Alessio Brugnoli's Blog, page 155
March 27, 2018
Cesario di Heisterbach, costruttore di mondi
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Pochi conoscono Cesario di Heisterbach, un monaco cistercense, nato a Colonia intorno al 1180, che per sfuggire ai creditori si rifugiònel 1119 nella badia di Heisterbach, dove divenne priore e resto sino sino alla morte che lo colse intorno al 1240. Dopo una una giovinezza alquanto, come dire, turbolenta, si mise sulla retta via, tanto da essere proclamato beato.
Ora, Cesario è stato uno scrittore vivace e alquanto produttivo: ha buttato giù la Vita Engelberti, dove traccia con bella imparzialità la biografia dell’illustre arcivescovo di Colonia Engelberto di Berg, ucciso a tradimento per odî politici nel 1225, una biografia di Elisabetta di Turinga e uno sproposito di omelie…
Ma tutto questo lo avrebbe condannato all’oblio, se non ci fosse stato il Dialogus Miracolorum, il figlio più grande, nonostante nel prologo dell’opera affermi che ciò che scrive non è frutto della sua creatività, della sua fantasia sfrenata.
Il Dialogus è in teoria una raccolta di exempla, racconti edificanti che predicatori potevano citare per non fare addormentare il pubblico durante le omelie. In realtà, è uno degli antecedenti storici del Decameron: si tratta infatti di una raccolta di settecentocinquanta novelle, racchiuse una cornice di un dialogo tra lo stesso Cesario e un novizio.
Novelle catalogate in dodici sezioni, le distinctiones, ognuna dedicata a un tema diverso: la conversione, la contrizione, la confessione, la tentazione, i demoni, la semplicità, Maria Vergine, le visioni mistiche, il sacramento del corpo e sangue di Cristo, i miracoli, i moribondi, le ricompense dell’aldilà. Le iniziali di ogni sezione, da buon uomo medievale, formano un acrostico, con le parole Cesarii Munus, il monaco Cesario, una sorta di firma dell’opera. In più l’ordine delle sezioni, oltre che da un filo semantico, è legato da una mistica numerica: ad esempio le tentazione è al quarto posto, perchè il quattro è il simbolo della stabilità, unica e tetragona arma per resistere alla tentazione del maligno.
Messo così, il Dialogus parrebbe un mattone colossale: in realtà, Cesario, in maniera inconsapevole, sfrutta il motivo religioso per intraprendere un viaggio nel complesso e contraddittorio immaginario medievale: la sua fantasia non si concentra sul monastero, ma spazia dalla Germania alla Francia, dall’Italia a Bisanzio, raccontando le vicende di papi e parroci, di re e contadini, di santi ed eretici.
Cito tre delle sue invenzioni più famose. La prima, che diventerà un bestseller medievale, è la leggenda della sacrestana Beatrice; questa, sedotta da un chierico, prima di abbandonare il convento si accosta all’altare della Madonna, dove depone le chiavi della sacrestia, rivolgendo alla Vergine queste parole
Signora, ti ho servito quanto più devotamente mi è stato possibile, ecco ti restituisco le tue chiavi; non sono capace di resistere oltre alle tentazioni della carne
Ben presto, però, la suora viene abbandonata dal proprio amante. Beatrice, non avendo di che vivere e non osando per la vergogna rientrare in convento, diventa meretrice. Dopo quindici anni, però, fa ritorno al monastero e scopre che Maria l’ha miracolosamente sostituita nel suo ufficio di sacrestana. Da qui scaturiscono il suo pentimento e la confessione finale, attraverso la quale si viene a conoscenza del miracolo.
La seconda è la strage di Béziers, brano che cito testualmente
Al tempo del papa Innocenzo, predecessore di questo Onorio che regge ora il papato, mentre era ancora in corso lo scisma tra Filippo ed Ottone, entrambi re dei Romani, per l’invidia dei diavolo presero a sbocciare, o per meglio dire a maturare, le eresie degli Albigesi. Le loro forze erano tali che tutto il buon grano della fede di quel popolo sembrava trasformato nella zizzania dell’errore. Alcuni abbati dei nostro ordine furono inviati lì insieme ad alcuni vescovi per estirpare il loglio con il rastrello della predicazione cattolica. Ma per l’opposizione dei nemico, che aveva sparso quel cattivo seme, ottennero ben pochi risultati. […] L’errore degli Albigesi si affermò a tal punto che in breve tempo infettò fino a mille città, e se non fossero intervenute le spade dei fedeli a reprimerlo, ritengo che avrebbe corrotto l’intera Europa.
Nell’anno dei Signore 1210 per tutta la Francia e la Germania fu predicata la crociata contro gli Albigesi e nell’anno successivo si mossero contro di loro, dalla Germania, Leopoldo duca d’Austria, Engilberto allora preposto, in seguito arcivescovo, di Colonia, suo fratello Adolfo conte de Monte, Guglielmo conte di Julich e molti altri di diversa condizione e grado. Lo stesso avvenne in Francia, Normandia e Poitou.
Predicatore e capo di tutti era Arnaldo , abbate cisterciense, in seguito arcivescovo di Narbona. Come giunsero alla grande città chiamata Béziers – dove si diceva vi fossero più di centomila abitanti – la cinsero d’assedio. Al vedere i crociati gli eretici urinarono su un volume dei Vangelo e lo gettarono dal muro contro i cristiani facendo seguire un lancio di frecce e gridando: «Ecco, sciagurati, la vostra legge». Cristo, seminatore dei Vangelo, non lasciò invendicata quell’ingiuria. Infatti alcuni dell’esercito crociato, infiammati dallo zelo della fede, simili a leoni, sull’esempio di coloro dei quali si legge nel Libro dei Maccabei, portarono scale, salirono sulle mura, e mentre gli eretici per volere divino si ritiravano atterriti, aprirono le porte a quelli che venivano dietro di loro e presero così la città. Poiché, per ammissione degli eretici, si era venuto a sapere che nella città vi erano dei cattolici insieme con gli eretici, i crociati chiesero all’abbate: «Che dobbiamo fare?». L’abbate, temendo che gli altri si fingessero cattolici solo per il timore della morte e che, dopo la loro pazienza, tornassero alla loro perfidia, si dice che abbia risposto: «Uccideteli tutti. Il Signore sa quali sono i suoi» . Così in quella città venne ucciso un numero incalcolabile di persone. Per virtù divina i crociati presero anche un’altra grande città, situata presso Tolosa, chiamata Pulcravalle per la sua posizione. Inquisirono tutti gli abitanti e mentre tutti promisero di voler tornare alla fede vi furono quattrocentocinquanta che, istigati dal diavolo, perdurarono nella loro ostinazione: di questi, quattrocento furono bruciati sul rogo e cinquanta furono impiccati. I Tolosani, costretti, promisero ogni soddisfazione, ma la promessa, come poi apparve, celava l’inganno. Infatti il perfido conte di Saint-Gilles, principe e capo di tutti gli eretici, dopo che i suoi feudi allodi, città e castelli gli erano stati sottratti nel concilio Lateranense, e dopo che per la massima parte erano stati occupati dall’eroe cattolico Simone di Montfort si è recato a Tolosa ed ancora oggi non cessa di vessare ed attaccare i fedeli
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L’ultima è Titivillus, il diavoletto fustigatore delle tante vanità di noi intellettuali, che si presentava così
Sono un povero diavolo, e il mio nome è Titivillus… Devo ogni giorno… portare al mio padrone un migliaio di borse piene di errori, e di negligenze nelle sillabe e nelle parole
Egli è il raccoglitore delle chiacchierate inutili che avvengono durante le funzioni religiose, delle parole mal pronunciate, borbottate oppure omesse nelle funzioni stesse, per portarle nell’Inferno e includerle nelle colpe dei peccatori. E soprattutto è il tentatore degli scribi, che induce negli errori di grammatica e sintassi e fa copiare le parole sbagliate.
Santità, ferocia, satira: su questi tre pilastri, Cesario costruisce un universo, che ancora oggi non cessa di stupire i suoi lettori
March 26, 2018
Santa Bibiana e San Polieucto
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Dato che le discussioni accademiche sulla chiesa costantinopolitana di San Polieucto stanno ormai assumendo i contorni di una telenovela, urge, prima di proseguire con il post, fare un breve riassunto delle puntate precedenti. Anni fa, il bizantinista e studioso della tarda antichità Rod Kalemin se ne uscì con una bizzarra ipotesi, in cui si affermava come la decorazione marmorea di tale chiesa fosse stata concepita e realizzata all’Esquilino.
Ipotesi che nel migliore dei casi fu accolta con molto scetticismo: però, Kalemin, per supportarla, si fece un giro per le chiese del Rione, cercando di trovare delle tracce di questa misteriosa officina di marmorari tardo antichi, dedita all’esportazione dei suoi lavori nell’Oriente Bizantino.
Ricerca che, pur supportata da dotte analisi, fu considerata di scarso fondamento: però, dato che tutto si può dire, tranne che Kalemin non sia tenace, ha prodotto un nuovo articolo, stavolta dedicato a Santa Bibiana.
Il buon bizantinista ha identificato nella parrocchia dell’Esquilino quattro colonne vineate, due antistanti il presbiterio, le altre, di minori dimensioni, posta ad inquadrare la pala d’al-tare della Cappella della Madonna e di San Flaviano, fondata nel 1702.
Inoltre ha evidenziato la presenza, sempre nella chiesa, di due capitelli pseudocorinzi e di un altro frammento di colonna vineata, reimpiegato in un tratto delle Mura Aureliane posto a sud dei Castra Praetoria , tra questi e la Porta Tiburtina, dunque poco lontano da Santa Bibiana.
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Dato che questa tipologia di colonna, essendo ispirata alla pergula, la struttura dello spazio liturgico paleocristiano che separava il coro destinato al clero dal restante spazio della chiesa, .costituita da una serie di colonne, collegate da un architrave per appendere le lampade e appoggianti su un parapetto che lascia aperto solo un accesso centrale, che Costantino aveva fatto realizzare nell’antica San Pietro, è tipicamente romana e assieme ai capitelli pseudocorinzi è presente anche in San Polieucto, lo studioso la ritiene la pistola fumante per provare sia l’esistenza di tale bottega di marmorari, sia i suoi contatti con Bisanzio
A maggiore supporto di tale tesi, Kalemin identifica il marmo con cui sono scolpiti capitelli e colonne come lunense, a maggiore testimonianza della provenienza locale di tali elementi architettonici. Quindi, tutto torna ?
Purtroppo, neppure questa volta, la tesi è convincente: paradossalmente, il primo argomento contro la tesi di Kalemin proviene proprio da uno degli oggetti dei suoi studi: la tomba quattrocentesca del Cardinal Venerio a San Clemente. Se i capitelli che decorano tale tomba potrebbero essere di maestranze romane dell’epoca dell’imperatore Giustino, sin dal 1992 Federico Guidobaldi ha dimostrato come le colonnine, di tipologia analoga a quelle di santa Bibiana, che li reggono non risalgano a quell’epoca, ma siano una spolia precedente, databile l’ultimo quarto del I secolo d.C. e più precisamente l’età
domizianea.
Per cui, a priori, mancando dati precisi, non è detto che le colonne vineate della chiesa siano realizzate da marmorari tardo antichi, ma come come le altre presenti nell’edificio, potrebbero essere materiali di recupero proveniente dagli horti imperiali dell’area.
In più, come evidenziato da numerosi studiosi, come Roberta Flaminio, non è per nulla vero come quella tipologia di colonne sia di esclusiva produzione romana: anzi, vi sono numerose realizzazione sia nel mondo greco, sia in quello siro-palestinese. Sono presenti, ad esempio, nel Katholikon medievale di S. Giovanni a Patmos, che riutilizza i materiali della precedente chiesa paleo-cristiana, nella chiesa di San Giovanni ad Efeso o Chiesa dell’Annunciazione a Nazareth.
Da profano, tra l’altro, osservando le colonne vineate di Santa Bibiana, data la presenza di venature grigio-bluastre, queste mi danno l’impressione di essere realizzate in marmo proconnesio: per cui non me la sentirei di escludere il fatto che siano di provenienza costantinopolitana.
Per cui, ricapitolando: appare abbastanza evidente che a Roma siano esistite a quell’epoca delle botteghe di marmorari e che queste abbiano esportato i loro prodotti nella Spagna Visigotica e in Gallia. Sia analizzando i cluster territoriale, sia per pura logica, la presenza dei cantieri del Patriarchio Lateranense e di Santa Maria Maggiore, non è da escludere a priori che alcune di queste botteghe possano avere avuto sede all’Esquilino.
Ma che abbiano esportato i loro marmi a Costantinopoli, continua a essere poco credibile…
March 25, 2018
La linguaccia di Liutprando
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Stamane, mi sono beccato un cazziatone da mia mamma, perché a suo avviso, perdo troppo tempo a litigare per la politica. Forse ha ragione, però io sono cresciuto seguendo il motto “Chi tace è complice“, poi alla mia veneranda età credo di avere guadagnato il diritto di definire un idiota per ciò che è, infine mi diverto troppo a farlo.
Il che mi rende simile a una delle più feroci linguacce del Medioevo, il buon Liutprando di Cremona: da quello che racconta nell’Antapodosis, che nasconde dietro la facciata di opera storica, tutta la sua voglia di insultare e litigare con il prossimo, per cui va presa sempre con le molle, dal VI libro in poi è stato testimone diretto dei fatti di lì in poi narrati, il primo dei quali è l’incoronazione a re d’Italia di Lotario, figlio di Ugo di Provenza, avvenuta il 15 maggio 931; per cui, ipotizzando che all’epoca avesse sette o otto anni, la data di nascita potrebbe essere tra il 923 e il 924.
Il che è in linea con un altro dettaglio della sua opera: quando descrive l’incendio di Pavia da parte degli Ungari, avvenuto nel marzo 924, non accenna una sua presenza al momento dell’evento. Per cui, Il buon Liutprando dovrebbe essere nato per lo meno nell’estate di quell’anno.
Comunque sia, passò l’infanzia quasi certamente a Pavia, all’epoca capitale del Regno d’Italia, che definisce patria, così come pater noster è da lui chiamato San Siro, il protettore della città. Inoltre, visto il nome, è probabile che la sua famiglia fosse di origine longobarda.
Suo padre, di cui sappiamo ben poco, dovette godere di un certo prestigio alla corte del re d’Italia Ugo di Provenza, che nei primi tempi del suo regno, iniziato nel 926, gli affidò una missione diplomatica a Costantinopoli, poco dopo la quale egli morì. Il che implica come la conoscenza del greco fosse una peculiarità di quella famiglia.
La madre, rimasta vedova si risposò quasi subito: anche del patrigno, di cui però Liutprando, cosa strana per il suo caratteraccio, conservò un ottimo ricordo, fu spedito a Costantinopoli nel 942, per rinsaldare l’alleanza tra il Regno d’Italia e l’Impero Bizantino, con il matrimonio tra matrimonio fra Berta, figlia illegittima di Ugo, e Romano, figlio del coimperatore Costantino VII Porfirogenito. In più si occupò dell’educazione del figliastro, facendolo studiare nelle scuola palatina di Pavia, che doveva essere il top dell’epoca, e avviandolo, per fornirgli un avvenire sicuro, alla carriera ecclesiastica.
Quando nel 945 il Regno d’Italia passò di fatto nelle mani di Berengario, che sconfisse ed emarginò Ugo e suo figlio Lotario, pur conservando a quest’ultimo nominalmente il titolo reale, la famiglia di Liutprando ottenne – in cambio di un consistente esborso economico, secondo il suo racconto – che il giovane entrasse al servizio di Berengario come signator epistolarum, una sorta di cancelliere e traduttore reale, responsabile della corrispondenza
In tal modo poté farsi conoscere dal nuovo signore, che nel 949 affidò anche a lui, così come era avvenuto al padre e al patrigno, una missione diplomatica a Costantinopoli, dove nel frattempo Costantino VII era rimasto unico imperatore; secondo quanto racconta Liutprando, Berengario, noto da altre fonti per la sua epica tirchieria, riuscì a ottenere che le spese della spedizione fossero pagate dalla famiglia dello stesso ambasciatore. Partito il 1° agosto da Pavia, giunse il 17 settembre a Costantinopoli, dove si trattenne almeno fino alla Pasqua dell’anno successivo.
Così racconta qell’esperienza, per lui esaltante
Uscendo da Pavia il l° d’agosto (949), giunsi in tre giorni lungo il corso del Po a Venezia, dove trovai l’eunuco Salemone kitonite , ambasciatore dei Greci, che, di ritorno dalla Spagna e dalla Sassonia, desiderava tornare a Costantinopoli e conduceva con sé il messo del signore nostro, allora re, ora imperatore , con grandi doni, cioè Liutifredo, ricchissimo mercante di Magonza. Partiti da Venezia il 25 agosto arrivammo il 17 settembre a Costantinopoli, dove in che modo inaudito e meraviglioso fummo accolti, non ci rincrescerà di scriverlo.
Vi è a Costantinopoli una casa, contigua al palazzo, di meravigliosa grandezza e bellezza, che dai Greci è detta Magnaura, quasi grande aura, con la «v» posta al luogo del «digamma». Costantino fece così preparare questa casa sia per i messi degli Ispani, che allora erano appena arrivati, sia per me e Liutifredo. Innanzi al sedile dell’imperatore stava un albero di bronzo, ma dorato, i cui rami erano pieni di uccelli ugualmente di bronzo e dorati di diverso genere, che secondo le loro specie emettevano i versi dei vari uccelli. Il trono dell’imperatore era. disposto con una tale arte, che in un momento appariva al suolo, ora più in alto e subito dopo sublime, e lo custodivano, per dir così, dei leoni di immensa grandezza, non si sa se di bronzo o di legno, ma ricoperti d’oro, i quali percuotendo la terra con la coda, aperta la bocca emettevano il ruggito con le mobili lingue. In questa casa dunque fui portato alla presenza dell’imperatore sulle spalle di due eunuchi. E sebbene al mio arrivo i leoni emettessero un ruggito, e gli uccelli strepitassero secondo le loro specie, non fui commosso né da paura, né da meraviglia, poiché di tutte queste cose ero stato informato da chi le conosceva bene. Chinatomi prono per tre volte adorando l’imperatore alzai il capo e quello che avevo visto prima seduto elevato da terra in moderata misura, lo vidi poi rivestito di altre vesti seduto presso il soffitto della casa; come ciò avvenisse non lo potei pensare, se non forse perché era stato sollevato fin là da un ergalion (argano), con cui si elevano gli alberi dei torchi. Allora non disse nulla di sua bocca, giacché, anche se lo volesse, la grandissima distanza lo renderebbe sconveniente, ma per mezzo del logoteta mi domandò della vita e della salute di Berengario . Avendogli risposto conseguentemente, ad un cenno dell’interprete uscii e mi ritirai subito nell’ostello concessomi.
Ma non m’incresca di ricordare neppure questo, che cosa allora io abbia fatto per Berengario, perché si conosca con quanto amore abbia prediletto costui e che razza di ricompensa abbia da lui ricevuto per le mie buone azioni. Gli ambasciatori degli Ispani ed il nominato Liutifredo, messaggero di Ottone nostro signore, allora re, avevano portato molti doni da parte dei loro signori all’imperatore Costantino. Io invece da parte di Berengario non avevo portato nulla se non una lettera, per di più piena di menzogne. Il mio animo ondeggiava non poco per questa vergogna e meditava attentamente che fare a questo proposito. Mentre ondeggiavo e fluttuavo assai, la mente mi suggerì di conferire i doni, che da parte mia avevo recato all’imperatore, come da parte di Berengario e di ornare, per quanto potevo, di parole il piccolo dono (Teren., Eunuch., 214). Offrii dunque nove bellissime corazze, sette bellissimi scudi con borchie dorate, due coppe d’argento dorato, spade, lance. spiedi, quattro schiavi karzimasi, più preziosi per l’imperatore di tutte le cose nominate. Infatti i greci chiamano Karzimasio il fanciullo reso eunuco per amputazione dei testicoli e della verga; il che i mercanti di Verdun sogliono fare per grande guadagno e li vendono in Spagna.
Fatte queste cose, l’imperatore diede ordine di chiamarmi a palazzo tre giorni dopo e, rivolgendosi a me di sua bocca, mi invitò a banchetto, dopo il quale donò a me ed al mio seguito un grande regalo. Ma giacché si è presentata l’occasione di narrarlo, ritengo bene non tacere, ma descrivere quale sia la sua mensa, soprattutto nei giorni di festa e quali giochi si facciano a mensa.
Vi è una casa presso l’ippodromo rivolta a nord di meravigliosa altezza e bellezza, che si chiama Dekaenneakubita nome che ha preso non dalla realtà, ma per cause apparenti; deka in greco è dieci in latino, ennéa è nove, kubita poi possiamo dire le cose inclinate o curvate dal verbo cubare. E questo pertanto, perché nella natività secondo la carne del signor nostro Gesù Cristo (25 dicembre) vengono apparecchiate diciannove mense. A queste l’imperatore e parimenti i convitati banchettano non seduti, come negli altri giorni, ma sdraiati; in quei giorni si serve non con vasellame d’argento, ma solo d’oro. Dopo il cibo furono recati dei pomi in tre vasi d’oro che, per l’enorme peso, non sono portati dalle mani degli uomini, ma da veicoli coperti di porpora. Due vengono posti sulla mensa in questo modo. Attraverso fori del soffitto tre funi ricoperte di pelli dorate sono calate con anelli d’oro che, posti alle anse che sporgono nei vassoi, con l’aiuto in basso di quattro o più uomini, vengono sollevati sopra la mensa per mezzo di un ergalion girevole, che è sopra il soffitto, e allo stesso modo vengono deposti. Tralascio di scrivere, che sarebbe troppo lungo, i giochi che ho visto lì; uno solo non mi increscerà d’inserire qui per la meraviglia.
Venne un tale che portava sulla fronte senza aiuto delle mani un palo lungo ventiquattro piedi o più, che aveva un altro legno di due cubiti per traverso ad un cubito più in basso dalla sommità. Furono introdotti due fanciulli nudi, ma campestrati, cioè con un cinto, i quali salirono sulla pertica, vi fecero evoluzioni e discesero poi a capo in giù, mantenendola immobile come se fosse infitta al suolo con le radici. Quindi, dopo la discesa di uno, l’altro, che era rimasto e lassù aveva fatto giochi da solo, mi rese attonito per ancor più grande meraviglia. In ogni modo, finché entrambi avevano giocato, sembrava cosa possibile, perché, sebbene in modo mirabile, governavano con un peso uguale la pertica su cui erano saliti. Ma quel solo che rimase sulla sommità della pertica, poiché seppe equilibrare il peso così bene da giocare e discendere indenne, mi rese così stupefatto che la mia meraviglia non passò inosservata anche all’imperatore in persona. Perciò, fatto venire l’interprete, mi chiese che cosa mi paresse più straordinario: il fanciullo che si era equilibrato con sì gran misura che la pertica rimaneva immobile, oppure quello che sulla fronte aveva sorretto il tutto con tanta abilità che, né il peso, né le evoluzioni dei fanciulli lo piegarono neppure un po’. Dicendo io di non sapere che cosa mi sembrasse thaumastòteron, cioè più meraviglioso, egli, scoppiato in una gran risata, rispose che similmente non lo sapeva neppure lui.
Ma nemmeno penso di dover tralasciare in silenzio quest’altra cosa che colà vidi di nuovo e straordinario. Nella settimana prima del baiophoron, che noi diciamo i rami delle palme, l’imperatore fa l’erogazione di monete d’oro sia ai militari, sia a quelli preposti ai vari uffici, a seconda del merito di ciascun ufficio (24-30 marzo 950). E poiché volle che io partecipassi all’erogazione, mi ordinò di venire. Fu una cosa di tal genere. Era stata posta una mensa di dieci cubiti di lunghezza e quattro di larghezza, che aveva le monete poste in scatolette, secondo che era dovuto a ciascuno, col numero scritto all’esterno delle medesime. Entravano alla presenza dell’imperatore non alla rinfusa, ma in ordine secondo la chiamata di colui che recitava i nomi scritti degli uomini secondo la dignità dell’ufficio. Fra questi è chiamato per primo il rettore della casa, al quale vengono posti non nelle mani ma sugli omeri le monete con quattro scaramangi (mantelli). Dopo di lui ho domestikòs tes askalónes e ho deloggáres tes ploôs, dei quali il primo è capo dei soldati, l’altro della flotta. Questi, siccome la dignità è pari, ricevono monete e mantelli in pari numero e, per la gran quantità, non li portarono già sugli omeri, ma se li trascinarono dietro a fatica con l’aiuto di altri. Dopo questi furono ammessi i magistri nel numero di ventiquattro, ai quali furono erogate libbre di monete d’oro, a ciascuno secondo lo stesso numero ventiquattro, con due mantelli. Dopo questi seguì l’ordine dei patrizi, che ricevettero in dono dodici libbre di monete con un mantello. Non so il numero dei patrizi né quello delle libbre, ma soltanto ciò che era dato a ciascuno. Dopo queste cose vien chiamata una turba immensa, dei protospathari, degli spathari, degli spatharokandidati, dei kitoniti, dei manglaviti, dei protokarabi, dei quali uno aveva preso sette libbre, altri sei, cinque, quattro, tre, due, una libbra, secondo il grado di dignità. Non vorrei tu credessi che questa cosa si sia compiuta in un sol giorno. Si cominciò il giovedì dall’ora prima del giorno fino all’ora, quarta del venerdì e al sabato fu terminata dall’imperatore. A questi che prendono meno di una libbra, non già l’imperatore ma il parakoimómenos distribuisce per tutta la settimana che precede la Pasqua. Assistendo io e considerando con meraviglia la cosa, l’imperatore per mezzo del logoteta mi domandò che cosa mi piacesse di questa faccenda. E a lui dissi: «Mi piacerebbe assai, se mi giovasse; come anche al ricco assetato e ardente il riposo di Lazzaro apparsogli sarebbe piaciuto se gliene fosse venuto pro; ma poiché non gliene venne, come, di grazia, avrebbe potuto piacergli?» Sorridendo l’imperatore, un po’ mosso da vergogna, accennò con capo che andassi da lui e volentieri mi diede un grande pallio con una libbra di monete d’oro, che ricevetti ancor più volentieri.
Tornato a casa, probabilmente si infilò in qualche guaio, visto che per un decennio non si hanno più sue notizie. Forse Berengario, sempre per il suo braccino corto, licenziò la maggior parte dei suoi cortigiani e in più sequestrò i beni degli ex seguaci di Ugo di Provenza. Per cui, trovandosi Liutprando senza arte né parte, forse si trasferì alla corte di Ottone di Sassonia, dove ricomparve a all’inizio del 956, quando vi giunse un’ambasciata del califfo omayyade di Cordova ʿAbd al-Raḥmān III, guidata da Recemundo (Rabi ibn Zaid), vescovo di Elvira, che convinse Liutprando. a comporre un’opera di carattere storiografico. Il nostro eroe lo prese sul serio e così nacque l’Antapodosis.
Questo fatto dimostra come Ottone utilizzasse Liutprando come una sorta di ambasciatore e spia, visto che in questo periodo avvenne anche un suo misterioso viaggio nelle Cicladi, di cui non se ne è mai capito bene il motivo
Nel 961 Ottone scese in Italia contro Berengario, lo costrinse alla fuga e si impadronì definitivamente del Regno. Nella ridistribuzione dei benefici feudali che ne seguì, il sovrano conferì a Liutprando il vescovado di Cremona, dove risultò insediato il 14 gennaio 962 e in cui non diede particolare prova di impegno civile e religioso: l’unico evento ecclesiastico di spicco in cui fu coinvolto fu l’avervi portato le reliquie di Sant’ Imerio, presunto antico vescovo di Amelia, dopo un furto, eseguito e raccontato dallo stesso Liutprando, che pare essere uscito da una novella di Boccaccio.
Non c’è prova che egli fosse presente all’incoronazione imperiale di Ottone, avvenuta a Roma il 2 febbraio 962; ma nella città papale compì, negli anni seguenti, varie e importanti missioni. Nella primavera 963 Ottone lo inviò a Roma, insieme con Landoardo di Minden, per dissuadere papa Giovanni XII da propositi di alleanza con Berengario e Adalberto, che mantenevano il possesso di alcune piazzeforti e meditavano la rivincita.
Partecipò poi, con il delicato ruolo di interprete di fiducia dell’imperatore, al sinodo che si tenne a Roma nell’autunno successivo alla presenza di Ottone stesso, e che si concluse il 4 dicembre con la deposizione di Giovanni XII e l’elezione di Leone VIII; con ogni probabilità partecipò anche al successivo sinodo del 23 giugno 964, in seguito al quale fu deposto anche Benedetto V, eletto in maggio dal partito antimperiale dopo la morte di Giovanni XII, e Leone VIII rimase unico papa. Morto Leone nel marzo 965, Liutprando fu inviato nuovamente a Roma da Ottone, questa volta insieme con Otgero di Spira, per sostenere la nomina di un nuovo pontefice di gradimento imperiale, che fu Giovanni XIII, eletto in settembre. In seguito Liutprando sembra essersi fermato nella sua sede cremonese fino alla nuova discesa dell’imperatore in Italia (autunno 966); nell’aprile 967 partecipò al sinodo di Ravenna, presieduto da Ottone e dal papa, e fu al seguito dell’imperatore a Roma fra il dicembre 967 e il gennaio 968, quando figura fra i sottoscrittori dei benefici concessi dal pontefice al monastero di San Massimino di Treviri e alla Chiesa di Meissen.
Pur non essendoci documentazione sicura, è molto probabile che Liutprando abbia accompagnato l’imperatore anche nella spedizione da lui condotta nei primi mesi del 968 contro i Bizantini, presso i quali cercava aiuti Adalberto, e che culminò con l’assedio di Bari: più tardi egli si vantò di aver personalmente indotto in quella circostanza l’imperatore a rinunciare alle armi e a perseguire la strada della trattativa diplomatica.
Per cui, il nostro eroe fu spedito di nuovo a Costantinopoli, alla corte di Niceforo II Foca: ma stavolta, la sua ambasciata fu quasi fantozziana. Così la racconta a Ottone
Noi giungemmo il 4 giugno 968 a Costantinopoli, dove , per far oltraggio a Voi, fummo ricevuti male e trattati, poi, in modo assai sconcio: venimmo rinchiusi in un palazzo grande e spazioso, quanto bastava perché non tenesse lontano il freddo e non respingesse il caldo, e vi furono collocati a custodirlo alcuni soldati armati che dovevano impedire a tutti i miei l’uscita,e agli altri l’entrata.
La casa, accessibile solo a noi che vi eravamo rinchiusi, era tanto lontana dal Palazzo, da mozzare il fiato a chi, ed era il nostro caso, non cavalcava, ma andava a piedi. Successe ancora, per nostra disgrazia, che il vino dei greci risultasse imbevibile, data la mescolanza in esso di pece, resina e gesso. La casa, inoltre, era priva d’acqua, e non potevamo estinguere la sete almeno con essa, che avremmo anche comprato con danaro sonante.
A questo grande guaio ne va aggiunto un altro: il custode della nostra casa che ci portava gli acquisti quotidiani. Se ne avessi voluto trovare un altro simile, non certo la terra lo avrebbe dato: forse l’inferno! Egli infatti, simile a un torrente che straripa, riversò su di noi tutte le disgrazie, le rapine, i danni, i dolori e le miserie che poté escogitare.
… Il 4 giugno come dinanzi ho scritto, giungemmo a Costantinopoli, dinanzi alla Porta d’oro, e aspettammo coi cavalli, sotto una pioggia torrenziale, fino all’ora undecima nella quale Niceforo, che non ci reputò degni di cavalcare, ancorché fossimo ornati della vostra misericordia, ci comandò di avanzare e fummo accompagnati in quella casa di marmo, della quale ho parlato, odiosa, vasta e senz’acqua.
Il sei, poi, primo sabato di Pentecoste, fui accompagnato al cospetto del fratello di lui, Leone, prefetto di palazzo e logoteta, dove fummo tartassati a lungo a causa della vostra qualifica di imperatore. Egli infatti non vi chiamava mai nella su lingua imperatore, cioè basileus, ma per disprezzo, adoperando la nostra, rega, vale a dire , re. E, poiché io gli dicevo che colui che veniva indicato rimaneva lo stesso, ancorché lo si designasse in diversa maniera, rispose che io ero venuto non per fare opera pacificatrice, ma per litigare.
Sorse, anzi, in piedi, irato e, pieno di sdegno, ricevette le vostre lettere non direttamente, ma per mezzo di un interprete. Egli è un uomo piuttosto alto, di una falsa umiltà, capace di trapassarela mano di chi gli si appoggiasse. Il sette giugno 968, nel santo giorno della Pentecoste, fui accompagnato al cospetto di Niceforo nella casa così detta Stefana, ossia Coronaria.
Niceforo è un uomo davvero mostruoso. Aveva una statura da pigmeo, con la testa grossa, che sembra una talpa per la piccolezza degli occhi. Imbruttito ancora da una barba corta, larga, folta, brizzolata. Deturpato da un collo alto un dito, con una chioma prolissa e fitta che orna una faccia di porco. Nero di pelle come un etiope, da far paura a chi lo avesse incontrato nell’ oscurità della notte. Grosso di ventre e magro di natiche. Lunghissimo di cosce rispetto alla sua piccola statura, corto di gambe, coi piedi piatti. Vestito con una veste di bisso vecchissima e divenuta, per l’uso quotidiano, fetida e ingiallita, con calzari alla moda di quelli di Sicione. Arrogante nel parlare, volpe per l’ingegno, Ulisse per lo spergiuro e la menzogna!
O miei augusti signori e imperatori che sempre ritenni belli, quanto da questo luogo mi sembraste più belli! Quanto, per me sempre onorabili, mi sembraste da qui più onorabili! Quanto, sempre potenti, mi pareste più potenti! Quanto, sempre miti, mi sembraste più miti! Quanto, sempre pieni di virtù, me ne pareste ancora più colmi!
… Nello stesso giorno mi ordinò di essere suo commensale. Ma dato che non mi ritenne degno di antepormi a uno qualsiasi dei suoi maggiorenti, sedetti quindici posti lontano da lui, in un seggio privo di tappeti e senza tovagliolo. Dei miei compagni di ambasceria, nessuno poté, non solo sedere alla nostra mensa, ma neanche avvicinarsi al palazzo dove si teneva il banchetto. Durante questo convito, abbastanza lungo, osceno, come suole essere tra ubriachi, irrorato d’olio si usò per condimento una orribile salsa di pesce.
Niceforo mi rivolse molte domande circa la vostra potenza, i vostri regni e i vostri soldati. E poiché gli rispondevo conseguente e veritiero:
“Tu menti, – disse. – I soldati del tuo signore non sanno cavalcare e non conoscono il combattimento a piedi: la grandezza degli scudi, il peso delle armature e degli elmi, l’ingombro delle loro corazze, la lunghezza delle spade, impediscono di combattere ai cavalieri come ai fanti”.
E sogghignando aggiunse:
“E poi li imbarazza il peso della loro pancia, perché il ventre è il loro Dio. La loro audacia è la crapula; la loro forza è l’ubriachezza; il loro digiuno la dissolutezza, ,il loro terrore la sobrietà. Il tuo signore, poi, non ha sul mare un flotta consistente. Io solo ho la forza dei naviganti, e perciò lo assalirò con le mie flotte. Distruggerò con la guerra le sue città costiere, e ridurrò in cenere quelle che sono vicine ai fiumi. E, dimmi, potrà poi resistermi sulla terra data la scarsità delle sue milizie?
Il figlio, è vero, è con lui; non lo abbandonò la consorte: ebbe con sé i sassoni, gli svevi, i bavari, gli italici tutti, ma poi che non seppero o non poterono insignorirsi di una sola cittaduzza che a essi si opponesse.
Come potranno dunque resistermi, se verrò in persona alla testa di una armata, con tante schiere quanti messi ha il Gargaro, quanti grappoli ha Metimna, quante stelle ha il cielo e quante onde ha il mare in tempesta?”
Avrei voluto ribattergli, rintuzzandone la vanità, ma non me lo permise. Aggiunse però, in tono di disprezzo:
“ Voi non siete dei Romani, siete dei Longobardi!”.
E voleva ancora parlare, facendomi segno con la mano di tacere, ma mi infuriai e dissi:
“Abbiamo appreso dalla storia di Roma che Romolo, da cui hanno preso nome i Romani, altri non era che un infame e un criminale. Era figlio di malafemmina e, non andando d’accordo con il fratello, bagnò le mani nel suo sangue. I suoi compagni non erano meno viziosi di lui; ed egli li attirò dietro di se: debitori insolvibili, schiavi fuggiaschi, assassini e criminali; e, dopo aver riunito intorno a se gente simile, li chiamò Romani.
Da questa bella nobiltà sono derivati quelli che voi chiamate imperatori. Ma noi, noi Longobardi, Sassoni, Franchi, Lotaringi, Bavari, Svevi e Burgundi, li disprezziamo talmente che a un nostro avversario come somma ingiuria non lanciamo altro che quell’epiteto: Romano, riassumendo in esso tutto quello che di ignobile, di avidità, menzogna, impudicizia sia concepibile. Quanto all’accusa secondo cui siamo inetti in guerra e poco abili a cavallo, se per castigo dei peccati dei cristiani tu continuerai in questo atteggiamento ostile, le future guerre dimostreranno che gente siate voi e quanto noi siamo bravi a combattere”.
A un primo colloquio seguì il solenne ingresso in Santa Sofia, nella proverbiale cerimonia della proeleusis (“processione”). Liutprando, sempre in vena di rappresaglia, così lo descrisse:
“Lungo il percorso che va dal Sacro Palazzo alla Grande Chiesa e` penoso vedere la gente che fa da ala al corteo, adorna di umili scudi e giavellotti e in larga parte sopraggiunta a piedi nudi, in ossequio al sovrano, mentre gli stessi nobili in veste da parata sono ridicoli, poiche´ hanno addosso dei capi ormai lisi a forza di essere usati. Il coro saluta in chiesa Niceforo come la Stella del Mattino, ma agli occhi di Liutprando un simile omaggio e` grottesco: come si fa a paragonare al pianeta Venere, che annuncia la luce dell’alba, un “carbone spento” che cammina come una vecchia?”
Questi continui litigi proseguirono nel banchetto successivo, dove a Liutprando fu sempre assegnato un posto di second’ordine rispetto all’ambasciatore dei Bulgari. Era la goccia che faceva traboccare il vaso. Non solo lo zar di quel popolo poteva stabilire agevolmente una pace con il sovrano di Bisanzio con tanto di nozze, ma il suo rozzo rappresentante, “rapato, sudicio e cinto di una catena di bronzo”, poteva essere tranquillamente anteposto all’ambasciatore di Ottone
Liutprando abbandono` la tavola e fu rincorso da Leone e da Simone, un funzionario di palazzo. Inviperiti per il suo gesto plateale, si giustificarono adducendo il fatto che gli accordi di pace con lo zar Pietro imponevano di anteporre il messo dei Bulgari al messo di ogni altro popolo, e ingiunsero a Liutprando di rimanere a pranzo, confinato nella mensa riservata ai servitori. Il vescovo di Cremona sopporto` il diktat senza battere ciglio, anche perché gli venne servito un capretto davvero squisito, cucinato con maestria, tale da cancellare d’incanto ogni malanimo.
E Niceforo nel vedere l’insopportabile ambasciatore bisbocciare felice, invece che essere umiliato e offeso, decise di vendicarsi in altro modo. Trovandosi a Costantinopoli, vale a dire in uno dei maggiori centri di manifattura tessile del Mediterraneo, Liutprando si era prodigato a raccogliere un gran numero di drappi istoriati da riportare a Cremona, per impreziosire la sua cattedrale. Ne aveva acquistati molti in moneta sonante, altri gli erano giunti in dono da amici che aveva in città.
Niceforo, saputo questo e approfittando di lettera in cui papa Giovanni XIII aveva definito il basileus “imperatore dei Greci” anziche´ “dei Romani”, diede ordine di sequestrare il tutto. Liutprando fece però notare che lui, con il Papa, poco aveva a che fare, essendo ambasciatore di Ottone; per cui, per giustificare l’azione, fu dichiarato come le sete lavorate in tal modo potevano essere indossate solo dai più alti dignitari, e non potevano essere esportate.
Sì, tutto giusto -rispose Liutprando – ma come la mettiamo con i mercanti di Amalfi e di Venezia che trafficano in sete di tal fatta in gran numero, tanto che in Italia si possono incontrare prostitute da due soldi e ciarlatani cosi` abbigliati ?
Niceforo e i suoi funzionari non fecero una piega, affermando come i mercanti italici compissero un intollerabile contrabbando che sarebbe stato severamente punito:
“Non lo faranno più; saranno perquisiti accuratamente, e se verrà scoperta qualcosa del genere, il colpevole avrà tagliati i capelli e sarà ucciso a colpi di frusta”.
Non l’avessero mai detto: Liutprando organizzò una sorta di assemblea di tali mercanti, che entrarono in sciopero: dato che avevano anche il monopolio del commercio delle granaglie, Costantinopoli rischiò di brutto di essere vittima di una carestia.
Per cui, Niceforo, oltre a scusarsi con suddetti mercanti e restituire i drappi oggetto del contendere a Liutprando, decise in qualche modo di farsi perdonare all’ambasciatore: chiese a Liutprando se Ottone possedesse delle riserve con animali di un certo interesse, come quegli asini selvatici (onagri) della Persia, di cui il basileus era molto orgoglioso. Visto che Ottone aveva delle riserve ma di siffatti animali non aveva mai sentito parlare, Niceforo invitò l’ambasciatore a visitarne una, in un posto d’altura.
Liutprando vide i famosi onagri qua e là, in mezzo a gruppi di capre, rimanendo alquanto perplesso; gli sembravano in tutto e per tutto dei volgarissimi asini domestici, come se ne vedevano dovunque. Nel mentre gli si affiancò un cortigiano di Niceforo, chiedendogli le sue impressioni, aspettandosi elogi sperticati sul conto di quegli animali favolosi.
Per una volta, in modo da evitare di passare come il solito piantagrane, Liutprando se ne uscì con un diplomatico
“Non ne ho mai visti di simili in Sassonia”
frase che vuol dire tutto e nulla. Il cortigiano, invece di farsi gli affaracci propri, rincarò la dose.
“Se il tuo signore si comporterà in maniera civile con il Basileus, questi sarà ben felice di di donargli un bel numero di onagri, e al tuo signore verrà non piccola gloria, perchè possiederà quel che nessuno dei suoi predecessori vide neppure!”
Il che, nonostante tutte le sue buone intenzioni, fece sbottare Liutprando, che rispose
“A Cremona ho visto asini ben migliori e assai più agili ed eleganti, nonostante la loro groppa fosse gravata dalla soma”
Un paio di settimane dopo, con sommo piacere di Niceforo, che non lo sopportava più, Liutprando tornò a casa
Il viaggio di ritorno, per via terrestre fino allo Ionio, fu lento e complesso e si concluse soltanto all’inizio dell’anno successivo; Liutprando si diresse probabilmente nell’Italia meridionale, dove si trovava in quel momento Ottone, per riferirgli di persona. Al seguito dell’imperatore si trovava ancora il 26 maggio 969 a Roma, quando sottoscrisse l’atto con cui l’episcopato di Benevento fu elevato al rango arcivescovile. Nell’autunno 969 era a Milano, dove prese parte al sinodo tenuto dall’arcivescovo Valperto per procedere alla soppressione della diocesi di Alba, devastata negli anni precedenti dalle scorrerie saracene, e alla sua unione con quella di Asti; all’incontro Liutprando presenziò nella doppia veste di rappresentante imperiale e di latore della lettera papale che sollecitava l’accorpamento. L’anno successivo era a Ferrara (probabilmente in marzo, quando vi soggiornò anche Ottone), dove presiedette insieme con il conte Eccico, missus imperiale, un placito che riconobbe all’arcivescovo di Ravenna Pietro la giurisdizione su alcuni territori contesi dai Ferraresi.
L’ultimo documento databile con sicurezza in cui Liutprando figura in vita è un passaggio di beni effettuato a Cremona il 20 aprile 970. Il tenore di un privilegio aquileiese del 20 luglio 972, nel quale dei terreni già concessi a Liutprando. vengono assegnati ad altro beneficiario, può far pensare che egli fosse ormai morto; il suo successore Odelrico era certamente insediato nell’episcopato cremonese il 5 marzo 973.
Ora come dicevo, la sua opera più importante è l’Antapodis, il cui titolo significa Ritorsione, in cui sbeffeggia chi ha avuto la sfortuna di essergli antipatico con una prosa arguta ed elegante, infarcita di citazioni classiche, in cui mischia tragico e grottesco. Famosi sono i brani che dedica alla pornocrazia romana o alle vicende di Villa, moglie di Bosone, Marchese di Toscana, e cognata di Ugo di Provenza, campionessa di avidità, stracolma di ricchezze e che aveva organizzato una congiura per porre il marito sul trono, finita in maniera pessima
Villa fu cacciata, ma….
Suo marito Bosone portava per la spada, una cintura d’oro di straordinaria lunghezza e larghezza, che brillava per lo splendore di molte e preziose gemme. Quando Bosone fu catturato, il re comandò che, tra i tanti tesori di lui, venisse principalmente rintracciata questa cintura. Ordinò ancora, dopo aver incamerato le ricchezze di lui, che ne venisse ignominiosamente scacciata dal regno la consorte ( la riteneva donna scellerata e autrice di tutto lo scellerato piano) e condotta in Borgogna, donde proveniva. I messi frattanto eseguivano le più accurate ricerche, ma non poterono trovare la cintura e fecero ritorno da Ugo portando solo il resto.
Allora il re disse:
“Tornate e rovesciate tutte le sue robe, anche la sella sulla quale cavalca, e se neppure lì troverete la cintura, toglietele tutte le vesti, perché non possa comunque nasconderla sopra di sé: io so bene quanto quella donna sia astuta e avida”.
Quelli tornarono indietro per eseguire il comando del re; ma, nonostante cercassero ovunque, non trovarono nulla e allora la denudarono.
Ed ecco l’azione turpe ed inaudita: tutte le persone dabbene volsero gli occhi per non guardarla, ma uno dei servi, che le lanciò invece un’occhiata, vide pendere la purpurea correggia sotto la rotondità delle natiche. Allora impudentemente l’afferrò e sconciamente tirò a se la cintura, che uscì, in questo modo, dalla parte più intima del corpo di lei.
Non solo irrispettoso, ma reso ancora più allegro proprio da questa azione turpe, il servo esclamò:
“Ah! Ah! Ah! O soldato, come sei esperto in ostetricia! La padrona di casa ha partorito un figlio rosso, facciamo in modo che sopravviva. Mi riterrei davvero fortunato se mia moglie mi favorisse un paio di figli di tal fatta”
In cui mischiò una citazione di Terenzio a una battuta scurrile..
Via di Centocelle trasferita a Las Vegas (foto della settimana)
Incredibile: hanno spostato via di Centocelle oltreoceano, negli Stati Uniti. Ora come si chiamerà quella che c’è a Roma (che ricordiamo si trova tra Quadraro vecchio e Tor Pignattara, e non dentro il quartiere di Centocelle)?
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March 24, 2018
L’ultimo bacio
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Dopo quasi due anni, è possibile buttare giù una prima analisi sul rapporto tra Amministrazione Raggi e Street Art. Analisi, che esclude la vicenda del Mercato Esquilino, sia perché, essendo parte in causa, non sarei molto obiettivo, sia perché le polemiche che vi sono state, più che figlie di una visione politica e culturale precisa, nascono dai piagnistei di pseudo artisti locali alquanto rosiconi, a cui i 5 Stelle del I Municipio, per un calcolo elettorale e politico totalmente sbagliato, vista la meschina figura ottenuta, hanno fatto da immeritata cassa di risonanza.
Tornando alla questione principale, sotto molti aspetti, è indubbio che l’attuale amministrazione sia seguendo i passi del sindaco Marino, il quale, imitando quanto successo in altre capitali europee, ha puntato sulla street art come strumento di riqualificazione urbana e marketing territoriale.
Tanti interventi artistici hanno dato visibilità mondiale a luoghi come Quadraro, Ostiense, Tor Marancia, Pineta Sacchetti, Tor Pignattara, la cui fama, spesso neppure tanto buona, era limitata ai confini del Grande Raccordo Anulare.
Nel nostro piccolo, anche gli interventi a via Giolitti e del Mercato Esquilino, oggetto di tante visite di turisti e finiti parecchie volte in televisione, hanno ottenuto risultati simili.
Il problema è che nella Roma grillina, la street art è vista solo come una simpatica ed economica forma di decorazione urbana: per cui deve essere deproblematizzata e priva di contenuti forti, che facciano riflettere l’osservatore, mettendo in discussione le sue convinzioni.
Questo svuotamento di contenuti, per ridurre tutto a belle forme e superfici dai colori brillanti, però la ha conseguenza di ridurre il potenziale di riqualificazione urbana della Street Art.
Per citare un prossimo progetto dell’associazione UP2ARTISTS, che se realizzato, cambierà il volto di parte dell’Esquilino, rilanciando un progetto virtuoso
La street art, che vuole avere un reale impatto sul territorio e assolvere alla sua mission di far elevare in meglio le coscienze del pianeta, deve necessariamente stimolare una riflessione su temi sensibili come quelli ambientali sociali, e umanitari.
Non si tratta di dipingere, ma di comunicare, di entrare in sintonia i sogni e le proposte di chi vive lo spazio urbano, mostrandogli come l’Utopia non sia lontana, ma che si possa raggungere con l’impegno quotidiano.
Il problema è quando questa comunicazione, come sta succedendo a Roma in questi mesi, entra in conflito con il Potere, che vede come pericolo il messaggio che si veicola.
Questo è ad esempio successo con lo stencil di Tvboy, street artist di origine palermitana, barcellonese d’adozione, che sul muro di Via del Collegio Capranica, a pochi passi da Montecitorio, l’amorevole e bacio sulla bocca tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, tra l’altro, visto i voti alla Camera e al Senato, non è neppure così metaforico.
Però evidentemente, ha toccato un nervo scoperto: con una solerzia straordinaria, che vorremmo vedere anche nel ritirare l’immondizia o nel pulire le strade, l’AMA ha cancellato le opere.
Cosa che è successe ad esempio al buon Maupal, in un eccesso di zelo clericale, che scambiò in un’offesa un affettuoso omaggio.
Per cui, a Roma, la conclusione amara è che a Roma la street art si può fare, senza però disturbare il conducente…
March 23, 2018
Software Defined Mainframe
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Appena laureato, ebbi a che fare con il mainframe di Poste Italiane: fu un’esperienza bella e formativa. Debbo dire che, dal punto di vista tecnico e umano, quella strana comunità di tecnici e sistemisti, dal grande cuore e competenza e dal turpiloquio facile, mi insegnò tantissimo.
Proprio quell’esperienza ha dato origine al mio rapporto di amore e odio con il “computerone” IBM… Da una parte lo considero una gran macchina, un monumento all’intelligenza informatica, dall’altra lo vedo come una zavorra, che limita diverse evoluzioni tecnologiche.
Ogni tanto si presentava il consulentone di turno: in quell’occasione ci radunavano tutti in una lussuosa sala riunione, con poltrone in pelle umana e tavolo presidenziale in mogano, dove il suddetto consulentone, con decine e decine di slides, dotte disquisizioni sulla curva dei MIPS e complessi business plan, ci evangelizzava sulla necessità di eseguire il rehosting del mainframe su tecnologie più o meno esotiche.
Discussione che però terminava sempre allo stesso modo: il sistemista anziano alzava il ditino e faceva la solita, tragicomica domanda:
“Dottò, che ce famo cor COBOL?”
I mainframe,purtroppo, stando in giro dagli anni Sessanta, si portano dietro quantità industriali di vecchie applicazioni, scritte male, prive di documentazione, il cui programmatore spesso si è dato alla macchia o alla sua veneranda età o si è scordato tutto o non vuole essere disturbato da estranei.
A peggiorare il tutto, i tradizionali strumenti di migrazione software-based presentano la necessità di ricompilare il codice COBOL in modo da poter operare su altri sistemi, come Linux, il che, in queste condizioni, traduce il tutto in un bagno di sangue.
Per cui, dinanzi a tale quesito, il consulentone fuggiva a gambe levate. Però dopo circa una ventina d’anni, questa domanda ha una risposta sensata: LzLabs. Questa società svizzera, ha di fatto tirato fuori il coniglio dal cilindro, con il cosiddetto Software Defined Mainframe.
La società tigurina ha sviluppato un container Linux che fornisce alle imprese un modo efficace per migrare le applicazioni dai mainframe verso un private cloud oppure su public cloud MS Azure… In futuro, probabilmente, la soluzione potrà essere implementata anche su AWS o su Google Cloud Platform.
Rispetto alle soluzioni del passato, questa consente ai programmi mainframe eseguibili di funzionare senza cambiamenti e di scrivere e leggere i dati nei loro formati nativi, per cui, il nuovo ambiente funziona senza necessitare ricompilazioni dei programmi applicativi COBOL o PL/1, cosa che riduce notevolmente il tasso di esaurimento nervoso di sistemisti, architect e programmatori. Il tutto ha due simpatici effetti collaterali: il primo è che tutte le competenze e i processi aziendali consolidati nel tempo non sono per nulla intaccati. ll secondo è quando i programmi legacy sono inseriti nel container
vengono potenziati per funzionare su computer moderni e le vecchie API sono sostituite, incrementandone le prestazioni.
Quindi, abbiamo la trovato la pietra filosofale del rehosting ? Da domani IBM può buttare i mainframe e dedicarsi anima e corpo a Watson ? Ni, perché sui mainframe moderni non gira solo roba COBOL, ma tanti altri programmi e applicazioni: nel passaggio da z/OS a Linux, questi dovranno essere sostituiti dalle versioni che girano nel nuovo sistema operativo, oppure con qualcosa d’altro che faccia lo stesso mestiere: ad esempio il buon vecchio DB2 sarà sostituito da PostgreSQL. Per fare questo, in modo che tutto funzioni, serve un periodo di studio, analisi e migrazione lungo e complesso, che potrebbe durare anche un paio d’anni.
Ultima curiosità: nel passaggio tra Mainframe e Ambiente Linux, come deve essere dimensionato l’hardware di destinazione ? Considerando come riferimento gli Intel Xeon Gold Processor Skylake-SP, la relazione è pari a 8 core per 300 Mips…
March 21, 2018
Ci vuole orecchio
Per capire Enzo Jannacci, bisogna nell’ordine:
Conoscere la topografia di Milano-Rogoredo-Forlanini; aver letto Lo Straniero di Camus o chiederne il riassunto a Teocoli; aver compiuto un corso di sociologia e uno di epistemologia con Beppe Viola; conoscere almeno in parte i Vangeli o aver letto Il trapianto del trauma di Julies Feiffer; aver frequentato corsi di medicina e chirurgia; suonare uno strumento almeno come Luis Amstrong; aver visto la vergogna di chi, nel nostro Paese, ha voluto la guerra e spedito la sua gente nei campi di concentramento a morire; aver contrastato almeno una volta l’egoismo e aver cercato di essere altruista con chi sta peggio di te; sapere, o almeno capire cosa vuol dire avere fame; aver pregato, almeno per una volta; conoscere il dialetto milanese e le parole segrete della mala
Paolo Jannacci
Mettiamola così, mi manca ancora molto, per comprendere in pieno Enzo Jannacci e forse non ci riuscirò mai. Per troppo tempo, l’ho considerato il tizio strambo che cantava Vengo anch’io, no tu no, canzone che, tra l’altro, più invecchio, più trovo una tragica poesia sull’esclusione, nascosta da una risata.
Poi, quando mi sono trasferito a Milano, oltre a scoprire le sue canzoni, mi sono avvicinato al suo mondo: alle solitudini nebbiose, alle occasione perdute per troppo orgoglio, al sentirsi sempre disadattato e inadeguato.
Un mondo fatto di serate trascorse a bere nelle boeucc, a imbucarsi in mostre incomprensibili a noi comuni mortali, a evitare di inciampare in vicine di casa abituate a dormire nel pianerottoli. In cui, fondo, costruivi i tuoi angoli di paradiso, tra le poesie delle case di ringhiera, le risate anarchiche con si sbeffeggiava il Potere e le passeggiate insonne lungo i Navigli, in cui, capitava, nel bar sempre aperto alla Darsena, di incontrare, senza riconoscerla, Alda Merini…
Per cui, non sarò mai un gran meneghino, ma le canzoni di Enzo mi hanno rubato un pezzo di cuore.
March 20, 2018
Quer Pasticciaccio brutto di Cambridge Analytica
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Dato che forse sono stato tra i primi in Italia a parlare della Cambridge Analytica e della sua influenza nelle ultime presidenziali americane, è da stamane che amici e conoscenti mi chiedono un parere sulla vicenda. Così, per soddisfare la loro curiosità, butto giù qualche riflessione svagata
Punto primo: questa storia è il classico segreto di Pulcinella. Nelle riviste, nei forum e sui siti specializzati sull’IA, sui Big Data e sul Machine Learning si discuteva animatamente degli algoritmi utilizzati e delle modalità di raccolta dei dati sin dalla primavera 2016. In più, due o tre settimane prima dell’elezione di Trump, in numerosi giornali degli swing state, gli stati USA in cui non predominano tradizionalmente Repubblicani o Democratici e che con i loro voti elettorali sono determinati nell’elezione del Presidente, vi erano articoli ed editoriali assai accurati sul tema.
Ma i nostri giornalistoni, convinti della vittoria della Clinton e incapaci di mettere il naso fuori dal loro attico newyorkese, li hanno bellamente ignorati e ora cadono dal pero.
Punto secondo: Cambridge Analytica non si è inventato nulla. Di fatto ha svolto un ruolo di system integrator, comprando moduli sviluppati su TensorFlow da aziende terze, alcune anche italiane, modificandoli in modo potessero interagire tra loro e cambiandone lo scopo da marketing commerciale a marketing elettorale. Paradossalmente, la Clinton, avendo l’appoggio incondizionato dei big della
Silicon Valley, poteva far di più e meglio di Trump in tale ambito. Il fatto che, a differenza dell’avversario, non si sia fidata dell’IA e dei Big Data, è stato un atto di cecità intellettuale, che è stato pagato con gli interessi
Punto terzo: Come funziona la soluzione di Cambridge Analytica ? Di fatto lavora su due livelli. Il primo, la macro trend analysis, individua le tendenze dell’elettorato e cerca di individuare la strategia migliore per condizionarlo: per far questo, compra dati personali dai broker e assieme alle informazioni ottenute dalla trend analysis sui social media, alimentano un motore di predictive analysis, che ipotizza cosa potrebbe accadere con un certo grado di probabilità e di prescriptive analytics, che, tramite simulazioni, definisce il set di azioni più efficaci per incrementare la probabilità che si realizzi un evento favorevole al committente.
Tutta la campagna elettorale di Trump, con le dichiarazioni sopra le righe, le fake news e i twit aggressivi è stata costruita a tavolino in funzione dei risultati di tale engine.
Il secondo livello, quello più innovativo dal punto di vista tecnico, è quello del motore di “microtargeting comportamentale”. In pratica, dai dati raccolti su facebook, tale engine permette un profiling spinto del singolo, definendo così la strategia migliore per convincerlo a votare un partito, piuttosto che un altro: cosa che Trump ha applicato in massa negli swing state, alla vigilia delle elezioni.
Centinaia di migliaia di elettori americani sono stati catalogati, suddivisi in cluster molto granulari; per ognuno di questi cluster sono stati individuati dei argomenti target che avrebbero orientato il loro voto verso il candidato repubblicano. Così, questi elettori, nelle ultime due settimane prima del voto, sono stati subissati da mail, messaggi suoi social, telefonate che parlavano alla loro pancia e che facevano apparire Trump come Bene e la Clinton come il Male, condizionando così la loro opinione.
Se la discussione sul microtargeting negli Usa risale almeno ai tempi di Bush Junior, un conto è la teoria, un conto è la pratica. Come ci sia riuscita la Cambridge Analytica è oggetto di animate discussioni: la mia opinione, per quel che vale, è che abbiano implementato un qualcosa del genere su una deep neural network.
Punto quarto: Tutto ciò è legale ? Secondo la legge USA, la macro trend analysis lo è. Per il microtargeting comportamentale, invece, si entra in un’area grigia. La questione è che per alimentare il relativo engine, un ricercatore della Cambridge Analytica ha realizzato un’app per raccogliere dati su Facebook, spacciandola per test psicologico, che è servita a profilare l’americano medio. Anche questa cosa, può sembrare strano, negli USA non viola legge.
Il problema è che per il contratto di servizio di Facebook, sempre nel rispetto della legge americana, tali dati non appartenevano alla Cambridge Analytica, ma alla società di Mark Zuckerberg. Per questo, nei termini d’uso, è vietato ai proprietari di app di condividere con società terze i dati che raccolgono sugli utenti
La Cambridge Analytica, avrebbe potuto tranquillamente usufruire di tali dati, pagandoli però a peso d’oro, ma se ne è fottuta altamente, utilizzandoli senza permesso, violando le condizioni d’uso, anche se il buon Saul Goodman direbbe che, essendo il ricercatore un impiegato della Cambridge Analytica, questa aveva la proprietà intellettuale di tale app e quindi non poteva configurarsi come società terza.
Così, per tale violazione contrattuale, Facebook avrebbe potuto fare causa alla Cambridge Analytica o per lo meno, sospendere i suoi account; per evitare ciò, dopo la vittoria di Trump e aver riscosso il relativo pagamento, Cambridge Analytica ha provveduto ad autodenunciarsi con Facebook, dicendo di avere scoperto casualmente di essere in possesso di dati ottenuti in violazione dei termini d’uso e di averne disposto subito la distruzione.
Facebook, applicando il principio di cosa fatta, capo ha, ha fatto finta di nulla, finché, saputo dell’inchiesta del Guardian che sta riportando in auge questa storia, per evitare, con scarsi risultati, di farsi trascinare nella polemica, con sommo ritardo ha sospeso l’account della Cambridge Analytica.
Per cui, il problema non è più cosa ha fatto Cambridge Analytica, ma cosa non ha fatto Facebook, per tutelare i suoi utenti e i suoi azionisti.
Punto Quinto: La Cambridge Analytica ha avuto dal 2012, come cliente, un partito italiano. Sicuramente, questo ha usufruito della macro trend analysis e prendendo come esempio la campagna elettorale di Trump, è facile capire chi possa essere il soggetto in questione. E’ legale ? Se il broker rispetta tutta la normativa sul trattamento dei dati personali, sì. Poi il fatto che non mi piaccia una politica basata su fake news e sull’offesa continua dell’avversario, è un altro paio di maniche.
Al contrario, il microtargeting comportamentale non è legale. Però,a meno di scoop delle prossime ore, ho forti dubbi, visto che le tariffe per questo servizio sono superiori a quanto si possono permettere i partiti o movimenti italiani, che sia stato utilizzato nelle nostre elezioni.
March 19, 2018
Finalisti Kipple-connettivisti al Premio Urania 2017 (e anche al IX Premio Odissea)
Su Fantascienza.com è possibile leggere l’elenco dei finalisti al Premio Urania 2017. Molti nomi – sono dieci – e tra essi è possibile leggere finalmente Marco Milani, connettivista e vincitore del Premio Kipple, così come lo sono stati Matteo Barbieri e Davide Del Popolo Riolo; anche Giovanna Repetto è nell’elenco, la ricordiamo fresca vincitrice dello ShortKipple. Quindi in questa finale (ovviamente, che vinca il migliore!) c’è molto Connettivismo e molto Kipple: andiamo a vedere le carte, siamo impazienti, considerando poi che per il Premio Odissea abbiamo in lizza il nostro editore Lukha B. Kremo, di nuovo Matteo Barbieri e l’altro connettivista Giovanni De Matteo, (mentre tra i segnalati torna Giovanna Repetto).
Ultima Cena
Sabato mattina, mentre passeggiavo per Firenze, ho avuto uno splendida sorpresa: per caso, ho incontrato il buon Ignazio Fresu. Ignazio è un caro amico, con cui ho condiviso tante avventure artistiche: un grande scultore e una persona straordinaria. Uno dei mie sogni, se trovassi gli sponsor, sarebbe di organizzare una sua mostra al Nuovo Mercato Esquilino.
Mi piacerebbe fare dialogare le sue opere, in cui tutti gli oggetti del quotidiano risuonano d’eterno, in una dimensione platonica, con la confusione e il vitalismo dei vari banchi. Oppure immergerle nella perfetta quiete del Giardino Confucio.
Perché le opere di Ignazio ci invitano a riflettere su noi stessi: non imitano la Realtà, ma la svuotano, riempendola con il nostro Io più profondo. Ogni oggetto che rappresenta, una valigia, una scala, un piatto, non hanno valore in sé, ma, come sciamani, evocano i nostri sogni e le nostre solitudini, costringendoci a intraprendere un lungo e faticoso viaggio dentro noi stessi, ricco di pericoli.
Con Ignazio, sono andato a vedere la sua installazione l’Ultima Cena, in un luogo più suggestivi e meno conosciuti di Firenze, il Cenacolo di Fuligno, con un affresco ben poco conosciuto del Perugino.
L’Ultima Cena, per lasciare la parola a Alessandra Frosini, che ne sa più di me è
Una tavola imbandita richiama una scena di vita quotidiana fatta di oggetti significanti.
Come nelle opere dipinte tra XVI e XVII secolo raffiguranti l’ultima cena, dal Ghirlandaio a Leonardo, dal Veronese, all’Allori, al Bassano, come nelle nature morte manieriste e barocche, quello che vediamo è una tavola ricolma di oggetti. Ma i tredici posti apparecchiati sono vuoti e Cristo e gli apostoli sono enigmaticamente assenti: il cenacolo è diventato a tutti gli effetti una natura morta che richiama la fragilità e la caducità del mondo dei sensi. Perché tutto è bloccato e irrigidito in una materia dura come pietra e bianca come il marmo, dalla tovaglia ai piatti, dal pane all’uva, ad eccezione solo delle bottiglie e delle coppe trasparenti che richiamano i cristalli seicenteschi, utilizzati nelle nature morte per creare un ulteriore risalto al rilievo luministico, riflettendo e raddoppiando sia la scena raffigurata sia inserendo il pittore stesso, come riflesso, all’interno del quadro.
Fresu in questa sua Ultima Cena da’ corpo all’universo invisibile del nostro immaginario, della nostra memoria e cultura, in un mutuo gioco fra visione e pensiero in cui è abbandonato l’intento di ammonimento moraleggiante della vanitas o del memento mori, come anche è rifiutato il riferimento alla quotidianità del sacro dei cenacoli o della sacralità nel quotidiano delle nature morte dei maestri riformati. Richiama piuttosto la perfezione naturalistica e illusionistica del trompe l’oeil, che non è imitazione o riflesso del reale, ma rinvio a se stesso, che cattura lo sguardo in un’apparenza che sorprende e affascina perché sembra essere presente, nell’illusione di una realtà più reale del vero.
La vertigine dell’illusione appare però qui conquistata e rifiutata per parlare d’altro, per agire nella direzione di un’esautorazione del reale attraverso le sue apparenze, in cui vita e morte convivono perché momenti dello stesso processo del divenire in un’eterna metamorfosi. Le cose si mostrano come simboli dietro lo schermo della materia in una situazione in bilico in cui la natura è morta e allo stesso tempo è viva perché appartiene a quel lampo della nostra esistenza.
Qui il concetto di natura morta viene sublimato: la vanitas, la morte, la bellezza come caducità e apparenze vengono riprese, ma la percezione degli oggetti-simulacri che l’opera contiene in sé, indistruttibili nella loro ostinata presenza, sono soggetti ad una metamorfosi che sembra collocarli simbolicamente in uno spazio simile al “doppio regno” di Rilke, sospeso tra vita e morte, dove le forme perdono la loro consueta rigidezza per mutare l’una nell’altra attraverso modulazioni impalpabili. E’ un’esplorazione delle dimensioni profonde del nostro Io, un’immersione nella totalità originaria in cui si compie una trasfigurazione nell’invisibile, un’interiorizzazione che trasforma le cose in ricordi e dunque in memoria e che ci libera dalla separazione soggetto-oggetto, per attuare un superamento e sconfinare nello spazio del linguaggio che è luogo di manifestazione dell’essere.
Così, con duttile fluidità ci allontaniamo dal visibile per addentrarci nell’interiorità, nella consapevolezza dell’inesorabile mutare della consistenza e durata delle cose e degli uomini che soggiornano in esse, in una “metafisica della morte che è complementare ad ogni ontologia della vita” e in cui l’Arte diventa techné dell’esistenza.
Significati che vengono amplificati e arricchiti dal contesto in cui è posta l’opera: l’Ultima cena di Ignazio non è contrapposta a quella del Perugino, ma complementare. L’una è concentrata sull’assenza, sulla solitudine e sul ricordo; l’altra sull’evidenza e sul dialogo.
In Ignazio, Spazio e Tempo collassano, in una singolarità compressa, una molla pronta ad esplodere; in Perugino, si espandono all’Infinito, sfumando in un malinconico sogno. Entrambe, però, sfuggono all’Entropia, ricreando, nel loro incerto equilibrio, l’immagine dell’Umano
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