Stefano Solventi's Blog, page 49

October 29, 2018

A proposito

[image error]Per la gioia e il tormento dei rockofili, continuano le ricorrenze tonde, le celebrazioni (molte delle quali suggellate da ristampe variamente deluxe) per il mezzo secolo dall’uscita di dischi che hanno segnato la storia. Andranno avanti a lungo a celebrare e a ripubblicare, perché la cuspide tra 60s e 70s è stata un’autentica cornucopia di uscite clamorose, come ben sappiamo. [image error]A breve tocca a due album formidabili, pubblicati lo stesso giorno, ma destinati a un diversissimo riscontro commerciale. Parlo del celeberrimo White Album dei Beatles e del Village Greeen Preservation Society dei Kinks, che videro la luce il 22 novembre del 1968.


Quest’ultimo, sesto album per la band di Ray Davies e [image error]primo loro concept (uno dei primi della storia del rock), passò quasi inosservato all’epoca, rifacendosi parzialmente nel tempo, fino a guadagnarsi i favori della critica compatta e di moltissimi musicisti di più generazioni (che da esso hanno pescato non poco). Disco non bello ma bellissimo, anzi meraviglioso, eppure fu un autentico fallimento, che l’ingombrante concorrenza del doppio beatlesiano può spiegare solo in parte.


Qualche ipotesi tento di farla in questo pezzo che ho scritto per Sentireascoltare in occasione dell’uscita di una Deluxe Edition pazzesca. A proposito di gioia, a proposito di tormento.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 29, 2018 01:02

October 24, 2018

Imprinting

[image error]Mi attraevano, i Grateful Dead. M’intrigava il nome, l’iconografia tra il fricchettone e il minaccioso, quell’aria di mitologia sghemba e – almeno dalle nostre parti – oscura. Ma all’epoca (primissimi 90s) li conoscevo poco, quasi niente. Colpa mia, però va detto che non erano di quelli che passavano nelle radio, nemmeno in quelle più alternative. Così, in mancanza di Spotify, di Youtube, di Napster, feci quello che in quei giorni era più ragionevole fare: comprai un loro disco.


[image error]Le sacre fonti indicavano nel Live Dead la summa del loro performare on stage, ma al negozio, ahimé, non lo avevano, mentre un altro titolo, il cosiddetto Skull And Roses, invece sì. E aveva tanto di scheletro in copertina! Quindi, nessun dubbio. Acquistai, ascoltai, rimasi basito. Pensavo: cos’è sta roba vetusta, grinzosa, innocua? Deluso, gli concessi un paio di ascolti ulteriori prima di posteggiarlo tra color che son sospesi. Ed ecco, qui, proprio qui, entra in gioco il protagonista decisivo. All’epoca avevo pochi amici, ma uno era davvero formidabile: un CD Walkman che mi portavo ovunque. Una sera – estate, quasi tramonto – nel fraterno apparecchio girava proprio lo Skull And Roses, a cui avevo concesso una ulteriore – forse ultima – possibilità. A quel punto, accadde.


Camminavo – mi piaceva farlo già allora – e in realtà scivolavo, ondeggiavo, galleggiavo, mi districavo in una trama liquida di strani agrodolci rimpianti, di gracchiante frenesia, di frizzante tepore. Soprattutto una canzone mi inchiodò a quel momento, a quella temperatura d’aria e di luce: Wharf Rat, col suo cantilenare derelitto, col suo senso di preghiera che ha smarrito da tempo la speranza della rivalsa, eppure si ostina a sentirsi il cuore pieno e vivo.


I spent doin’ time for some other fucker’s crime

The other half found me stumbling ‘round drunk on Burgundy wine

But I’ll get back on my feet again someday

The good Lord willin’


Non ho più smesso di amare questo disco. Si consumò un imprinting che ancora oggi me lo fa preferire ad altri capolavori dei Grateful Dead. Usciva il 24 ottobre di quarantasette anni fa. Qui una mia vecchia, innamorata recensione.



 

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 24, 2018 06:44

October 16, 2018

Stregato

[image error]


C’è una foto di Nico, una delle tante, che letteralmente mi ha stregato: [image error]si vede lei di profilo, impegnata alla guida dell’avventuroso pullman che trasportava la carovana dell’Exploding Plastic Inevitable di Andy Warhol verso il Michigan, i lineamenti compresi nello sforzo del compito, la cocciutaggine terrena di chi non si tira mai indietro, la bellezza di ghiaccio e d’avorio e quell’inestricabile groviglio di silenzi nello sguardo: liberi di non crederci, ma è grazie a questa foto se la discografia di Nico ora sta sul mio scaffale, perché della sua voce da sola – granitica, impervia, piena di spigoli lenti e consonanti sostenute – non mi sarei mai innamorato


Iniziavo così una recensione di Chelsea Girl, scritta quindici anni fa (come minimo) per Lacune, la prima rubrica che ho curato per il Mucchio Selvaggio. Quel pezzo poi è stato pubblicato su Sentireascoltare e sta lì, aggrappato alla precaria eternità della Rete, a ricordarmi quanto ho amato e amo quel disco e lei, Nico, nata esattamente ottanta anni fa.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 16, 2018 01:56

October 14, 2018

41 (sempre più “eroici”)

[image error]


Primavera 1977. Bowie decide di prestarsi come tastierista e corista per il tour di The Idiot, l’esordio solista di Iggy Pop, finalmente dato alle stampe a marzo. Trenta date in due mesi tra UK, Canada e USA, una bella galoppata defatigante per il Duca Sottile, al termine del quale si precipita con tutta la band negli studi Hansa per le registrazioni di Lust For Life, sophomore ben più stradaiolo con cui l’Iguana consacra la propria resurrezione. Lavoro, lavoro, lavoro. Berlino vissuta fino a farsela entrare nel sangue. Un po’ più vita, un po’ meno cocaina. Ispirazione sfrenata.


A luglio richiama Tony Visconti, contatta Robert Fripp – cui Bowie raccomanda un approccio sanguigno, chiedendogli di suonare come se fosse Albert King! – e si chiude di nuovo negli Hansa con tutta la truppa per realizzare “Heroes”, album che ripropone lo schema bifronte di Low pur manifestando di averne superato la fase sperimentale in favore di strutture più definite e compatte.


Possiamo dire che con questo disco Bowie ottiene un raro equilibrio tra pop e avanguardia, approfondisce il solco tracciato col lavoro precedente padroneggiandone i codici al punto da permettersi la vena intrigante e persino carezzevole dei vecchi tempi, concedendosi sfumature tra il macabro e l’ironico. Brian Eno stavolta sovrintende i lavori fin dal primo giorno, è a tutti gli effetti l’alter ego sonico del Duca, soprattutto nei quattro strumentali (su dieci tracce). Se V-2 Schneider – dalla sigla con cui erano tristemente noti i razzi nazisti – sembra ammiccare la serialità motoristica dei Kraftwerk con tanto di reiterazione vocoderizzata (Trans-Europe Express, che curiosamente sembra rispondere alla tematica ferroviaria di Station To Station, è uscito in marzo) impastandola di chimere soul-errebì ed elettricità sfrigolante, i tre pezzi successivi si presentano come un flusso senza soluzione di continuità, “stanze emotive” segnate dall’utilizzo delle fatali carte delle strategie oblique.



Sense Of Doubt dispone quattro note di piano, cupe e sentenziose, un po’ la Quinta di Beehtowen scarnificata o meglio il minimalismo Ligeti di “Musica ricercata”, coi synth a squarciare di lampi ieratici la cappa oppressiva. Una volta lasciato spegnersi il crepitare d’un reattore nel cielo, con Moss Garden l’atmosfera si fa più rarefatta, sorta di miraggio serico circolare in cui panneggi sintetici à la Terry Riley incontrano la solenne serenità di un tempio giapponese (è Bowie stesso a suonare il koto, strumento a corde tradizionale nipponico). Il trittico si chiude con la stupenda Neuköln, dal nome di un quartiere ad alta densità di immigrati turchi: il suono di qualcosa che mesta nel pentolone di Pandora mentre synth, organo, chitarre ed il sax in preda ad orientalismi free (suonato dallo stesso Bowie) disputano misteri cinematici con motivi che si fronteggiano e sovrappongono, fin quasi a farlo sembrare un capriccio arty-psych dei primi Floyd post-Barrett.


Suona tutto molto più costruito e limato rispetto agli strumentali di Low, anche se le cronache narrano di un approccio estemporaneo alle composizioni, di fatto quasi improvvisate durante la loro realizzazione. In ogni caso, i risultati sono lontanissimi dai contemporanei rivolgimenti e dalle caustiche beffe del music biz. A qualche galassia di distanza rispetto all’uragano punk già nel pieno della forza (il 27 maggio i Sex Pistols sputano in faccia al mondo la famigerata God Save The Queen). Eppure, anche se idealmente agli antipodi con la sua complessità strutturale che non esita a ricorrere ai servigi di alfieri prog, Bowie non disdegna affatto il punk. Anzi gli interessa molto, anche se più come fenomeno spettacolare e sociale che non come proposta musicale. Nei Novanta dichiarerà: “i gruppi punk che vidi a Berlino mi facevano pensare ad una sorta di Iggy Pop post ’69, sembrava che tutto quello lui lo avesse già fatto. Tuttavia mi dispiace non aver potuto assistere al circo dei Pistols, la mia depressione ne avrebbe tratto giovamento più che con qualsiasi altra cosa“.



Allo stesso modo, le sei tracce cantate sembrano svincolarsi dai dettami dell’epoca per elaborare ordigni che sfuggono a classificazioni immediate. Se Sons Of The Silent Age sbriglia teatralità decadente ed un sax malato di languore soul fino al midollo, in Joe The Lion – dedicata al performer statunitense Chris Burden, un tipo disposto a farsi crocifiggere come gesto artistico – sembrano dibattersi i fantasmi feriti del glam e del cabaret, mentre Blackout è un boogie avariato di rockismo impellente e acido con irresistibile coretto stoniano nel finale. Soprattutto queste ultime due sono battute da una autentica pioggia di trovate, espedienti e riff che brulicano nevrastenici, quasi a rappresentare il sovrapporsi di strutture e istanze nella prassi metropolitana, una complessità in cui puoi immergerti ma che non puoi governare, di cui devi accettare la casualità, l’errore, l’irradiarsi imprevedibile.


Sorprende difatti per tema e ambientazione The Secret Life Of Arabia in chiusura di la scaletta, presenza quasi umoristica col suo mambo funky venato di esotismi ad alto tasso melò con riferimenti cinefili (l’adorata Marlene Dietrich di Morocco), mentre Beauty And The Beast è posta in apertura forse perché immagine più compiuta di quella inestricabile, travolgente misticanza, col suo compenetrare piglio honky e funky wave turgida, tra scudisciate di assoli radianti (l’impronta di Fripp, col suo “Frippertronics” di stampo eniano, è fin da subito profondissima), riff beffardi e bordoni cosmici, quasi fosse il delirio black di un automa tossico.


La title track è tuttavia la principale artefice del clamoroso – e meritato – successo di questo disco, un ballatone sentimentale (ispirata pare dalla visione del bacio di due amanti – forse lo stesso Visconti con una fiamma del periodo, la cantante Antonia Maas – a due passi dal Muro: ciò spiegherebbe le ironiche virgolette del titolo) dai toni epici ed il passo ipnotico vagamente velvettiano (molto probabilmente ispirato a Waiting For My Man), spinto da un movimento circolare di synth tra svaporate cosmiche, assolo allarmanti e languidi, simbionti di cornamuse e coretti glam, la costante istigazione di un qualche dispositivo a suggerire il dominio del suono.



Particolare attenzione è prestata al processo di registrazione della voce, per il quale Visconti studia un sistema di microfoni posti a distanze diverse e con progressivi livelli di attivazione, enfatizzandone così il crescendo emotivo. Al di là dell’aspetto “potabile” e della conseguente inflazione dovuta all’abuso, è un pezzo straordinario proprio per come carica di intelligenza, ingegno e passione l’idea melodica di base, di per sé tutt’altro che complessa. Evocando anche in virtù della sola – si fa per dire – confezione un immaginario potente, una dimensione peculiare e popolare che è rock nella sua essenza progressiva, umana, astrattiva ed espressiva.


“Heroes” è uscito 41 anni fa. Dimostra come pochi altri dischi quanto il rock possa essere se stesso al massimo cercandosi nell’equilibrio tra controllo e perdita di controllo, nel solco vertiginoso tra pianificazione e imprevisto. Un disco che ancora oggi è avventuroso ascoltare.


***


(L’articolo completo sulla fase “berlinese” di Bowie a questo link)

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 14, 2018 01:52

October 10, 2018

Quattro

[image error]


Ascoltai per la prima volta gli Ismael nel 2008. Non ne avevo mai sentito parlare. Trovai il loro omonimo album di debutto nella cassetta delle lettere. Ne ricevevo molti, all’epoca, di album d’esordio e demo. Succedeva perché mi occupavo di valutarli e recensirli per Sentireascoltare. Era abbastanza impegnativo, ma divertente. Ne ascoltavo di roba, di ogni tipo. Spesso m’imbattevo in dischi sconclusionati, sfocati, tentativi improbabili d’essere qualcosa di compiuto che avevano se non altro questo di buono: ci sentivi l’effervescenza del desiderio, la fame, il bisogno di lasciarsi alle spalle qualcosa e di abbracciare chissà quali prospettive.


Raramente insomma erano dischi buoni o anche solo accettabili, ma spesso mi lasciavano in dono qualcosa di interessante. Quello degli Ismael fu uno dei pochi che mi lasciarono la sensazione di un esprimere solido e radicato. Era un lavoro meno acerbo della media, anzi per molti versi maturo, sì, ma non per questo meno vibrante, meno bisognoso di operare una frattura. I testi erano in italiano, l’elettricità innervava un piglio narrativo che avresti detto cantautorale, qualunque cosa significasse ancora in quel tramonto di anni Zero. Soprattutto, quello che gli Ismael tentavano di raccontare – riuscendoci – aveva il passo delle storie che provengono da lontano. O da una certa profondità.


Negli anni non li ho persi di vista, malgrado non siano affatto una band appariscente. [image error]L’album successivo era altrettanto buono, ancor più il seguente. I titoli: Due, Tre. Ho scoperto poi che Sandro Campani, chitarrista e cantante nonché autore di un po’ tutti i brani, è anche scrittore. Anzi: è in primo luogo scrittore. Dei romanzi che ha pubblicato, ho letto gli ultimi due: molto bello La terra nera (Rizzoli, 2013), bellissimo Il giro del miele (Einaudi, 2017). Storie che parlano di legami potenti e logori, sfibrati dalla vita, di personaggi aggrappati alla propria terra ma consumati da un miraggio di fuga, da una febbre che separa e unisce, dal bisogno di tracciare il perimetro di se stessi sapendo quanto sia complicato, vertiginoso, impossibile.


Se sottolineo questo aspetto è perché sono convinto che faccia la differenza, nel rock degli Ismael, che gli conferisca una piega, un abbrivio, un’angolazione non comune. Il loro nuovo, bellissimo album – intitolato, indovinate un po’, Quattro – è sostanzialmente un cantautorato molto energico, tirato fino ai limiti del punk-rock, attraversato da una fregola addirittura garage-blues, cui rimanda l’utilizzo del sax utilizzato per dare vita a riff incalzanti. Nessuno spazio per gli assolo, le canzoni sono compatte e tese, veicoli di storie che ti arrivano al petto e colpiscono duro. Un’economia sonora che trova riflesso nell’economia delle parole, i versi costruiti su un equilibrio molto efficace – qui la padronanza metrica e lessicale di Campani è decisiva – tra asciuttezza ed evocazione, da cui esalano letteralmente le emozioni dei protagonisti.


[image error]I testi: storie di vite alla resa dei conti, di marginalità indomita e aspra, di bilanci che trafiggono la speranza, tutta un’epica di provincia (terra d’appennino, tra Emilia e Toscana) che rovescia i rivoli del particolare in un pelago collettivo (“si sente il torrente passare: sembra incredibile, a noi, da qui, che arrivi al mare“), riflesso cupo del nostro tempo sempre più inafferrabile e confuso. La voce di Campani è protesa tra il dire e il cantare, mastica una rabbia sempre contenuta entro i margini dell’amarezza, conservando una sorta di trasporto indolenzito per i personaggi che racconta. Le ballate, quasi tutte elettriche, sgomitano tra il piglio laconico di De Gregori, l’incendio orizzontale dei Dream Syndicate e la solennità incalzante dei CSI.


Ma, al di là degli aspetti stilistici, è come tutto sta assieme che fa il senso degli Ismael, la correlazione intima e necessaria tra musica, interpretrazione e testo, la complicità strettissima tra forma e sostanza. Una misura raggiunta con intelligenza e attitudine, senza fartelo pesare anzi lasciando che l’ascolto si consumi libero, intenso e sferzante. Non serve altro, al rock, per essere ancora significativo. Per essere grande.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 10, 2018 06:49

October 9, 2018

Capirti

[image error]


Lo sai, Polly Jean, che ho sempre pensato a questa strana rincorsa tra te e me. Tu compi gli anni, io ti raggiungo due mesi più tardi, giorno più, giorno meno. Ti raggiungo e torniamo ad avere la stessa età.


Pensa che stupido: questa cosa mi ha fatto persino pensare a un’affinità, mi ha illuso che in qualche modo potessi capirti un po’ meglio. C’è un’altra cosa che, per così dire, ci accomuna: l’origine periferica, da cui la tensione – peraltro inevitabile – a uscire dal nido, a scoprire quale luogo del mondo potesse meglio farci dire “io”. Tu, inutile dirlo, lo hai saputo fare bene. Meravigliosamente bene.


[image error]Musician PJ Harvey beside River Anacostia. Anacostia. SE Washington D.C. April 2014

Sei andata e tornata, col tuo bagaglio di canzoni travolgenti, di maschere e ombre, di archetipi e corpo, di furia e incandescenza. Sei tornata più forte, migliore, con la tua imprevedibile, tenace generosità. Mentre ti rincorrevo, anni fa, mentre credevo di capirti, ho pure scritto un libro sulla tua parabola, quella che da Yeovil ti portò a sorvolare Bristol, Londra, New York, fino al ritorno ai misteri gessosi delle tue terre.


Quel libro è rimasto lì, come un sogno ibernato. Tu invece sei andata avanti. Hai allargato lo spettro, la consapevolezza, la padronanza. Non m’illudo più di rincorrerti, sai? Eppure sono felice di averlo pensato possibile. Di essere stato così stupido da crederlo possibile.


Buon compleanno, Polly Jean.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 09, 2018 03:58

October 7, 2018

Imagine

[image error]


È stato appena pubblicato Imagine – The Ultimate Collection, 4 cd più 2 Blue-Ray Disc con una slavina di materiale inedito, nuovi mix, demo, outtake, work in progress, insomma un lavoro che ricorda molto quello fatto nelle benemerite Anthology beatlesiane.


Difficile capire dove finisca la pura speculazione commerciale e dove inizi l’omaggio appassionato e appassionante, un necessario scrutare analitico. In ogni caso, è un buon pretesto per tornare a parlare di questo disco così celebre e controverso.


L’ho fatto su Sentireascoltare, trovate il pezzo qui

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 07, 2018 03:31

October 1, 2018

The Gloaming recensito su Minima&Moralia

"...una scrittura altamente evocativa che riesce a rendere i colori dalle inesauribili sfumature e forme, a tratti visionarie, della musica di cui sta parlando, guidandoci nel suo percorso di lettura della parabola radioheadiana e non solo"

Un grazie e un inchino a Simone Bachechi di Minima&Moralia

http://www.minimaetmoralia.it/wp/radi...
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 01, 2018 09:01

September 28, 2018

Desiderio

[image error]


I tempi erano maturi per un vero e proprio cambio di rotta. Così, individuato lo zeitgeist nell’attrito tra due epoche, nella compenetrazione stilistica e tecnologica dove le radici si inerpicavano in un domani espanso e ignoto, Polly Jean Harvey azzardò Is This Desire? Album che deve molto alle ugge ruggenti del trip-hop bristoliano, in primis dell’amico Tricky (con cui aveva appena collaborato in Angels With Dirty Face), senza però tradire l’amore primo, il blues. Blues colto nel riflusso, dissanguato, sovraesposto e incrudito, ma pur sempre blues (vedi le cupe ossessioni circolari di Electric Light e The Garden). Una vera e propria continuità nel cambiamento, come testimonia anche la conferma dello staff (Flood, Mick Harvey, John Parish) a cui si aggiunge il multistrumentista Eric Drew Feldman, già al lavoro con Captain Beefheart, mito personale di PJ.


[image error]Scrittura, interpretazione e arrangiamento vivono quindi una tensione implosiva, tra grugniti in slow-motion (My Beautiful Leah) e scudisciate digitali (Joy), dolenti crescendo (la title track, il sordido melodramma di Angelene) e languide cospirazioni di piano e tromba (The River), melme cibernetiche frastagliate da brezze jazzy (The Wind) e un singolo sì commestibile ma irrimediabilmente indolenzito (A Perfect Day Elise), mentre The Sky Lit Up e No Girl So Sweet consumano con una certa brutalità lo zenit energetico della scaletta.


Una stessa febbre in ogni canzone. Anime illuminate dall’interno, schegge di sensazioni, stralci di pensiero minimo, una pietà muta ad aleggiare ovunque, unificando ritratti ora malinconici, ora disperati, ora brutali. Scenari che si squadernano aprendosi all’urbanità senza appigli, in cui Polly sembra smarrirsi come Alice nel Paese delle Atrocità. Tuttavia consapevole di doverlo fare, per non perdersi davvero.


20 anni fa usciva Is this Desire?

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 28, 2018 01:35

September 27, 2018

Ancora

[image error]


Quando il cantante, che poi cantante non era proprio il termine più adatto, iniziò a lanciare chewing gum verso il pubblico, la cartellina che tenevo piegata nella tasca dei jeans mi sembrò di colpo inutile. Se non avevo capito male, il pezzo si intitolava Cinnamon, mentre sul nome della band non avevo dubbi, stava scritto sulla scheda per la votazione: Offlaga Disco Pax.


Il luogo era l’Auditorium FLOG di Firenze. Il giorno, il 20 marzo del 2004. Ero stato chiamato, in virtù della mia doppia militanza nelle redazioni de Il Mucchio Selvaggio e Sentireascoltare, a far parte della giuria del Rock Contest. , la storica rassegna dedicata alle band emergenti organizzata dall’emittente fiorentina Controradio. Delle sei band finaliste, gli Offlaga non erano soltanto la migliore, ma quella che imponeva una dimensione espressiva così propria, compiuta e potente da porla già oltre, molto oltre l’ambito pur valido (per non dire prestigioso) di quella serata finale, che vide tra l’altro darsi battaglia gruppi destinati a far parlare di sé come i Rio Mezzanino, gli Underfloor e i Martinicca Boison.


[image error]


Una finale di ottimo livello, certo. Ma a quel punto, semplicemente, non c’era più gara: il recitato laconico, sottilmente umoristico e dalle inflessioni sprezzanti di Max Collini sulle basi ipnotiche, in bilico tra caldo e gelido, analogico e digitale di Daniele Carretti ed Enrico Fontanelli, dava vita ad una sorta di teatro-canzone post-moderno alle cui fondamenta stava esattamente quell’immaginario perduto (il socialismo sedimentato come un immancabile sfondo culturale a forza di mitologie e percorsi mentali obbligati) che i rivolgimenti politici e sociali in atto stavano vaporizzando, fino a farne il fantasma di un rimpianto dovuto ma impossibile, una vera e propria contro-nostalgia. Nei testi di Collini avvertivi l’attrito tra l’orizzonte motivazionale dell’ideologia e l’evidenza della sua sconfitta: un intreccio di storie minime palpitanti e massimi sistemi ormai derelitti, l’asprezza dei sogni e dei segni (dei simboli) nel momento in cui crollano, lasciandosi alle spalle vuoto, macerie e mancanza di riferimenti.


La performance degli Offlaga, con lancio di famigerati cinnamon appunto – i chewing gum così amati e odiati di quando ero bambino – e degli ormai globalizzati Tatranky, annunciava la nascita di una band importante, forse la prima band italiana importante del nuovo secolo. Sarebbe stato ingeneroso, persino ridicolo paragonarli agli altri concorrenti: tirai fuori dalla tasca la cartellina, assegnai a loro il massimo dei voti, distribuii voti medi agli altri, ed era tutto. Non c’era posto per altro.


[image error]


La vittoria degli ODP in quell’edizione del Rock Contest fu inevitabile, e contribuì in maniera decisiva ad avviare una carriera che negli anni ha fruttato tre album (Socialismo tascabile del 2005, Bachelite del 2008 e Gioco di società del 2012) e due EP (Onomastica del 2009 e PrototipoCASIO del 2012), lavori mai scesi sotto la soglia del buono, con punte di autentica eccellenza. Purtroppo, la morte prematura di Enrico Fontanelli (nell’aprile del 2014, a soli 36 anni) ha interrotto questo percorso che Collini e Carretti hanno scelto di non far sopravvivere. Entrambi proseguono con altri progetti (Felpa per Daniele, Spartiti – con Jukka Reverberi – per Max, oltre a varie collaborazioni tra cui i rinati C.S.I.), ma nel cuore c’è inevitabilmente Enrico, alla cui memoria dall’estate del 2014 viene dedicato Ancora, un “piccolo festival” organizzato dagli ex-Offlaga e giunto agilmente alla quinta edizione.


[image error]


E’ notizia di oggi l’uscita di Offlaga Disco Pax #1 – #163, un catalogo che raccoglie tutto l’artwork prodotto dal 2003 (anno di nascita degli ODP) al 2013 e curato da Fontanelli, che oltre a essere musicista era anche designer. Avrà luogo anche una mostra, a Parma, che sarà visitabile ogni fine settimana di ottobre e prevede incontri, dibattiti, approfondimenti con addetti ai lavori, giornalisti, artisti. Tutto questo non sembra soltanto un corollario, una propaggine occasionale. Al contrario, ha il sapore delle concatenazioni, delle conseguenze necessarie, di cerchi che si chiudono mentre altri rimangono in attesa, e altri ancora.


Gli Offlaga Disco Pax sono una storia interrotta nel momento in cui sembrava avere altro, molto altro da raccontare. Per questo non ha mai smesso realmente di farlo.

1 like ·   •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 27, 2018 06:04