Lisa Signorile's Blog
January 1, 2024
La seconda tempesta: le conseguenze inaspettate delle eradicazioni
La prima tempesta ti butta giu' la casa. Nessuno si aspetta che la seconda tempesta te la ricostruisca com'era.
Eppure ci aspettiamo sempre che i nostri maldestri interventi di restaurazione degli ecosistemi li riportino allo stato ideale di equilibri statici che esistono solo nella nostra mente.
Per fare un esempio, ci aspettiamo che la rimozione dall'arcipelago Juan Fernandez in Cile di ratti neri, topi, passeri, capre, coati, gatti, piccioni e conigli, e magari anche qualche pianta, ma lasciando naturalmente umani, cani e bovini liberi nella foresta, ci riporti a una situazione "piu' vicina" all'idealizzato stato naturale. Anche senza rimuoverli tutti insieme ( vedi Glen et al, 2013).
Ma e' davvero cosi? Posso inserire una specie e poi rimuoverla a piacimento, aspettandomi che la seconda tempesta annulli gli effetti della prima, o perlomeno li minimizzi? E se questo fosse vero a Juan Fernandez, sarebbe altrettanto vero alle Galapagos, o a Lanzarote? Non era la biogeografia la scienza del qui e ora, che osservava sistemi caotici in cui la farfalla che batte le ali a Shanghai puo' causare una tempesta in California? E quali studi di questi ecosistemi caotici, matematicamente caotici, vengono effettuati prima di dare il via alla seconda tempesta della rimozione? Giusto quando, dopo la distruzione della casa, si stava terminando la costruzione della capanna di tronchi che almeno ci avrebbe offerto riparo, viene distrutta anche la capanna di tronchi. Nella mia esperienza, gli studi di previsione delle conseguenze delle eradicazioni sono unicorni, e se ci sono assomigliano molto piu' a rinoceronti che a cavalli, per via delle conoscenze sempre incomplete degli ecosistemi. Ma quasi sempre si mette mano alla carabina, o alla trappola, o al veleno, senza neanche porsi il problema.
Questa superficialita' avviene malgrado le eradicazioni e i contenimenti delle specie alloctone costino milioni di dollari. Secondo Glen e coautori la "gestione" (non la rimozione) dalle tre isole di Juan Fernandez delle specie citate (quelle che non ci piacciono, ma poi lasciando polli, bovini etc) e delle piante invasive richiederebbe un programma di 8 anni del costo di 15-20 milioni di dollari, una stima di 10 anni fa, piu' costi addizionali per il monitoraggio negli anni successivi. Per la gestione degli alloctoni dalle Galapagos furono stanziati 43 milioni di dollari da parte di vari enti donatori per un lavoro di sei anni. Furono stabiliti 30 progetti pilota per l'eradicazione di 26 piante alloctone, che occupavano areali piccolissimi e non erano ancora diventate invasive, si limitavano a vegetare in giardini e fattorie. Ebbene, dopo sei anni, dei 30 progetti solo 4 avevano avuto successo nell'eradicare alloctoni confinati in meno di un ettaro. Gli altri 26 furono un insuccesso e uno spreco di 43 milioni di dollari, per varie ragioni (per i dettagli, vedi Gardener et al, 2010).
Per ovvie ragioni, e' molto piu' facile trovare articoli che descrivono il successo dell'eradicazione di un vertebrato che articoli che ne descrivono il fallimento, o anche che analizzino la struttura dell'intero ecosistema prima e dopo gli interventi di eradicazione: bisogna rendere conto agli stakeholders che hanno investito milioni a pioggia e dirgli quanto sia stato buono il loro investimento, se si vuole sperare in finanziamenti futuri. Quando quindi a distanza di 10, 20 o 50 anni da una eradicazione si nota qualcosa che non va, ci si limita a chiedere altri soldi per un ulteriore "risanamento" dell'ambiente, difficilmente soffermandosi su cosa si e' sbagliato la prima volta. Non che questo non avvenga mai, la scienza e' quella cosa per cui prima o poi qualcuno si pone domande. Ma nella logica devastante del "publish or perish" che regola la ricerca nel mondo occidentale, mettere in luce i propri fallimenti e' suicida, quindi si trovano centinaia di articoli su quanto sia meraviglioso l'effetto a breve termine di questa o quella eradicazione, e molto poco sugli errori e sui fallimenti. Il che, se ci pensiamo, e' un grosso problema.
Un altro aspetto interessante di questa logica e' che si tende a eradicare i vertebrati, specie quelli antipatici come roditori e gatti, o quelli grossi come gli ungulati, e molto meno le piante o gli invertebrati: gli stakeholders investono in cose visibili e che possono capire, e gli scienziati lavorano principalmente su specie iconiche, sempre per la logica del publish or perish. Il problema e' che non e' detto che il problema siano i gatti o i roditori e non magari qualche fungo unicellulare come quello che ha distrutto interamente gli olmi in Europa, ma il fungo unicellulare non fa granche' notizia, e neanche gli olmi, perche' non sono una specie da reddito come gli ulivi con la Xylella.
Sempre secondo l'illuminante lavoro di Glen e coautori, sino al 2013 ci sono state 1224 eradicazioni di specie invasive di successo su 808 isole. Di queste, 1068 sono state di vertebrati, su 749 isole. Di queste 1068 eradicazioni, 841 (quasi l'80%) sono avvenute su isole disabitate, dove l'opinione della popolazione non aveva un peso, e quasi tutte hanno riguardato una sola specie, quasi tutte (1043, il 98%) riguardanti mammiferi, solo 24 di uccelli e una soltanto di un rettile.
D'altro canto, nel 2013 Glen registrava solo 81 eradicazioni di invertebrati da 50 isole, quasi tutte su isole abitate, dove magari gli insetti danno fastidio alle persone e ai loro raccolti. Ancora meno le eradicazioni di piante, 75 su 19 isole, quasi tutte disabitate, perche' diciamocelo, l'ailanto mica e' un problema.
Sia chiaro, spesso le eradicazioni sono l'unica via percorribile sulle isole, e spesso l'eradicazione degli alloctoni da queste isole permette di aiutare specie a rischio, e' indubbio. Quello che si sta dicendo, e lo ribadisco nel caso non sia chiaro, e' che non vengono monitorati gli effetti a medio-lungo termine su interi ecosistemi, e spesso si parte in quarta a eradicare senza uno studio predittivo che guardi l'ecosistema nella sua globalita'. Di conseguenza, quelli che a breve termine ci sembrano successi potrebbero avere effetti a lungo termine del tutto imprevisti, di cui bisognerebbe essere consapevoli. Le specie non sono carte da gioco per cui ne scarti una e la rimpiazzi con un'altra. Sono rotelline nell'ingranaggio piu' complesso del pianeta e ogni manomissione rischia di ingripparlo.
E ora passiamo a esaminare qualche esempio specifico
CASO DI STUDIO N. 1: LA ISLA ISABEL
Sulla Isla Isabel, al largo delle coste del Messico, c'erano gatti e ratti, come su molte isole, e colonie di nove specie di uccelli marini, tra cui le sule dai piedi azzurri, e un serpente nativo dell'isola, Lampropeltis polyzona, uno dei sette rettili indigeni. Nel 1996 la Universidad Nacional Autonoma de Mexico decise di rimuovere tutti i gatti dall'isola, per vedere se diminuiva la predazione sulle sterne fuligginose, piccoli uccelli marini che nidificano a terra.
Dopo la eradicazione dei gatti tutto filo' liscio per qualche anno, la mortalita' delle sterne fuligginose era diminuita dell'80% nei successivi sette anni (vedi Rodrigues et al, 2006 per i dettagli) e la mortalita' dei pulcini di sula si era ridotta dal 5 al 2%. Bisogna anche dire pero' che su queste isole del Pacifico la presenza di El Nino e' determinante e causa enormi fluttuazioni nelle popolazioni, quindi sarebbe stato interessante sovrapporre l'andamento della popolazione di sterne in quel periodo su Isabel e su altre isole adiacenti. Lo scenario, tuttavia, appariva idilliaco, ma non tutto ando' come previsto: il numero di ratti aumento' a dismisura a dispetto di quel che pensavano Rodrigues e coautori, che non riuscirono a eradicare i ratti con il loro progetto da 17000 dollari (nel 1996).
Nel 2009, a 14 anni dall'avvistamento dell'ultimo gatto, furono quindi sterminati i ratti, la cui popolazione stava andando fuori controllo senza i gatti, ma la cosa si rivelo' un madornale errore. Si era infatti creata una catena trofica a cui nessuno aveva pensato: i gatti predavano i ratti; i ratti predavano i serpenti; i serpenti predavano i pulcini di sula; le sule subivano.
Eliminati i ratti la popolazione di serpenti, malgrado fossero creature lente e ipogee, aumento' a dismisura nei successivi 10 anni e la loro predazione sui pulcini di sula dai piedi azzurra ebbe un incremento di 11 volte! Ora si assiste a questo scenario terribile in cui 200 serpenti, alla schiusa delle uova, si ammassano in un ettaro e fanno fuori quasi tutti i pulcini di sula, provocando un crollo, e forse l'estinzione locale, della popolazione di sule. I genitori non sembrano percepire i serpenti come un pericolo e non intervengono. Non trovo dati sull'andamento della popolazione di sterne fuligginose ma, considerando che erano una preda dei serpenti anche prima, non vedo perche' non dovrebbero essere colpite anche loro, ma non se ne parla.
I serpenti sono nativi, per quello che se ne sa, e non si possono toccare. Sappiamo pochissimo della fauna originale dell'isola, il capitano Petit-Thouars nel 1836 la descrisse come arida e sterile, anche considerando che non vi e' una fonte di acqua dolce. Non sappiamo se ci fossero uccelli. Le prede abituali dei Lampropeltis polyzona sono lucertole e pulcini di uccelli marini come le sterne fuligginose, e i loro predatori altri uccelli. Quello che sappiamo e' che un intervento in buona fede ma pianificato ad mentula felis si e' rivelato un disastro per le colonie di alcuni uccelli marini, quelle che in origine si voleva salvare dai gatti, perche' e' un fatto noto che le predazioni da parte dei serpenti sui nidi e' una delle principali cause di insuccesso nella riproduzione degli uccelli in ecosistemi fragili.
CASO DI STUDIO N. 2: L' ISOLA MACQUARIE
L'isola di Macquarie e' una distesa brulla di 35 x 5 km tra la Nuova Zelanda e il Polo sud. Il suo clima e' cosi' infelice che persino gli inglesi ebbero pieta' e desistettero dal farvi una colonia penale. Fu scoperta nel 1810 dall'australiano Hasselborough, che gia' vi trovo' una nave naufragata. Tra il 1810 e il 1919 si contano altri 12 naufragi sull'isola, piu' naturalmente tutti gli sbarchi dei balenieri (144 censiti in quel periodo, ma sicuramente di piu'), che fecero letteralmente strage di pinguini (usati come fonte di olio), otarie e leoni marini. Ogni naufragio e presumibilmente molti degli sbarchi incrementavano la popolazione di ratti e topi, abbandonati come dei Robinson Crusoe murini su questa isola brulla e remota. A ruota dietro ratti e topi arrivarono naturalmente anche i gatti delle navi naufragate. Siccome di una buona (o cattiva) cosa non ce n'e' mai abbastanza, nel 1880 i balenieri lasciarono sull'isola, come fonte di cibo fresco durante gli sbarchi, anche i conigli e un grosso rallide neozelandese chiamato weka, incapace di volare ma onnivoro e in grado di predare.
L'esploratore russo Fabian Wottlieb von Bellingshousen, al servizio dello Zar Alessandro I di Russia, riporta che dal 1815 al 1820 l'isola pullulava di cani rinselvatichiti, presumibilmente lasciati li dai balenieri e usati per cacciare gli uccelli marini. Dopo il 1820 tuttavia non se ne fa piu' menzione, probabilmente morirono tutti di fame e di freddo dopo aver divorato l'ultimo albatross nidificante, ma tanto dei danni ecologici fatti dai cani non se ne parla mai.
I gatti invece sembrano aver coesistito pacificamente con due specie endemiche di uccelli, il rallide di Macquarie, Gallirallus macquariensis, e il parrocchetto di Macquarie, Cyanoramphus erythrotis. Sappiamo che la coesistenza era pacifica perche', quando nel 1877 la goletta Bencleug naufrago' su Macquarie e l'equipaggio dovette soggiornarvi per quattro mesi, l'armatore della goletta Inches Thomson scrisse "sparavamo ai parrocchetti e occasionalmente riuscivamo a farli fuori con le pietre... sembrava essercene un grande numero" (riportato da R.H Taylor, 1979). Sappiamo anche che Bellingshousen nel 1820 ne porto' una ventina in Russia come esemplari da museo e che nel 1880 J. H. Scott li descriveva come numerosi nel suo saggio su Macquarie. Tuttavia nel 1895 i parrocchetti erano completamente estinti, e cosi pure i rallidi incapaci di volare. Cosa era cambiato? Era successo che nel 1872 i marinai avevano introdotto i weka e nel 1879 i conigli. I gatti sino ad allora erano stati decisamente scarsi e non vengono neanche riportati nelle descrizioni della fauna dell'isola, ma l'arrivo dei conigli cambio' tutto: nel 1884, cinque anni dopo la loro introduzione, erano gia' ovunque. Tanti conigli significa tanta pappa per gatti e weka e anche queste due specie aumentarono esponenzialmente, al punto che erano cosi numerosi da rigirarsi contro i rallidi e i parrocchetti nativi. I conigli nel frattempo consumavano le piante native e per il voltare del secolo le popolazioni di conigli, gatti e weka si erano ridimensionate, perche' meno cibo per i conigli significava meno prede per i predatori. I ratti e i topi dei primi naufragi erano probabilmente stati tutti predati dai gatti prima dell'arrivo dei conigli, perche' non ve n'e' piu' menzione sino al 1890, quando fecero ritorno i topi prima e poi, dopo il 1900, i ratti.
Tra il 1973 e il 1975 Jones (1977) riporta che i gatti mangiavano prevalentemente conigli: resti di coniglietti sotto i 600 grammi erano trovati nelle feci dell'82% dei gatti. Secondariamente i gatti si nutrivano delle procellarie Pachyptila desolata o prione antartico, e Pterodroma lessonii o petrello testabianca. In minor misura mangiavano topi, ratti e weka e se proprio non c'era altro agivano da spazzini mangiando i resti di leoni marini e pinguini morti per altre cause. Le procellarie scavano tane, che in qualche modo facilitavano la vita ai gatti, mentre questi non toccavano nessuno degli uccelli che nidificavano per terra come albatross, stercorari, pinguini o gabbiani.
Tuttavia la cattiva fama dei gatti e' sempre li a far danno. Jones nel 1977 stimava la presenza di 250-500 gatti che mangiavano 60000 uccelli l'anno. Ammettendo 500 gatti, questo fa un uccello ogni 3 giorni a gatto, che non e' consistente col suo stesso dato di gatti che mangiano prevalentemente conigli. In ogni modo, siccome i gatti sono brutti, sporchi e cattivi, nel complicato scenario sopra descritto cosa si fa? Si decide di eradicare solo il top predator della catena alimentare, lasciando tutti gli altri: l'eradicazione dei gatti comincio' nel 1974 e termino' nel 2001. Non ci vuole un premio nobel in ecologia, seppure esistesse, per capire che se togli i gatti aumentano topi, ratti e conigli. Una analisi di questa decisione azzardata fu realizzata da Bergstrom e collaboratori (2009), e successivamente attaccata da altri ricercatori (Doeding et al, 2009), perche' chi non tocca i gatti muore; ma Bergostrom (2009, bis) gli ha risposto per le rime. Il dibattito e' molto interessante, perche' ci parla dei metodi della scienza. Per controllare i conigli, quindi, intorno al 1980 si introdusse il virus della mixomatosi che sappiamo bene che controlla le popolazioni ma non le eradica, perche' ci sono sempre individui resistenti. Ai weka invece si sparo' sino alla loro estinzione, nel 1989. Senza gatti, ridotti gia' al lumicino, e senza weka, ovviamente i conigli aumentarono dal 1990 in poi e gia' intorno al 2000 erano cosi tanti che ci si pose il problema della scomparsa delle specie vegetali endemiche, senza contare che la distruzione della vegetazione da parte dei conigli provocava crolli delle falesie, tenute insieme dalle radici, per esempio quella della baia di Lusitania, che ha distrutto un importante sito riproduttivo di pinguini.
La scomparsa dei predatori aveva anche altre implicazioni: topi e ratti, al solito, erano aumentati a dismisura e i ratti avevano cominciato a predare i pulcini delle procellarie e mangiare i semi delle piante, mentre i topi predavano invertebrati.
Alla fine si risolse per una eradicazione congiunta di conigli, ratti e topi. L'operazione, al "modesto" costo di 24.5 milioni di dollari australiani, ebbe successo, ma anche li ci furono conseguenze. La popolazione di ossifraghe (Macronectes giganteus) crollo' perche' gli uccelli mangiavano i bocconi avvelenati intesi per conigli e roditori. La popolazione degli stercorari (Stercorarius antarcticus) pure crollo' perche' gli si nutrivano di conigli, senza contare quelli uccisi dai bocconi avvelenati. Se la popolazione di ossifraghe sembra essersi ripresa dall'avvelenamento, quella di stercorari no, e mostra anche un dimezzato successo nelle nidificazioni, poiche' non c'e' piu' cibo (leggasi conigli) per nutrire i piccoli.
La vegetazione tuttavia sembra in ripresa. Ci si chiede, tuttavia, se la composizione vegetale sta cambiando, ora che ci sono i cambiamenti climatici rispetto a prima delle introduzioni degli alloctoni, e quanto ora che sono stati eradicati i mammiferi le associazioni vegetali assomiglieranno a quelle precedenti alla scoperta dell'isola. Perche' c'e' poco da fare, l'ecosistema di Macquarie e' stato irrimediabilmente danneggiato, e non dai gatti o dai conigli, ma dagli esseri umani.
Referenze
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Gardener, M. R., Atkinson, R., & Rentería, J. L. (2010). Eradications and people: lessons from the plant eradication program in Galapagos. Restoration Ecology, 18(1), 20-29.
Ortega, S., Rodríguez, C., Mendoza-Hernández, B., & Drummond, H. (2021). How removal of cats and rats from an island allowed a native predator to threaten a native bird. Biological Invasions, 23, 2749-2761.
Rodríguez, C., Torres, R., & Drummond, H. (2006). Eradicating introduced mammals from a forested tropical island. Biological Conservation, 130(1), 98-105.
Taylor, R. H. (1979). How the Macquarie Island parakeet became extinct. New Zealand Journal of Ecology, 42-45.
Jones, E. (1977). Ecology of the feral cat, Felis catus (L.),(Carnivora: Felidae) on Macquarie Island. Wildlife Research, 4(3), 249-262.
Springer, K. (2011). Planning processes for eradication of multiple pest species on Macquarie Island–an Australian case study. Island invasives: eradication and management. IUCN, Gland, Switzerland, 228-232.
Bergstrom, D. M., Lucieer, A., Kiefer, K., Wasley, J., Belbin, L., Pedersen, T. K., & Chown, S. L. (2009). Indirect effects of invasive species removal devastate World Heritage Island. Journal of Applied Ecology, 46(1), 73-81.
Dowding, J.E., Murphy, E.C., Springer, K., Peacock, A.J. & Krebs, C.J. (2009) Cats, rabbits, Myxoma virus, and vegetation on Macquarie Island: a comment on Bergstrom et al. (2009). Journal of Applied Ecology, 46, 1129–1132.
Bergstrom, D. M., Lucieer, A., Kiefer, K., Wasley, J., Belbin, L., Pedersen, T. K., & Chown, S. L. (2009, bis). Management implications of the Macquarie Island trophic cascade revisited: a reply to Dowding et al.(2009). Journal of Applied Ecology, 46(5), 1133-1136.
Travers, T., Lea, M. A., Alderman, R., Terauds, A., & Shaw, J. (2021). Bottom‐up effect of eradications: The unintended consequences for top‐order predators when eradicating invasive prey. Journal of Applied Ecology, 58(4), 801-811.
August 23, 2023
I machi del Cile, l’identita’ del se e le caselle dei biologi
Una delle sfide che i biologi si trovano quotidianamente a fronteggiare e’ l’identificazione del sesso di un individuo, animale, pianta o fungo che sia. Certo le caselle maschio/femmina fanno comodo, e il sesso cromosomico XX/XY si conforma perfettamente con la visione binaria della societa’ occidentale in cui i maschi sono maschi, le femmine sono femmine, e le cose nel mezzo sono un errore sperimentale. Semplice, comodo, etichettabile e decisamente irreale.
I problemi con le caselle cominciano ad arrivare coi casi di determinazione non cromosomica del sesso, per esempio quando si e’ maschi o femmine in base alla temperatura di sviluppo dell’uovo, come nel caso degli alligatori. Questo ci fa capire, a noi biologi, che il sesso di appartenenza non e’ predeterminato e scolpito nella roccia, ma puo’ essere influenzato dall’ambiente in fase embrionale; infatti, in base a studi recenti, sappiamo che la correlazione tra ambiente di sviluppo embrionale, determinazione del sesso, identita’ di genere e preferenza sessuale esiste e si applica anche agli umani.
Nel caso di Bonellia viridis, un velenosissimo verme marino, se la larva tocca il suolo diventa femmina, se tocca la proboscide velenosa di una femmina diventa un minuscolo maschio parassita, se il contatto e’ breve diventa un individuo intersesso. Qui potete saperne di piu’. Poi ci sono tutti i casi di ermafroditismo, in cui un individuo ha allo stesso tempo sia i testicoli che le ovaie, come le lumache, terribili creature che fanno tremare il senatore Pillon nelle notti buie. Poi ci sono gli ermafroditi sequenziali, che prima sono maschi e poi femmine, come i pesci pagliaccio, o altri che prima sono femmine e poi maschi, come le donzelle, quei pesci colorati che finiscono spesso nelle zuppe. Poi ci sono animali come i triops che possono avere popolazioni maschio/femmina, ermafrodita/femmina e maschio/ermafrodita. Poi ci sono quelle creature che attraversano una fase di riproduzione asessuata, con un individuo apposito, che si alterna a individui sessuati maschi e femmine. Poi ci sono creature che sono solo femmina da milioni di anni, come i rotiferi bdelloidei, e fanno sesso necrofilo, cioe’ prendono pezzettini di DNA da individui morti (il terribile incubo delle tragiche notti di luna piena di Pillon). Poi ci sono lucertole lesbiche che fanno le uova solo dopo sesso omosessuale, e non esistono maschi.
Per farla breve, se sei un biologo, lo sai, o dovresti saperlo, che quelle caselline maschio~femmina sono solo questione di lana caprina, perche’ nulla in biologia e’ scolpito nella roccia, la natura e’ molto piu’ variabile di quello che Orazio, Clarabella, il generale Vannacci e la loro filosofia riescono a immaginare. Se sei un antropologo culturale invece le caselline sembrano essere un po’ piu’ marcate, perche’ provieni da un background differente in cui il ruolo dell’uomo e della donna nella societa’ e’ proprio uno degli oggetti dei tuoi studi, quindi quelle caselline devi marcarle.
D’altro canto Stephen Murray e Will Roscoe, nel loro libro Boy-Wives and Female Husbands sull’omosessualita’ in Africa, sottolineano un aspetto importante, ovvero che di omosessualita’ in Africa non si puo’ parlare perche’ gli antropologi rispondono a governi profondamente omofobi: “Infatti, come sottolineato da Sally Moore, gli antropologi contemporanei non sono meno preoccupati di offendere i governi neri sotto la cui ombra lavorano, di quanto lo fossero le generazioni precedenti sotto i regimi coloniali bianchi. Date le attitudini apertamente omofobe e le politiche di alcuni governi Africani non sorprende che pochi antropologi abbiano fatto della sessualita’ africana, non parliamo dell’omosessualita’, il loro oggetto di studio”.
In effetti esistono argomenti tabu’ anche in zoologia, non solo in antropologia, ma e’ piu’ facile superarli, per ovvie ragioni. Per pubblicare la breve relazione sulle turpitudini sessuali dei pinguini di Adelie scritta da George Murray Levick c’e’ voluto un secolo di lotte sociali, battaglie ed emancipazioni culturali, ma ora voi potete leggerla qui comodamente da casa. Per le persone e’ diverso, e soprattutto e’ molto piu’ complicato. In Africa si arriva al punto che di disforia di genere non si parla, l’omosessualita’ e’ un crimine e chi ne parla, come Murray e Roscoe, lo fanno inquadrando la cosa sotto un’ottica meramente occidentale, in qualche modo usando le caselline che la cultura da cui scrivono, quella americana, impone, ma che non sempre descrive adeguatamente le situazioni e gli stati dell’animo.
Fermo restando quindi che in generale nella specie Homo sapiens l’identificazione nel ruolo maschio/femmina e le preferenze sessuali sono molto piu’ complesse e sfumate di quanto qualsiasi Borrelia viridis o pesce pagliaccio possano mai sognare, che sono ubiquitarie nello spazio planetario e nel tempo dal Pleistocene in poi e che sono poco studiate, l’occhio del biologo si incuriosisce laddove ci sono evidenze che si possa uscire culturalmente dalle caselline, applicando definizioni diverse da quelle a cui siamo abituati dalla nostra cultura patriarcale dell’identita’ di genere.
Un caso di studio perfetto e’ rappresentato dai machi, i leader religiosi del popolo Mapuche del Cile, un tempo chiamati araucani.
I Mapuche sono una popolazione amerinda molto interessante, in quanto non sono imparentati ne’ geneticamente ne’ linguisticamente con nessuna popolazione circostante, per esempio quelle della Patagonia. Vivono prevalentemente nel Cile centro-meridionale, dalla valle dell’Aconcagua, a nord di Santiago, sino all’isola di Chiloe’, con espansioni sino all’Argentina sud-occidentale e parte della Patagonia. Non si sa bene da quali popolazioni discendano, anche se il DNA mitocondriale ipotizza che derivino da popolazioni amazzoniche, e ci sono evidenze paleontologiche di contatti con popoli polinesiani. La parte interessante pero’ e’ che hanno sempre mantenuto la loro indipendenza culturale, non essendosi mai mescolati ne’ con le popolazioni circostanti, ne’ con gli Inca che cercarono di colonizzarli, ne’ con gli spagnoli che pure cercarono di colonizzarli. Con gli spagnoli hanno combattuto guerre feroci andate avanti a bassa intensita’ ininterrottamente dal XVI al XIX secolo. A fine ottocento purtroppo i governi cileno e argentino misero in atto una repressione feroce e violentissima per schiacciarli completamente, che si concluse con la fuga verso le citta’ dei superstiti, costretti a quel punto a vivere ai margini della societa’ spagnola. Al momento tuttavia i mapuche si stanno ribellando di nuovo, pretendendo dai governi cileno e argentino il diritto alla loro terra e diritti politici, considerando che in Cile sono il 9% della popolazione e se si ribellano gli vengono applicate le leggi dell’anti-terrorismo istituite da Pinochet. Sono quindi tra le poche popolazioni amerinde che non si sono mai fatte completamente schiacciare dalla colonizzazione occidentale ma, come vedremo, entro certi limiti.
Ogni gruppo mapuche ha due leader, uno politico, l’altro spirituale, e i leader spirituali vengono chiamati machi e costituiscono il focus del nostro caso di studio. Il dio della religione dei mapuche e’ uno e quadrino (sono ferma a trino, non so se quadrino sia una parola italiana, ma serve allo scopo). Il creatore, chiamato Nguenechen, possiede quattro manifestazioni contemporaneamente, quelle di un uomo anziano, di una donna anziana, di un uomo giovane e di una donna giovane. Chiaramente per avvicinarsi al creatore e mantenere il bilanciamento cosmico naturale bisogna comprenderne tutte e quattro le sue personalita’, a prescindere che lo sciamano sia giovane o vecchio, maschio o femmina. La cosmologia mapuche e’ complessa, prevede la presenza di spiriti buoni e cattivi tra i mortali e gli animali e da origine a una serie complessa di rituali, tra cui molti rituali di guarigione, connessi ad erbe con proprieta’ medicinali di cui i machi sono esperti conoscitori dopo un lungo apprendistato. Sino a qui niente che ci sia alieno, anche noi abbiamo un dio con tre manifestazioni, angeli, demoni e santi tra i mortali e condividiamo con loro persino il mito del diluvio. Loro mantengono i sacrifici animali a cui noi fortunatamente abbiamo rinunciato ma a parte quello ci sono molte similarita’. La differenza principale e’ che le manifestazioni del dio ebraico-cristiano sono tutte maschili, cosi’ come lo sono (nella tradizione, anche se in molte confessioni le cose hanno cominciato a cambiare nel secolo scorso) i sacerdoti, mentre quelle del dio dei mopuche sono allo stesso tempo maschili e femminili. La figura sciamanica e’ prevalentemente femminile ma ci sono anche alcuni uomini. Le donne, malgrado si possano sposare e avere figli, vengono tuttavia considerate mascolinizzate e non esattamente cis-etero, per usare un linguaggio e delle caselle che capiamo. Questo perche’ devono poter fare da tramite anche con le rappresentazioni maschili. Gli sciamani uomini invece sono “femminilizzati”, se mi si passa la brutta espressione, si vestono da donna durante le cerimonie (e a volte non solo durante le cerimonie), rimangono celibi e noi occidentali li definiremmo “queer”. La nostra definizione tuttavia non si applica fino in fondo in quanto non tutti gli uomini gay o gender fluid diventano machi, e quelli che non lo fanno tendono a rimanere closeted. I machi, uomini o donne che siano, aggiungono una dimensione spirituale alla loro (fluida) identita’ di genere che a noi e’ piuttosto difficile da comprendere. Per diventare machi si viene di solito selezionati sin da bambini e si deve effettuare un apprendistato che termina con una cerimonia di iniziazione, quindi non si diventa machi perche’ si e’ queer, ma piuttosto e’ vero il contrario, un machi deve diventare gender fluid per mantenere la comunione col divino. Il genere non deve dipendere piu’ dal sesso cromosomico, ma diventa ambiguo e connesso con la spiritualita’, una comunione con tutto lo spettro della natura maschile e femminile, una coesistenza con tutte le sfaccettature di genere.
Durante le cerimonie lo sciamano deve poter esplorare entrambe le identita’, maschile e femminile, perche’ le cose tutto intorno, dalle piante agli spiriti, hanno un genere che rimane fisso, e’ lo sciamano che deve poter entrare in comunione con lo spirito, con l’alloro, considerato femmina, o con l’albero di cannella, dai fiori e dall’essenza spirituale ermafrodita.
Purtroppo i machi, pur mantenendo un elevato status sociale, vengono visti con sospetto dalla societa’ mopuche che, vuoi o non vuoi, ha incorporato dalla cultura spagnola una profonda forma di omofobia e transfobia, quindi tutti i machi restano in disparte da una societa’ che gia’ vive ai margini della societa’ cilena e argentina, perche’ vengono classificati come “streghe” o “deviati”. D’altro canto, se un mopuche oggi, nel terzo millennio, ventunesimo secolo, sta male, o pensa che qualcuno gli abbia fatto la fattura, o ha bisogno della comunione col divino, o e’ quel periodo dell’anno in cui c’e’ una tradizionale festa religiosa, o ha bisogno di un consiglio su come comportarsi, o vuol sapere se entrare in guerra o no (col governo cileno), si rivolge al machi, e qui entrano in gioco le parrocchie. Ci sono persone che preferiscono i machi donne, perche’ le vedono piu’ empatiche e piu’ vicine a una dimensione naturale, e quindi pensano che per questo siano migliori. E ci sono invece altre persone che senza alcuna ombra di dubbio chiamano un machi uomo, quelli che vengono ostracizzati perche’ si vestono da donna, perche’ ritengono che un uomo abbia una forza maggiore e possa quindi effettuare i rituali con maggior persuasione.
I machi sono stati osservati e studiati per 15 anni dall’antropologa culturale peruviana Ana Mariella Bacigalupo, che ne ha descritto la religione, il misticismo e la sessualita’ in diversi libri, articoli e relazioni scientifiche, dimostrando come “le pratiche apparentemente cross-gender e il travestitismo dei machi non ricade sotto alcuna categorizzazione euro-americana di un “terzo genere”", criticando e sfidando il concetto di genere binario del mondo occidentale. La cultura cilena tuttavia da questo punto di vista e’ molto piu’ tollerante rispetto, per esempio, a quella di molte culture africane o del generale Vannacci, e per questo possiamo oggi apprezzare questi studi antropologici che ci parlano di approcci differenti alla fluidita’ di genere.
Possiamo per esempio comparare i machi con gli sciamani siberiani, che vestono e si comportano in modo molto simile, dai tamburi alle trance ipnotiche al “cambiamento di sesso per obbedire ai comandi degli spiriti” (Elliston, 1993). “Il travestitismo era comune tra gli sciamani in diverse culture siberiane. I cosiddetti ‘uomini soft’ a volte cambiavano il loro aspetto, vestiti e ornamenti. I loro attributi non erano armi ma aghi e raschietti. A volte c’era un cambiamento ormonale nel corpo. L’ ‘uomo soft’ perdeva il suo potere maschile, la leggerezza, la resistenza fisica e il coraggio; diventava indifeso, come una donna. Questi sciamani addirittura “sposavano” uomini. Questi specialisti “trasformati”erano molto abili nelle loro pratiche sciamaniche. A volte le sciamane donna si tagliavano i capelli, si cambiavano i vestiti e imparavano a usare lancia e fucile, ma questi casi erano rari”. (Mikhailovna, 2019, citando Bogoraz, 1939, traduzione mia).
Considerando l’attitudine transfoba e omofoba sovietica prima e russa dopo non abbiamo molte testimonianze antropologiche su questi sciamani siberiani, ma abbiamo invece molte testimonianze sui loro discendenti, gli sciamani dellle culture native del Nord America. Tra i nativi americani non c’era discriminazione delle persone intersex, anzi, venivano trattate con rispetto e le unioni tra persone dello stesso sesso erano perfettamente accettate. La cosa era cosi’ comune che i primi colonizzatori francesi diedero un nome a queste persone che oggi incaselleremmo come LGBTQ, li chiamavano berdache, dalla parola persiana “bardaj”, che significa amico intimo di sesso maschile, ma la parola ha oggi assunto un significato negativo e le nazioni dei nativi americani hanno deciso di optare per il termine “Two spirits”, due spiriti, in inglese, perche’ e’ la lingua comune a tutti. Nella generale cosmogonia dei nativi americani tutto cio’ che esiste viene dallo spirito, chi ne ha due e’ doppiamente benedetto, avendo sia lo spirito di un uomo che quello di una donna. Di conseguenza chi meglio di una persona con doppio spirito potrebbe essere il leader religioso della comunita’? Chiaramente non si forza lo sciamano in un terzo sesso per barrare una casellina, a ciascuno viene lasciata la propria sfaccettatura di androginia o femminilita’.
Chiaramente quando arrivarono prima gli spagnoli e poi inglesi e francesi, erano inorriditi da un simile comportamento e ben presto parti’ lo stigma sociale. Dal momento che i nativi non scrivevano la loro storia, ci dobbiamo basare sui memorandum degli esploratori europei, coi loro pregiudizi, per cui apparentemente questo rispetto per le persone due-spiriti sembra non generalizzato, a dispetto dell’evidenza che e’ diffuso dalla Siberia alle Ande.
Un esempio da manuale di questa attitudine nei resoconti degli europei ci viene dalla scoperta delle Hawaii ad opera del capitano inglese James Cook. Bisogna premettere che a bordo delle navi inglesi l’omosessualita’ era punita con la pena di morte, se le persone venivano colte sul fatto. La marina inglese, almeno sulla carta, non riusciva a concepire niente di piu’ ripugnante. Chiaramente come ci hanno insegnato l’ammiraglio Nelson e i tre pilastri “rum, sodomia e frusta” su cui secondo lui si reggeva la Royal Navy, come anche le sue relazioni apertamente bisessuali, tra il dire e il fare c’era di mezzo la natura umana (e il mare, anzi, l’oceano), e quindi molto spesso si guardava dall’altra parte. Ma gli ufficiali di Cook, nei loro giornali di bordo che sarebbero stati letti da tutti in patria, erano tenuti a mostrarsi scandalizzati. Breve antefatto: Durante il suo terzo viaggio alla scoperta del passaggio a nord-ovest, Cook scopri’ le isole Hawaii il 18 gennaio 1778. Le Hawaii erano abitate da una societa’ polinesiana piuttosto complessa, governata da una famiglia reale. Al suo sbarco a Waimea, isola di Kauai, Cook trovo’ ad attenderlo un attendente del re, e i rapporti coi nativi furono relativamente amichevoli. Al suo ritorno alle Hawaii l’anno dopo, tuttavia, Cook prese una serie di decisioni sbagliate che culminarono in una rissa durante la quale uno degli attendenti del re pugnalo a morte Cook per proteggere il sovrano.
Il punto nevralgico e’ che questi attendenti del re non erano solo consiglieri politici, ma erano anche sessualmente in intimita’ con lui. Gli inglesi non si capacitavano che il re, avendo mogli e concubine, trovasse il suo piacere anche nella compagnia di uomini, cosi intimi da assumere anche ruoli politici, al contrario di quello che accadeva per le mogli. Compagni uomini, detti aikane, non erano previsti solo per il sovrano, ma erano piuttosto diffusi e socialmente accettati, soprattutto tra gli uomini di alto rango. Purtroppo non abbiamo commenti diretti di James Cook, ma ritroviamo nei vari diari di bordo riferimenti agli aikane. Una menzione interessante e’ di pugno di James King, uno degli alti ufficiali che presero il comando della spedizione dopo la morte di Cook e che completo’ il diario ufficiale di bordo [Traduzione mia, da Morris, 1990]: “non apprendemmo nulla di soddisfacente relativamente ai loro matrimoni. Sappiamo che Terreeoboo [l'ortografia del nome del re, Kalani'opu'u, viene stravolta da tutti gli inglesi, N.d.A] ha una regina e una concubina… Di fatto questo popolo si piazza molto indietro rispetto alle isole Societa’ e alle isole Tonga, in quella massima prova di civilta’ che e’ la posizione e l’influenza delle donne; non solo vengono private del diritto di mangiare insieme al loro signore ma, e questo e’ anche piu’ frustrante, il cibo migliore e’ taboo. Ma cio’ che senza dubbio e’ la parte piu’ frustrante e’ che vengono private dell’affetto naturale dei loro mariti, conteso con l’altro sesso: gli uomini si degradano nei piu’ sporchi incontri e non abbiamo dubbi su cosa sia un aikane. Terreeoboo ne ha cinque, tutti uomini di grande rilievo, e tutti i capi ne hanno”. Veramente inconcepibile per un uomo del tardo 1700. Chissa’ che ne avrebbe pensato Jane Austen. La parte tragica e’ che dopo due secoli e mezzo ci sono persone, nella nostra societa’, che ancora la pensano cosi.
Se l’attribuzione del genere e’ sfumata e sfuggente nelle varie societa’ contemporanee del pianeta, e se queste sfumature sono pressoche’ ubiquitarie, resta da chiedersi se sia sempre stato cosi’. Chiaramente laddove non ci sono testimonianze dirette e’ molto piu’ difficile capire i significati pratici e simbolici in societa’ estinte, e c’e’ il solito problema del guardare civilta’ antiche attraverso le lenti e i filtri dei pregiudizi della societa’ da cui proviene l’archeologo, in assenza di qualcuno che possa confermare o contraddire. Non abbiamo dubbi sulla civilta’ ellenica, perche’ ci hanno lasciato testimonianze scritte, ma poi? Le sepolture possono aiutarci. In Europa e in Siberia, secondo quanto ci racconta Mikhailovna (2019), spesso le sepolture neolitiche contenevano attributi maschili o femminili. Nelle tombe degli uomini c’erano asce di pietra e strumenti di selce, in quelle delle donne vasellame e ornamenti. Ci sono tombe, tuttavia, dove la situazione cambia. Traduco dall’inglese: “Vari materiali furono trovati nel cimitero sciamanico femminile di Ekven. E’ uno dei siti importanti della vecchia cultura del mare di Bering, esistita dal 400 a.C. al 1300 d.C circa. Nella tomba 145, il corpo [femminile] era circondato da grandi ossa di balena, era simbolicamente dentro la balena. Lo scheletro giaceva faccia in giu’. La ricca collezione sepolcrale e’ associata con l’attivita’ della donna e le pratiche sacre (raschietti, mestoli, coltelli, una catena di avorio di tricheco, occhiali di legno da danza, manici di tamburo e una maschera antropomorfica di legno), ma anche con attivita’ maschili, come evidenziato da diversi strumenti tra cui punte di lancia e arpioni. Quindi la donna aveva anche le funzioni di uno sciamano uomo”.
Sepolture del genere, con attributi misti maschili e femminili, sonos tate trovate anche in altri luoghi, per esempio nel cimitero reale del colle di Marlik, in Iran, non distante da Teheran, lasciatoci da una civilta’ indoeuropea vissuta circa 3000 anni fa e interessante perche’ tutte le statuine hanno sei dita. I primi scavi furono condotti intorno al 1960 dal Dr. Ezat O. Negahban. L’attribuzione del sesso dei resti trovati nelle tombe si assume sia corretta, ma risulta complicata da un cattivo stato di conservazione dovuto all’umidita’ del luogo. L’archeologo attribui’ a donne le tombe contenenti grandi quantita’ di gioielli e poche armi, a uomini quelle con molte armi e pochi gioielli. Circa meta’ delle tombe non contiene pero’ alcun oggetto, segno che vi veniva sepolto anche qualche povero, magari la servitu’. I diademi in oro o in bronzo sono tipici delle donne, come confermato anche da altri cimiteri, come quello reale di Ur. Tuttavia 3 dei 14 diademi trovati sono stati trovati in tombe il cui occupante risulterebbe di sesso maschile. Una di queste tombe contiene eguali proporzioni di gioielli e armi, e un pendente col sole, anche questo un attributo femminile. Questa e altre sono solo prove indiziarie ovviamente, ma laddove si riesce a trovare un motivo ricorrente e paralleli con altre civilta’, ecco che la faccenda si fa interessante.

Rappresentazione grafica dell'incisione delle grotte dell'Addaura.Da: Mannino G. 2012, I graffiti parietali preistorici della Grotta dell’Addaura: la scoperta e nuove acquisizioni, in Atti della XLI Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, pag 418
Infine, giusto per andare ancora piu’ indietro nel tempo, cosa pensare dell’incisione nelle grotte dell’Addaura, in Sicilia? Tra i vari resti di importanza archeologica e paleontologica, c’e’ una incisione paleolitica datata 11.000 anni fa. La scena rappresenta “dieci figure maschili ed una femminile. Le figure maschili sono tutte a corpo nudo, in atto di danzare o stanti, con la massa muscolare ben pronunciata che mette in risalto glutei, gambe e polpacci, mentre mancano del tutto le mani ed i piedi; di queste otto con la testa ricoperta da una maschera a becco d’uccello (da alcuni interpretata anche come una barba appuntita) con una folta capigliatura e due personaggi itifallici, che costituiscono il fulcro della scena e che danno luogo ad interpretazioni varie. Questi ultimi sono in una posizione completamente diversa dagli altri, considerati distesi a terra o colti in un volteggio aereo, con i corpi più snelli, calvi, con un pene di forma triangolare e di dimensioni maggiori rispetto alle altre figure, secondo un’interpretazione perché hanno un astuccio legato in vita da un laccio che protegge l’organo durante l’esecuzione dei salti acrobatici. Secondo alcuni si tratta di un rito di iniziazione o di un rito per la fecondità, per altri di una gara acrobatica, per altri ancora di un sacrificio umano per il particolare interpretato come un auto-strangolamento, dovuto alla presenza di due segmenti, uno tra la spalla e le natiche del primo personaggio e l’altro tra la spalla ed i piedi del secondo personaggio, che fanno pensare alla posa degli “incaprettati”. (Fonte). Nel 1952 “La soprintendente Bovio Marconi, che fu la prima a studiare i graffiti, ritenne che i due soggetti con i peni eretti avessero un vago atteggiamento omossessuale e che la scena composta da danzatori e acrobazie condotte dalle figure al centro, rappresentasse un rito di iniziazione o magico, connesso ai riti della fecondità” [Fonte]. Tuttavia successivamente Paolo Graziosi, uno dei massimi studiosi di arte preistorica, sostenne che si trattava di astucci penici e non di peni eretti, smussando quindi e in qualche modo seppellendo l’idea di un contenuto omoerotico. Appare curioso che nessuno ipotizzi un rituale sciamanico, con lo sciamano e uno spirito maschile in un confronto, come qualunque sciamano siberiano o andino avrebbe descritto. Erano tuttavia gli anni ‘50, e di queste cose non si parlava.
Gli uomini primitivi, o “i selvaggi” delle culture non occidentali, si presume incarnino un ideale umano “naturale”, opposto quindi a “pratiche contro natura” portate dalla corruzione moderna occidentale, e come tali debbano essere eterosessuali. Peccato che l’evidenza dica il contrario, a dispetto di tutti coloro che sono prigionieri di una visione del mondo semplificata e dicotomica.
Nota dell’autrice: Quando scrivo di omosessualita’ e sesso non binario, tra gli animali non umani o tra quelli umani, per un bias culturale si assume sempre che io lo faccia perche’ sono non-binary e quindi emotivamente coinvolta nella faccenda. Eppure quando parlo di panda o di tardigradi nessuno pensa che io sia un panda o un tardigrado, ed emotivamente coinvolta in quanto mi sento un panda chiuso in un armadio. Da questa semplice assunzione si intuisce come sia difficile, nel ventunesimo secolo, terzo millennio, parlare della natura umana in termini realistici e scientifici, senza generali o senatori che puntino il dito per metterti a tacere.
Alcune referenze consultate
Epprecht, M. (2021). Boy-wives and female husbands: Studies in African homosexualities. State University of New York Press.
Bacigalupo, A. M. (2007). Shamans of the foye tree: gender, power, and healing among Chilean Mapuche. University of Texas Press.
Bacigalupo, A. M. (1995). Renouncing shamanistic practice: The conflict of individual and culture experienced by a Mapuche Machi. Anthropology of Consciousness, 6(3), 1-16.
Elliston, D. A. (1993). Oceanic Homosexualities. Garland Gay and Lesbian Studies.
Mykhailova, N. Shaman burials in prehistoric Europe. Gendered images? in Katharina Koch, J., & Kirleis, W. (2019). Gender Transformations in Prehistoric and Archaic Societies (p. 502). Sidestone Press.
https://www.theguardian.com/music/2010/oct/11/two-spirit-people-north-america
Morris, R. J. (1990). Aikāne: Accounts of Hawaiian same-sex relationships in the journals of Captain Cook’s third voyage (1776-80). Journal of homosexuality, 19(4), 21-54.
https://www.asor.org/blog/2015/08/10/different-faces-of-gender-in-the-marlik-cemetery-northern-iran/
I machi del Cile, l'identita' del se e le caselle dei biologi
Una delle sfide che i biologi si trovano quotidianamente a fronteggiare e' l'identificazione del sesso di un individuo, animale, pianta o fungo che sia. Certo le caselle maschio/femmina fanno comodo, e il sesso cromosomico XX/XY si conforma perfettamente con la visione binaria della societa' occidentale in cui i maschi sono maschi, le femmine sono femmine, e le cose nel mezzo sono un errore sperimentale. Semplice, comodo, etichettabile e decisamente irreale.
I problemi con le caselle cominciano ad arrivare coi casi di determinazione non cromosomica del sesso, per esempio quando si e' maschi o femmine in base alla temperatura di sviluppo dell'uovo, come nel caso degli alligatori. Questo ci fa capire, a noi biologi, che il sesso di appartenenza non e' predeterminato e scolpito nella roccia, ma puo' essere influenzato dall'ambiente in fase embrionale; infatti, in base a studi recenti, sappiamo che la correlazione tra ambiente di sviluppo embrionale, determinazione del sesso, identita' di genere e preferenza sessuale esiste e si applica anche agli umani.
Nel caso di Bonellia viridis, un velenosissimo verme marino, se la larva tocca il suolo diventa femmina, se tocca la proboscide velenosa di una femmina diventa un minuscolo maschio parassita, se il contatto e' breve diventa un individuo intersesso. Qui potete saperne di piu'. Poi ci sono tutti i casi di ermafroditismo, in cui un individuo ha allo stesso tempo sia i testicoli che le ovaie, come le lumache, terribili creature che fanno tremare il senatore Pillon nelle notti buie. Poi ci sono gli ermafroditi sequenziali, che prima sono maschi e poi femmine, come i pesci pagliaccio, o altri che prima sono femmine e poi maschi, come le donzelle, quei pesci colorati che finiscono spesso nelle zuppe. Poi ci sono animali come i triops che possono avere popolazioni maschio/femmina, ermafrodita/femmina e maschio/ermafrodita. Poi ci sono quelle creature che attraversano una fase di riproduzione asessuata, con un individuo apposito, che si alterna a individui sessuati maschi e femmine. Poi ci sono creature che sono solo femmina da milioni di anni, come i rotiferi bdelloidei, e fanno sesso necrofilo, cioe' prendono pezzettini di DNA da individui morti (il terribile incubo delle tragiche notti di luna piena di Pillon). Poi ci sono lucertole lesbiche che fanno le uova solo dopo sesso omosessuale, e non esistono maschi.
Per farla breve, se sei un biologo, lo sai, o dovresti saperlo, che quelle caselline maschio~femmina sono solo questione di lana caprina, perche' nulla in biologia e' scolpito nella roccia, la natura e' molto piu' variabile di quello che Orazio, Clarabella, il generale Vannacci e la loro filosofia riescono a immaginare. Se sei un antropologo culturale invece le caselline sembrano essere un po' piu' marcate, perche' provieni da un background differente in cui il ruolo dell'uomo e della donna nella societa' e' proprio uno degli oggetti dei tuoi studi, quindi quelle caselline devi marcarle.
D'altro canto Stephen Murray e Will Roscoe, nel loro libro Boy-Wives and Female Husbands sull'omosessualita' in Africa, sottolineano un aspetto importante, ovvero che di omosessualita' in Africa non si puo' parlare perche' gli antropologi rispondono a governi profondamente omofobi: "Infatti, come sottolineato da Sally Moore, gli antropologi contemporanei non sono meno preoccupati di offendere i governi neri sotto la cui ombra lavorano, di quanto lo fossero le generazioni precedenti sotto i regimi coloniali bianchi. Date le attitudini apertamente omofobe e le politiche di alcuni governi Africani non sorprende che pochi antropologi abbiano fatto della sessualita' africana, non parliamo dell'omosessualita', il loro oggetto di studio".
In effetti esistono argomenti tabu' anche in zoologia, non solo in antropologia, ma e' piu' facile superarli, per ovvie ragioni. Per pubblicare la breve relazione sulle turpitudini sessuali dei pinguini di Adelie scritta da George Murray Levick c'e' voluto un secolo di lotte sociali, battaglie ed emancipazioni culturali, ma ora voi potete leggerla qui comodamente da casa. Per le persone e' diverso, e soprattutto e' molto piu' complicato. In Africa si arriva al punto che di disforia di genere non si parla, l'omosessualita' e' un crimine e chi ne parla, come Murray e Roscoe, lo fanno inquadrando la cosa sotto un'ottica meramente occidentale, in qualche modo usando le caselline che la cultura da cui scrivono, quella americana, impone, ma che non sempre descrive adeguatamente le situazioni e gli stati dell'animo.
Fermo restando quindi che in generale nella specie Homo sapiens l'identificazione nel ruolo maschio/femmina e le preferenze sessuali sono molto piu' complesse e sfumate di quanto qualsiasi Borrelia viridis o pesce pagliaccio possano mai sognare, che sono ubiquitarie nello spazio planetario e nel tempo dal Pleistocene in poi e che sono poco studiate, l'occhio del biologo si incuriosisce laddove ci sono evidenze che si possa uscire culturalmente dalle caselline, applicando definizioni diverse da quelle a cui siamo abituati dalla nostra cultura patriarcale dell'identita' di genere.
Un caso di studio perfetto e' rappresentato dai machi, i leader religiosi del popolo Mapuche del Cile, un tempo chiamati araucani.
I Mapuche sono una popolazione amerinda molto interessante, in quanto non sono imparentati ne' geneticamente ne' linguisticamente con nessuna popolazione circostante, per esempio quelle della Patagonia. Vivono prevalentemente nel Cile centro-meridionale, dalla valle dell'Aconcagua, a nord di Santiago, sino all'isola di Chiloe', con espansioni sino all'Argentina sud-occidentale e parte della Patagonia. Non si sa bene da quali popolazioni discendano, anche se il DNA mitocondriale ipotizza che derivino da popolazioni amazzoniche, e ci sono evidenze paleontologiche di contatti con popoli polinesiani. La parte interessante pero' e' che hanno sempre mantenuto la loro indipendenza culturale, non essendosi mai mescolati ne' con le popolazioni circostanti, ne' con gli Inca che cercarono di colonizzarli, ne' con gli spagnoli che pure cercarono di colonizzarli. Con gli spagnoli hanno combattuto guerre feroci andate avanti a bassa intensita' ininterrottamente dal XVI al XIX secolo. A fine ottocento purtroppo i governi cileno e argentino misero in atto una repressione feroce e violentissima per schiacciarli completamente, che si concluse con la fuga verso le citta' dei superstiti, costretti a quel punto a vivere ai margini della societa' spagnola. Al momento tuttavia i mapuche si stanno ribellando di nuovo, pretendendo dai governi cileno e argentino il diritto alla loro terra e diritti politici, considerando che in Cile sono il 9% della popolazione e se si ribellano gli vengono applicate le leggi dell'anti-terrorismo istituite da Pinochet. Sono quindi tra le poche popolazioni amerinde che non si sono mai fatte completamente schiacciare dalla colonizzazione occidentale ma, come vedremo, entro certi limiti.
Ogni gruppo mapuche ha due leader, uno politico, l'altro spirituale, e i leader spirituali vengono chiamati machi e costituiscono il focus del nostro caso di studio. Il dio della religione dei mapuche e' uno e quadrino (sono ferma a trino, non so se quadrino sia una parola italiana, ma serve allo scopo). Il creatore, chiamato Nguenechen, possiede quattro manifestazioni contemporaneamente, quelle di un uomo anziano, di una donna anziana, di un uomo giovane e di una donna giovane. Chiaramente per avvicinarsi al creatore e mantenere il bilanciamento cosmico naturale bisogna comprenderne tutte e quattro le sue personalita', a prescindere che lo sciamano sia giovane o vecchio, maschio o femmina. La cosmologia mapuche e' complessa, prevede la presenza di spiriti buoni e cattivi tra i mortali e gli animali e da origine a una serie complessa di rituali, tra cui molti rituali di guarigione, connessi ad erbe con proprieta' medicinali di cui i machi sono esperti conoscitori dopo un lungo apprendistato. Sino a qui niente che ci sia alieno, anche noi abbiamo un dio con tre manifestazioni, angeli, demoni e santi tra i mortali e condividiamo con loro persino il mito del diluvio. Loro mantengono i sacrifici animali a cui noi fortunatamente abbiamo rinunciato ma a parte quello ci sono molte similarita'. La differenza principale e' che le manifestazioni del dio ebraico-cristiano sono tutte maschili, cosi' come lo sono (nella tradizione, anche se in molte confessioni le cose hanno cominciato a cambiare nel secolo scorso) i sacerdoti, mentre quelle del dio dei mopuche sono allo stesso tempo maschili e femminili. La figura sciamanica e' prevalentemente femminile ma ci sono anche alcuni uomini. Le donne, malgrado si possano sposare e avere figli, vengono tuttavia considerate mascolinizzate e non esattamente cis-etero, per usare un linguaggio e delle caselle che capiamo. Questo perche' devono poter fare da tramite anche con le rappresentazioni maschili. Gli sciamani uomini invece sono "femminilizzati", se mi si passa la brutta espressione, si vestono da donna durante le cerimonie (e a volte non solo durante le cerimonie), rimangono celibi e noi occidentali li definiremmo "queer". La nostra definizione tuttavia non si applica fino in fondo in quanto non tutti gli uomini gay o gender fluid diventano machi, e quelli che non lo fanno tendono a rimanere closeted. I machi, uomini o donne che siano, aggiungono una dimensione spirituale alla loro (fluida) identita' di genere che a noi e' piuttosto difficile da comprendere. Per diventare machi si viene di solito selezionati sin da bambini e si deve effettuare un apprendistato che termina con una cerimonia di iniziazione, quindi non si diventa machi perche' si e' queer, ma piuttosto e' vero il contrario, un machi deve diventare gender fluid per mantenere la comunione col divino. Il genere non deve dipendere piu' dal sesso cromosomico, ma diventa ambiguo e connesso con la spiritualita', una comunione con tutto lo spettro della natura maschile e femminile, una coesistenza con tutte le sfaccettature di genere.
Durante le cerimonie lo sciamano deve poter esplorare entrambe le identita', maschile e femminile, perche' le cose tutto intorno, dalle piante agli spiriti, hanno un genere che rimane fisso, e' lo sciamano che deve poter entrare in comunione con lo spirito, con l'alloro, considerato femmina, o con l'albero di cannella, dai fiori e dall'essenza spirituale ermafrodita.
Purtroppo i machi, pur mantenendo un elevato status sociale, vengono visti con sospetto dalla societa' mopuche che, vuoi o non vuoi, ha incorporato dalla cultura spagnola una profonda forma di omofobia e transfobia, quindi tutti i machi restano in disparte da una societa' che gia' vive ai margini della societa' cilena e argentina, perche' vengono classificati come "streghe" o "deviati". D'altro canto, se un mopuche oggi, nel terzo millennio, ventunesimo secolo, sta male, o pensa che qualcuno gli abbia fatto la fattura, o ha bisogno della comunione col divino, o e' quel periodo dell'anno in cui c'e' una tradizionale festa religiosa, o ha bisogno di un consiglio su come comportarsi, o vuol sapere se entrare in guerra o no (col governo cileno), si rivolge al machi, e qui entrano in gioco le parrocchie. Ci sono persone che preferiscono i machi donne, perche' le vedono piu' empatiche e piu' vicine a una dimensione naturale, e quindi pensano che per questo siano migliori. E ci sono invece altre persone che senza alcuna ombra di dubbio chiamano un machi uomo, quelli che vengono ostracizzati perche' si vestono da donna, perche' ritengono che un uomo abbia una forza maggiore e possa quindi effettuare i rituali con maggior persuasione.
I machi sono stati osservati e studiati per 15 anni dall'antropologa culturale peruviana Ana Mariella Bacigalupo, che ne ha descritto la religione, il misticismo e la sessualita' in diversi libri, articoli e relazioni scientifiche, dimostrando come "le pratiche apparentemente cross-gender e il travestitismo dei machi non ricade sotto alcuna categorizzazione euro-americana di un "terzo genere"", criticando e sfidando il concetto di genere binario del mondo occidentale. La cultura cilena tuttavia da questo punto di vista e' molto piu' tollerante rispetto, per esempio, a quella di molte culture africane o del generale Vannacci, e per questo possiamo oggi apprezzare questi studi antropologici che ci parlano di approcci differenti alla fluidita' di genere.
Possiamo per esempio comparare i machi con gli sciamani siberiani, che vestono e si comportano in modo molto simile, dai tamburi alle trance ipnotiche al "cambiamento di sesso per obbedire ai comandi degli spiriti" (Elliston, 1993). "Il travestitismo era comune tra gli sciamani in diverse culture siberiane. I cosiddetti 'uomini soft' a volte cambiavano il loro aspetto, vestiti e ornamenti. I loro attributi non erano armi ma aghi e raschietti. A volte c'era un cambiamento ormonale nel corpo. L' 'uomo soft' perdeva il suo potere maschile, la leggerezza, la resistenza fisica e il coraggio; diventava indifeso, come una donna. Questi sciamani addirittura "sposavano" uomini. Questi specialisti "trasformati"erano molto abili nelle loro pratiche sciamaniche. A volte le sciamane donna si tagliavano i capelli, si cambiavano i vestiti e imparavano a usare lancia e fucile, ma questi casi erano rari". (Mikhailovna, 2019, citando Bogoraz, 1939, traduzione mia).
Considerando l'attitudine transfoba e omofoba sovietica prima e russa dopo non abbiamo molte testimonianze antropologiche su questi sciamani siberiani, ma abbiamo invece molte testimonianze sui loro discendenti, gli sciamani dellle culture native del Nord America. Tra i nativi americani non c'era discriminazione delle persone intersex, anzi, venivano trattate con rispetto e le unioni tra persone dello stesso sesso erano perfettamente accettate. La cosa era cosi' comune che i primi colonizzatori francesi diedero un nome a queste persone che oggi incaselleremmo come LGBTQ, li chiamavano berdache, dalla parola persiana "bardaj", che significa amico intimo di sesso maschile, ma la parola ha oggi assunto un significato negativo e le nazioni dei nativi americani hanno deciso di optare per il termine "Two spirits", due spiriti, in inglese, perche' e' la lingua comune a tutti. Nella generale cosmogonia dei nativi americani tutto cio' che esiste viene dallo spirito, chi ne ha due e' doppiamente benedetto, avendo sia lo spirito di un uomo che quello di una donna. Di conseguenza chi meglio di una persona con doppio spirito potrebbe essere il leader religioso della comunita'? Chiaramente non si forza lo sciamano in un terzo sesso per barrare una casellina, a ciascuno viene lasciata la propria sfaccettatura di androginia o femminilita'.
Chiaramente quando arrivarono prima gli spagnoli e poi inglesi e francesi, erano inorriditi da un simile comportamento e ben presto parti' lo stigma sociale. Dal momento che i nativi non scrivevano la loro storia, ci dobbiamo basare sui memorandum degli esploratori europei, coi loro pregiudizi, per cui apparentemente questo rispetto per le persone due-spiriti sembra non generalizzato, a dispetto dell'evidenza che e' diffuso dalla Siberia alle Ande.
Un esempio da manuale di questa attitudine nei resoconti degli europei ci viene dalla scoperta delle Hawaii ad opera del capitano inglese James Cook. Bisogna premettere che a bordo delle navi inglesi l'omosessualita' era punita con la pena di morte, se le persone venivano colte sul fatto. La marina inglese, almeno sulla carta, non riusciva a concepire niente di piu' ripugnante. Chiaramente come ci hanno insegnato l'ammiraglio Nelson e i tre pilastri "rum, sodomia e frusta" su cui secondo lui si reggeva la Royal Navy, come anche le sue relazioni apertamente bisessuali, tra il dire e il fare c'era di mezzo la natura umana (e il mare, anzi, l'oceano), e quindi molto spesso si guardava dall'altra parte. Ma gli ufficiali di Cook, nei loro giornali di bordo che sarebbero stati letti da tutti in patria, erano tenuti a mostrarsi scandalizzati. Breve antefatto: Durante il suo terzo viaggio alla scoperta del passaggio a nord-ovest, Cook scopri' le isole Hawaii il 18 gennaio 1778. Le Hawaii erano abitate da una societa' polinesiana piuttosto complessa, governata da una famiglia reale. Al suo sbarco a Waimea, isola di Kauai, Cook trovo' ad attenderlo un attendente del re, e i rapporti coi nativi furono relativamente amichevoli. Al suo ritorno alle Hawaii l'anno dopo, tuttavia, Cook prese una serie di decisioni sbagliate che culminarono in una rissa durante la quale uno degli attendenti del re pugnalo a morte Cook per proteggere il sovrano.
Il punto nevralgico e' che questi attendenti del re non erano solo consiglieri politici, ma erano anche sessualmente in intimita' con lui. Gli inglesi non si capacitavano che il re, avendo mogli e concubine, trovasse il suo piacere anche nella compagnia di uomini, cosi intimi da assumere anche ruoli politici, al contrario di quello che accadeva per le mogli. Compagni uomini, detti aikane, non erano previsti solo per il sovrano, ma erano piuttosto diffusi e socialmente accettati, soprattutto tra gli uomini di alto rango. Purtroppo non abbiamo commenti diretti di James Cook, ma ritroviamo nei vari diari di bordo riferimenti agli aikane. Una menzione interessante e' di pugno di James King, uno degli alti ufficiali che presero il comando della spedizione dopo la morte di Cook e che completo' il diario ufficiale di bordo [Traduzione mia, da Morris, 1990]: "non apprendemmo nulla di soddisfacente relativamente ai loro matrimoni. Sappiamo che Terreeoboo [l'ortografia del nome del re, Kalani'opu'u, viene stravolta da tutti gli inglesi, N.d.A] ha una regina e una concubina... Di fatto questo popolo si piazza molto indietro rispetto alle isole Societa' e alle isole Tonga, in quella massima prova di civilta' che e' la posizione e l'influenza delle donne; non solo vengono private del diritto di mangiare insieme al loro signore ma, e questo e' anche piu' frustrante, il cibo migliore e' taboo. Ma cio' che senza dubbio e' la parte piu' frustrante e' che vengono private dell'affetto naturale dei loro mariti, conteso con l'altro sesso: gli uomini si degradano nei piu' sporchi incontri e non abbiamo dubbi su cosa sia un aikane. Terreeoboo ne ha cinque, tutti uomini di grande rilievo, e tutti i capi ne hanno". Veramente inconcepibile per un uomo del tardo 1700. Chissa' che ne avrebbe pensato Jane Austen. La parte tragica e' che dopo due secoli e mezzo ci sono persone, nella nostra societa', che ancora la pensano cosi.
Se l'attribuzione del genere e' sfumata e sfuggente nelle varie societa' contemporanee del pianeta, e se queste sfumature sono pressoche' ubiquitarie, resta da chiedersi se sia sempre stato cosi'. Chiaramente laddove non ci sono testimonianze dirette e' molto piu' difficile capire i significati pratici e simbolici in societa' estinte, e c'e' il solito problema del guardare civilta' antiche attraverso le lenti e i filtri dei pregiudizi della societa' da cui proviene l'archeologo, in assenza di qualcuno che possa confermare o contraddire. Non abbiamo dubbi sulla civilta' ellenica, perche' ci hanno lasciato testimonianze scritte, ma poi? Le sepolture possono aiutarci. In Europa e in Siberia, secondo quanto ci racconta Mikhailovna (2019), spesso le sepolture neolitiche contenevano attributi maschili o femminili. Nelle tombe degli uomini c'erano asce di pietra e strumenti di selce, in quelle delle donne vasellame e ornamenti. Ci sono tombe, tuttavia, dove la situazione cambia. Traduco dall'inglese: "Vari materiali furono trovati nel cimitero sciamanico femminile di Ekven. E' uno dei siti importanti della vecchia cultura del mare di Bering, esistita dal 400 a.C. al 1300 d.C circa. Nella tomba 145, il corpo [femminile] era circondato da grandi ossa di balena, era simbolicamente dentro la balena. Lo scheletro giaceva faccia in giu'. La ricca collezione sepolcrale e' associata con l'attivita' della donna e le pratiche sacre (raschietti, mestoli, coltelli, una catena di avorio di tricheco, occhiali di legno da danza, manici di tamburo e una maschera antropomorfica di legno), ma anche con attivita' maschili, come evidenziato da diversi strumenti tra cui punte di lancia e arpioni. Quindi la donna aveva anche le funzioni di uno sciamano uomo".
Sepolture del genere, con attributi misti maschili e femminili, sonos tate trovate anche in altri luoghi, per esempio nel cimitero reale del colle di Marlik, in Iran, non distante da Teheran, lasciatoci da una civilta' indoeuropea vissuta circa 3000 anni fa e interessante perche' tutte le statuine hanno sei dita. I primi scavi furono condotti intorno al 1960 dal Dr. Ezat O. Negahban. L'attribuzione del sesso dei resti trovati nelle tombe si assume sia corretta, ma risulta complicata da un cattivo stato di conservazione dovuto all'umidita' del luogo. L'archeologo attribui' a donne le tombe contenenti grandi quantita' di gioielli e poche armi, a uomini quelle con molte armi e pochi gioielli. Circa meta' delle tombe non contiene pero' alcun oggetto, segno che vi veniva sepolto anche qualche povero, magari la servitu'. I diademi in oro o in bronzo sono tipici delle donne, come confermato anche da altri cimiteri, come quello reale di Ur. Tuttavia 3 dei 14 diademi trovati sono stati trovati in tombe il cui occupante risulterebbe di sesso maschile. Una di queste tombe contiene eguali proporzioni di gioielli e armi, e un pendente col sole, anche questo un attributo femminile. Questa e altre sono solo prove indiziarie ovviamente, ma laddove si riesce a trovare un motivo ricorrente e paralleli con altre civilta', ecco che la faccenda si fa interessante.

Rappresentazione grafica dell'incisione delle grotte dell'Addaura.Da: Mannino G. 2012, I graffiti parietali preistorici della Grotta dell’Addaura: la scoperta e nuove acquisizioni, in Atti della XLI Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, pag 418
Infine, giusto per andare ancora piu' indietro nel tempo, cosa pensare dell'incisione nelle grotte dell'Addaura, in Sicilia? Tra i vari resti di importanza archeologica e paleontologica, c'e' una incisione paleolitica datata 11.000 anni fa. La scena rappresenta "dieci figure maschili ed una femminile. Le figure maschili sono tutte a corpo nudo, in atto di danzare o stanti, con la massa muscolare ben pronunciata che mette in risalto glutei, gambe e polpacci, mentre mancano del tutto le mani ed i piedi; di queste otto con la testa ricoperta da una maschera a becco d’uccello (da alcuni interpretata anche come una barba appuntita) con una folta capigliatura e due personaggi itifallici, che costituiscono il fulcro della scena e che danno luogo ad interpretazioni varie. Questi ultimi sono in una posizione completamente diversa dagli altri, considerati distesi a terra o colti in un volteggio aereo, con i corpi più snelli, calvi, con un pene di forma triangolare e di dimensioni maggiori rispetto alle altre figure, secondo un’interpretazione perché hanno un astuccio legato in vita da un laccio che protegge l’organo durante l’esecuzione dei salti acrobatici. Secondo alcuni si tratta di un rito di iniziazione o di un rito per la fecondità, per altri di una gara acrobatica, per altri ancora di un sacrificio umano per il particolare interpretato come un auto-strangolamento, dovuto alla presenza di due segmenti, uno tra la spalla e le natiche del primo personaggio e l’altro tra la spalla ed i piedi del secondo personaggio, che fanno pensare alla posa degli “incaprettati”. (Fonte). Nel 1952 "La soprintendente Bovio Marconi, che fu la prima a studiare i graffiti, ritenne che i due soggetti con i peni eretti avessero un vago atteggiamento omossessuale e che la scena composta da danzatori e acrobazie condotte dalle figure al centro, rappresentasse un rito di iniziazione o magico, connesso ai riti della fecondità" [Fonte]. Tuttavia successivamente Paolo Graziosi, uno dei massimi studiosi di arte preistorica, sostenne che si trattava di astucci penici e non di peni eretti, smussando quindi e in qualche modo seppellendo l'idea di un contenuto omoerotico. Appare curioso che nessuno ipotizzi un rituale sciamanico, con lo sciamano e uno spirito maschile in un confronto, come qualunque sciamano siberiano o andino avrebbe descritto. Erano tuttavia gli anni '50, e di queste cose non si parlava.
Gli uomini primitivi, o "i selvaggi" delle culture non occidentali, si presume incarnino un ideale umano "naturale", opposto quindi a "pratiche contro natura" portate dalla corruzione moderna occidentale, e come tali debbano essere eterosessuali. Peccato che l'evidenza dica il contrario, a dispetto di tutti coloro che sono prigionieri di una visione del mondo semplificata e dicotomica.
Nota dell'autrice: Quando scrivo di omosessualita' e sesso non binario, tra gli animali non umani o tra quelli umani, per un bias culturale si assume sempre che io lo faccia perche' sono non-binary e quindi emotivamente coinvolta nella faccenda. Eppure quando parlo di panda o di tardigradi nessuno pensa che io sia un panda o un tardigrado, ed emotivamente coinvolta in quanto mi sento un panda chiuso in un armadio. Da questa semplice assunzione si intuisce come sia difficile, nel ventunesimo secolo, terzo millennio, parlare della natura umana in termini realistici e scientifici, senza generali o senatori che puntino il dito per metterti a tacere.
Alcune referenze consultate
Epprecht, M. (2021). Boy-wives and female husbands: Studies in African homosexualities. State University of New York Press.
Bacigalupo, A. M. (2007). Shamans of the foye tree: gender, power, and healing among Chilean Mapuche. University of Texas Press.
Bacigalupo, A. M. (1995). Renouncing shamanistic practice: The conflict of individual and culture experienced by a Mapuche Machi. Anthropology of Consciousness, 6(3), 1-16.
Elliston, D. A. (1993). Oceanic Homosexualities. Garland Gay and Lesbian Studies.
Mykhailova, N. Shaman burials in prehistoric Europe. Gendered images? in Katharina Koch, J., & Kirleis, W. (2019). Gender Transformations in Prehistoric and Archaic Societies (p. 502). Sidestone Press.
https://www.theguardian.com/music/2010/oct/11/two-spirit-people-north-america
Morris, R. J. (1990). Aikāne: Accounts of Hawaiian same-sex relationships in the journals of Captain Cook's third voyage (1776-80). Journal of homosexuality, 19(4), 21-54.
https://www.asor.org/blog/2015/08/10/different-faces-of-gender-in-the-marlik-cemetery-northern-iran/
November 2, 2022
Grandi opportunità di evoluzione: sesta estinzione di massa?
Sono svariati anni che faccio conferenze sulle grandi opportunità offerte a tutti noi dal collasso ecologico, per cui penso sia arrivato il momento, considerati i tempi, di lasciarne una traccia scritta prima che le grandi opportunità colgano anche me.
Premessa: tutti i dati, a meno che non sia diversamente indicato, vengono dalla International Union for Conservation of Nature (IUCN), dallo UN Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem services e dal Living Planet Report 2022.
===> ***Il tasso di estinzione delle specie è sino a 1000 volte superiore di quanto lo sia mai stato negli ultimi 10 milioni di anni, in altri termini, siamo nel mezzo di una estinzione di massa***<===
Se non fosse chiaro, ripeto. SIAMO NEL MEZZO DI UNA ESTINZIONE DI MASSA. Se potessi metterci intorno le lampadine colorate lo farei. Panic? Dipende.
In 50 anni, dal 1970 al 2020 circa
la biomassa dei mammiferi selvatici è diminuita del 82%l'area occupata dagli ecosistemi naturali è diminuita del 47%l'abbondanza delle specie nelle comunità terrestri è diminuita del 23%il 69% delle popolazioni animali e' scomparso in 50 anniLe popolazioni di specie di acqua dolce sono diminuite dell'83%Circa un milione di specie è a rischio di estinzione , e non sappiamo neanche quante specie ci siano esattamente
Tra questi, su 142.577 specie censite dalla IUCN, sono a rischio:
il 63% delle piante cicadeeil 41% degli anfibiil 37% degli squaliil 34% delle conifereil 33% dei coralli di barrierail 28% dei crostaceiil 26% dei mammiferiil 21% dei rettiliil 13% degli uccelliIn Italia
Si stima ci siano tra 57000 e 67000 specie, tra animali e piante, il 43% delle specie presenti in Europa e il 4% delle specie totali, circa. Di queste ne sono state censite in termini di abbondanza 2059. Di queste 2059 specie 3 sono già estinte, 388 (quasi il 20%) sono a rischio, e tra queste ben 54 sono a rischio critico di estinzione, cioè ne restano pochissimi esemplari. Se vi piacciono le statistiche, vi dico anche che 122 sono piante, 86 molluschi, 73 pesci, 188 invertebrati, 19 uccelli, 9 mammiferi, 9 anfibi, 4 rettili.
Piccolo sfogo personale
Ogni tanto leggo sui social italiani che i gatti padronali, quelli che ci occhieggiano pigri dal divano, sono la causa principale delle estinzioni, anzi, sono il "nemico n. 1 degli ecosistemi". Il messaggio passa facilmente perché è facile cercare un capro espiatorio piuttosto che sobbarcarsi il peso delle responsabilità che ognuno di noi ha nel confronti dell'ambiente. Il rifiutarsi di guardare in faccia la realtà e pensare che se tengo il micio chiuso in casa tutto andrà a posto e quelle 54 specie a rischio critico, i 73 pesci, gli 86 molluschi e le 122 piante, torneranno floridi come un tempo, mi genera un profondo senso di frustrazione nella pochezza di chi invia quel messaggio. D'altro canto, non ho una grande opinione neanche di chi riceve in maniera acritica quel messaggio e si lava la coscienza, "tengo in casa il gatto ma mangio bistecche tutti i giorni e vado in macchina anche a comprare le sigarette". “Ah ma allora tu neghi che predano?” Mi si dice sui media, puntandomi il dito contro tipo tribunale dell'Inquisizione. No, certamente circa una meta' dei gatti preda se puo', ma penso che se mi va a fuoco la casa mi preoccupo prima di cercare acqua per spegnere l’incendio e chiamare i pompieri, e solo dopo penso alla cena che potrebbe bruciarsi, o al topo preso dal gatto. Comunque, andiamo oltre e pensiamo invece alle grandi opportunità.
Le cause
Gli scienziati che redigono il rapporto per le Nazioni Unite ritengono che le cause effettive del tasso di estinzione altissimo che stiamo osservando siano le seguenti:
Il valore dei raccolti agricoli è triplicato nell'arco di 50 anni circa, dal 1970 al 2019. Nel 2016 ammontava globalmente a 2.6 milioni di miliardi di dollari, cifre da Paperon de' Paperoni. Chiaramente i campi coltivati tolgono spazio agli ambienti naturali, per non parlare dei pesticidi. Nessun gatto è stato visto al momento guidare un trattore.Sempre dal 1970 al 2019 il taglio delle foreste per produrre legname è aumentato del 45% e solo nel 1917 era stimato essere 4 miliardi di metri cubi di legname. Saranno gatti travestiti da castori.La degradazione dei suoli ha ridotto la produttività mondiale delle aree terrestri del 23%il 75% delle aree emerse è significativamente alterato dall'impatto antropicocosì come il 66% degli oceanil'85% delle aree umide è oramai perso. In Ucraina, per dirne una, c'erano moltissimi siti di interesse naturalistico nel sud, dove ora si combatte, e moltissime aree umide che si staranno riempiendo di piombo.Per entrare nello specifico, questi sono i big five, i cinque grandi fattori di distruzione degli ecosistemi dal 1970 a oggi, in ordine di importanza
Cambiamenti nell'uso della terra e del mare che distruggono foreste, aree umide, praterie e oceani, per esempio, come si è visto, aumento dei coltivi, aumento del taglio delle foresteSfruttamento diretto degli organismi, come eccesso della caccia per cibo o come medicina tradizionale, eccesso della pescaCambiamenti climaticiinquinamento (per esempio, l'inquinamento da plastica e' aumentato di 10 volte dal 1980)Invasione di specie alloctone (aumentata del 40% dal 1980, soprattutto causa dell'aumento nel comercio e delle dinamiche delle popolazioni umane).Le Nazioni Unite non lo dicono ovviamente, non possono dirlo, allora lo dico io:
6. (ma forse era il n. 1): aumento esponenziale della popolazione umana.
A che punto siamo?
Pessimo. Mentre per i cambiamenti climatici c'e' un'agenda per ridurre le emissioni, per tutto il resto non c'e' assolutamente nulla, il vuoto assoluto. Non se ne parla e si ignora la questione. Non c'e' una Greta della biodiversita', purtroppo, anche perche' i cambiamenti necessari sono enormi. Al momento non abbiamo neanche esattamente focalizzato bene i problemi, stiamo ancora li a dare la colpa ai gatti, figuriamoci proporre soluzioni e attivarle politicamente su scala globale. Siamo in tempo per svegliarci, se cominciassimo da domani? Non lo so, in questo momento in cui si parla di uso di testate nucleari mi sembra addirittura che stiamo facendo marcia indietro, altro che preoccuparci della biodiversita'.
Ma qual e' il problema?
Semplice: la perdita di biodiversita' troppo rapida e ingente porterebbe presto al collasso ecologico per perdita di resilienza del sistema a qualsiasi fattore esterno, tipo una siccita' prolungata. Nel momento in cui l' ecosistema comincia a vacillare arrivano ulteriori estinzioni, il deserto e fondamentalmente la catastrofe per il pianeta come oggi lo conosciamo. Il coronavirus era Disneyland, in confronto a non avere assolutamente piu' nulla da mangiare ed estinguerci insieme agli altri. Persino i cambiamenti climatici mi sembrano meno gravi. Coi cambiamenti climatici le specie si spostano, ma non necessariamente si scompaiono in massa. Io faccio sempre l'esempio della malattia di Alzheimer. La mente umana e' costituita da reti di connessione tra i neuroni. Se muoiono i neuroni, come nell'Alzheimer, diminuiscono le connessioni e i nodi di una rete che diventa a maglie sempre piu' larghe. Pian piano la persona perde funzionalita', non ricorda le cose, non e' piu' capace di badare a se stessa e infine muore. La stessa cosa vale per gli ecosistemi.
Un caso di studio: il deserto del Sahara
Diecimila anni fa il Nordafrica era lussureggiante, dove oggi c'e' il Sahara c’erano foreste, savane, laghi, fiumi e tantissime specie di animali e piante. C'erano persino dei gatti. Non era stato sempre cosi', pero'. La zona infatti e' sottoposta a cicli di riforestazione e desertificazione in base alle oscillazioni dell'asse terrestre, piu' o meno come le glaciazioni. Leggeri cambiamenti dell'angolo di rotazione del pianeta influenzano, tra le altre cose, il monsone africano nord-occidentale che porta umidita' al Sahara. Quattordicimila mila anni fa, quando l'Europa era ancora in piena glaciazione, il deserto si estendeva ben oltre la zona attuale. Poi il clima cambio' e in poche migliaia di anni si rinverdi', consentendo il ritorno di piante, animali e Homo sapiens. E' proprio grazie a questi antichi abitanti del Sahara che abbiamo una idea piuttosto chiara del paesaggio che ha dominato il nord Africa tra 11000 e 7000 anni fa: incisioni e pitture ornano molte delle rocce e delle grotte del Sahara, gli uomini e le donne osservavano e riproducevano, come in una fotografia, quello che vedevano. E quello che vedevano erano ippopotami, giraffe, bufali, leoni, coccodrilli etc., un ecosistema paragonabile a quello dell'attuale Africa subsahariana. Poi, circa 7000 anni fa, il clima cambio' nuovamente, cambio' l'ecosistema e cambiarono le pitture rupestri: gli uomini continuavano a dipingere quello che vedevano intorno, ma quello che ora vedevano erano greggi di pecore, capre e bovini addomesticati, non piu' bufali, non piu' giraffe.
Sia chiaro, i cicli di Milankovitch e i cambiamenti climatici associati alle oscillazioni dell'asse terrestre sono eventi del tutto normali e che si ripetono. I cambiamenti climatici associati all'attivita' umana sono invece un evento unico e puntiforme, e decisamente inaspettati nella grande ottica ecologica del pianeta. Tuttavia, vedere cosa accade al Sahara quando cambia il clima e' piuttosto istruttivo.
Pecore, si diceva. Settemila anni fa in nord Africa il clima divenne bruscamente piu' arido, i laghi si ridussero, la foresta retrocesse lasciando il posto alle praterie, consentendo cosi' l'arrivo da est, dalla mezzaluna fertile, di una grande novita': il bestiame addomesticato. La parte interessante della storia e' che il cambiamento climatico fu estremamente brusco, piu' repentino di quello che ci si sarebbe aspettati dalla semplice oscillazione dell'asse. Indubbiamente ci sono modelli climatologici che possono spiegare matematicamente la faccenda senza il coinvolgimento di altri agenti. Tuttavia sappiamo da evidenze recenti, per esempio in Nuova Zelanda, in sud America e anche nella stessa Africa, che il brusco arrivo del pastoralismo puo' accelerare i processi di desertificazione. Gli scienziati sono divisi sull'impatto del bestiame allevato nella retrazione delle aree umide nel nord Africa di 7000 anni fa, ma oggi che sappiamo che le specie alloctone di ungulati possono avere un impatto notevole. Occorrerebbe sicuramente un approccio piu' sistematico alla faccenda per esplorare gli impatti dell'allevamento in un clima che diventa sempre piu' arido di suo. Sta di fatto che la siccita' estrema duro'circa un millennio con numerose fluttuazioni, poi il clima torno' umido intorno ai 5500 anni fa, per poi collassare definitivamente verso il deserto.
Verso i 4000 anni fa gli artisti del Sahara smisero gradatamente di disegnare pecore e bovini e cominciarono a raffigurare cavalli, che sopportano climi piu' aridi e non hanno problemi con le steppe. Il periodo dei cavalli duro' sino a 2500 anni fa, quando comincio' invece il periodo dei dromedari, che ando' avanti sino a circa 1700 anni fa. Da allora in poi non ci sono piu' raffigurazioni rupestri nel Sahara, perche' non era rimasto piu' nessuno per farle.
Caso di studio 2: l'Isola di Pasqua
Per far breve una storia lunga, gli umani arrivarono nel XIII secolo e per quando arrivarono gli europei, nel VXIII secolo, il danno era fatto. Le lussureggianti foreste di latifoglie subtropicali sono state tagliate all'ultimo albero per far posto ai coltivi, i sei uccelli terrestri sterminati dalla caccia, e il resto dell'ecosistema e' collassato di conseguenza. L'introduzione del ratto polinesiano sembra abbia avuto un ruolo, ma solo il 10% delle noci di cocco fossili hanno segni di rosicchiatura di ratto, quindi il grosso e' tutto merito nostro. Tre specie endemiche di palme, un totale di 21 alberi, si sono estinti, sull'isola non c'e' piu' nulla sopra i 3 metri di altezza. La mancanza degli alberi ha eroso il suolo, rendendolo meno fertile, e ha alzato le temperature, cambiando il clima e rendendolo piu' secco e arido. I siti di nidificazione degli uccelli marini sono anche andati, sotto la pressione della fame. La struttura della societa' e' collassata, le persone hanno cominciato a farsi guerra tra loro, in un secolo la popolazione sembra sia crollata da 15000 a 3000. Non ho altro da aggiungere, del resto e' una storia ben nota che ci piace ignorare. Non c'erano gatti sull'isola di Pasqua.
Che fare?
Se non vogliamo fare la fine delle popolazioni del Sahara o di quelle dell'Isola di Pasqua qualcosa dobbiamo fare, e alla svelta. Inutile mettere le specie negli zoo, perche' gli ecosistemi sono reti, e conta sia il grande mammifero quanto l'insignificante batterio, con tutto quello che c'e' nel mezzo. Dovremmo smettere immediatamente di sottrarre habitat naturali ad uso agricolo e pastorale, per le miniere, per fare dighe, per le guerre etc etc. Soprattutto, e qui viene la nota dolente, siamo troppi, dovremmo diminuire rapidamente, e consumare molto meno, soprattutto noi occidentali. E' concepibile? Secondo me, nell'attuale sistema capitalistico che chiede una crescita continua, no, a meno di collassi della societa'. Paradossalmente, per come la vedo io, l'unica soluzione e' una epidemia molto piu' cattiva del Covid. Tenere il gatto in casa serve? No, tanto quanto non serve una goccia in un oceano, o arginiamo lo tsunami in qualche modo o il rubinetto aperto non fa alcuna differenza.
Grandi estinzioni di massa
Se l'irrimediabile dovesse accadere, se dovessimo arrivare al collasso ecologico, in ogni caso, non tutto e' perduto, almeno per il pianeta. Non sarebbe la prima volta che l'ecosistema planetario si trova davanti a una grande estinzione di massa. Per la precisione, sarebbe almeno la sesta volta in 500 milioni di anni, un ottavo circa della presenza di vita sulla terra.
1) la prima fu a fine Ordoviciano, 439 milioni di anni fa. Si estinse il 60% dei generi di invertebrati marini (non c'erano specie terrestri all'epoca), e fece piazza pulita di meta' delle famiglie (in senso tassonomico) del Cambriano. Di buono c'e' che colpi' un po' tutti con la stessa intensita', per cui non ci furono grossi cambiamenti nella struttura degli ecosistemi, e la vita gradatamente riprese. Le trilobiti ebbero un colpo durissimo, ma si ripresero pian piano anche loro.
2) La seconda fu nel tardo Devoniano, 367 milioni di anni fa. Fece fuori il 70% delle specie esistenti, il 57% dei generi, il 20-30% delle famiglie. Di buono c'e' che invece di essere stato un evento repentino e improvviso, sembra che il declino in biodiversita' sia durato 25 milioni di anni. La seconda buona notizia e' che nel Devoniano la vita aveva cominciato a colonizzare la terra ferma, ma sembra siano state colpite solo le specie marine, tra cui ricordiamo i pesci corazzati, i placodermi.
3) Fine Permiano/inizio Triassico, 245 milioni di anni fa. Al momento questa e' stata in assoluto la peggiore, si estinsero il 95% delle specie, l'82% dei generi di invertebrati marini, il 35% di tutte le famiglie di animali, il 70% delle specie di vertebrati. Tra le vittime ricordiamo senz'altro le trilobiti, ma per un soffio non si estinsero anche i nostri antenati. Tutte le comunita' furono colpite cosi duramente che ci vollero circa 30 milioni di anni per riprendersi, anche perche' le condizioni non si stabilizzavano. Vediamo se stavolta riusciamo a far meglio.
4) Fine del Triassico/inizio Giurassico, 208 milioni di anni fa. Un altro evento catastrofico che fece fuori il 75% delle specie e il 53% dei generi di invertebrati marini. Sul fronte delle buone notizie, comincio' l'era dei dinosauri giganti, essendosi estinti quasi tutti i grossi Terapsidi, i nostri avi.
5) Fine Triassico/inizio Terziario, 65 milioni di anni fa. Questo e' l'evento di estinzione di massa che conosciamo tutti perche' ha portato alla fine dei dinosauri (eccetto gli uccelli) e alla rimonta dei Terapsidi, che nel frattempo si erano evoluti in mammiferi. Per quanto non sia stato tra gli eventi peggiori, non sopravvisse nulla sulla terra ferma sopra i 25 kg. Prendere appunti. Si estinsero "solo" il 50% delle famiglie e il 47%degli invertebrati marini.
Grandi opportunita': un mondo di listrosauri
Quando vivevo in Inghilterra mi fu insegnato che non si dice mai che hai un problema, perche' appari debole. Devi invece sempre guardare il bicchiere mezzo pieno, e saper individuare le opportunita' che le congiunture astrali avverse ti forniscono. Io non ho ancora capito bene esattamente che opportunita' mi fornisce una scarica di diarrea in mezzo all'autostrada lontano dalle piazzole di sosta, o se posso dire al lavoro "scusi boss, ho una grande opportunita', devo andare in bagno", ma di sicuro sono io che ho un problema una opportunita'. Secondo questa linea di pensiero, dunque, una estinzione di massa non e' un problema, ma una grande opportunita' per le specie che sopravvivono e che si ritrovano in un mondo senza competitori dove possono evolversi a piacimento.

Lystrosaurus murrayi, disegno di Nobu Namura, da Wikipedia
I Listrosauri erano filosoficamente inglesi e seppero guardare il bicchiere mezzo pieno mentre il pianeta intorno a loro crollava durante l'estinzione n. 3, quella cattiva-cattiva, alla fine del Permiano. Questi animali avevano piu' o meno le dimensioni di un maiale, erano erbivori ed erano terapsidi dicinodonti, ovvero quelli che un tempo si sarebbero chiamati rettili mammalomorfi, nostri antenati, e non dinosauri. Alla fine del Permiano almeno una specie riusci' a sopravvivere e si ritrovo' da sola in un mondo in cui non c'era rimasto quasi nessuno, ne' predatori, ne' competitori. Chiaramente ben presto da una specie ne derivarono molte, ma tutte di listrosauri erbivori che non si intralciavano a vicenda. Ci sono posti in cui i listrosauri costituiscono il 95% di tutti i fossili. Dopo l'evento catartrofico che ha portato all'estinzione di massa, qualunque cosa sia stato, asteroide, eruzioni vulcaniche, fate voi, ci vollero 4-6 milioni di anni solo per incominciare a tornare alla normalita', in un processo che prese circa 30 milioni di anni per un totale ripristino, un tempo incredibilmente lungo, meta' del terziario, l'era dei mammiferi. In questo periodo i listrosauri sguazzavano felici e solitari nella Pangea meridionale. I motivi del loro grande successo sono ancora dibattuti. Probabilmente ad aiutarli ci fu la capacita' di ibernare, il primo esempio nei tetrapodi terrestri, ed erano animali non specializzati, mangiavano quel che c'era. C'e' anche il sospetto che, come i moderni eterocefali, fossero in grado di respirare anche in una atmosfera povera di ossigeno e ricca di CO2, forse un adattamento a una vita semiacquatica o sotterranea. O forse fu solo un incredibile colpo di... fortuna. Oggi come oggi, se dovessi scommettere sulla sopravvivenza di un tetrapode, punterei in effetti tutti i miei soldi sugli incredibili eterocefali glabri, ma Monod ci ricorda che oltre alla necessita', c'e' anche il caso a farla da padrone, quando si parla di evoluzione.
Saremo in crado di saltare sul carro delle grandi opportunita' e sopravvivere all'estinzione?
Questo e' praticamente impossibile da prevedere perche', come si diceva, c'e' il fattore fortuna a fare da ago della bilancia. Magari qualche umano riuscirebbe a sopravvivere e riprodursi anche in uno scenario postapocalittico alla Mad Max, non lo escluderei, siamo una specie tenace. A nostro favore gioca il fatto che siamo onnivori e generalisti, siamo liberi di muoverci liberamente e ci spostiamo su grandi distanze. Inoltre siamo molto bravi a sopravvivere anche in condizioni di grande stress, con o senza ausili e manufatti. Contro di noi gioca pero' il fattore dimensione (ricordate la soglia, gia' molto alta, dei 25 kg?) e il fatto che facciamo pochi figli rispetto, che so, a un insetto. Il fatto di avere 7 miliardi di biglietti della lotteria e' anche un fattore positivo.
Il problema e' che anche se la nostra specie riuscisse a sopravvivere, e le probabilita' sono buone, il crollo della civilta' non e' esattamente una passeggiata. Certo, i superstiti potrebbero cogliere infinite opportunita' e dare origine a tante nuove specie, ma e' davvero quello che vogliamo? Rinunciare alla nostra comoda esistenza sperando che i nostri nipoti riescano a sopravvivere in un mondo in cui uno scenario post atomico sarebbe visto come una pacchia?
Non voglio convincere nessuno a fare niente. Pero' questi sono i dati, e questi sono i fatti. Se non ci fermiamo, arrivera' lo tzunami, e non ci sono molti dubbi in proposito. Cominciare a parlarne come si fa col climate change aiuterebbe, forse.
Io quel che avevo da dire l'ho detto. Vado a riportare il gatto in casa.
August 19, 2022
Freya il tricheco: che ci faceva a Oslo? Cosa sappiamo dei trichechi?
Per molti di noi i trichechi sono quegli animali coi dentoni che vivono al Polo Nord, simpatici con quei baffoni ma con l'occasionale penchant per un piatto di "ostrichette curiose", come in Alice nel Paese delle Meraviglie.
Dato che sappiamo poco altro di loro, non ci stupiamo che una giovane femmina in buona salute avasse deciso di andare in vacanza a Oslo, dopo un Interrail che passava dalla Gran Bretagna e dall'Olanda. Tuttavia quello decisamente non era il suo posto e in questa storia c'e' qualcosa di profondamente sbagliato. Riassumo brevemente la storia: una giovane femmina di tricheco chiamata Freya era stranamente rimasta isolata dal suo gruppo e, dopo essere stata avvistata lungo le coste inglesi, su un sottomarino olandese e in Danimarca, si era trasferita nel Fjordo di Oslo, dove il cibo era in abbondanza, ma i posti dove riposare scarseggiavano, a parte le barche private e le spiagge piene di bagnanti, in un agosto particolarmente caldo. Ovviamente era diventata subito la beniamina del pubblico, che si avvicinava coi bambini per farsi selfie o nuotare con lei. Per quanto i trichechi siano animali pacifici, si fanno facilmente prendere dal panico e avvicinarsi molto a 600 kg di muscoli e grasso, specie coi bambini, non e' una buona idea. Soprattutto, ha danneggiato qualche barca nel tentativo di andarci a dormire su, e questo proprio non va bene. Le autorita' norvegesi invece di multare e scoraggiare il pubblico che si avvicinava troppo, e rimborsare i proprietari delle barche, o trovare soluzioni alternative, hanno pensato bene di sopprimere improvvisamente l'animale: nessun tricheco, nessun problema.
I trichechi (dal greco thríks trikhós ‘pelo’ e ékhō ‘ho’, quindi "ho pelo", in riferimento alle vibrisse) sono pinnipedi imparentati con foche e otarie e vivono nelle regioni circumpolari artiche e subartiche, in acque poco profonde dove possono prelevare dal fondale i bivalve di cui si nutrono. Esistono due sottospecie, una atlantica, piu' piccola, e una pacifica, piu' grande, suddivise in varie popolazioni. Freya era un tricheco della sottospecie atlantica Odobenus rosmarus rosmarus proveniente dalla popolazione del mare di Barents, che include le isole Svalbard e Jan Mayen, che appartengono alla Norvegia, le isole della Terra di Francesco Giuseppe, che appartengono alla Russia, e l'isola di Novaya Zemlya, pure russa. Da Oslo alla punta piu' meridionale delle isole Svalbard e' un percorso di oltre 2500 km di mare aperto. Portare in barca un tricheco addormentato per "riaccompagnarlo a casa" per tutta quella strada non e' pensabile, occorrono giorni di navigazione in acque turbolente. La si poteva portare in un fjordo vicino ma piu' isolato, ma non c'era garanzia che non sarebbe ritornata. Oppure si poteva pazientare, se ne sarebbe andata da se' prima o poi, col freddo, impedendo nel frattempo al pubblico di avvicinarsi. Soluzioni alternative ce n'erano, bastava volerle.
Non si sa ancora, al momento in cui scrivo, chi esattamente abbia preso la decisione. Ma lo zoologo e politico di centro-destra norvegese Per Espen Fjeld, consigliere scientifico dell'equivalente norvegese dell'ISPRA, ha commentato la scelta dicendo che era giustificabile tanto "non ha conseguenze per il futuro della specie" e "ce ne sono 30.000 nel nord Atlantico". In pratica, uno piu', uno meno, che differenza fa, per una nazione che ha deciso di abbattere 25 lupi dei 50 presenti, non si fa problemi di rilasciare licenze per abbattere i pochi orsi presenti, stermina i baby ghiottoni ancora nella tana, e non vogliamo certamente parlare della caccia alle balene.
Ma e' proprio cosi'? Possiamo davvero rinunciare a cuor leggero a una femmina giovane e in buona salute? La popolazione di trichechi e' florida? Secondo la IUCN no, e del resto i trichechi sono nella lista rossa degli animali norvegesi e russi. Globalmente la specie viene considerata "vulnerabile" e la sottospecie atlantica era "quasi a rischio" nel 2016, ma oggi sarebbe certamente passata a Vulnerabile.
La storia passata dei trichechi e' indubbiamente molto triste, ma e' sempre la stessa che si ripete per tutta la megafauna. Cacciati quasi fino all'estinzione, ci si e' accorti in tempo del declino rapidissino (dell'80% in Groenlandia tra il 1900 e il 1960, ma per il tricheco del Pacifico c'e' stato un calo generale del 50% dal 1980 al 2000) e si sono imposti dei vincoli al prelievo. La specie o non e' piu' cacciabile o lo e' in misura ridotta, o e' consentito cacciarla solo alle popolazioni tribali, a seconda di dove ci si trova. Certo, nessuno andra' mai a contare i trichechi della Terra di Francesco Giuseppe in piena notte artica e in mezzo alle sanzioni alla Russia, quindi per molte popolazioni in realta' non sia ha idea dei numeri effettivi ne' della variazione demografica e non si sa se il prelievo consentito, per esempio in Alaska e in Russia, sia sostenibile o no, perche' si parla comunque di migliaia di esemplari l'anno uccisi per ottenerne carne (la lingua pare sia una delicatessen), cuoio (dalla pelle spessa sino a 10 cm), grasso e soprattutto avorio dai denti, anche se ufficialmente il commercio di avorio di denti di tricheco e' regolato dalle convenzioni CITES.

Avorio di tricheco scolpito. Immagine da: Sázelová, S. (2014). Ethnological Approach to Siberian Zoomorphs: A Search for Meaning and Implications for the Upper Paleolithic Evidence. Archaeology, Ethnology and Anthropology of Eurasia, 42(4), 125-135.
C'e' pero' un'altra grave minaccia sulla testa dei trichechi, ed e' il cambiamento climatico. Tutti ricordiamo le immagini degli orsi polari canadesi che muoiono la fame perche' il pack si sta sciogliendo, come questa.
Anche per i trichechi il pack e' importantissimo. Loro si nutrono in modo superspecializzato, mangiano quasi esclusivamente invertebrati, per circa il 97% della loro dieta, con una spiccata preferenza per i bivalve come ostriche e vongole. La loro bocca e' adattata a creare, usando le labbra, la lingua e un palato opportunamente modificato, un vuoto che risucchia il mollusco dal guscio. Le prede vengono trovate in acque poco profonde usando i baffoni come organi tattili, mentre i dentoni strisciano sul fondo e servono all'animale (sia ai maschi che alle femmine) per fare buchi nel ghiaccio, issarsi sul pack e (solo ai maschi) per le lotte per la riproduzione. Oltre ai bivalve mangiano anche vermi, gamberetti e tutti gli invertebrati che strisciano sul fondo. Sono stati avvistati rari esemplari isolati nutrirsi di altro, come foche o uccelli marini, ma e' piu' una perversione alimentare che una componente fissa della dieta. Chiaramente per soddisfare le esigenze nutrizionali di un bestione che pesa centinaia di chili occorrono centinaia, se non migliaia, di vongole al giorno. Banchi di sabba sommersi adatti allo scopo ci sono e non sono un problema, salvo inquinamento. Solo che, dopo essersi nutrito, un tricheco, come i gatti, dorme anche per venti ore filate e ha bisogno di essere vicino alla sua fonte di cibo. Il pack offre al tricheco il posto adatto per riposare dopo le immersioni di foraggiamento. Senza pack, i banchi di vongole diventano lontanissimi, fuori dalla portata dell'animale, che quindi perde non solo il posto per riposare in gruppo, ma anche la fonte di cibo. Il pack e' anche il posto dove le femmine danno alla luce i piccoli e li allattano. Senza pack, che sta fondendo a velocita' impressionante, i trichechi tendono a radunarsi sulle coste disponibili ammassandosi a migliaia tutti insieme. Siccome sono facili al panico, basta un disturbo come un aereo a bassa quota o una barca troppo vicina, o un orso polare per scatenare l'inferno di migliaia di trichechi che camminano gli uni sugli altri, col risultato che i grossi maschi schiacciano e uccidono i cuccioli. I trichechi hanno uno sviluppo molto lento rispetto agli altri pinnipedi e ai mammiferi in generale perche' il loro latte e' meno nutriente, il cucciolo resta con la madre anche cinque anni, e in media una femmina puo' dare alla luce un cucciolo minimo ogni tre anni, a partire da 10 anni di eta'. Di conseguenza la perdita di un cucciolo, o di una femmina giovane, in una popolazione in declino, e' certamente un problema.
Ma perche' Freya era da sola? I trichechi sono animali gregari, tendono a stare tutti insieme radunandosi per sesso, fuori dal periodo riproduttivo. Le femmine in particolare sono molto gregarie e formano nurseries in cui le altre femmine badano ai cuccioli quando la madre e' via per nutrirsi. I maschi occasionalmente possono allontanarsi dal gruppo e rimanere da soli, e di solito tutti i casi di trichechi fuori zona sono maschi. Per esempio il tricheco Wally, che era comparso in Irlanda nel 2021 era un maschio di 4 anni. Anche Wally era un viaggiatore ed e' stato avvistato nelle contee di Cork e Kerry in Irlanda, In Galles, in Cornovaglia, nelle isole di Scilly, in Spagna per poi tornare a nord e andare in Islanda. Anche Willy in irlanda ha danneggiato un po' di barche per salirci su, ma gli irlandesi che, non dimentichiamolo, sono in Europa al contrario dei norvegesi e quindi hanno leggi di conservazione molto piu' a favore degli animali, gli hanno costruito un pontone su cui andare a dormire senza fare danni e anzi ancora sentono la mancanza del loro tricheco. Anche maschio e' il tricheco che a luglio si e' fatto il giro del mar Baltico, approdando su una spiaggia finlandese, e maschio era il tricheco con la radio che ne ha seguito il percorso dalle isole Faeroe sino al ritorno a casa nella terra di Francesco Giuseppe.
Che una giovane femmina si sia allontanata tanto da sola e' un fatto insolito. Per Wally si e' supposto che si fosse trovato alla deriva su un pezzo di pack staccatosi dal resto. Un vero peccato non aver pensato a geolocalizzare gli spostamenti di Freya con una radio, visto l'evento insolito. Che ci sia stata una situazione di stress a giustificare l'insolito arrivo di una femmina non e' improbabile, tuttavia, ed e' un fattore di cui tener conto.
Per esempio non si parla mai delle 28 nuove licenze di prospezione petrolifera concesse dal governo Norvegese solo quest'anno nel mare di Barents. Quanto disturbo creano? Ma soprattutto, non si stavano cercando soluzioni energetiche alternative, climaticamente meno impattanti? Il governo norvegese continua a fare quello che gli pare, ma dovrebbe imparare dalla storia dei suoi antenati.
L'areale dei trichechi si e' ristretto in tempi storici per via delle catture eccessive. Durante l'ultimo picco glaciale il posto piu' frequentato dai trichechi atlantici fu il Mare del Nord tra il Regno Unito e l'Olanda, tuttora l'area piu' ricca dei loro fossili. La fine dell'ultima glaciazione ha indubbiamente spostato l'areale di questa specie artica piu' a nord, ma ci sono testimonianze di trichechi stanziali nel nord della Norvegia nel IX secolo d.C.: il capitano vichingo Oethere sembra abbia raccontato a re Alfredo il Grande del Wessex del suo viaggio a nord di Capo Nord, dove "cacciammo il tricheco, il narvalo e la foca" (Fonte: https://www.cambridge.org/core/journals/oryx/article/walrus/30DCA39D2895236DA04DF4147454AEBB).
Del resto i trichechi sono chiaramente indicati all'estremo nord della Norvegia, il Finmark, nella Carta Marina di Olaus Magnus del 1539 (Rosmarus piscis). Qui c'e' tutta la carta, in grandi dimensioni, datele un'occhiata perche' e' meravigliosa.
La ricerca di trichechi per il commercio spinse i vichinghi in Islanda prima (dove ora sono estinti) (i trichechi, non i vichinghi) e in Groenlandia poi. E qui arriva la storia con la morale. La Groenlandia nel medioevo aveva il monopolio del commercio di avorio di tricheco, che veniva rivenduto in tutta Europa per farne manufatti bellissimi come i famosi scacchi di Lewis. Questo da un lato causo' un crollo della popolazione di trichechi, ma dall'altro rese la Groenlandia ambita e ricchissima, sino al suo crollo. Sino a qualche anni fa si riteneva che la caduta delle colonie vichinghe in Groenlandia fosse dovuto a un cambiamento climatico, ne parla anche Jared Diamond nel suo Collapse del 2005. Oggi pero' gli storici sono concordi nel ritenere che il crollo delle colonie in Groenlandia sia legato ai trichechi: da un lato l'eccessivo sfruttamento portava a cacciare animali sempre piu' rari e sempre piu' piccoli (Fonte), dall'altro alla fine del 1300 il clima cambio' (ci fu una micro era glaciale) e arrivo' la peste nera, la popolazione europea diminui' e per il cambiamento climatico non c'erano neanche piu' le risorse e l'interesse per comprare i manufatti in avorio di tricheco, che non poteva competere con l'avorio di elefante che nel frattempo era arrivato dall'Africa (fonte; altra fonte). E la Groenlandia crollo'. I norvegesi che senza dire niente a nessuno cercano di mantenere la loro prospera economia sfruttando i giacimenti petroliferi, potrebbero domani trovarsi davanti a una situazione simile, quando nessuno comprera' piu' il loro petrolio, ma nel frattempo avranno distrutto il loro ecosistema.
July 20, 2022
Ma davvero i gabbiani rapiscono i cagnolini?
Homo sapiens ha una innata tendenza a non volere condividere il proprio spazio con animali che non puo' sfruttare, forse con l'eccezione dei cani da compagnia. Tutte le specie selvatiche che osano invadere le aree urbane prima o poi sono soggette a una indiscriminata caccia alle streghe in cui se ne esalta la pericolosita' senza nessuna evidenza scientifica, e a volte senza nessuna evidenza in generale. Accade ai gatti, ai cinghiali, alle volpi urbane, ai lupi, ai colombi, ai cormorani e, periodicamente in estate, e' la volta dei gabbiani.
Chi scrive legge spesso sui social della incondizionata pericolosita' e aggressivita' dei gabbiani. Qualcuno dice che se ti attaccano possono sfondarti il cranio col becco, qualcuno dice che la loro preda preferita sono i gattini, qualcun altro dice che "non e' normale che ce ne siano tanti". La notizia del giorno e' pero' che ora i gabbiani si sarebbero trasfromati in rapaci e che predino cagnolini e gattini portandoseli via in volo.
A dare il via a questa ultima caccia alle streghe e' stata la storia di un cucciolo di Pinscher nano rapito da un gabbiano nel bosco di Capodimonte. A dare la notizia e' stata Fanpage.it, che riporta le parole di un consigliere della locale Municipalita'. Secondo il consigliere una turista straniera, di cui non c'e' traccia, non si sa chi sia e al momento nessuna intervista con questa persona e' stata rilasciata, portava a spasso il suo cucciolo, senza guinzaglio (il che non e' consentito ed e' sanzionabile), quando un gabbiano sarebbe calato sull'animale portandoselo via in volo e facendone perdere le tracce.
Naturalmente i social e gli altri media, in estate, non aspettavano altro, visto che gli orsi quest'anno non collaborano e ancora nessun turista ha dichiarato di essere stato aggredito. Il Fatto Quotidiano si precipita a dire "state attenti ai bambini". Le testimonianze di gente il cui cugino ha visto portare via un cane o un gatto si moltiplicano. "Possono sollevare sino a 2-3 kg", afferma una utente. "A Cavelleggeri si stanno mangiando tutti i gattini", afferma un altro. "Sono enormi" "amo gli animali , ma loro li schifo . Sono rapaci , con gli occhi gialli e fanno un rumore bruttissimo" "3 giorni fa a Melito ho visto un gabbiano volare e trasportava un animale della grandezza di un gattino di 2/3 mesi,nn sn riuscita a distinguere se era un cagnolino o un gattino" "e' successo ad una mia amica al suo cagnolino jo ero con lei e si portò il cagnolino con tutto il guinzaglio" "Fanno parte della famiglia dei rapaci ed è naturale per loro questo comportamento".
Quando si cerca di ragionare, viene fatto presente che e' cosi', ed e' tutto "ben documentato". Naturalmente non esiste una sola foto, malgrado tutte le centinaia di testimonianze, di gabbiano che si porta via in volo un gattino o un cagnolino. Il motivo e' presto detto: i gabbiani non sono rapaci, sono uccelli acquatici (Caradriformi, per la precisione), e non hanno proprio le strutture anatomiche per sollevare con le zampe una preda, non parliamo di portarsela via.
Analizziamole:

Gabbiano reale vs aquila. Immagini da Wikipedia
A sinistra potete osservare i piedi e le zampe di un gabbiano reale. Le zampe sono poco muscolose, c'e' una membrana che unisce le dita, rendendole palmate per consentire il nuoto, il quarto dito e' vestigiale, il che rende impossibile afferrare, gli artigli sono piccoli. A destra potete osservare le zampe di un'aquila reale: sono molto muscolose, non sono palmate, anzi le dita sono muscolose e ben separate, il quarto dito e' ben sviluppato, in posizione posteriore per consentire la presa, come un pollice opponibile, gli artigli sono estremamente sviluppati e ricurvi, per favorire la presa.
Alla vostra destra potete ammirare un animale che solleva le prede in volo con le zampe. Alla vostra sinistra osservate un animale che anche se volesse, proprio non potrebbe afferrare con le zampe neanche il suo cibo favorito, i pesci (e non i gattini).
Ma ancora immagino di non avervi convinti, perche' tutto sommato, "ci sono decine di testimoni oculari" (o di mitomani). Guardiamo allora l'immagine seguente.

Il cagnolino rapito a Capodimonte sembra fosse un Pinscher nano. A tre mesi questi cani pesano circa 2 kg. Prima dei tre mesi non dovrebbero proprio essere separati dalla madre, non parliamo di portarli a passeggio in un bosco senza guinzaglio.
Analizziamo il peso di un gabbiano reale. Secondo Wikipedia, i maschi pesano 1-1.5 kg, le femmine 0.7-1.1 kg. Il piu' grosso dei gabbiani reali pesa meno di un cucciolo di pinscher di 3 mesi. Non si capisce come avrebbe potuto afferrare il cucciolo con le zampe palmate e volare via sino a scomparire nel nulla trascinando con se un peso superiore al suo. Proprio non ci siamo con le leggi della fisica.
Ma gli irriducibili so che staranno per dire: ma non ha usato le zampe, lo ha afferrato col becco. Provate a prendere un aereo da turismo e ancorargli sul muso un macigno di peso superiore all'aereo, e poi ditemi se riuscite a decollare. Le leggi della fisica rimangono quelle.
Veniamo ai gattini. Un gattino di due mesi pesa da 600 g a 1.2 kg, a tre mesi raggiunge il kilogrammo anche se di piccola taglia. Il becco di un gabbiano reale e' (sempre la fonte e' Wikipedia) 4.1-6.5 cm. prendiamo il piu' grosso dei gabbiani reali, con un becco di 6.5 cm. Aperto a 180 gradi avrebbe una apertura di 13 cm, solo che aperto cosi non puo' tenere un oggetto nel becco, quindi conviene far riferimento alla semplice lunghezza del becco. Il torace di un gattino di due mesi supera i 6.5 cm. Dovrebbe afferrarlo per il collo, ma rimarrebbe il problema che il gattino pesa quanto il gabbiano e il volatile non riuscirebbe a decollare.
Conclusione: No, i gabbiani non rapiscono gattini e cagnolini portandoseli via in volo come un rapace.
C'e' da fare comunque qualche considerazione. Certamente i gabbiani sono predatori e sono piuttosto flessibili nelle loro prede, andando dai mammiferi alla spazzatura. Tuttavia, se un gabbiano deve nutrirsi di una preda grande lo fa con le zampe ben piantate per terra, perche' l'areodinamica del volo non permette diversamente. E' improbabile che un gabbiano possa ingoiare una preda di peso pari al suo. Il famoso video del gabbiano che ingoia un coniglietto non dice che quel coniglietto e' un cucciolo, pesera' certamente meno della meta' del gabbiano. Un bel pasto comunque, ma torniamo sulla terra e lasciamo perdere la fantasia. Un gabbiano puo' certamente predare (per terra) un gattino appena nato o moribondo, se la mamma del gattino non e' nei paraggi. I gattini tuttavia sono predati anche da gatti maschi, cani, gazze, cornacchie, volpi, donnole, faine, umani che li affogano e cosi via. Dire che a Napoli non ci sono piu' gattini perche' se li sono mangiati tutti i gabbiani e' una affermazione enorme, che richiederebbe evidenze altrettanto corpose, che pero' non ci sono. Avremmo anche risolto il problema del randagismo felino se fosse vero, ma non lo e', almeno finche' qualcuno non dimostra il contrario.
I gabbiani sono pericolosi per i neonati? No, e' una stupidaggine. I gabbiani perforano il cranio con il becco? No, e' un'altra stupidaggine, se uno va a disturbare il loro nido certamente lo difenderanno, ma piu' di un graffio al cuoio capelluto non faranno, la struttura del becco e' leggera e delicata, malgrado le apparenze, in confronto alla solidita' della nostra scatola cranica.
I gabbiani predano colombi e altri uccelli piu' piccoli? Si, lo fanno. Tenere sotto controllo la popolazione dei colombi urbani mi sembra sia una cosa desiderata da molti, finche' non scatta la caccia alle streghe, ed essere predati e' probabilmente meglio che morire a causa dei veleni umani.
Dobbiamo avere paura dei gabbiani? No, sono loro che devono avere paura di noi, gabbiani feriti si trovano a ogni angolo di strada, purtroppo. Sono "troppi"? Dipende dalla definizione di troppo. Per le persone che si fanno il prato con l'erba artificiale anche uno e' troppo, perche' gliela sporca. Poi queste stesse persone si lamentano delle estati sempre piu' calde, ma questa e' un'altra storia. "Troppo" in ecologia e' quando l'ambiente arriva a capacita'. Se succede, il numero degli individui di quella specie diminuisce naturalmente, gli ecosistemi si autoregolano senza il bisogno di una nostra definizione di "troppo" contata sul pallottoliere dell'intolleranza.
February 28, 2022
La pacifica lampreda ucraina alla conquista della Russia
Le lamprede fanno parte dell’antichissimo gruppo degli agnati, pesci cartilaginei privi di mandibola di cui oggi rimangono solo alcune decine di specie suddivise tra lamprede (quasi tutte di acqua dolce) e missine (tutte marine).
Non avendo la mandibola, le lamprede sono costrette a nutrirsi in soli due modi:
1) come parassiti, staccano pezzi di carne o succhiano il sangue di altri pesci, a cui si attaccano come se fossero sanguisughe;
2) non mangiano affatto allo stato adulto
La nostra lampreda, quella dei corsi d'acqua italiani, e' una lampreda parassita oggi a rischio di estinzione locale, ma un tempo era abbastanza comune da essere usata dai romani per uccidere gli schiavi disobbedienti buttandoli in apposite vasche piene di lamprede, godendosi lo spettacolo. Tuttavia la lampreda piu' diffusa nel continente europeo e' la lampreda ucraina, Eudontomyzon mariae, una creatura pacifica che da adulta non si nutre, mentre da larva filtra diatomee nei detriti del sedimento.

Eudontomyzon mariae By Geomyces.destructans - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.ph...
Questa innocua creatura dai denti arrotondati non e' endemica dell'Ucraina, a dispetto del nome, ma vive in tutta l'area balcanica e a nord sino alla Finlandia, nei fiumi tributari nel mar Nero, Mar Caspio, Mare d'Azov, mar Baltico e mar Egeo. Verrebbe quasi da renderla membro onorario della UE.
Potrei tediarvi sul fatto che predilige corsi d'acqua puliti e ben ossigenati, con un fondo di ghiaietto dove il maschio scava buchette che decora con le pietroline nella speranza di essere scelto da una femmina per la sua abilita' nello scavare buche e poi riempirle, o col fatto che vive come larva per 3.5-4.5 anni, fa la metamorfosi ad adulto, si riproduce e muore in breve tempo come se fosse un'effimera, ma non lo faro'.
Non lo faro' perche' la parte interessante della storia della nostra lampreda ucraina e' che sembra sia partita alla conquista della Russia. Nel 2006 uno studio di due ricercatori, uno russo e uno slovacco, Boris A. Levin e Juraj Holčík, dimostro' che questo animale vive anche nei tributari del Volga e del Don, i fiumi russi per antonomasia. I due autori sottolineano che nel bacino del Volga vivono diverse specie di lampreda: la lampreda del Caspio (Caspiomyzon wagneri), parassita, endemica, quasi estinta e protetta dalla Federazione Russa; la nostra lampreda europea parassita, quella delle vasche dei romani Lampetra fluviatilis, anche lei quasi estinta; la lampreda di ruscello, non parassita, Lampetra planeri, e ora anche la lampreda ucraina, il che porta la biodiversita' di lamprede al notevole livello di 4 specie. Non si sa bene se la specie non fosse mai stata osservata prima, o se ci sia arrivata dal Don. Gli autori non menzionano la possibilita' che sia alloctona, ma Levin in uno studio precedente del 2001 sostiene che nessuna menzione della specie esistesse relativamente al Volga prima di quella data.
Al contrario della nostra lampreda, cosi buona da mangiare che e' a rischio di estinzione in Italia, la lampreda ucraina non sembra destare interessi culinari. Le sue larve tuttavia, dette ammoceti, sono usate come esca per la pesca, e questo potrebbe spiegare eventuali trasferimenti in altri bacini fluviali piu' a est.
E' bello sapere che almeno le lamprede convinono pacificamente.
January 2, 2022
Il misterioso chilihueque dell’isola di Mocha
Dal diario di bordo della spedizione dell’esploratore olandese Joris van Spilbergen, durante il suo viaggio quinquennale intorno al mondo (1614-1618):
“L’ultima volta che scendemmo a terra riportammo con noi a bordo una pecora dall’aspetto incredibile: aveva un collo molto lungo e una gobba come un cammello, labbra da lepre e zampe molto lunghe. Con queste pecore arano la terra, usandole al posto di asini o cavalli”.
Di questa incredibile “pecora” dell’isola di La Mocha, in Cile, abbiamo anche una immagine, una incisione realizzata per la pubblicazione a stampa del diario (in basso a destra).
Altri viaggiatori si sono imbattuti nel fantomatico chilihueque, e abbiamo la fortuna di avere un resoconto in italiano, di pugno dell’abate Juan Ignacio Molina, gesuita cileno di nascita, italiano di adozione, naturalista, zoologo, storico, linguista ed evoluzionista 44 anni prima de L’origine delle specie” di Darwin. Nel suo “Saggio sulla storia naturale del Chili” (1778), questo grande e ahime’ sconosciuto naturalista cosi’ descrive il chilihueque:
“Questo animale, propriamente parlando, si chiama Hueque: ma gli Auraucani, presso i quali domesticato si trova, cominciarono dopo l’arrivo degli Spagnuoli a nominarlo Chilihueque, o Rehueque; cioe’ a dire Hueque Chilese, ovvero puro Hueque, per distinguerlo dal montone Europeo, a cui danno il medesimo nome per la somiglianza, che passa fra l’uno, e l’altro. Di fatto il Chilihueque, trattane la lunghezza del collo, e l’altezza delle gambe, e’ modellato in tutto il resto come il montone. Ha la testa cosi’ fatta, le orecchie cosi’ ovali, e floscie, gli occhi egualmente grandi e neri, il muso cosi’ lungo e gibboso, le labbra non meno grosse, e pendenti, la coda similmente formata, ma piu’ corta, e tutto il corpo coperto di lana cosi’ lunga, ma assai piu’ morbida. La sua lunghezza misurata dalle labbra sino all’origine della coda e’ di sei piedi incirca, ma il collo occupa un terzo di quella dimensione. La sua altezza presa al sito delle gambe di dietro e’ di poco piu’ di quattro piedi. Il suo colore e’ variabile, trovandone di bianchi, di neri, di brunicci e di cenerini”.
Cosa e’, o meglio, era, visto che e’ estinto, il chilihueque?
Oggi conosciamo 4 camelidi sudamericani, il guanaco e la vigogna, selvatici, e il lama e l’alpaca, domestici, teoricamente discendenti rispettivamente dal guanaco e dalla vigogna (ma non e’ proprio cosi’, dettagli piu sotto). Sino al XVII secolo circa, tuttavia, diverse cronache ci parlano del quinto camelide, il chilihueque, a cui Molina da’ anche un nome scientifico, Camelus araucanus. Sull’isola di Mocha, al largo del Cile, si trovano numerosi resti subfossili di questo camelide. Cos’era? L’anatomia dei resti ci dice che era un camelide e le cronache ci dicono che era domestico.
Questi gli scenari possibili:
1) il chilihueque era un lama
2) il chilihueque era un alpaca
3) il chilihueque era un guanaco o una vigogna addomesticato con una domesticazione indipendente da quella che ha portato a lama e alpaca
Sull’identita’ del chilihueque si e’ discusso moltissimo. Vediamo di ricostruire, tramite le fonti storiche e la genetica, l’identita’ segreta di questo camelide.
L’abate Molina ci dice che il guanaco e’ piu’ grosso del chilihueque. “Io ne ho veduti alcuni della grandezza di un buon cavallo”, aggiunge, riferendosi al guanaco. Dice anche che sono docilissimi e si addomesticano facilmente, ma insiste a considerare il chilihueque come una specie a se’: “La Vicogna, il Chilihueque e il Guanaco sono specie subalterne del genere dei cammelli”.
Il numero V del marzo 1817 del Colonial Journal ci dice che all’inizio del XIX secolo ancora non si era fatta chiarezza nella tassonomia dei camelidi sudamericani e regnava un gran caos. L’autore inglese del testo, anonimo, cerca di riassumere in questo modo: Buffon e dopo di lui Linneo contavano solo 4 camelidi, guanaco, vigogna, alpaca e lama, ma li riconducevano a due sole specie, contando gli alpaca come vigogne domesticate e i lama come guanaco domesticati. Molina rigetta l’idea che l’alpaca derivi dalla vigogna, e come abbiamo visto conta tre specie principali, guanaco, vigogna e chilihueque, a parte i domestici. Inoltre include tra i camelidi il Guemul, che in realta’ e’ un cervo sudamericano. Gmelin (in una riedizione dell’opera di Linneo), Pennant (nella sua Storia dei Quadrupedi) e Shaw (nella sua Zoologia Generale) contano sei camelidi, ovvero i quattro canonici, il chilihueque e il cervo imboscato tra i cammelli, il guemul. L’anonimo autore del trattato conclude infine che “il Paco (alpaca) del Peru’ e’ la stessa cosa del Chilihueque del Cile”. In altre parole, secondo questo sconosciuto naturalista britannico, il chilihueque era semplicemente un alpaca, chiamato in modo diverso in posti diversi.
Thomas Southey, nel suo libro “L’incremento, il progresso e lo stato attuale delle lane Coloniali”, pubblicato a Londra nel 1848, ritene che il chilihueque non poteva che essere un alpaca trasportato dal Peru’ al Cile meridionale (dove non ci sono alpaca). Ipotizza che il cambiamento di clima e di pascolo avrebbe reso l’animale piu’ robusto e piu’ utile, considerando che cita l’abate Molina relativamente al fatto che questi animali fossero usati come bestie da soma. Tuttavia, sostiene Southley, il fatto che il chilihueque sia un alpaca e’ provato dal fatto che da esso i nativi ne ottenevano una lana finissima usata solo per le vesti pregiate, mentre dal lama non si ottiene lana. Questa osservazione e’ abbastanza inutile, innanzi tutto perche’ dal lama si ottiene lana che si fila e si tesse regolarmente per fare i poncho e i sombrero, e in secondo luogo perche’ l’alpaca tendenzialmente non e’ una bestia da soma, e men che meno lo si puo’ attaccare a un aratro: la sua occupazione principale e’ star li, guardarti e giudicarti con un sorriso beffardo.
Se gli zoologi inglesi concordavano sull’alpaca, quelli chileni avevano opinioni differenti. Secondo Claudio Gay, nel suo trattato di zoologia cilena del 1847, il chilihueque e’ un guanaco addomoesticato, ovvero un lama. Traduco dallo spagnolo:
“In epoche remote i cileni e gli araucani [oggi noti come Mapuche, N.d.T.], si servivano del guanaco e come oggi li chiamavano Luan [la parola da cui deriverebbe "lama", N.d.T] allo stato selvatico e Chilihueque allo stato domestico. Li utilizzavano come bestie da soma e per arare la terra, secondo alcuni antichi viaggiatori. Anche gli spagnoli si servivano profusamente di loro nei primi anni della conquista e nel 1620 si vedevano ancora in campo e a Santiago al servizio degli acquaioli. In seguito tuttavia muli e asini divennero tanto comuni e il loro uso era cosi vantaggioso che i chilihueque scomparvero completamente dal territorio occupato dagli spagnoli e poco dopo anche da quello degli Araucani, malgrado la venerazione che questi ultimi avevano per questi animali, che erano oggetto di molte cerimonie, soprattutto durante le assemblee politiche. In Peru’, dove sono noti col nome di lama, al contrario sono rimasti sino a oggi”.
Secondo me, se invece di perdersi in ipotesi per quattro secoli fossero andati a guardare la morfologia dei resti subfossili dell’animale, gia’ avrebbero potuto dire se si trattava di un guanaco/lama o di una vigogna/alpaca, invece di farne questione di lana caprina cammellina per centinaia di anni. Si tratta tutto sommato di due creature piuttosto diverse anche come dimensione, oltre che come adattamenti. Siamo dovuti arrivare al XXI secolo per svelare finalmente l’enigma, usando ovviamente il DNA, e quello che ne e’ venuto fuori e’ estremamente interessante. Continuate a leggere.

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Nel territorio degli araucani, la popolazione aborigena che popolava l’isola di Mocha dove Spillbergen vide i primi chilihueque, non ci sono camelidi selvatici. Questo fa propendere verso il lama o l’alpaca, invece che verso i corrispettivi selvatici. La Mocha si trova a 35 km dalla costa del Cile e per raggiungerla occorrono 7 ore con un moderno kayak ergonomico in vetroresina, senza contare che si tratta di acque piuttosto pericolose, soprattutto in inverno. L’isola fu popolata per la prima volta 3500 anni fa, e la prima evidenza di occupazione permanente risale a 1500 anni fa. I resti di camelidi sono molto abbondanti, il che fa supporre che gli araucani che colonizzarono l’isola abbiano messo il povero camelide su una piroga e remato per almeno 7 ore filate sopportando gli sputi dall’odore putrescente della vilipesa creatura. Una necessita’ indispensabile, tuttavia, perche’ sull’isola non ci sono mammiferi terrestri di grandi dimensioni: c’e’ un topo endemico, una manciata di altri topi, e tutti gli altri, come la nutria o il microcopico cervo pudu sono introdotti dall’uomo, il che ha alterato pesantemente l’ecologia dell’isola.

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La genetica e’ uno strumento molto potente, che ha permesso di dar torto a tutti gli autori sopra citati, e di avere dei gran mal di testa. Innanzi tutto possiamo avere la soddisfazione di dare un pochino di torto a Linneo e Buffon: l’assioma che il lama discenda dal guanaco e l’alpaca dalla vigogna non e’ corretto. Tutti e quattro i camelidi si incrociano allegramente e nel passato c’e’ stato ogni sorta di miscuglio e introgressione durante il processo di domesticazione di lama e alpaca, iniziato circa 7000 anni fa, probabilmente alla ricerca della lana migliore. Il lama e’ la forma domestica del guanaco, ma entrambe le sottospecie di guanaco partecipano al DNA del lama moderno, il che ci parla, oltre che di ibridazioni, di possibili eventi multipli di domesticazione in punti diversi del sud America. Poi ci sono state le ibridazioni del proto-lama con l’alpaca, o con la vigogna, evidenziate dal DNA mitocondriale, per cui anche i lama, un pochino, discendono dalle vigogne. L’origine dell’alpaca e’ invece ancora fonte di dibattito, dal solo DNA mitocondriale sembrerebbe discendere anche lui dal guanaco, con poi incroci successivi con la vigogna, ma il DNA nucleare sembra assomigliare di piu’ a quello della vigogna. Inoltre nel DNA dell’alpaca ci sono geni di una popolazione ora estinta di guanaco. Insomma, la genetica di queste bestie, lama e alpaca, e’ un carnaio, perche’ fondamentalmente sono degli ibridoni. Al contrario, il guanaco e la vigogna sono geneticamente molto ben distinti, e se ci sono state introgressioni, sono state limitate anche a causa della separazione geografica.
In questo scenario si inserisce il chilihueque. Questo camelide si estinse definitivamente tra il XVII e il XVIII secolo perche’ l’introduzione da parte degli spagnoli di pecore, capre, asini e cavalli rese superfluo avere in casa una bestia che ti sputa in faccia riflusso gastro-esofageo fatto di erba semidigerita e maleodorante alla minima provocazione, potendo disporre delle pecore per la lana e degli asini per la soma. L’analisi filogenetica ci permette di dire, finalmente, che il chilihueque era una forma di guanaco domesticato. Il suo antenato selvatico era la sottospecie meridionale, Lama guanicoe guanicoe, oggi prevalentemente confinata alla Patagonia, a dispetto della cartina qui sopra. I Mopuche, la popolazione di cui fanno parte gli Araucani, erano un tempo distribuiti in tutta la parte centrale di Cile e Argentina, quindi non e’ sorprendente che il camelide piu’ prossimo agli Araucani del Cile fosse il guanaco meridionale. I tre campioni di DNA di chilihueque sequenziati, tuttavia, hanno delle sequenze geniche (aplotipi) diversi da tutti i guanaco moderni.
La parte interessante di questa storia e’ che i 3 chilihueque sequenziati erano geneticamente molto diversi tra loro, il che e’ in discordanza con una popolazione relitta e isolata su un isolotto. Gli autori dello studio ipotizzano continue introduzioni da varie zone della terraferma. La parte ancora piu’ interessante e’ che, mentre il lama e’ un ibridone, il chilihueque era un puro guanaco meridionale domesticato. Cio’ fa pensare non solo a domesticazioni indipendenti, quelle gia’ si sospettavano, ma anche che si trattasse di animali effettivamente differenti dagli altri camelidi: dai lama perche’ non c’era il contributo della vigogna e del guanaco settentrionale, e dal guanaco perche’ il processo di domesticazione porta alla cosiddetta “sindrome da domesticazione”, con alterazioni morfologiche e comportamentali notevoli, come orecchie mosce, cambiamento di colore con l’aggiunta di macchie bianche, muso corto etc. Molina infatti ci dice che i chilihueque avevano le orecchie pendule come le pecore, mentre altri autori evidenziano che erano o tutti bianchi, o bianchi e neri, mentre il guanaco e’ marroncino con del bianco e il lama puo’ essere di moltissimi colori. Considerando che il processo di selezione e domesticazione del guanaco e’ iniziato 7000 anni fa, il chilihueque doveva essere una specie di relitto delle prime forme di domesticazione, arrivato sino ai conquistadores perche’ forse era una specie di vacca sacra usata nelle cerimonie degli Araucani, come dice Claudio Gay, che e’ l’autore che piu’ si e’ avvicinato alla realta’ dei fatti.
Un vero peccato che il chilihueque sia diventato “inutile” e si sia estinto. Avrebbe potuto dirci molte cose istruttive sul processo di domesticazione. E la colpa della sua estinzione non mi sentirei di attribuirla agli alloctoni introdotti in sud america, pecore e asini, ma la darei integralmente a chi li ha introdotti
Referenze consultate
Libri storici
van Speilbergen. J., Maire, J. L. & DeVilliers, J. A. J. Spieghel der Australische navigatie. English. Volume 18 of The East and West Indian Mirror: Being an Account of Joris Van Speilbergen’s Voyage Round the World (1614–1617), and the Australian Navigations of Jacob Le Maire. (Hakluyt Society, 1906).Molina, J. I. (1810). Saggio sulla storia naturale del Chili. de’Fratelli Masi e Comp..Benavente Aninat, M. A. (1985). Reflexiones en torno al proceso de domesticación de camélidos en los valles del centro y sur de Chile.Southey, T. (1848). The Rise, Progress and Present State of Colonial Wools: Comprising Those of Australia, Van Diemen’s Land, and New Zealand; South Africa; British India; Peru, Chile, La Plata and the United States of America: with Some Account of the Goat’s Wool of Angora and India; and Bringing Dates and Statistics, in Reference to the Subject Under Consideration, Up to the Latest Periods Received. Smith, Elder.AA.VV (1817) The Colonial Journal, n. V, March. Colonial zoology, The American camel. Printed in London by G. DavidsonGay, C. Historia física y política de Chile. Vertebrados, Mamíferos. Zoología 1, 19–182 (1847).Articoli scientifici
Westbury, M., Prost, S., Seelenfreund, A., Ramírez, J. M., Matisoo-Smith, E. A., & Knapp, M. (2016). First complete mitochondrial genome data from ancient South American camelids-the mystery of the chilihueques from Isla Mocha (Chile). Scientific reports, 6(1), 1-7.Diaz-Maroto, P., Rey-Iglesia, A., Cartajena, I., Núñez, L., Westbury, M. V., Varas, V., … & Hansen, A. J. (2021). Ancient DNA reveals the lost domestication history of South American camelids in Northern Chile and across the Andes. Elife, 10, e63390.Barreta, J., Gutiérrez‐Gil, B., Iñiguez, V., Saavedra, V., Chiri, R., Latorre, E., & Arranz, J. J. (2013). Analysis of mitochondrial DNA in B olivian llama, alpaca and vicuna populations: a contribution to the phylogeny of the S outh A merican camelids. Animal Genetics, 44(2), 158-168.Yacobaccio, H. D. (2021). The domestication of South American camelids: a review. Animal Frontiers, 11(3), 43-51.Campbell, R. (2015). So near, so distant: Human occupation and colonization trajectories on the Araucanian islands (37° 30′ S. 7000–800 cal BP [5000 cal BC–1150 cal AD]). Quaternary International, 373, 117-135.Castillo, A. G., Alo, D., González, B. A., & Samaniego, H. (2018). Change of niche in guanaco (Lama guanicoe): the effects of climate change on habitat suitability and lineage conservatism in Chile. PeerJ, 6, e4907.Villalba, L., Alliance, A. C., Bonacic, C., & Zapata, B. (2004). Phylogeography and subspecies assessment of vicuñas in Chile and Bolivia utilizing mtDNA and microsatellite markers. Conservation Genetics, 5, 89-102.Pefaur, J. E., & YAñez, J. (1980). Ecología descriptiva de la Isla Mocha (Chile), en relación al poblamiento de vertebrados.
Il misterioso chilihueque dell'isola di Mocha
Dal diario di bordo della spedizione dell'esploratore olandese Joris van Spilbergen, durante il suo viaggio quinquennale intorno al mondo (1614-1618):
"L'ultima volta che scendemmo a terra riportammo con noi a bordo una pecora dall'aspetto incredibile: aveva un collo molto lungo e una gobba come un cammello, labbra da lepre e zampe molto lunghe. Con queste pecore arano la terra, usandole al posto di asini o cavalli".
Di questa incredibile "pecora" dell'isola di La Mocha, in Cile, abbiamo anche una immagine, una incisione realizzata per la pubblicazione a stampa del diario (in basso a destra).
Altri viaggiatori si sono imbattuti nel fantomatico chilihueque, e abbiamo la fortuna di avere un resoconto in italiano, di pugno dell'abate Juan Ignacio Molina, gesuita cileno di nascita, italiano di adozione, naturalista, zoologo, storico, linguista ed evoluzionista 44 anni prima de L'origine delle specie" di Darwin. Nel suo "Saggio sulla storia naturale del Chili" (1778), questo grande e ahime' sconosciuto naturalista cosi' descrive il chilihueque:
"Questo animale, propriamente parlando, si chiama Hueque: ma gli Auraucani, presso i quali domesticato si trova, cominciarono dopo l'arrivo degli Spagnuoli a nominarlo Chilihueque, o Rehueque; cioe' a dire Hueque Chilese, ovvero puro Hueque, per distinguerlo dal montone Europeo, a cui danno il medesimo nome per la somiglianza, che passa fra l'uno, e l'altro. Di fatto il Chilihueque, trattane la lunghezza del collo, e l'altezza delle gambe, e' modellato in tutto il resto come il montone. Ha la testa cosi' fatta, le orecchie cosi' ovali, e floscie, gli occhi egualmente grandi e neri, il muso cosi' lungo e gibboso, le labbra non meno grosse, e pendenti, la coda similmente formata, ma piu' corta, e tutto il corpo coperto di lana cosi' lunga, ma assai piu' morbida. La sua lunghezza misurata dalle labbra sino all'origine della coda e' di sei piedi incirca, ma il collo occupa un terzo di quella dimensione. La sua altezza presa al sito delle gambe di dietro e' di poco piu' di quattro piedi. Il suo colore e' variabile, trovandone di bianchi, di neri, di brunicci e di cenerini".
Cosa e', o meglio, era, visto che e' estinto, il chilihueque?
Oggi conosciamo 4 camelidi sudamericani, il guanaco e la vigogna, selvatici, e il lama e l'alpaca, domestici, teoricamente discendenti rispettivamente dal guanaco e dalla vigogna (ma non e' proprio cosi', dettagli piu sotto). Sino al XVII secolo circa, tuttavia, diverse cronache ci parlano del quinto camelide, il chilihueque, a cui Molina da' anche un nome scientifico, Camelus araucanus. Sull'isola di Mocha, al largo del Cile, si trovano numerosi resti subfossili di questo camelide. Cos'era? L'anatomia dei resti ci dice che era un camelide e le cronache ci dicono che era domestico.
Questi gli scenari possibili:
1) il chilihueque era un lama
2) il chilihueque era un alpaca
3) il chilihueque era un guanaco o una vigogna addomesticato con una domesticazione indipendente da quella che ha portato a lama e alpaca
Sull'identita' del chilihueque si e' discusso moltissimo. Vediamo di ricostruire, tramite le fonti storiche e la genetica, l'identita' segreta di questo camelide.
L'abate Molina ci dice che il guanaco e' piu' grosso del chilihueque. "Io ne ho veduti alcuni della grandezza di un buon cavallo", aggiunge, riferendosi al guanaco. Dice anche che sono docilissimi e si addomesticano facilmente, ma insiste a considerare il chilihueque come una specie a se': "La Vicogna, il Chilihueque e il Guanaco sono specie subalterne del genere dei cammelli".
Il numero V del marzo 1817 del Colonial Journal ci dice che all'inizio del XIX secolo ancora non si era fatta chiarezza nella tassonomia dei camelidi sudamericani e regnava un gran caos. L'autore inglese del testo, anonimo, cerca di riassumere in questo modo: Buffon e dopo di lui Linneo contavano solo 4 camelidi, guanaco, vigogna, alpaca e lama, ma li riconducevano a due sole specie, contando gli alpaca come vigogne domesticate e i lama come guanaco domesticati. Molina rigetta l'idea che l'alpaca derivi dalla vigogna, e come abbiamo visto conta tre specie principali, guanaco, vigogna e chilihueque, a parte i domestici. Inoltre include tra i camelidi il Guemul, che in realta' e' un cervo sudamericano. Gmelin (in una riedizione dell'opera di Linneo), Pennant (nella sua Storia dei Quadrupedi) e Shaw (nella sua Zoologia Generale) contano sei camelidi, ovvero i quattro canonici, il chilihueque e il cervo imboscato tra i cammelli, il guemul. L'anonimo autore del trattato conclude infine che "il Paco (alpaca) del Peru' e' la stessa cosa del Chilihueque del Cile". In altre parole, secondo questo sconosciuto naturalista britannico, il chilihueque era semplicemente un alpaca, chiamato in modo diverso in posti diversi.
Thomas Southey, nel suo libro "L'incremento, il progresso e lo stato attuale delle lane Coloniali", pubblicato a Londra nel 1848, ritene che il chilihueque non poteva che essere un alpaca trasportato dal Peru' al Cile meridionale (dove non ci sono alpaca). Ipotizza che il cambiamento di clima e di pascolo avrebbe reso l'animale piu' robusto e piu' utile, considerando che cita l'abate Molina relativamente al fatto che questi animali fossero usati come bestie da soma. Tuttavia, sostiene Southley, il fatto che il chilihueque sia un alpaca e' provato dal fatto che da esso i nativi ne ottenevano una lana finissima usata solo per le vesti pregiate, mentre dal lama non si ottiene lana. Questa osservazione e' abbastanza inutile, innanzi tutto perche' dal lama si ottiene lana che si fila e si tesse regolarmente per fare i poncho e i sombrero, e in secondo luogo perche' l'alpaca tendenzialmente non e' una bestia da soma, e men che meno lo si puo' attaccare a un aratro: la sua occupazione principale e' star li, guardarti e giudicarti con un sorriso beffardo.
Se gli zoologi inglesi concordavano sull'alpaca, quelli chileni avevano opinioni differenti. Secondo Claudio Gay, nel suo trattato di zoologia cilena del 1847, il chilihueque e' un guanaco addomoesticato, ovvero un lama. Traduco dallo spagnolo:
"In epoche remote i cileni e gli araucani [oggi noti come Mapuche, N.d.T.], si servivano del guanaco e come oggi li chiamavano Luan [la parola da cui deriverebbe "lama", N.d.T] allo stato selvatico e Chilihueque allo stato domestico. Li utilizzavano come bestie da soma e per arare la terra, secondo alcuni antichi viaggiatori. Anche gli spagnoli si servivano profusamente di loro nei primi anni della conquista e nel 1620 si vedevano ancora in campo e a Santiago al servizio degli acquaioli. In seguito tuttavia muli e asini divennero tanto comuni e il loro uso era cosi vantaggioso che i chilihueque scomparvero completamente dal territorio occupato dagli spagnoli e poco dopo anche da quello degli Araucani, malgrado la venerazione che questi ultimi avevano per questi animali, che erano oggetto di molte cerimonie, soprattutto durante le assemblee politiche. In Peru', dove sono noti col nome di lama, al contrario sono rimasti sino a oggi".
Secondo me, se invece di perdersi in ipotesi per quattro secoli fossero andati a guardare la morfologia dei resti subfossili dell'animale, gia' avrebbero potuto dire se si trattava di un guanaco/lama o di una vigogna/alpaca, invece di farne questione di lana caprina cammellina per centinaia di anni. Si tratta tutto sommato di due creature piuttosto diverse anche come dimensione, oltre che come adattamenti. Siamo dovuti arrivare al XXI secolo per svelare finalmente l'enigma, usando ovviamente il DNA, e quello che ne e' venuto fuori e' estremamente interessante. Continuate a leggere.

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Nel territorio degli araucani, la popolazione aborigena che popolava l'isola di Mocha dove Spillbergen vide i primi chilihueque, non ci sono camelidi selvatici. Questo fa propendere verso il lama o l'alpaca, invece che verso i corrispettivi selvatici. La Mocha si trova a 35 km dalla costa del Cile e per raggiungerla occorrono 7 ore con un moderno kayak ergonomico in vetroresina, senza contare che si tratta di acque piuttosto pericolose, soprattutto in inverno. L'isola fu popolata per la prima volta 3500 anni fa, e la prima evidenza di occupazione permanente risale a 1500 anni fa. I resti di camelidi sono molto abbondanti, il che fa supporre che gli araucani che colonizzarono l'isola abbiano messo il povero camelide su una piroga e remato per almeno 7 ore filate sopportando gli sputi dall'odore putrescente della vilipesa creatura. Una necessita' indispensabile, tuttavia, perche' sull'isola non ci sono mammiferi terrestri di grandi dimensioni: c'e' un topo endemico, una manciata di altri topi, e tutti gli altri, come la nutria o il microcopico cervo pudu sono introdotti dall'uomo, il che ha alterato pesantemente l'ecologia dell'isola.

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La genetica e' uno strumento molto potente, che ha permesso di dar torto a tutti gli autori sopra citati, e di avere dei gran mal di testa. Innanzi tutto possiamo avere la soddisfazione di dare un pochino di torto a Linneo e Buffon: l'assioma che il lama discenda dal guanaco e l'alpaca dalla vigogna non e' corretto. Tutti e quattro i camelidi si incrociano allegramente e nel passato c'e' stato ogni sorta di miscuglio e introgressione durante il processo di domesticazione di lama e alpaca, iniziato circa 7000 anni fa, probabilmente alla ricerca della lana migliore. Il lama e' la forma domestica del guanaco, ma entrambe le sottospecie di guanaco partecipano al DNA del lama moderno, il che ci parla, oltre che di ibridazioni, di possibili eventi multipli di domesticazione in punti diversi del sud America. Poi ci sono state le ibridazioni del proto-lama con l'alpaca, o con la vigogna, evidenziate dal DNA mitocondriale, per cui anche i lama, un pochino, discendono dalle vigogne. L'origine dell'alpaca e' invece ancora fonte di dibattito, dal solo DNA mitocondriale sembrerebbe discendere anche lui dal guanaco, con poi incroci successivi con la vigogna, ma il DNA nucleare sembra assomigliare di piu' a quello della vigogna. Inoltre nel DNA dell'alpaca ci sono geni di una popolazione ora estinta di guanaco. Insomma, la genetica di queste bestie, lama e alpaca, e' un carnaio, perche' fondamentalmente sono degli ibridoni. Al contrario, il guanaco e la vigogna sono geneticamente molto ben distinti, e se ci sono state introgressioni, sono state limitate anche a causa della separazione geografica.
In questo scenario si inserisce il chilihueque. Questo camelide si estinse definitivamente tra il XVII e il XVIII secolo perche' l'introduzione da parte degli spagnoli di pecore, capre, asini e cavalli rese superfluo avere in casa una bestia che ti sputa in faccia riflusso gastro-esofageo fatto di erba semidigerita e maleodorante alla minima provocazione, potendo disporre delle pecore per la lana e degli asini per la soma. L'analisi filogenetica ci permette di dire, finalmente, che il chilihueque era una forma di guanaco domesticato. Il suo antenato selvatico era la sottospecie meridionale, Lama guanicoe guanicoe, oggi prevalentemente confinata alla Patagonia, a dispetto della cartina qui sopra. I Mopuche, la popolazione di cui fanno parte gli Araucani, erano un tempo distribuiti in tutta la parte centrale di Cile e Argentina, quindi non e' sorprendente che il camelide piu' prossimo agli Araucani del Cile fosse il guanaco meridionale. I tre campioni di DNA di chilihueque sequenziati, tuttavia, hanno delle sequenze geniche (aplotipi) diversi da tutti i guanaco moderni.
La parte interessante di questa storia e' che i 3 chilihueque sequenziati erano geneticamente molto diversi tra loro, il che e' in discordanza con una popolazione relitta e isolata su un isolotto. Gli autori dello studio ipotizzano continue introduzioni da varie zone della terraferma. La parte ancora piu' interessante e' che, mentre il lama e' un ibridone, il chilihueque era un puro guanaco meridionale domesticato. Cio' fa pensare non solo a domesticazioni indipendenti, quelle gia' si sospettavano, ma anche che si trattasse di animali effettivamente differenti dagli altri camelidi: dai lama perche' non c'era il contributo della vigogna e del guanaco settentrionale, e dal guanaco perche' il processo di domesticazione porta alla cosiddetta "sindrome da domesticazione", con alterazioni morfologiche e comportamentali notevoli, come orecchie mosce, cambiamento di colore con l'aggiunta di macchie bianche, muso corto etc. Molina infatti ci dice che i chilihueque avevano le orecchie pendule come le pecore, mentre altri autori evidenziano che erano o tutti bianchi, o bianchi e neri, mentre il guanaco e' marroncino con del bianco e il lama puo' essere di moltissimi colori. Considerando che il processo di selezione e domesticazione del guanaco e' iniziato 7000 anni fa, il chilihueque doveva essere una specie di relitto delle prime forme di domesticazione, arrivato sino ai conquistadores perche' forse era una specie di vacca sacra usata nelle cerimonie degli Araucani, come dice Claudio Gay, che e' l'autore che piu' si e' avvicinato alla realta' dei fatti.
Un vero peccato che il chilihueque sia diventato "inutile" e si sia estinto. Avrebbe potuto dirci molte cose istruttive sul processo di domesticazione. E la colpa della sua estinzione non mi sentirei di attribuirla agli alloctoni introdotti in sud america, pecore e asini, ma la darei integralmente a chi li ha introdotti
Referenze consultate
Libri storici
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October 3, 2021
Cosa è la domesticazione? Di volpi, elefanti e altri animali
Cani, cavalli, maiali, pecore, pomodori, mais e champignon hanno tutti una cosa in comune: sono specie addomesticate.
Elefanti, leoni, ratti, falchi, cicorielle e cardoncelli hanno anche loro una cosa in comune: sono ammaestrabili, ma non addomesticati.
Poi ci sono tutti gli altri, non addomesticati e non ammaestrabili, semplicemente selvatici, come il gatto selvatico, il visone, lo squalo balena o i baobab.
C'è una grande e pericolosa confusione tra i concetti di domesticazione, ammaestrabilità e selezione artificiale, e di questa confusione spesso si avvantaggia chi commercia in animali selvatici, ciclidi, falchi, gechi, leoni o quel che sia, per non parlare dei circhi. Per molti, un animale selvatico nato in cattività è domestico, ma non è cosi. La domesticazione è un processo molto complesso di cui si stenta anche a dare una definizione univoca.
Quello che è certo, è che il processo di domesticazione è un processo molto lungo che comporta la simbiosi tra l'uomo e un'altra specie, che dall'uomo diventa dipendente.
Una buona definizione potrebbe essere quella data da Rindos, 1980:
"La domesticazione implica la formazione di una relazione simbiontica tra l'uomo e altri animali e piante. Il processo della domesticazione animale richiede adattamento, in particolare adattamento all'uomo e all'ambiente che fornisce"
O anche la definizione di Price & King, 1968
"La domesticazione è un processo evolutivo che comporta l'adattamento genotipico di animali all'ambiente di detenzione"
Ce ne sono molte altre, ma in soldoni il concetto è questo: il cane è domestico perché è dipendente dall'uomo. Quando nascono i cagnolini, non bisogna ogni volta insegnargli a coesistere con l'uomo, è qualcosa che fanno istintivamente. Ma se nasce un falco a un falconiere, e il pullo non è imprintato o abituato all'uomo, il falconiere dovrà ogni singola volta conquistare la fiducia del falco (spesso in modo brutale), perchè il suo set-up genetico non prevede la convivenza con l'uomo, e se potrà scappare, scapperà. Il fatto che il genitore non scappi, non è garanzia che non scappi il figlio. Gli elefanti indiani sono ammaestrati da secoli, se non da millenni, ma non sono addomesticati, bisogna ogni volta ricominciare da capo (spesso in modo molto brutale, again): l'elefante tollera l'uomo per via dell'ammaestramento, ma non ne è dipendente, nè è dipendente dall'ambiente che l'uomo gli fornisce, mentre un carlino preferisce una bella cuccia calda a una notte da lupi, e le pecore senza pastore che le tosa e un recinto elettrificato sono spacciate, salvo eccezioni. Inoltre, alla domesticazione vera e propria spesso sono associati una serie di caratteri fenotipici come mantello variegato, muso infantile, orecchie mosce, riduzione della capacità cerebrale. D'altro canto l'uomo è coevoluto per essere dipendente dal cane per la guardia, per la caccia, per i tartufi, per le pecore etc etc. E' coevoluto con le pecore che gli forniscono lana per coprirsi, latte e carne. Certamente non è coevoluto per essere dipendente dal pappagallo.
Una cosa ancora diversa è la selezione artificiale, che è una serie di incroci intenzionali volti a selezionare un carattere desiderato dall'uomo. Le frisone sono selezionate per fornire latte ben oltre il tempo di svezzamento del vitellino, e in maggior quantità, ma questo è avvenuto secondariamente alla loro domesticazione. Il geco tokai è selezionato per avere una grande quantità di livree tutte più o meno colorate e desiderabili, ma il geco tokai non sa assolutamente cosa farsene di voi e della vostra teca, non si affeziona, non vi corre incontro, non vi fa le feste, non è nè ammaestrato nè addomesticato. E' semplicemente prigioniero. Certo se liberato, con quei colori sgargianti probabilmente durerebbe poco, ma questo non implica che sia "adattato al suo ambiente di detenzione", come dicono Price & King. E' semplicemente disadattato al suo ambiente naturale, il che lo mette in una posizione particolarmente infelice.
E' indubbio però che la domesticazione richieda un lungo processo di selezione naturale, in modo da poter ottenere il famoso "adattamento fenotipico" necessario a sopportarci. Quanto lungo?
Gli allevatori di specie esotiche a questo punto tirano fuori l'asso di Briscola dalla manica e citano l'esperimento di Dmitry K. Belyaev, che avrebbe addomesticato le volpi in dieci generazioni, et voilà, che ci vuole? Quello che non dicono è che ci sono molti motivi per mettere in dubbio i risultati dell'esperimento di Belyaev, dal metodo usato ai risultati ottenuti, senza menzionare le motivazioni.
Ripercorriamo quindi la storia di Dmitry Belyaev, e cerchiamo di capire cosa ha fatto, perchè lo ha fatto, cosa ha ottenuto, e vediamo se è vero che bastano 10 generazioni in cattività per addomesticare una specie qualunque.

Dimitri Belyaev
Dimitri Belyaev nacque nel 1917, l'anno della rivoluzione di ottobre. Era il quarto di 4 fratelli, suo padre era un prete ma suo fratello maggiore Nicolai, di ben 18 anni più grande, divenne un famoso genetista, in un periodo, gli anni '20-'30 del secolo scorso, in cui l'atmosfera scientifica russa nei confronti della genetica e dell'evoluzione darwiniana era in ebollizione e, se non fosse stata stroncata, ci avrebbe dato risultati grandiosi. Theodosius Dobzhansky, uno dei grandi padri della teoria sintetica dell'evoluzione (quella che unisce la genetica e la teoria darwiniana dell'evoluzione per selezione naturale), si era formato in quell'ambiente, ma saggiamente scappò in america nel 1927.
Nel 1924 Stalin era asceso al potere e questo già rese il clima pesante per gli scienziati, perchè la politica cominciò a invadere campi che non le competevano. Ma il vero colpo arrivò quando Trofim Lysenko, grazie all'appoggio di Stalin, guadagnò incredibile influenza politica e accademica a partire dalla metà degli anni '20, sino a diventare direttore dell'Istituto di genetica dell'Accademia Russa delle Scienza, nel 1940. Lysenko non era un uomo di cultura, era figlio di contadini e non aveva studiato, non sapeva niente di evoluzione e oggi come oggi sarebbe stato un hater da social, di quelli novax-notap-nomask contro i professoroni invidiosi. Ce ne sono sempre state di queste persone. In ogni caso, Lysenko si trovò al momento giusto nel posto giusto, rubò ad altri la teoria della vernalizzazione dei semi giusto durante la grande carestia in Unione Sovietica (dovuta alla collettivizzazione) e divenne un alto ingranaggio del sistema. A quel punto continuò a sparare una fesseria scientifica dietro l'altra e chiunque lo contestava veniva mandato a morte, o in Siberia, o entrambe le cose, o nel migliore dei casi licenziato. Lisenko era un sostenitore convinto del lamarkismo. Era convinto che se sottoponevi i semi del grano invernale alla vernalizzazione, un processo di induzione ambientale a germinare in primavera, questi germinando avrebbero trasmesso alle piante figlie la capacità di germinare in primavera. Era anche convinto che i semi si potevano piantare vicinissimi, perchè piante della stessa classe sociale non sarebbero mai entrate in competizione tra loro. Diceva che i geni non esistono, che le cellule crescono da materiale inorganico e via cosi. E' responsabile da solo di una terribile carestia che ha ammazzato milioni di persone, perchè obbligava i contadini a coltivare il grano coi suoi metodi strampalati e inefficaci. Ovviamente, odiava quei saputelli corrotti dei genetisti, perchè la genetica non solo non è democratica, ma neanche bolscevica. La genetica infatti era considerata "fascista" dal regime sovietico, e le teorie darwiniste furono messe al bando da Lysenko, come gli scienziati che ci lavoravano.
Il fratello genetista di Dimitri Belyaev, Nikolai, fu arrestato nell'Agosto del 1937 e messo a morte senza un processo nel novembre dello stesso anno, la sua colpa quella di essere un darwinista. Nikolai Koltsov, genetista, il primo a postulare l'esistenza del citoscheletro, era critico del regime e morì misteriosamente nel 1940, ufficialmente di infarto, ma a quanto pare di avvelenamento. Sua moglie, lo stesso giorno, si "suicidò". Nikolai Vavilov, genetista, agronomo e botanico, osò addirittura criticare apertamente Lysenko. Fu arrestato e condannato a morte nel 1941, ma la sentenza fu commutata in 20 anni di gulag, dove morì di fame nel 1943. Sergei Tchetverikov, uno dei primi genetisti di popolazione, uno dei primi a concepire la teoria sintetica dell'evoluzione, purtroppo in russo senza possibilità di comunicare col mondo occidentale, fu arrestato nel 1929 e mandato in esilio per 5 anni. Dopo continuò a lavorare come ricercatore sino al 1948, quando Lysenko lo fece licenziare. Timofeef-Ressovsky lavorava in Gemania ma, dopo l'entrata dei russi a Berlino, fu arrestato, liberato, arrestato di nuovo e mandato al gulag sino al 1955. E l'elenco è ancora lungo.
In questo simpatico clima di amore per i biologi, in particolare i darwinisti e i genetisti, il nostro Dimitri Belyaev si laureò nel 1938, l'anno dopo l'esecuzione di suo fratello, con una coraggiosa tesi sull'ereditarietà del manto grigio nelle volpi argentate e andò a lavorare al Dipartimento degli animali da pelliccia del Laboratorio Centrale di Ricerca, dove iniziò a lavorare con le volpi e i visoni. Dopo una breve parentesi nel 1941 alle prese con la WWII, durante la quale fu ferito, tornò a lavorare al suo posto con volpi e visoni al Laboratorio Centrale. Malgrado tenesse un profilo basso, bassissimo, nel 1948 fu licenziato dal suo posto di capo dipartimento.
Stalin morì nel 1953. Da allora il lysenkoismo gradatamente si affievolì, ma nei suoi 30 anni di potere assoluto Lysenko aveva distrutto per sempre la biologia accademica russa, e non sembra al momento essersi ripresa ed essersi messa al pari col resto del mondo.
Belyaev nel 1958 andò a lavorare, sino alla sua morte nel 1985, per la Divisione siberiana dell'Accademia Russa delle Scienze e diventò direttore dell'Istututo di Citologia e Genetica a Novosibirsk. Praticamente si mandò in Siberia da solo. Ora, immaginate quest'uomo finalmente libero di urlare al mondo, tipo Gene Wilder in Frankenstein jr., SI-PUO'-FARE!, relativamente al darwinismo, dopo aver visto morire il fratello e tutti i suoi maestri. Quanto sarà stata grande l'ansia di dimostrare che le teorie di Darwin sulla selezione artificiale erano vere, dopo 30 anni di Lysenko?
Così concepì l'esperimento delle volpi domestiche, esperimento che dura tutt'ora.
L'esperimento delle volpi
Uno dei principali interessi scientifici di Belyaev era l'origine del processo di domesticazione e le sue conseguenze, soprattutto quelle conseguenze che sembrano essere in comune a tutte le specie domestiche. La sua ipotesi era che la domesticazione dei lupi era cominciata a partire da un fattore chiave, la docilità nei confronti dell'uomo, che sarebbe venuto prima, e non dopo, ogni tentativo di selezione di caratteristiche morfologiche. La selezione artificiale del comportamento avrebbe portato modifiche genetiche che sarebbero state trasmesse alla progenie. Sino a qui niente di strano, lo aveva già affermato Darwin nell'Origine delle Specie, nel capitolo dedicato alla selezione artificiale. Secondo Belyaev la docilità era condizione necessaria e sufficiente a far partire il rapporto di simbiosi che si genera tra l'uomo e l'animale domesticato (avrebbe dovuto conoscere il mio gatto Harry, a proposito di animali domestici che NON si affezionano). Selezionare artificialmente una specie per la sua docilità significava, per Belyaev e per la sua assistente, Lyudmilla Trut, che ha continuato l'esperimento anche dopo la morte di Belyaev e lo continua tutt'ora, selezionare la specie per caratteristiche biochimiche di natura ormonale o nei segnali dei neurotrasmettitori, e queste alterazioni potrebbero avere altre conseguenze sulla struttura fisica e fisiologica dell'animale. Non solo orecchie pendule, quindi, ma anche per esempio maggiore fertilità e alterazione dei cicli riproduttivi. Balyaev chiamò questo processo "selezione destabilizzante".
La sua specie di studio però non furono i lupi, ma le volpi argentate, una variante melanica della volpe rossa molto comune all'epoca negli allevamenti di pellicce, e con cui aveva già lavorato in passato. Partì da 130 volpi, che fece riprodurre. In ogni generazione, solo al 10% più socievole e amichevole era consentito riprodursi, più femmine che maschi. Le volpi erano confinate dentro gabbiette singole, al freddo dell'inverno siberiano, e avevano minimi contatti con l'uomo, per cercare di minimizzare l'effetto dell'abitudine e dell'addestramento. C'era una scala di "docilità" prefissata per stabilire quel 10%, ma chiaramente era soggettiva.
Nell'arco di 10 generazioni il 10% del 10% del 10% etc (praticamente una diluizione omeopatica) aveva cominciato a comportarsi come un cane, correva incontro alle persone (non una particolare, chiunque), leccava le mani e la faccia, scodinzolava, apparentemente abbaiava, alcune volpi avevano la coda arricciata all'insù come i cani, il manto pezzato, il muso più corto etc., quella che si chiama "sindrome della domesticazione", una serie di aspetti morfologici comuni a tutte le specie domestiche, come maiali e vacche. La spiegazione di Belyaev è che la "selezione destabilizzante" influenzava i meccanismi neuroendocrini dello sviluppo dell'animale in risposta a fattori di stress (qualunque cosa questo significhi), e questo è un fattore trasmissibile. Quindi, domesticazione in dieci semplici mosse. Dopo 6 generazioni solo l'1.8% era socievole. Nel 1999 lo era l'80%. Nel 2006, a 50 anni di distanza, tutte le volpi selezionate erano amichevoli.
Cosa non va nell'esperimento di Belyaev
L'esperimento di Belyaev sarebbe grandioso se fosse come lo interpreta chi dice (per lucro, egoismo o ignoranza) che se un animale nasce in cattività, allora è domestico e non soffre la cattività. Purtroppo non funziona così, e ci sono numerose criticità.
1) Innanzi tutto, per il metodo scientifico, una ipotesi è verificata se l'esperimento è riproducibile. L'esperimento di Belyaev non è mai stato ripetuto con altre volpi argentate. Se volete una volpe "addomesticata" l'unico posto al mondo dove potete comperarla, per la modica cifra di 8000 dollari, è l'allevamento di Novosibirsk gestito dalla ottuagenaria Lyudmilla Trut, la discepola di Belyaev. Da un esperimento mai riprodotto non si può determinare nulla. Della variabilità genetica delle 130 volpi originarie probabilmente resta poco e nulla, a meno che non sia stato introdotto sangue fresco senza che venisse registrato. Se a ogni generazione seleziono il 10%, la deriva genetica che ottengo dopo 50 anni è mostruosa ed è un fattore completamente casuale, dato che, almeno apparentemente, il solo fattore selezionato era la docilità, mentre tutto il resto era casuale. Se prendessi gli abitanti di un paese e a ogni generazione facessi riprodurre solo quelli, diciamo, più socievoli, dopo 50 generazioni otterrei un paese di venditori d'auto e agenti immobiliari, ma magari per deriva genetica sarebbero tutti a sei dita, alti sotto il metro e cinquanta e avrebbero tutti i capelli rossi. Se facessi lo stesso esperimento nel paese di fianco, sarebbero magari tutti social media manager, bruni, obesi e stalker. Senza ripetere l'esperimento più e più volte, non posso farci su statistiche, e uno non fa statistica. Ricordiamo come l'esperimento di Benveniste sulla memoria dell'acqua sia stato "smascherato" proprio perchè nessun altro, in nessun altro laboratorio, riusciva a riprodurlo. Senza riproducibilità non è scienza.
2) Balyaev provò a rifare l'esperimento delle volpi con lontre e visoni, fallendo. Questo esperimento non è mai stato ripetuto con altre specie, neanche di altri canidi, tipo il cane procione. Di nuovo, un esperimento non ripetibile non porta da nessuna parte. Magari le volpi hanno un qualche tipo di pradattamento che le rende sensibili a un processo di domesticazione per selezione artificiale, magari no, se non si ripete l'esperimento non si può dire. Questo vuol dire che il leone del circo in gabbia da dieci generazioni non è domestico. L'assenza di quello che gli scienziati chiamano un "controllo", ovvero fare l'esperimento con qualcosa che sai che funziona, è grave. Belyaev avrebbe dovuto _anche_ prendere dei lupi, parallelamente alle volpi, e vedere se diventavano cani, in modo da avere un controllo, con un qualcosa che sai che è possibile.
3) circa le alterazioni fenotipiche, è saltato fuori grazie allo studio di L0rd et al (2020), un dato affascinante. Belyaev non è partito con volpi selvatiche, ma con volpi che erano da generazioni e generazioni tenute in gabbia negli allevamenti da pelliccia, si ritiene in Canada. Queste volpi avevano già evoluto mantelli con chiazze bianche e quindi il carattere era presente, magari non manifesto, nelle 130 volpi di Belyaev. Al primo manifestarsi del carattere bianco in un volpacchiotto, inserirlo nel 10% riproduttivo volontariamente o anche inconsciamente, facendogli superare i test, è un attimo. E' per questo che l'esperimento andrebbe ripetuto. Una volta che il gene entra in quel 10%, il resto è deriva genetica. Questo vale anche per tutti gli altri caratteri fenotipici e invalida, secondo gli autori dello studio, la possibilità della sindrome da domesticazione.
4) Cosa è il comportamento affettuoso? Certo non è un gene che si trasmette in modo mendeliano. E' certamente una complessa interazione di molti geni e dell'ambiente, e quando si ha a che fare con tanti geni diversi, per di più la cui attivazione è influenzata da fattori ambientali, è un incubo, come ben sa chi si occupa di sequenziamento dell'intero genoma, i geni interagiscono tra loro, si spengono e si accendono in millemila modi differenti. Belyaev e soprattutto Trut puntano su ormoni e neurotrasmettitori. Sarebbe quindi stato doveroso fare l'esperimento contrario. Prendo due volpi che hanno naturalmente, che so, dei glucocoirticoidi più elevati della media e seleziono per quel carattere. Dopo 10 generazioni vado a vedere come si comportano le mie volpi. Niente di tutto ciò è stato fatto.
5) Le volpi di Balyaev sono davvero addomesticate? Certamente non hanno paura degli umani, ma è sufficiente questo a dire che un animale è domestico? Qualcuno dovrebbe, nel caso, parlare col mio gatto Harry e ricordargli che è un animale almeno semidomestico. Torniamo all'inizio: c'è simbiosi tra gli umani e le volpi di Balyev? Coevoluzione? O sono magari solo volpi che soffrono di totale mancanza di paura e inibizione nei confronti dell'uomo? Sembra che non sopportino molto bene il guinzaglio e mal si adattano alle passeggiate. Non ho informazioni se vadano al passo. Si affezionano a un particolare umano o tutti gli umani sono uguali? A quanto pare non si ha evidenza alcuna che abbaino. O che portino la coda diversamente. Non sappiamo in realtà che succede quando prendo una di queste volpi e me la porto a casa. Non ha paura di me, ok. E se la devo educare a non fare pipì sul letto ho delle leve? Impara a stare seduta o a cuccia? Le volpi di Novosibirsk tuttora risiedono nelle loro tristi gabbiette metalliche al freddo e al gelo, dopo 50 anni. Come si adattano a vivere in un appartamento? E se la devo rimproverare, come la mettiamo con la mancanza di paure e inibizione?
6) Domesticazione significa solo selezione artificiale? La selezione artificiale prevede un controllo strettissimo dei riproduttori, e di solito viene selezionato uno specifico carattere. Ma quando il lupo venne addomesticato, si trattava di eventi casuali, senza un programma a tavolino di selezione, con continui incroci tra semidomestici e selvatici, senza una reale selezione specifica di un determinato carattere, o una direzione prestabilita. Si è trattato di un lunghissimo processo di coevoluzione e adattamento reciproco. E questo vale per tutte le attuali specie domestiche. Perchè domesticazione è molto di più della selezione artificiale di uno specifico carattere.
Conclusione
Siamo proprio sicuri che domestico significhi SOLO non avere paura dell'uomo? Cosa ci insegna l'esperimento di Belyaev? Che certamente la selezione artificiale, come diceva Darwin, funziona (hip hip hooray, Lysenko aveva torto marcio, gli evoluzionisti russi mandati al gulag avevano ragione, punto provato). Ma poi?
Ma poi nulla. Un esperimento non ripetuto non dice assolutamente nulla. Queste volpi non hanno paura dell'uomo, questo non significa che siano domestiche. La sindrome da domesticazione non è stata provata, come hanno dimostrato gli studi scientifici successivi. La selezione di uno specifico comportamento non è sinonimo di domesticazione.
Posso addomesticare un selvatico in 1, 2, 10 generazioni? No. Posso al massimo selezionarlo per modificarne un pò il comportamento ed eliminare l'aggressività. Ma da qui a dire che la volpe, l'elefante, il leone o il geco tokai siano domestici... no, questo non posso farlo, perché materialmente non ho le basi scientifiche per farlo. E se affermo il contrario, sto parlando di fuffa e pseudoscienza.
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