere alla grande unificazione, cosa manda in bestia tutti i sostenitori delle diverse teorie della gravità quantistica, fermamente convinti che il loro approccio sia la strada migliore per giungere alla Teoria del Tutto;
Il fatto che teorie comparabili abbiano trovato conferma empirica, con tutta l’ambiguità, legata all’interpretazione soggettiva, dell’aggettivo comparabile;
Il fatto che la teoria fornisca una spiegazione per risultati che esulano dal suo originario ambito di applicazione e qui ci sarebbe tutte le discussioni sulle predizioni relative alla viscosità dei fluidi.
Mentre i criteri esterni sono a posteriori, ossia si applicano alle teorie già consolidate, i criteri interni sono influenti anche nel processo stesso di elaborazione teorica, dove svolgono un importante ruolo euristico: esempi tipici sono le cosiddette virtù teoretiche, come la semplicità, la coerenza e l’eleganza, che però sono sempre condizionate dal giudizio soggettivo. Più rilevante è il criterio della convergenza, legato al fatto che alcuni risultati teorici, su cui è basata la teoria, siano ottenuti in modi alternativi, indipendenti e da punti di partenza differenti.
Però, nonostante queste contorsioni logiche e artifici retorici, alla fine ha sempre ragione Richard Feynman che ne Il carattere della Legge Fisica, così scriveva
Non importa chi abbia inventato la teoria, quale sia il suo nome, e neanche quanto la teoria possa essere esteticamente attraente: se essa non è in accordo con la realtà sperimentale, essa è sbagliata
E grazie a nonno Einstein e allo studio delle onde gravitazionali, la realtà sperimentale sta affermando il suo primato: ora, come detto in precedenza, la teoria delle stringhe prevede n dimensioni aggiuntive. In tale modello, inoltre, la gravità dovrebbe fare sentire i suoi effetti anche su tali dimensioni aggiuntive: indi per cui, un’onda gravitazionale, se queste dimensioni esistessero, dovrebbe subire un’attenuazione aggiuntiva nel suo percorso rispetto a quella prevista nel tradizionale spazio tempo relativistico.
Data che la distanza di una sorgente di un’onda gravitazione, osservata grazie a Ligo-Virgo, può essere stimata in maniera indipendente grazie ai segnali elettromagnetici, luce compresa, che sono invarianti alla presenze di altre dimensioni, è stato possibile verificare come questa attenuazione aggiuntiva sia nulla. Per cui le n dimensioni extra non esistono; di conseguenza, con buona pace di un paio di generazioni di fisici teorici, il castello di carta delle stringhe crolla miseramente…
March 12, 2018
Evoluzione di una post-verità
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Bisogna essere onesti: è da più di vent’anni che, in forme differenti, si discute del reddito di base. Di fatto, molti sostengono che, con il diffondersi dell’automazione e dell’IA, processo, ricordiamolo, rallentato dalla globalizzazione, che per parecchio tempo ha reso più conveniente investire in delocalizzazione che in innovazione, trend invertito negli ultimi anni, in cui un robot è tornato economicamente più conveniente di un operaio asiatico, si creerà una condizione di disoccupazione di massa.
Per cui, per mantenere un’economia di tipo capitalistico, i soldi percepiti dagli stipendi dovranno essere progressivamente sostituiti da quelli provenienti da forme più o meno dirette di sussidi statali. Ipotesi che, trascurando qualsiasi ragionamento di sostenibilità finanziaria, si scontra con un problema filosofico: la singolarità tecnologica, modificando radicalmente tutti i rapporti di produzione e quindi la sovrastruttura, renderà infondata qualsiasi nostra previsione e ragionamento a priori.
Però, come è possibile che un argomento, trattato da ristretti circoli di economisti e futurologi, sia diventato in Italia tema da chiacchiere da bar sport ?
Tutto è cominciato con il fortunato saggio di Jeremy Rifkin La fine del lavoro, che proponeva come rimedi della disoccupazione tecnologica, la crescita del Terzo Settore e della Sharing Economy. Saggio che fu letto ed equivocato da Beppe Grillo, il quale scambiò un trend a medio termine con uno a breve e, forse ispirato da qualche poco compresa lettura transumanista, sostituì le soluzioni proposte da Rifkin con l’italico “damo li sordi a tutti”
Tema che è diventato un suo cavallo di battaglia: nella scorsa legislatura, una pattuglia di senatori grillini, capitanati da Nunzia Catalfo, ispirata dal modello di welfare danese, proponeva di introdurre un sussidio di disoccupazione di cui avevano diritto, cito l’articolo 4
tutti i soggetti che hanno compiuto il diciottesimo anno di età, risiedono nel territorio nazionale, percepiscono un reddito annuo calcolato ai sensi dellarticolo 3, comma 1, e che sono compresi in una delle seguenti categorie:
a)soggetti in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell’Unione europea;
b)soggetti provenienti da Paesi che hanno sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale.
Ovviamente come a Copenaghen, tale sussidio, per essere erogato, doveva soddisfare una serie di specifiche condizioni. Insomma, una forma di welfare già sperimentata, che però, nell’adattamento all’italiana, oltre a una poca chiarezza nel calcolo della soglia di povertà, non teneva conto del fatto che, se nello Jutland il sistema dei centri per l’impiego è capillare e ben rodato, in Italia è allo sbando. In più, dato che chiamarlo con il suo vero nome, sussidio per disoccupazione, o perché pareva poco roboante e dava scarsa visibilità sui media, o per omaggiare Beppe Grillo, si è trasformato in ben più retorico reddito di cittadinanza.
Con la campagna elettorale, o per cinismo, se qualcuno promette la flat tax o l’abolizione della legge Fornero, io posso pure dire che regalerò soldi a destra e manca, o per effettiva ignoranza della proposta Catalfo, un onesto sussidio di disoccupazione si è ritrasformato in “damo li sordi e pure tanti a tutti”, con candidati grillini, poi eletti, che promettevano di regalare 2000 euro al mese a capoccia. Dopo il successo elettorale, Di Maio ha dovuto rimettere tutti in riga, ribadendo il valore originale della proposta, con due variazioni:
Qualcuno, facendosi due conti, per rendere più sostenibile alle finanze dello Stato tale sussidio ha deciso di renderlo percepibile non all’individuo, ma al nucleo famigliare. Per cui, i 780 euro mensili, in diverse zone d’Italia, risultano essere assai poco d’aiuto
Dato lo stato carente dei centri di avvio all’impiego, si è deciso di anteporre la loro riforma all’erogazione del sussidio: il che significa che i primi soldi, conoscendo i tempi italici, si cominceranno a vedere tra tre o quattro anni.
Detto questo, io sono contrario a priori ai sussidi di disoccupazione, ma come dice bene il buon Li er Barista
“Se a uno je prometti de daje ‘na Ferrari subito e ‘nvece je tocca pure aspettà pe’ ave ‘n’ apetta, magari è sempre mejo de rimanè a fette, magari je serve più l’apetta che la Ferrari, però nun te lamentà se t’aspetta sotto casa, pe’ corcatte come ‘na zampogna”
March 11, 2018
Cronache da Esquisito
E’ facile parlare male dell’Esquilino: chi lo fa, ha tante frecce al suo arco, dal degrado edilizio, alla mancata manutenzione dei luoghi pubblici del Rione, dalla scarsa illuminazione alla latitanza dell’AMA nel raccogliere i rifiuti e pulire le strade.
Problemi antichi, accentuati dal disinteresse di tante amministrazioni, che ormai sono radicati e fossilizzati. Poi, diciamola tutta, per troppi radical chic è difficile comprendere la varia e complessa umanità che lo vive, con tutte le sue luci e ombre, che Gadda scelse per rappresentare la vita nella sua totalità, caotica, zeppa di dialetti, di gerghi, di umori, di emozioni.
Insomma, non ci vuole molto, per sparare il titolone sulla testata nazionale di turno, spacciarlo per il Bronx di Roma, nel caso migliore, sfruttando un’ipocrita e pelosa indignazione, per vendere qualche copia in più, nel peggiore, per difendere interessi politici e speculativi assai poco chiari.
Più difficile, faticoso e complesso raccontare il Rione per quello che é, con le sue grandi contraddizioni, certo, ma che lo rendono, senza tradire le sue radici, il luogo più cosmopolita e multietnico di Roma, un frammento di New York trascinato nel cuore della Città Eterna.
E questo compito, ahimé, assai trascurato dai Media, ricade sulle spalle dei tanti cittadini di buona volontà del Rione: ieri ad esempio, tante associazioni hanno lanciato un ambizioso e complesso progetto, per rendere il Mercato, uno spazio di mobilità, di vita e dialogo, un museo a cielo aperto d’arte contemporanea
Oggi, invece, alcune tra le principali eccellenze gastronomiche del Rione, Roscioli, Cecchini, Gatsby, Ciamei, Radici, hanno lanciato Esquisito, un evento in cui Andrea Fassi ha trasformato in gelato i loro prodotti simbolo.
Evento che ha avuto un successo tanto ampio, quanto inaspettato: la miglior risposta a coloro che lo demonizzano il Rione.
Perché l’Esquilino non è degrado, ma vita, coraggio e cultura…
March 10, 2018
Il Polesine nella tarda Età del Bronzo
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La crisi della tarda età del bronzo è un tema di numerosi e ampi dibattiti, la cui animosità fa impallidire quelli della politica italiana. Ci si scanna, con parecchio entusiasmo, sulla cronologia (corta, ossia il tutto avviene in un paio d’anni o lunga, ossia come questa crisi sia stata graduale ed estesa per un periodo di tempo di circa ottanta anni), sulle cause del fenomeno (invasioni di massa provenienti dal Mediterraneo Occidentale o crisi politico economica ?) e sui singoli eventi ( che diavolo succede di preciso nell’area egeo anatolica ?).
Provo a tenermi fuori da questo marasma di polemiche e ipotesi, gettando uno sguardo, invece, su un tema assai meno trattato: gli impatti della crisi del Mediterraneo Orientale sul quello Occidentale. Il motivo è abbastanza semplice: se ci fosse stata questa ipotetica migrazione, dovremmo trovare, nelle aree di provenienza degli ipotetici invasori, tracce di un ampio spopolamento o in caso si ipotizzi un comportamento analogo a quello dei vichinghi, il bottino dei saccheggi.
In più essendo quelle aree economicamente connesse al mondo miceneo, cipriota e siriano, si dovrebbero notare, nelle tracce della loro vita materiale, gli effetti dei torbidi avvenuti in quelle aree. Comincerò questa analisi, che si articolerà in vari post, esaminando quanto accade nella zona del delta del Po: può sembrare strano, ma nella Media e Tarda età del Bronzo, svolge lo stesso ruolo che hanno il Salento, la Sicilia Occidentale e la Sardegna nei traffici dell’epoca, ossia di interscambio tra una rete commerciale locale, più o meno estesa e i ricchi mercati orientali.
In particolare, nel Polesine i mercanti micenei e ciprioti entravano in contatto con comunità tribali che associavano all’agricoltura e all’allevamento, un commercio a breve distanza, per approvvigionarsi del rame del Trentino e a lunga distanza, erano terminali sia della via dell’Ambra e dello Stagno. Contatto che nel XIII secolo a.C. provoca alcuni mutamenti culturali ed economici: si accentua la differenze tra capi, che importano beni di lusso, e resto della tribù, la ceramica locale imita quella egea e nell’area compresa tra l’Emilia e la Svizzera si adottano, per facilitare gli scambi commerciali con i mercanti
stranieri, le unità di misura di peso e lunghezza micenee.
Questo equilibrio si rompe intorno al XII secolo a.C. : una crisi drammatica colpisce le comunità terramaricole, quella che quando ero piccolo io erano chiamati i tizi delle palafitte. La deforestazione, l’eccessivo sfruttamento del suolo e un periodo particolarmente arido manda in tilt il loro sistema sociale. Ora, i terramaricoli, non prendono armi e bagagli e corrono a saccheggiare i territori egizi ed ittiti,
primo, perché non avevano nessuna idea di dove fossero, secondo, perché, con le piroghe, non è che potessero andare molto distante. Per cui, una parte migra nei territori della cultura appenninica, che essendo pastori transumanti, poco si curano dell’arrivo dei profughi, anzi, incominciano un processo di ibridazione culturale che sarà una delle componenti della civiltà protovillanoviana, un’altra si trasferisce nel Delta del Po.
L’arrivo di questa massa di persone, fa da volano a una serie di cambiamenti in quell’area: il modello di popolamento passa dal modello a villaggi distribuiti a quello centrato su due grossi centri proto urbani: Campestrin e Frattesina.
Dato che la siccità ha reso l’agricoltura inadeguata a riempire lo stomaco di tutta la popolazione, ci si arrangia alla meno peggio: la caccia torna ad avere un ruolo importante come fonte di cibo, in più ci si dedica all’allevamento massiccio dei maiali. All’improvviso, un capo locale, ha un’idea geniale: invece di vendere materie prime ai mercanti stranieri, forniamo loro anche prodotti artigianali. Idea che ha un
rapido successo, trasformando Frattesina in una sorta di sito proto-industriale.
Da una parte si punta sulla metallurgia, producendo migliaia e migliaia di oggetti in bronzo, oro, ferro e piombo che hanno una diffusione sovraregionale dalle Marche e Toscana alla Slovenia, soppiantando le produzioni locali. Dall’altra, si producono beni di lusso: oggetti di corno e perle d’ambra, che una volta si definivano “di tipo Tirinto, perché si ipotizzava fossero prodotte in quella città micenea.
Addirittura, si importano uova di struzzo e avorio dal Nord Africa e dall’Egitto, che trasformate in ornamenti femminili, che si diffondono in tutta la Penisola, dalla Camunia a Lipari. Questo boom produttivo e commerciale, da quanto appare dalle necropoli, porta all’adozione di un modello amministrativo simile a quello miceneo: un’organizzazione politica a forte connotazione gerarchica che controllava i processi di acquisizione e ridistribuzione dei beni prodotti e scambiati.
Questo modello però entra in crisi nel IX secolo: da una parte le frequenti alluvioni diminuiscono l’abitabilità dell’area, dall’altro i commerci con il Mediterraneo Orientale entrano in crisi. La popolazione abbandona Frattesina, per tornare a ripopolare le nuove comunità villanoviane e protovenete.
Che ci racconta quindi il Polesine della crisi dell’età del bronzo ? Punto primo: il suo successo “proto industriale” è una testimonianza della crisi di alcuni dei centri produttivi tradizionali dell’età del Bronzo, il che, viste le vicende di Ugarit, è facilmente comprensibile e della crescita di un mercato “interno” in Italia che le importazioni del Mediterraneo Orientale non riescono a soddisfare. Per cui, è improbabile che vi sia stato un calo demografico nella penisola, provocato dalla migrazione armi alla mano in Anatolia, Siria ed Egitto.
Se i tradizionali centri produttivi siriani entrano in crisi, il commercio internazionale, però si riprende rapidamente; i beni di lussi di Frattesina, per giungere nell’Egeo, nel Mar Nero, a Cipro, in Anatolia e in Egitto, vuol dire che vi erano dei mercanti che li commerciavano e al contempo dei ricchi compratori.
Per cui, l’organizzazione mercantile e produttiva micenea, la loro ceramica continua a trovarsi nei siti protovillanoviani per un paio di secoli, rimane in piedi ed efficiente, nonostante il collasso del sistema palaziale. cosa che mal si coniuga con un’invasione distruttiva di barbari dori. Paradossalmente, le spinte centrifughe che sembrano avere caratterizzato la fine dell’età del bronzo, ridistribuendo la ricchezza centralizzata e favorendo la moltiplicazione delle élites, sembrano essere state un toccasana per il commercio. Per cui, sembra essere più corretto un modello a equilibri punteggiati, crisi momentanee (il collasso miceneo, i disordini di Ugarit, la frammentazione dello stato Ittita, le migrazioni dall’Egeo a Cipro e in Palestina) alternati a periodo di stasi e/o ricostruzione, che quello basato su un crollo rapido e immediato.
Infine, la crisi di Frattesina non è legata al collasso dell’Età del Bronzo, ma alla ricostruzione successiva, con la rinascita dei centri produttivi siro-palestinesi e alle nuove rotte commerciali percorse dai protofenici, che favoriscono il Tirreno all’Adriatico
March 9, 2018
Il reddito di cittadinanza e la Post Verità
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Premetto una cosa: sono convinto che i voti ottenuti al Sud dal Movimento Cinque Stelle abbiamo motivazioni ben più complesse di quella del ricevere sussidi senza lavorare e che tutte le chiacchiere sui CAF presi d’assalto siano fake news.
Ora, non escludo che qualche ingenuo possa averlo fatto, d’altra parte c’è un esponente pentastellato del rione Esquilino che ha presa per vera una battuta di Li er Barista, sul fatto che il sottoscritto passi le nottate a prendere a picconate l’asfalto di via Giolitti, per scavare buche che possano mettere in imbarazzo la giunta Raggi… Però, mi sento di escludere il fatto che il fenomeno abbia avuto ampie dimensione.
Tuttavia, una piccola riflessione me la sento di buttarla giù: come il muro di Trump, il cosiddetto reddito di cittadinanza grillino è uno dei tanti esempi di come la politica contemporanea sia centrata sulla post verità.
In entrambi i casi, si è presa una cosa esistente, le si è cambiato nome e, giocando con l’ambiguità semantica della definizione, le si è dato un sottotesto simbolico, il quale ha tratto in inganno gli elettori.
Cos’è in realtà il cosiddetto reddito di cittadinanza ? Non è un sussidio erogato a tutti, anzi per ottenerlo, bisogna soddisfare una serie di condizioni assai stringenti:
Essere maggiorenni
Essere disoccupati
Oppure, percepire un reddito da lavoro inferiore alla soglia di povertà
Oppure, percepire una pensione inferiore alla soglia di povertà
In più, per riceverlo bisognerà
I disoccupati, per poter conservare il reddito di cittadinanza, dovranno iscriversi a un centro per l’impiego
Offrire circa 8 ore settimanali alla comunità per progetti e lavori socialmente utili
Sarà inoltre previsto frequentare corsi di qualificazione o riqualificazione professionale
Comunicare tempestivamente ogni variazione di reddito
Sarà obbligatorio accettare una delle prime tre offerte di lavoro pervenute.
Effettuare la ricerca di un lavoro per almeno due ore al giorno
Infine, è anche necessario non recedere da un contratto senza giusta causa due volte in un anno
Insomma, a casa mia, si chiama sussidio di disoccupazione… E se è vero quanto affermato in questi giorni diversi esponenti grillini, ossia che non sarà cumulabile tra membri dello stesso nucleo famigliare, scelta forse obbligata per garantirne la sostenibilità economica, anche parecchio micragnoso, visto che si tratta di 780 euro…
Per fare un paragone, in Danimarca in chi valgono le stesse regole, ma si usa il nome vero per definirlo, la base per un singolo over 25 è di 1.325 euro (escluso l’aiuto per l’affitto, che viene elargito a parte), che arrivano a 1.760 per chi ha figli.
In più per dirla tutta, già esiste anche in Italia uno strumento analogo di assistenza sociale, tra l’altro varato proprio dal governo Gentiloni: il Reddito di Inclusione (REI), che si compone di due parti.
La prima è un beneficio economico, erogato ogni mese con una carta di pagamento elettronica; la seconda un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa per uscire dalla condizione di povertà.
Le differenze tra Rei e il presunto reddito di cittadinanza sono:
i requisiti più stringenti per ottenerlo
la cifra ancora più misera, poco più di 490 euro
Il fatto che potrà essere erogato per un periodo massimo di 18 mesi, trascorsi i quali non può essere rinnovato se non sono trascorsi almeno sei mesi.
Per cui i nostri eroi non si sono inventati nulla: hanno solo chiamato in maniera evocativa uno strumento di welfare alquanto banale. Il vero reddito di cittadinanza è qualcosa di ben diverso: è un trasferimento monetario erogato dallo stato che viene ricevuto da tutti i cittadini, a prescindere da ogni altra considerazione. È un reddito, quindi, che spetta a qualcuno per il solo fatto di essere cittadino di un certo paese in assenza di qualsiasi altra condizione.
Che io sappia, dovrebbe essere stato realizzato nel concreto in Alaska, dove qualsiasi cittadino americano, per il solo fatto di essere un residente da almeno un anno nello stato, riceve circa un migliaio di dollari l’anno (e visto le condizioni di vita in quelle zone, mi pare anche poco) e in Namibia, nei villaggi di Otjievero e Omitara. Ora, questa tipologia di reddito è ad oggi non sostenibile economicamente e in contrasto con il buon senso.
Forse, con il crescere della diffusione della robotica e dell’intelligenza artificiale, sarà un dilemma problematico che dovranno affrontare i nostri figli o nipoti: nel farlo, sperò più che seguano l’utopia di Elon Musk che la demagogia di Luigi Di Maio
March 8, 2018
Enciclopedie
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Quando ero studentello io, non esistevano né Google, né Wikipedia: così, quando mi toccava fare qualche ricerca, mi ricordo quelle folle che mi appioppava l’insegnante di geografia, dovevo per forza avvicinarmi a libroni imponenti dell’enciclopedia.
Consultarli era quasi un rito sacro: mia madre prendeva il volume prescelto, ne spolverava la copertina e con fare solenne, mi apriva la pagina alla voce da consultare: dato che la nostra, però, era alquanto pezzente, quando le ricerche erano assai impegnative, mi toccava chiederla in prestito dal vicino benestante.
Ora, immagino che tutto questo ritualismo, che doveva inculcarmi il rispetto per la cultura, sia andato perso… Rimane l’amore per questa parola ormai arcana, Enciclopedia… Potrei chiacchierare di Denis Diderot e di Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, ma loro, in fondo non si sono inventati nulla.
La prima compilazione di una moderna enciclopedia spetta all’italiano Vincenzo Maria Coronelli, celebre cartografo veneziano e generale dei Francescani minoriti, il quale nel 1701 iniziò la pubblicazione della sua Biblioteca universale sacro-profana, un’opera ordinata alfabeticamente e scritta in lingua italiana. Il quale, però, preso da eccessivo entusiasmo, a volte capita, sopravvalutò il tempo e le forze disponibili, l’opera avrebbe dovuto contare infatti ben 45 volumi e trecentomila voci. Si limitò a compilarne solo sette volumi e 32000 voci.
Però, la sua impresa ispirò Ephraim Chambers, che nel 1728 pubblicò a Londra, in due soli volumi, la sua Cyclopaedia, or an Universal Dictionary of Art and Sciences; una complessa e contorta questione legata alla sua edizione in francese, riconducibile ai tentativi dell’editore di non pagare i diritti d’autore e il traduttore, diede il la all’impresa di Diderot e d’Alembert, che poi, in fondo, non fecero che riproporre, in forme moderne, il sogno medievale di ricapitolare lo scibile umano, in modo che questo permettesse di dare ordine e senso al Mondo.
Ambizione e sogno che cominciano con De nuptiis Philologiae et Mercurii (“Delle nozze della Filologia con Mercurio”) scritto da Marziano Capella in età tardo-romana (IV-V secolo), che definisce la distinzione tra Trivio e Quadrivio e continua con le Istituzioni di Cassiodoro (560) e con l’Etymologiae di Isidoro di Siviglia, in cui il patrono di Internet e di chi ci lavora, trasmise tutto ciò che riuscì a raccogliere sul mondo antico, ordinando uno sterminato materiale e dando fondo alla sua sregolata fantasia nello spiegarne l’etimologia.
Fu poi ripreso dall’erudito carolingio Rabano Mauro, abate di Fulda e arcivescovo di Magonza, nel suo De universo e nel mondo bizantino, nella folle e sconclusionata Suda, il cui titolo deriva dall’imperativo latino “Suda [studiando]! Datti da fare!”
Così la definì un bizantinista del secolo scorso
E’ una compilazione fatta quasi senza scelta o senza discernimento. Ignoranti copisti accrebbero ancora più gli errori del primo autore, inserendo nel testo delle note le quali altro non fanno che rendere più oscuri i passi cui dovrebbero dilucidare.
Nel basso Medioevo, fu il turno del Didascalicon di Ugo di San Vittore, una sorta di bestseller dell’epoca, nato per ambiente monastico, ebbe una larga diffusione anche nelle scuole cittadine. A questa seguì l’ Imago mundi di Onorio Augustodunense, scritta verso il 1110: trattava di geografia, astrologia, astronomia e storia e fu tradotta in francese, italiano e spagnolo.
Il secolo successivo fu invece arricchito dallo Speculum Majus (1260) di Vincenzo di Beauvais, con più di tre milioni di parole, dal Li livres duo Trésor scritto in francese dal fiorentino Brunetto Latini, maestro di Dante e dai tanti trattati di Alberto Magno, Doctor Universalis, che trattavano tutto lo scibile umano dell’epoca, scritti da un uomo tanto curioso e colto, quanto smemorato.
E la grande stagione dell’enciclopedismo medievale ha degna conclusione con Ruggero Bacone, uno dei padri dell’empirismo, capace di mischiare metodo scientifico e occultismo, e con Raimondo Lullo, il doctor illuminatus, autore di duecentosessantacinque trattati, che a trent’anni abbandonò la vita da cortigiano, la poesia trobadorica, la moglie e i figli, per consacrarsi al sogno di fondare una logica universale, capace di scoprire e dimostrare la verità partendo dai termini semplici e combinandoli in modo matematico
Alessio Brugnoli's Blog

