Alessio Brugnoli's Blog, page 153
April 13, 2018
Mangiare e bere a Ostia Antica
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Tutto si può dire, tranne che le nelle antiche città romane si potesse dormire tranquilli: il traffico notturno, il rischio di incendi e la movida rendevano ben difficile cadere tra le braccia di Morfeo. Soprattutto la movida: può sembrare strano, ma per la scarsità di cucine dignitose nelle insule, il plebeo romano amava mangiare fuori. Quando non riusciva a scroccare pranzo o cena da qualche ricco patrono, doveva contentarsi delle osterie, che, come funghi, riempivano le strade.
Qualche erudito, con piglio degno di un teologo bizantino, cerca di distinguere tra taberna vinaria, una sorta di pub dell’epoca, in cui si poteva bere vino e mangiare stuzzichini, le popinae, le antenate delle fraschette e le cauponae, le osterie vere e proprie, con locali per mangiare, camere per dormire, spesso associate a bordelli.
Ma in realtà, la plebe latina, di queste distinzioni, se ne fregava alquanto: usava tranquillamente queste parole come sinonimi… Tranne forse thermopolium, termine che ogni tanto fa capolino in qualche libro di latino: lo usa infatti il buon Plauto in una commedia dove si burla dell’usanza diffusa fra i suoi contemporanei di inventare parole grecizzanti per pedanteria!
In ogni caso, questi locali erano costituiti da una grande sala, che si affacciava su una strada affollata, con un bancone in muratura nei pressi dell’ingresso, decorato con lastre marmoree o di terracotta in cui erano incassate delle giare (dolia) o anfore e le pareti coperte di scaffalature, per conservare prosciutti, formaggi, vasi pieni di garum e di ogni altro ben di Giove, una cucina e nei locali più chic di un giardino interno (viridarium) con triclinio, per permettere agli avventori di mangiare all’aperto, all’ombra di
pergolati.
L’antico romano medio e alquanto affamato entrava, si avvicinava al bancone, dato che spesso non sapeva leggere, come in Cina e in Giappone, guardava le riproduzioni dipinte dei cibi in vendita, le indicava per ordinarle e pagava un prezzo differente nel caso decidesse se consumare le vivande a casa oppure direttamente nel locale.
Ostia antica pullula di locali di questo tipo: la meglio conservata è forse il locale nella via di Diana, che rispecchia molto bene la descrizione data nelle righe precedenti.
Si è conservato molto bene il bancone marmoreo con lavabo per i piatti e un mortaio per aiutare il cuoco a preparare i condimenti. Di fianco all’entrata si trovano delle panchine, e sopra di esse sono stati rinvenuti affreschi ben conservati, che per darsi un tono elegante rappresentano motivi architettonici, figure umane, imitazioni di marmo su uno sfondo bianco.
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Nella porzione centrale della parete c’è un tavolo in marmo dotato di un ripiano inferiore e ulteriori tre ripiani posti superiormente a scaletta. Sulla parete, affreschi raffiguranti cibo e bevande come olive, uova, rape, cocomeri o forse forme di formaggio rosso permettano agli avventori di decidere come ordinare
Le stanze limitrofe a questa appartenevano al bar stesso; in una sono stati rinvenuti un fornello per cucinare e una grossa giara sotterrata a metà, la quale era usata per conservare una scorta di vino o olio.
A titolo di curiosità, per mostrare anche le ombre dell’epoca, nel locale è stato trovato anche un collare metallico con un’iscrizione latina che dice
“Tienimi cosicché non fugga. Sono uno schiavo fuggitivo”
Insomma, l’oste era un padrone e un datore di lavoro alquanto discutibile…
Altri locali, come dire, di lusso, erano la Tabernae dei Sette Sapienti, poi incorporata nelle omonime terme, che prende il nome dagli affreschi di una delle stanze che raffigurano i “sette saggi greci”, come ad esempio THALÈS MEILÈSIOS Talete di Mileto o quella associata alle Terme dell’Invidioso, che prendono il nome da un mosaico che rappresenta un pescatore che ha catturato due pesci, mentre un ragazzo gli fa il gesto delle corna: lui è l’inbidiosos che dà il nome all’edificio.
Altri locali, come dire, di tendenza dell’epoca, erano la caupona di Fortunatus, che si trova lungo il decumano, all’ingresso della via della Fontana ed è decorata da un mosaico pavimentale, il quale mostra un cratere inquadrato da un’iscrizione che invita a bere vino se si ha sete… Oppure la caupona di Alexander, che fu allestita all’interno della Porta Marina e dove si vede un mosaico raffigurante una danza grottesca, una Venere e due pugili.
O infine la caupona del Pavone,che serviva i quartieri residenziali lungo il cardo verso il sud della città, provvista da una grande sala con il bancone in fondo e da una saletta riservata decorata con eleganti affreschi.
Più popolari, invece era il chioschetto da Proclus e Fortunatus, presso le Terme del Nettuno, in cui, a ogni ora del giorno, si poteva bere un bicchiere di vino al volo..
April 12, 2018
Fabbrica di Zucchero
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Qualche tempo fa, accennai alla possibilità che a Colleferro, uno dei luoghi simbolo dell’archeologia industriale del Lazio, potesse fungere da scenario per una manifestazione steampunk… Ebbene, dopo mesi di attesa questo sogno, grazie alla fatica e all’impegno di Beatrice Parenti, si è trasformato in realtà
Per cui, il 26 maggio, indossate corsetti e cilindri, oliate gli ingranaggi e tutti all’ex Zuccherificio, per trascorrere una giornata neovittoriana all’insegna del divertimento e della cultura.
Vi saranno artisti di strada, buon vino e ottimo cibo, tante presentazioni di libri… Il tutto si concluderà con un bel concerto dei Poison Garden.
Io ci andrò, oltre per godermi il tutto e rivedere vecchi amici, anche perché Colleferro ha molto a che vedere con i miei romanzi… La città ha infatti molto a che vedere con i miei romanzi, essendo stata costruita in uno dei possessi feudali della famiglia Conti.
All’inizio del XIII secolo, infatti, gli antenati di Andrea raggiunsero il massimo della loro potenza, diventando la più ricca e potente famiglia baronale del Lazio. Avendo la signoria di oltre dieci castelli, poterono sfruttarne la valenza strategica, controllando due tra le più importanti strade di accesso a Roma: la via Casilina (che consentiva il controllo della parte settentrionale della Campagna) e la Valeria (che consentiva il controllo della valle dell’Aniene); c’erano, poi, i domini dei Monti Prenestini.
I Conti rimarranno però sempre legati alla più tradizionale delle zone di radicamento della famiglia, ossia la diocesi di Segni e le zone limitrofe con i più antichi possedimenti di Valmontone stesso (per cui furono detti anche Casa Valmontone), Sacco e Piombinara, ampliando successivamente i propri possessi con l’acquisizione di altri feudi oltre a Segni, intorno alla metà del sec. XIV.
Per cui, vagando per le strade di Colleferro, posso socchiudere gli occhi e immaginare qualche strana iniziativa industriale del Principe Padre, da citare in qualche racconto..
April 11, 2018
Grande la città grande… guarda là..
Ho avuto la fortuna, grazie alla fantascienza di incrociare Bruce Sterling in diverse occasioni: un paio di volte, più per fortuna che per merito, mi sono ritrovato pubblicato in un paio di antologie, dove svolgeva il ruolo di star.
E anche se a volte non sono d’accordo con le sue riflessioni, però ne riconosco la sua grandezza intellettuale: vuoi o non vuoi, anche se in forme diverse e inaspettate, il mondo profetizzato nei suoi romanzi si è realizzato nel nostro quotidiano.
In più, senza ombra di dubbio, Bruce è stato una delle persone che ha costruito dal nulla il linguaggio che utilizziamo per rapportarci ogni giorni a Internet e alla tecnologia più avanzata: le sue idee, meritano sempre di essere considerate, almeno come spunti per rimettere in discussione i limiti della nostra visione del mondo.
Per cui, sono un poco sorpreso dalle reazione di qualche pseudo intellettuale grillinoide, al suo articolo sulle Smart City, pubblicato prima su The Atlantic, poi ripreso e tradotto dall’Internazionale.
Articolo complesso, a prova di analfabeta funzionale, che riprende e sintetizza tante temi che Bruce ha trattato in passato.
Il suo rapporto ambiguo con la città: da buon texano, la vede come sprawl, come luogo di perdizione e negazione della .libertà umana, ma non può non subirne il loro fascino, di motori del cambiamento, così come evidenzia nella chiusa dell’articolo
Questo dimostra l’attrattiva delle città. Possono essere strane, sorde, difficili, corrotte, intasate, luride e piene d’ingiustizia sociale, ma rimangono forti. Eccome.
La sua antipatia per l’IoT, visto come strumento con cui le nuove multinazionali del Cyberspazio possono estendere i loro tentacoli e interessi sui tradizionali strumenti di produzione
Il suo monito continuo sul ruolo della tecnologia, non entità neutrale, ma strumento che può essere usato per fini diversi e contrapposti: rafforzamento dello stato totalitario o delle entità neocapitaliste, aumento del gap tra ricchi e poveri e della subordinazione tra capitale e lavoro, oppure possibile arma contro le prevaricazioni del potere.
Ora, su queste posizioni si può discutere all’infinito… Senza dubbio, nel caso specifico, le sue paure sull’IoT possono essere rimesse in discussione: al di là del fatto che il problema della babele di protocolli sarà difficilmente superabile dall’Amazon o dalla Google di turno, in tale ambito la faranno da padrone gli operatori di rete, più che gli Over the Top.
Inoltre la loro posizione, per la volatilità del mercato e per la sempre più rapida evoluzione tecnologica, gli OTT rischiano di essere dei giganti d’argilla
Infine, da marxista, ritengo che la tecnologia abbia un ruolo assai più determinante, di quello strumentale, ipotizzato da Sterling: incidendo in profondità sui rapporti di produzione, modifica la struttura, mutando a sua volta la sovrastruttura. E l’entità di tali cambiamenti, non deterministici, a medio termine è difficilmente prevedibile.
Ciò non significa che la riflessione di Sterling sia da buttare via: è un monito, da tenere sempre presente, sui rischi che corriamo e un invito a perseguire l’ottimismo della volontà, nonostante il pessimismo della ragione
April 10, 2018
Dal Profano al Sacro
Spesso, nel rapportarci con un’opera d’arte del passato, cadiamo nell’illusione di considerarle delle entità platoniche, fuori del tempo e dello spazio; in realtà, queste sono figlie del loro tempo e ne condividono l’universo simbolico, che a noi posteri spesso sfugge.
Questo perché nell’Arte, spesso la Forma è più tenace e ostinata del Contenuto: così, nel tempo, questa sopravvive, trasformandosi in Convenzione, anche quando l’Oblio ne copre i motivi che ne sono all’origine.
A volte, però, capita di recuperare queste chiavi di lettura: così le immagini recuperano il loro ampio e originale significato. Un esempio recente, che a prima vista sembra assai strano, è legato alle scoperta dei signa imperatoria di Massenzio, ritrovate nel 2005, durante degli scavi effettuati sul Palatino, in un’area compresa tra il Colosseo e l’attuale Via Sacra, una fossa ricavata in uno degli ambienti semipogei della terrazza di età flavio-neroniana di un piccolo tempio pertinente le Curiae Veteres, in cui i cittadini, divisi da Romolo, secondo la tradizione, in trenta circoscrizioni territoriali (curiae), celebravano la loro comune divinità protettrice (Giunone), al fine di riaffermare l’appartenenza a un corpo civico unitario.
Insegne che consistono in tre scettri con sfere, tre punte di lancia da parata e quattro punte di lancia portastendardo. Gli scettri avevano due sfere in vetro dorato che potevano essere montate, a seconda delle cerimonie, all’estremità di aste lunghe o corte. La sfera, in calcedonio azzurro proveniente forse dall’India, era fissata ad una corta asta ed era sormontata da un oggetto oggi perduto, forse un’aquilaLo scettro con la sfera verde, sostenuto da una corona ad otto petali, venne realizzato in ferro, rame e oricalco (una lega pregiata molto simile al colore dell’oro). L’impugnatura, anch’essa preziosa, era
intarsiata in legno e rivestita con foglie d’oro.
Le lance da cerimonia sono invece a sei lame, contornate da corona di petali, sono costruite il ferro e oricalco. La base esagonale ricalca nella forma gli esempi di aste porta signum delle unità militari. Infine, le lance portastendardi appartenevano a due categorie: quelle corte, dedicate agli stendardi quadrangolari fissati alle alette tramite lacci di cuoio e quelle allungate, dedicati a quelli triangolari o a fiamma.
Ognuno di questi oggetti, rappresenta uno specifico attributo del Potere Imperiale; in quella fucina culturale che è Ravenna, la loro simbologia, da laica, diviene religiosa, riflettendosi nella simbologia delle opere d’arte presenti nelle chiese.
Ad esempio il globo in calcedonio azzurro, pietra proveniente dall’India, ai limiti del mondo allora conosciuto, è stato connesso all’imperium, attraverso il l’efficace confronto con numerosi dittici consolari, come quelli dei Lampadii (396 d.C.), di Boezio (487 d.C.), del console Magno (V sec. d.C.).
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E proprio su un globo di calcedonio è seduto il Cristo, rappresentato come un giovane senza barba, tra gli Arcangeli Michele, la Giustizia, e Gabriele, la Potenza, nella teofania dell’abside di San Vitale, per simbolizzare il suo dominio sull’intero Cosmo. Nel suo essere Imperatore del Creato, archetipo eterno di quello terreno, celebra il valore di Vitale, vestito come un ufficiale delle Scholae Palatine, le unità di cavalleria d’élite dell’esercito, donandogli la corona del martirio e riceve l’omaggio del vescovo Ecclesio, che gli offre in pegno il modellino della basilica.
Per ribadire all’osservatore tale concetto la citazione dello scettro dell’imperium è ripetuta più nei numerosi globi azzurri del presbiterio sormontati dai pavoni, simboli della gloria e magnificenza divina . A questi si associa, come sfondo, un prato con fiori rose e gigli, che oltre alla valenza religiosa, ne assumono anche una civile.
La rosa è immagine della Redenzione, perché richiama le lance imperiali, simboli della Vittoria contro il Male. I gigli e le margherite, non sono solo richiami alla Verità e alla Fede, ma sempre richiamando la decorazione dello scettro di imperiali, ne indicano il possesso della tribunicia potestas, il diritto di veto su qualsiasi decreto del Senato, il diritto di intercessio, l’immunità personale e la possibilità di comminare condanne capitali, ossia il potere della Misericordia.
Per questo, tali simboli appaiono nella decorazione di Sant’Andrea, a completamento della figura del Cristo guerriero contro l’Eresia, per esaltare il suo perdono nei confronti di chi si pente del suo errore e nel non Mausoleo di Galla Placidia, per chiedere l’intercessione di San Lorenzo per i fedeli
Infine Lo scettro invece a due globi in vetro verde dorato è stato riconosciuto come il simbolo della iurisdictio, poiché appare nel dittico di Areobindo del 506 d.C., impugnato dall’Arcangelo Michele, rappresentante della giustizia nel giudizio universale
April 9, 2018
E’ il Multi Cloud un bianco elefante
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Così racconta una vecchia e nota parabola Sufì
Al di là di Ghor si estendeva una città i cui abitanti erano tutti ciechi. Un giorno, un re arrivò da quelle parti, accompagnato dalla sua corte e da un intero esercito, e si accamparono nel deserto. Ora, questo monarca possedeva un possente elefante, che utilizzava sia in battaglia sia per accrescere la soggezione della gente.
Il popolo era ansioso di sapere come fosse l’elefante, e alcuni dei membri di quella comunità di ciechi si precipitarono all’impazzata alla sua scoperta.
Non conoscendo né la forma né i contorni dell’elefante, cominciarono a tastarlo alla cieca e a raccogliere informazioni toccando alcune sue parti. Ognuno di loro credette di sapere qualcosa dell’elefante per averne toccato una parte.
Quando tornarono dai loro concittadini, furono presto circondati da avidi gruppi, tutti ansiosi, e a torto, di conoscere la verità per bocca di coloro che erano essi stessi in errore.
Posero domande sulla forma e l’apparenza dell’elefante, e ascoltarono tutto ciò che veniva detto loro al riguardo. Alla domanda sulla natura dell’elefante, colui che ne aveva toccato l’orecchio rispose:
“Si tratta di una cosa grande, ruvida, larga e lunga, come un tappeto”.
Colui che aveva toccato la proboscide disse:
“So io di che si tratta: somiglia a un tubo dritto e vuoto, orribile e distruttivo”.
Colui che ne aveva toccato una zampa disse: “
“È possente e stabile come un pilastro”.
Ognuno di loro aveva toccato una delle tante parti dell’elefante. La percezione di ognuno era errata. Nessuno lo conosceva nella sua totalità: la conoscenza non appartiene ai ciechi. Tutti immaginavano qualcosa, e l’immagine che ne avevano era sbagliata. La creatura non sa nulla della divinità. Le vie dell’intelletto ordinario non sono la Via della scienza divina.
Passando dal Sacro, l’impossibilità delle religioni umane di comprendere pienamente l’essenza del Divino trascendente, al profano, la quotidianità lavorativa, spesso, con i miei colleghi mi ritrovo nella stessa condizione dei ciechi: usare le stesse parole, per descrivere aspetti parziali, molto spesso non coincidenti, di un concetto molto più ampio e articolato.
L’esempio più recente è per il Multi Cloud; a seconda dell’interlocutore, queste due parole possono indicare:
Il Brokering, con la fornitura di una piattaforma di “rivendita” per proporre al cliente il mix di soluzioni tra più piattaforme, sia public, sia private, per ottimizzare costi e prestazioni, verificando al contempo tutti i log e unificando il billing in un’unica fattura (quest’ultima cosa, meno scema di quanto si pensi: basti pensare all’ostinazione di Google Cloud Platform nel non volere fatturare flat e in euro)
Il Cloud Tooling e Security, per la gestione, monitoring e della sicurezza delle piattaforme di public cloud di terze parti
Versioni più o meno esotiche, di quello che una volta si chiamava Hybrid Cloud.
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E’ probabile che questo oggetto misterioso sia un mix, più o meno bilanciato delle tre cose: detto fra noi, a livello mondiale c’è molto interesse per tale tematica. I motivi sono assai variegati:alcune aziende vorrebbero liberarsi da un unico fornitore cloud, in modo da non subire lock-in economici e tecnologici. Altre invece vorrei sviluppare soluzioni intelligenti, che utilizzino le componenti migliori di più fornitori cloud (es. l’engine big data di uno e l’analytics di un altro) con una terza parte che funga da integratore tra soluzioni. Altre ancora ritengono che il Multi Cloud permetta di sfruttare al meglio le potenzialità legate all’adozione del paradigma Software Define, per liberarsi dalla tirannia delle infrastruttura e dei capex.
In Italia, come spesso accade, siamo nella fase molte idee, poche realizzazioni concrete: secondo molti analisti abbiamo un ritardo di 12/16 mesi rispetto al trend globale.
I motivi sono essenzialmente tre:
Molte aziende, specie PMI, debbono ancora digerire la transizione al Public Cloud
Altre invece debbono ancora ammortizzati gli investimenti infrastrutturali nei Data Center compiuti da negli ultimi tre anni
Altre infine sono consapevoli del fatto che la transizione al Multi Cloud non sia solo tecnologica, ma impatta in profondità processi, knowledge e organizzazione e ne temono rischi e costi.
Nonostante questo, anche in Italia, specie le grandi aziende, stanno andando in questa direzione. Da una parte è stato raggiunto un tasso di crescita annuale composto (CAGR) del 22% fino al 2020, corrispondente al CAGR europeo del mercato del cloud nel periodo considerato. Dall’altra, in ottica di cost reduction, anche da noi vi è un’attenzione crescente a soluzioni IT off premise e alle Software Defined Solution.
Per cui è probabile, che anche da noi entro i prossimo due anni il mercato esploda, con la regola del First Winner, All Wins
April 8, 2018
Hafez
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Khwāja Shams-ud-Dīn Muḥammad, soprannominato Hafez è uno dei tanti poeti orientali, di cui, purtroppo, l’italiano di buona cultura continua a sapere ben poco. Lui nacque a Shiraz tra il 1317 e il 1325 in un periodo in cui la città era sottomessa alla signoria del principe ingiuide sunnita Abu Ishaq Inju, vassallo dei Mongoli e protettore dei poeti.
Leggenda vuole che da ragazzo Hafez lavorasse come garzone in una panetteria: in occasione di una consegna , vide per la prima volta Shakh-e Nabat, una donna di grande bellezza, a cui sono indirizzate alcune delle sue poesie. Stupito dalla sua bellezza, ma sapendo che il suo amore per lei non sarebbe stato ricompensato, lui era un morto di fame, lei una donna ricca e importante, cominciò a pregare con fervore, finché non ebbe, come Dante con Beatrice, un’esperienza mistica, un’apparizione angelica, che lo convinse ad avvicinarsi alla mistica Sufi.
Nella sua ricerca del divino, conobbe Haji Zayn Attar, uomo di profonda cultura religiosa, fisico, chimico e studioso di farmacologia: si racconta che Haji Zayn Attar, vedendo Hafez usare dei fogli con i suoi versi come esca per accendere un fuoco, per curiosità glieli strappasse dalle mani e cominciasse a leggere le poesie. Ne fu talmente incantato da non accorgersi della fiamma, che gli provocò un’ustione alle mani.
Haji quindi, prese per le orecchie Hafez e lo trascinò davanti a Abu Ishaq Inju, il quale comprese subito il dono poetico di Hafez, tanto da porlo sotto la sua protezione: sfortuna volle che, per ambizione e fame di potere, si scontrasse con il principe Mobarez al-Din Kirmani, da cui fu sconfitto in battaglia e condannato a morte.
Mobarez, essendo anche un asceta alquanto bigotto, dopo aver conquistato Shiraz, fu alquanto scandalizzato sia dalla corte gaudente e colta di Abu Ishaq, sia dalle numerose taverne, case da gioco e bordelli presenti in città.
Per cui, si impegnò in un’opera di moralizzazione: cacciò tutti gli intellettuali, che considerava mangia pane e tradimento, da corte e chiuse tutti i locali di malaffare. Tradizione vuole che Hafez, per campare abbia cominciato a insegnare nella locale madrasa, la scuola religiosa: questo è sia testimoniato sia dalle poesie in cui tesse l’elogio di qadi, dottori e esponenti delle gerarchie religiose della città, sia dal suo soprannome, che significa
Colui che ha imparato a memoria il Corano
Proprio questa competenza religiosa, benché eterodossa, fece guadagnare ad Hafez la stima del severo Mobarez; nel 1363, però, questi fu imprigionato e accecato dal figlio Shāh Shujā, altrettanto feroce, ma ben più gaudente del padre.
Shāh Shujā divenne grande amico di Hafez, anche se spesso erano in lite per, come dire, divergenze letterarie: Hafez stroncò una sua poesia e per evitare di essere decapitato, tentò pure di imbarcarsi per l’India, ma secondo fonti tradizionali una tempesta nel porto lo convinse a rinunciare al viaggio. Anche perchè Shāh Shujā sbollita l’ira, era corso a rappacificarsi con lui.
Anche perché, per dirla tutta, era impegnato in grane ben più grosse di qualche polemica letteraria: di fatto, era in continua guerra civile con il resto della sua famiglia. A queste si aggiungevano anche le preoccupanti notizie sulle conquiste di Tamerlano.
Tanto che, in letto di morte Shāh Shujā, mandò una lettera al conquistatore timuride, consegnata proprio da Hafez, in cui si dichiarava l’eterna fedeltà della sua famiglia, promettendo anche di interrompere le faide famigliari.
Ma il figlio Zayn al-ʿĀbidīn, preso il potere, si dimenticò di queste promesse: dato che nelle loro continue liti, i Muzaffaridi tendevano a rompere le scatole anche ai vicini, Tamerlano si impegnò in una spedizione di pacificazione.
I principi Muzaffaridi, dopo aver consegnato legato come un salame Zayn al-ʿĀbidīn a Tamerlano, promisero di fare i bravi: ma appena scomparso oltre l’orizzonte il conquistatore turco mongolo, ricominciarono con entusiasmo la loro faida. Così, nel 1393, dopo un’ennesima campagna militare per ricondurli a miti consigli, Tamerlano li invitò tutti a Samarcanda, per un incontro di pacificazione.
Essi furono ricevuti con tutti gli onori e poi giustiziati: l’unico che si salvò da questa purga fu paradossalmente proprio Zayn al-ʿĀbidīn, che nella prigionia a Samarcanda, aveva scoperto un’inaspettato talento come cuoco, diventanto così responsabile delle cucine timuridi.
In mezzo a questo caos, Hafez, oltre a dedicarsi al misticismo, a sessant’anni intraprese un chilla nascini, una veglia di digiuno di quaranta giorni e quaranta notti, in cui ebbe una serie di visioni, da cui fu risvegliato da Haji Zayn Attar, che per farlo riprendere, gli fece bere, quasi a forza, una coppa di vino.
In vecchiaia, ebbe anche il favore di Tamerlano: una favola racconta come questi abbia convocato con rabbia Hafez per rendere conto di uno dei suoi versi:
Se una splendida donnadi Shirazi mi prendesse il cuore in mano
gli cederei Samarcanda e Bukhārā per il suo neo sensuale
Samarcanda era la capitale di Tamerlano e Bokhara era la città più bella del regno. Trovandosi davanti il poeta, il conquistatore cominciò a gridare
“Con i colpi della mia spada splendente”,
si lamentò Timur,
“ho soggiogato la maggior parte del globo abitabile … per abbellire Samarcanda e Bokhara, le sedi del mio governo, e tu li venderesti per il neo di una ragazza in Shiraz!”
Hafez, si inchinò profondamente e rispose:
“Ahimè, o Principe, è questa prodigalità che è la causa della miseria in cui mi trovi”.
Così sorpreso e contento fu Timur con questa risposta che liquidò Hafez con bei regali. Quando Hafez morì nel 1390, fu seppellito nel Golgast-e Mosalla, il suo giardino di rose preferito e nel tempo, tanti governanti hanno arricchito la sua tomba con numerosi monumenti.
Hafez essendo un mistico sufì, ha scritto poesie con una duplice chiave di lettura: a prima vista canta canta il vino, le gioie e le pene amorose per un amico, che appare in forme differenti, dal mago al predone, che mai corrisponde il suo affetto. In realtà, tutto è specchio e immagine della sua ricerca mistica del divino: è l’Uomo che cerca l’amore assoluto di Dio, obiettivo che, per i nostri limiti, non piò essere mai raggiunto…
Di seguito alcune sue poesie
Coppiere
L’eternità sta nel vino, coppiere, a me
versane l’ultima goccia:
lassù non fiorita è radura, non quale
a Shiraz riva d’acque.
Di liuti parlatemi solo, parlatemi solo
di coppe: il segreto
di questo mondo è un enigma che mai
saprà scioglier sapienza.
Canzone d’Amore
È fuoco nel cuore, il dolore d’amato, ne arse il mio petto:
bruciarono vampe la casa nei suoi più segreti recessi.
Si dissolse il mio corpo, lontano dal ladro di cuori,
bruciò l’anima, al fuoco solare del volto che amiamo.
Chi ebbe a veder la catena dei riccioli tuoi, sopra viso di fata,
nel seno colmo di nera passione bruciò per me folle.
Oh, che fiamme ho nel petto! A queste mie lacrime calde, iersera,
il cuore del cero fu preda all’amore e bruciò a causa mia qual falena!
Se un amico si strugge per me non è cosa bizzarra:
fu cuore d’estraneo a bruciare, allorchè me ne andai da me stesso.
A me rapì il saio devoto quell’acqua che corre in taverna,
e il fuoco che è là tra le giare bruciò la dimora ove stava intelletto.
Quale coppa s’infranse il mio cuore per tal contrizione,
e qual tulipano bruciava, in assenza di calice e vino.
Dimentica quello che è stato, ritorna, ché a me la pupilla, nell’occhio,
se lo tolse di dosso, e bruciò ringraziando, il suo saio.
Abbandona le fiabe, poeta, ed un attimo in pace centellina il vino,
ché tutta la notte vegliammo, e ascoltate le fiabe bruciò la candela.
Viaggio
Per ogni via m’è compagna di viaggio l’immagine tua,
e l’aura della tua chioma è il legame che l’anima vigile mia tiene avvinta.
A chi, vano e altero, ci nega il diritto d’amare,
io contrappongo, trionfale argomento, che il volto tuo è bello.
Tu vedi che dice il tuo mento rotondo: d’Egitto venuti
sono mille Giuseppe, e caduti entro questo mio pozzo.
Se la mia mano non giunge ai tuoi riccioli lunghi, è per colpa
di questo mio fato sconvolto, di questo mio braccio che è corto.
Ma tu dì al custode che guarda a quei tuoi penetrali l’accesso,
tu dì: «Un umile è quello, che attende nel fango alla soglia.
Apri, dunque, se bussa alla porta una volta in un anno il poeta,
perchè sono lustri che quegli sospira il mio volto che è simile a luna.
Se pur segregato, velato, egli appare al mio sguardo,
sotto gli occhi è pur sempre di questa mia mente serena».
Poeta
Veramente infinita è la bruna dolcezza d’un corpo,
e il bruno vino dell’occhio, e il riso del labbro, e la grande letizia del volto!
Io sono lo schiavo di tutte le bocche soavi del mondo,
ma questo è un sovrano che tutte le bocche soavi suggella.
Questa gota colore del grano maturo c’insegna
perchè, come Adamo si volse alla spiga, si perse.
In nome di Dio, dite, amici, per questa ferita
quale balsamo resta sul cuore, se egli è partito?
Bello il volto, è perfetta virtù, ed è limpido il grembo:
a lui gli angeli e i puri del mondo s’affannano attorno.
Chi potrà credermi dunque se è lui che petroso m’uccide,
e pur lui che qual Cristo richiama con soffio lievissimo a vita?
Io sono un poeta che crede: si tenga di me qualche conto,
perché ben conosco la grazia, conosco il perdono dei santi.
La tua bellezza
La tua bellezza, un baleno nell’attimo eterno, in principio,
e l’amore che apparve fu fuoco che avvolse la terra di vampe.
Si manifestava il tuo volto, vedeva che l’angelo è privo d’amore,
e fu una vampa d’orgoglio furente che all’uomo s’apprese.
Voleva farne lanterna, intelletto, di fiamme sì alte,
ma furono lampi abbaglianti, e sconvolsero il mondo.
Un tracotante cercò d’introdursi, tentò d’osservare il mistero,
ma una mano invisibile venne e lo spinse lontano.
Altri ottennero in sorte letizia di vita:
fu il nostro cuore nel pianto che ottenne, qual sorte, dolore.
E fu per passione del dolce tuo mento tornito che prese
Lo Spirito Santo a molcire i tuoi riccioli, anello su anello.
Il poeta scriveva il tuo libro gioioso d’amore,
nel giorno che fu cancellato gioioso tripudio dal petto.
Il Saggio
Ero perso con lo sguardo verso il mare
Ero perso con lo sguardo nell’orizzonte,
tutto e tutto appariva come uguale;
poi ho scoperto una rosa in un angolo di mondo,
ho scoperto i suoi colori e la sua disperazione
di essere imprigionata fra le spine
non l’ho colta ma l’ho protetta con le mie mani,
non l’ho colta ma con lei ho condiviso e il profumo e le spine tutte quante.
Ah, stenderei il mio cuore come un tappeto sotto i tuoi passi,
ma temo per i tuoi piedi le spine di cui lo trafiggi.
“L’idioma dell’Amore non si può veicolare con la lingua:
versa il vino, coppiere, e smetti quest’insulso parlare”
April 7, 2018
Esplorando la Materia Oscura
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In queste settimane, c’è molto fermento sulla materia oscura: ad accendere le micce sono stati i risultati dell’Experiment to Detect the Global Epoch of Reionization Signature (EDGES), finalizzato alla ricerca delle stelle più antiche dell’universo: tra le tante cose che sono saltate fuori dalle loro misure hanno, sono le possibile prove che il cosmo giovane fosse notevolmente più freddo di quanto si pensasse.
EDGES è finalizzato il gas di idrogeno neutro che riempiva l’universo durante le prime centinaia di milioni di anni dopo il big bang. Questo gas tendeva ad assorbire la luce presente nell’ambiente, portando a quelli che i cosmologi chiamano poeticamente i “secoli bui” dell’universo. Il cosmo era pieno di una luce ambiente diffusa dal fondo cosmico a microonde (CMB) – il cosiddetto afterglow del big bang – ma questo gas neutro lo assorbiva a specifiche lunghezze d’onda. EDGES cercava questo modello di assorbimento.
Quando le stelle cominciarono ad accendersi nell’universo, la loro energia avrebbe riscaldato il gas. Alla fine il gas doveva aver raggiunto una temperatura sufficientemente alta da non assorbire più le radiazioni CMB. Il segnale di assorbimento così scomparve, e le età buie finirono
Il segnale di assorbimento misurato da EDGES contiene un’immensa quantità di informazioni. Via via che il modello di assorbimento attraversava l’universo in espansione, il segnale si stirava. Gli astronomi possono usare questo stiramento per calcolare quanto tempo ha viaggiato il segnale, e quindi, quando hanno fatto la loro comparsa le prime stelle. Inoltre, l’ampiezza del segnale rilevato corrisponde al lasso di tempo durante il quale il gas aveva assorbito la luce CMB. E l’intensità del segnale – quanta luce è stata assorbita – è correlata alla temperatura del gas e alla quantità di luce che fluttuava nell’ambiente al momento.
Ed è questa temperatura che è assai minore del previsto: l’astrofisico Barkana, per spiegare questo risultato, ha ipotizzato la presenza all’epoca di una forma esotica di materia oscura, la millicharged, che potrebbe interagire con la materia ordinaria, ma solo in modo molto debole.
Il gas intergalattico quindi si sarebbe raffreddato grazie all’interazione con questa materia oscura: però, se questa tipologia di dark matter esistesse, dato che difficilmente potrebbe essere scomparsa nel nulla, i suoi effetti dovrebbero essere presenti anche oggi e lascerebbe qualche traccia in giro delle sue interazioni
Per cui diversi cosmologi hanno cominciato a esaminare tutti i dati disponibili, dalle esplosioni della supernove agli esperimenti del Large Hadron Collider. Risultato? Zero Carbonella… Ma allora, questo freddo da dove salta fuori ? Qualcuno ha ipotizzato come durante l’alba cosmica esistesse un’ulteriore luce di fondo. Se nel primo universo ci fossero state più onde radio del previsto, allora l’assorbimento sembrerebbe più forte anche se il gas stesso rimane invariato. Forse la CMB non era l’unica luce presente durante i primi anni del nostro universo.
Sì, ma quale potrebbe la fonte di questa ulteriore luce ? Qualcuno ha tirato fuori dal cilindro l’ipotesi dei buchi neri, che sono sono le fonti radio extragalattiche più luminose del cielo. Eppure i buchi neri producono anche altre forme di radiazione, come i raggi X, che non sono state osservate nel primo universo, per cui ristiamo da capo a dodici
Altra notizia sul tema che ha destato scalpore, riguarda la galassia Centaurus A, a circa 13 milioni di anni luce da noi. Secondo il modello cosmologico che va per la maggiore, il Lamda-CDM, che detto fra noi, in generale funziona che è una meraviglia, l’origine della galassie funziona, semplificando molto, in questo modo
All’inizio materia oscura, radiazione e materia normale, la barionica, stanno tutte quante assieme appassionatamente: a un certo punto questa associazione finisce. La materia oscura, per motivi non chiari, si stacca e inizia a collassare, formando delle strutture. Quando anche la materia barionica si disaccoppia dalla radiazione (questo avviene 380 mila anni dopo il Big Bang e si forma la radiazione cosmica di fondo), dando origine al periodo studiato da EDGES: In seguito, per effetto dell’attrazione gravitazionale, la materia barionica collassa nelle strutture già create dalla materia oscura, formando così le prime stelle e quindi le prime galassie.
Questo implica una sorta di legame tra la massa di materia oscura e quella della materia barionica che costituiscono la galassia: diversi studi basati su survey di galassie hanno dimostrato che la massa dell’alone di materia oscura che le circonda e la massa del contenuto stellare sono legate da una funzione che varia in modo regolare (smoothly) con la massa. Per galassie con masse stellari simili a quella della Via Lattea (circa 50 miliardi di masse solari) la massa dell’alone è mediamente 30 volte superiore alla massa del contenuto stellare. Tale valore aumenta sia per galassie di massa inferiore che
per galassie di massa più elevata. In questa relazione, la dispersione attorno al valore previsto non è ben nota; generalmente si pensa che sia inferiore a un fattore due per le galassie massicce ma molto più grande per le galassie nane.
In più, la materia oscura è disposta come una sorta di alone attorno alla parte della galassia formata da materia barionica, in cui ci sono le stelle e i pianeti. Per cui, un sistema, tra l’altro abbastanza comune nell’Universo, costituito da una grande galassia centrale e da delle galassie nane che gli girano attorno, per la complessità dell’interazioni tra i diversi aloni di materia oscura, dovrebbe essere una sorta di manicomio cosmologico, le galassie nane dovrebbero essere distribuite in modo casuale attorno alla galassia centrale e dovrebbero muoversi in modo caotico, come api attorno all’alveare.
Anni fa, invece, si scoprì come la nostra Via Lattea e Andromeda se ne fregano altamente di tale modello cosmologico: le loro sorelle minori si dispongono ordinate su un medesimo piano e mostrano un movimento coerente, simile a quello che hanno i satelliti attorno ai pianeti. Per spiegare questa anomalia, si pensava che fosse il nostro gruppo locale, il condominio cosmico di galassie che ospita la Via Lattea e Andromeda, ad essere un’anomalia.
Ora invece, hanno scoperto che Centaurus A, che fa parte di un altro condominio, si comporta allo stesso modo, per cui questa stranezza potrebbe essere assai più comune di quanto sospettato. A peggiorare la situazione, già complicata di suo è stata la scoperta della galassia DF2, che fregandosene delle aspettative degli astrofisici, è risultata priva di materia oscura.Ma come hanno fatto a determinare l’assenza di materia oscura? Attraverso i telescopi Keck e Gemini gli scienziati hanno misurato la velocità degli ammassi globulari di stelle presenti nella galassia, e si sono accorti che erano molto più lenti di quanto previsto (circa 23mila miglia orarie, meno di un terzo della velocità degli ammassi alla periferia delle galassie). Da questi dati hanno potuto calcolare la massa della galassia, che incredibilmente corrispondeva a quella di tutta la materia visibile, composta da stelle, pianeti, polveri e gas. Normalmente la componente fondamentale della massa sarebbe proprio la materia oscura, ma in questo caso o è pochissima (1/400 del dato atteso) o è del tutto assente
Può sembrare strano,ma questa scoperta non mina le fondamenta del modello cosmologico standard: questo, infatti, non vieta l’esistenza di galassie senza materia oscura: anzi, nel caso esistessero, permette di fare alcune previsioni (lo scarso numero di stelle, la mancanza di un buco nero centrale) che DF2 rispetta perfettamente. Al contrario, le ipotesi alternative, come la MOND (MOdified Newtonian Dynamics) o nella gravità emergente di Verlinde, non spiegano per niente cosa diavolo succede; per cui, sotto certi aspetti DF2 è un test di falsificabilità popperiana che queste non superano.
Detto questo, però il problema rimane: che diavolo di fine ha fatto la materia oscura di DF2. Ora, dato che non interagendo con la materia barionica, è difficile che qualche cataclisma cosmico l’abbia spazzata via, non deve essere stata presente sin dall’inizio. Per cui, deve esistere un modello specifico di genesi galattica, valido per DF2 e per le galassie nane, che si affianchi e integri quello standard, sempre valido, di formazione galassie “normali”. Oppure che la materia oscura, ma qui servono tante altre prove, pur esistendo, abbia comportamenti diversi da quelli ipotizzati sino a ora
April 6, 2018
Il pompeiano vanitoso
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Qualche tempo fa, a Pompei, nei pressi del’area di San Paolino nei pressi di Porta Stabia, uno degli accessi all’antica città, è stato scoperto un monumento funerario in marmo, che ha destato enorme interesse per due motivi.
Il primo è che ha risolto un mistero che perseguitava gli archeologi campani da un paio di secoli: quando nell’Ottocento fu costruito il cascinale che da il nome all’area, fu trovato per caso un bassorilievo, ora conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, con scene di processione, combattimenti gladiatori e venationes, di cui non si era mai capita la provenienza.
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Però, sia il materiale, sia le dimensioni, hanno fatto intuire come il rilievo decorasse la parte superiore della tomba
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Il secondo è nella logorroica iscrizione di quattro metri su sette righe, con cui il defunto racconta la sua vita, cominciando dal momento in cui raggiunse la maggiore età, indossando la toga virile. Il suo equivalente della nostra festa di diciotto anni fu un banchetto offerto al popolo pompeiano, in cui furono allestiti ben 456 triclini… Tenendo conto che su ogni triclinio potevano stare dai dieci a venti commensali, il tizio offrì il pranzo a circa 6000 persone….
E per non farle annoiare. organizzò anche uno spettacolo con ben 416 gladiatori, evento degno di Roma: basti pensare che nelle città di provincia, i ludi gladiatori coinvolgevano al massimo trenta coppie di combattenti.
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Dopo questa vanteria, però l’iscrizione arricchisce di particolari una vicenda poco onorevole della storia locale. Nel 57 d.C. Nuceria Altafena, un’antica città osca, distrutta da Annibale, il cui territorio era stato inglobato in quello di Pompei, era stata rifondata come colonia.
I pompeiani. così privati da parte dei terreni agricoli, non la presero bene e alla prima occasione utile, decisero di vendicarsi: questa si presentò nel 59 d.C. in occasione di uno spettacolo gladiatori, a cui parteciparono, come spettatori anche i nocerini… Però, forse, è meglio lasciare la parola al buon Tacito
Sub idem tempus levi initio atrox caedes orta inter colonos Nucerinos Pompeianosque gladiatorio spectaculo, quod Livineius Regulus, quem motum senatu rettuli, edebat. Quippe oppidana lascivia in vicem incessente probra, dein saxa, postremo ferrum sumpsere, validiore Pompeianorum plebe, apud quos spectaculum edebatur. Ergo deportati sunt in urbem multi e Nucerinis trunco per vulnera corpore, ac plerique liberorum aut parentum mortes deflebant. Cuius rei iudicium princeps senatui, senatus consulibus permisit. Et rursus re ad patres relata, prohibiti publice in decem annos eius modi coetu Pompeiani collegiaque, quae contra leges instituerant, dissoluta; Livineius et qui alii seditionem conciverant exilio multati sunt.
Ossia, tradotto in italiano
A quel tempo, Un futile incidente provocò un orrendo massacro fra i coloni di Nocera e quelli di Pompei: avvenne durante un combattimento di gladiatori dato da Livinèio Règolo. Come avviene di solito nei piccoli centri, si cominciò con dei lazzi alquanto pesanti, poi volarono pietre, e si finì col giungere alle armi. La plebe di Pompei ebbe la meglio. Molti Nocerini furono portati a casa mutilati nel corpo; non pochi piangevano la morte di un figlio o di un padre. Il Principe rimise il giudizio di questa faccenda al Senato, che la rinviò ai consoli. Su nuova istanza, però, il senato proibì alla città per dieci anni tale tipo di riunioni: Livinèio e gli altri autori della sedizione furono puniti con l’esilio
Grazie a Poppea, la squalifica dell’anfiteatro fu ridotta a soli due anni. Nell’iscrizione, però, si cita anche un particolare non raccontato da Tacito, ossia che furono esiliati anche i duoviri, l’equivalente all’epoca dei nostri sindaco e vicesindaco.
Insomma, l’amministrazione cittadina di Pompei fu decapitata; il defunto però si vanta, grazie ai suoi buoni rapporti con l’imperatore, di essere riuscito riportare a casa questi due tizi, che probabilmente si erano comportati più da capi ultras che da onorabili cittadini.
L’iscrizione continua poi con il racconto delle sue nozze, in cui, sempre in preda delle sue manie di grandezza, il defunto organizzò un’enorme venationes,lo spettacolo con la caccia ad animali esotici e bestie feroci. Per l’occasione portò a Pompei animali catturati in Africa proprio per allietare i cittadini pompeiani, i quali dinanzi a tutto questo ben di Giove, lo acclamarono patronus e princeps coloniae.
Il defunto, però, gongolando con falsa modestia, termina il racconto schernendosi e dicendo di non essere degno di tale titoli…
Dopo tutte queste vanterie, la cosa buffa è che non sappiamo di preciso chi fosse questo tizio: tra tutte le chiacchiere dell’iscrizione, per ironia della sorte, manca proprio il suo nome. Alcuni studiosi però lo identificano con Gneus Alleius Nigidius Maius che diverse scrtte sui muri di Pompei esaltano come prodigo organizzatore di giochi.
Morto nel 78 d.C., quindi un anno prima dell’eruzione del Vesuvio, era un liberto figlio di uno schiavo. Il personaggio ben rappresenta la classe dirigente degli ultimi decenni di vita della città, affermatosi in virtù dell’estrema mobilità sociale di quegli anni e grazie all’adozione da parte dell’importante famiglia degli Alleii.
Insomma, un nuovo ricco, che cercava di conquistare in ogni modo la rispettabilità sociale…
April 5, 2018
Ultime Cene
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Da Costantino in poi, le abitudini dei ricchi e nobili romani nel banchettare cambiano profondamente: il triclinium, noto per i tanti film di genere peplum, viene sostituito dallo stibadium, un grande divano a forma semicircolare disposto attorno al tavolo dei commensali.
Come testimoniano alcune celebri rappresentazioni, tra cui il mosaico della Piccola Caccia nella villa del Casale a Piazza Armerina e quello della villa del Tellaro in Sicilia, lo stibadium nasce inizialmente come struttura ampiamente effimera per il banchetto all’aperto, soprattutto in occasione di battute di caccia e di feste religiose. Era quindi una struttura relativamente leggera così da essere facilmente rimovibile e collocata in altri contesti, inizialmente costituita da un grande cuscino imbottito di foglie e in un secondo momento realizzata in legno.
Tuttavia, il fatto che forma ricurva dello stibadium avesse il vantaggio di lasciare libera la parte centrale della stanza per servire più comodamente il pranzo o per intrattenere gli ospiti con spettacoli di attori, musicisti e danzatori, ne facilita non solo la diffusione, ma la sua trasformazione da struttura transitoria a permanente, in muratura, come nella villa del IV secolo d.C. a Faragola, in Puglia o quello del Palatino, le cosiddette terme di Eliogabalo, in cui furono trovate le insegne imperiali di Massenzio
Ora, per le sue caratteristiche, come dire, teatrali, lo stibadium enfatizzava il ruolo dei commensali, ponendoli a un livello superiore rispetto al resto della sala, in modo da concentrare su di loro il ruolo degli altri presenti, fu adottato dall’etichetta imperiale tardo antica, basata sull’esaltazione del ruolo dell’imperatore.
Ne da testimonianza il buon Sidonio Apollinare che in una lettera, scritta a Lione nel 469 , descrive l’invito ad Arles nel 461 a giacere a mensa su di uno stibadium a fianco dell’imperatore Maggiorano ed ai più alti funzionari dell’impero secondo una rigida etichetta di corte che prescriveva ormai, non solo l’ordine dei posti (nei duo cornua, i due estremi, i personaggi più eminenti e via via in ordine antiorario decrescente tutti gli altri dignitari), ma anche il succedersi della conversazione. Ovviamente, l’ultimo posto, quello più iellato fu assegnato al poeta, che finì per trovarsi nello scomodo giaciglio sul fianco sinistro dell’imperatore
Tutto ciò, basandosi sulla relazione così come l’imperatore è l’immagine di Dio in Terra, Dio è l’Imperatore del Cielo, entrambi garanti dell’armonia e dell’ordine cosmico, passò nell’arte paleocristiana. Un esempio lo abbiamo nel mosaico di san Apollinare Nuovo dedicato all’Ultima cena.
Cristo occupa il posto d’onore, quello dell’imperatore, in margine dextro; a Giuda, viene riservato l’estremo posto a sinistra, il cornu sinistro, quello dedicato nell’etichetta imperiale all’ospite d’onore, al console. Questo perché entrambi sono i protagonisti principali del dramma della Passione e della Redenzione,
Gli Apostoli tra l’altro, incerti su chi guardare e con chi conversare, seguono lo stesso protocollo descritto da Sidonio Apollinare, discendente in ordine d’importanza da sinistra verso destra, con il posto meno importante assegnato a Pietro, il servo dei servi di Dio
Curioso è il fatto che sul tavolo assieme al pane compaiono i pesci, invece dei rituali calici di vino, poiché anche il pesce era considerato un mezzo di nutrimento spirituale e simbolo del banchetto eucaristico. Inoltre questo era simbolo simbolo di Cristo, perché deriva dal termine greco Ichthýs, ”pesce”, considerato come l’acrostico delle parole , Iēsous Christos, Theou Yios, Sōtēr, cioè Gesù Cristo figlio di Dio e Salvatore.
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Questa invenzione iconografica ravennate si diffuse rapidamente, grazie al fatto che fu riprodotta sia nelle coperture degli evangelari, come il Dittico delle Cinque Parti, conservato nel Tesoro del Duomo di Milano e nei codici porpurei contenenti le Sacre Scritture, così denominati per la pergamena tinta in porpora in cui venivano scritte, il più famoso dei quali è il Codex purpureus rossanensis, oggetti di lusso che facevano alquanto irritare il buon San Girolamo, il quale ribadiva, parlando dei ricchi della sua epoca
Si tinge la pergamena di colore purpureo, si tracciano le lettere con oro fuso, si rivestono i libri di gemme, ma nudo, davanti alle loro porte il Cristo muore
Invenzione iconografica ripresa poi dall’arte bizantina, che, in virtù della sua caratteristica conservatrice, per secoli lo ripropose come modello figurativo, pur perdendone con il tempo il ricordo dell’iniziale simbolismo
April 4, 2018
Un brindisi all’Hula Hoop
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Anni fa conobbi un mio collega, Moshe, ebreo per caso: nel senso, che pur essendo cresciuto in una famiglia di quella religione, anche molto credente, un paio di volte mi parlò di un cugino rabbino, era ancor meno praticante di quanto lo sia il sottoscritto con il cattolicesimo.
Per lui, l’ebraismo fungeva più da guida etica, che da religione: amante dell’umorismo yiddish e più per gola, era senza dubbio un eccelso cuoco, che per convinzione, della cucina kosher.
Una volta, in trasferta, ebbe la notizia della morte di un suo vecchio amico, che era emigrato in Israele. Non potendo andare ai suoi funerali, si mise in testa di organizzare un Minian, un gruppo di dieci maschi ebrei che abbiano compiuto la maggiore età religiosa dei 13 anni, età a partire dalla quale hanno il dovere di osservare i precetti della Torah, per recitare un Kaddish, la preghiera per onorare un defunto.
Non starò a raccontare tutte le disavventure occerse, che non sfigurerebbero in un romanzo di Singer, per riuscire in tale impresa… L’importante è sapere che, in maniera alquanto rocambolesca, alla fine questa preghiera fu recitata secondo tutti i canoni del caso.
Dopo qualche giorno un altro collega, che non era certo il massimo della finezza e dell’educazione, se ne uscì con un
“Ma chi te l’ha fatto fare… Neppure ci credi, a queste cose”
Moshe, invece di prenderlo a randellate in capo, e avrebbe fatto assai bene, se ne uscì con un:
“I funerali servono più ai vivi che ai morti… Permettono di rappacificarci con il Passato, coltivare il ricordo nel Presente e gettare i semi del Futuro”
Questa frase mi è torna in mente un paio di giorni fa, quando, con un’amica artista, chiacchieravamo della chiusura dell’Hula Hoop.
Per chi non lo conoscesse, l’Hula Hoop era un luogo simbolo dell’underground romano, il Cabaret Voltaire capitolino, uno spazio di avanguardia e innovazione, in cui tanti linguaggi, tra loro differenti, dialogavano, fondendosi in un’armonia superiore.
E soprattutto, è stato un pezzo della mia vita: ho conosciuto tanti amici, presentato libri, collaborato a mostre, scritto manifesti culturali, ascoltato ottima musica e alzato troppo il gomito.
Per fare un esempio, senza l’Hula Hoop, tutti i progetti di street art dell’Esquilino non sarebbero mai nati… Ora che la sua stagione è conclusa, è giusto provare un poco di malinconia e di rimpianto, ma soprattutto ringraziare Gerlanda e Betta, per tutto ciò che hanno fatto in questi anni, augurando loro ogni bene e fortuna: tutti noi, a cominciare dal sottoscritto, sono in debito con loro.
E soprattutto, lavorare affinché la grande lezione di tolleranza e creatività di quello spazio non vada perdute… Che l’ironia, la sperimentazione, l’utopia che lo popolavano si diffondano per Roma, scuotendola dal conformismo e apatia culturale in cui la città sta lentamente sfiorendo…
Alessio Brugnoli's Blog

