Stefano Solventi's Blog, page 55

April 22, 2018

Buoni frutti

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Il nuovo disco di Marco Iacampo, Fructus, mi fa prendere coscienza che seguo la sua carriera, la sua musica, da tanti anni. Mi piaceva già molto quando si faceva chiamare Goodmorningboy – correvano i primi anni Zero – ed era uno strano personaggio dalla vena lo-fi acida ed espansa, grazie alla quale – lasciata alle spalle l’avventura con gli Elle – dava forma al suo estro sfaccettato, aperto. Forse fin troppo aperto per le sorti e le possibilità dell’indie rock italiano. A nome Goodmorningboy sfornò due album belli e splendidamente ignorati dai più: non deve essere stato un periodo facile per lui.


Quando, nel 2010, uscì dal guscio/moniker e si presentò a proprio nome con un album omonimo, cantato per la prima volta in italiano, mi sembrò cosa buona ma, a dire il vero, un po’ scontata. Mi sembrò un tentativo con poche prospettive. Era invece un inizio, quello vero.


A proprio nome Iacampo ha iniziato un percorso defilato rispetto alla musica che gira forte sui contatori delle playlist e degli airplay radiofonici, eppure – a partire da Valetudo del 2012 – la sua musica, le sue canzoni, hanno acquistato una consapevolezza, una densità, persino una fierezza che mi hanno sorpreso.


Marco Iacampo si è semplificato aprendosi, risolvendo tutte le complessità che componevano – che compongono – il suo linguaggio. Il suo è un folk-rock che s’immerge nel mediterraneo e si fa scaldare da uno spiffero tropicale. E’ assieme veneto e africano, arriva lieve alle orecchie ma t’impone il peso specifico di parole e suoni pensati fin nel dettaglio del loro accadere.


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Tra le melodie aromatiche delle canzoni, ogni parola acquista una precisa economia, si rivela e si rovescia in contesti fragranti, sorprendenti, ricchi di un’essenzialità viva, efficace. E, perciò, solidi.


Marco oggi è un cantautore sicuro di sé, della propria dimensione. E mi fa molto, molto piacere.


Qui c’è un’intervista che gli ho fatto un paio di anni fa, più o meno.


 

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Published on April 22, 2018 05:45

April 19, 2018

Un (primo) anno

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Un anno fa aprivo questo blog.


Ero ben consapevole che si trattava di una scelta come minimo tardiva, anzi decisamente controtempo, in questo tempo che dei blog non sa (già) più cosa farsene.


Mi piaceva, quell’andare controtempo. Mi piaceva per il suo modo di prefigurare una zona franca dove era possibile non obbedire alle regole d’ingaggio dei social, alle tempistiche e alle casistiche del loro codice, ai tick formali e contenutistici dei loro linguaggi.


Sentivo il bisogno di un punto di raccolta nel quale far confluire scorie e frantumi di pensiero, di riflessioni. E che soprattutto potessero fare un po’ quel che cazzo volevano, queste scorie: prendersi il loro tempo, lo spazio e le spaziature, senza preoccuparsi dell’aderenza a un formato, di censure e (peggio) autocensure, delle periodicità e delle programmazioni più opportune. Di click e di like.


Com’è andata? Direi che: è andata. Che sta andando.


Con l’approssimazione del caso, Pensierosecondario è diventato il luogo che desideravo. A cui sento il bisogno di tornare. Di consegnarmi.


Spero per molto tempo ancora.


 

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Published on April 19, 2018 23:05

April 14, 2018

Sincronicità

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È successa una cosa strana ieri sera. Una sincronicità bella e buona. Mi intrigano, le sincronicità. E un po’ mi spaventano.


Prima però devo parlare del dopo. Dello svegliarsi nel cuore della notte, andare in bagno, non riuscire a riprendere sonno e quindi scoprire, via tablet, dei bombardamenti sulla Siria. E di come, qualche ora più tardi, stamattina, mi sia capitato di sentire una commessa inveire contro il ragazzo di colore che elemosinava fuori dal panificio. “Io li riaccompagnerei in mare“, ha chiosato sorridendo, lasciando intendere risvolti ripugnanti dietro quel riaccompagnerei (e dietro a quel sorriso).


La serata di ieri, all’interno della rassegna E Se… I periodi ipotetici, era dedicata alle “utopie gentili”. Una delle tante, belle idee che Dario sa farsi venire e, soprattutto, realizzare. Tra gli interventi era previsto anche il mio. Mi si prospettava un compito semplicissimo: leggere una cosa, meglio se di carattere musicale. Avevo tre minuti. Ogni tre interventi, Finaz eseguiva canzoni. Pezzi propri e reinterpretazioni. Il tutto anticipato dalla presentazione di L’ultimo rigore di Faruk, un libro scritto da Gigi Riva – non il bomber sardo, il giornalista de L’Espresso – che racconta attraverso una chiave insolita (il calcio) il conflitto jugoslavo.


Per i miei tre minuti ho scelto di leggere il testo di una canzone di Nick Cave. Potrei dire che è stata una scelta motivata dal modo in cui Cave ha utilizzato l’elaborazione del lutto (per la tragica morte del figlio) come viatico per accedere al dolore del mondo, per coprire le distanze, per piantare lo sguardo dritto nelle ferite aperte, nella sconfitta, nell’errore, nella perdizione. Esercitando la vicinanza implacabile della comprensione. Potrei sostenere che ci ho pensato molto, ma in realtà è stata una scelta piuttosto rapida, istintiva.


Quando è arrivato il mio turno, ho letto un breve cappello introduttivo e quindi, come meglio ho potuto, il testo tradotto (spero fedelmente) di Jesus Alone. Subito dopo di me toccava di nuovo a Finaz. Sapevo che avrebbe suonato un pezzo di Cave, ma non sapevo quale. Neanche lui sapeva quale testo di Cave avrei letto, non lo avevo comunicato all’organizzazione. Ma Finaz aveva previsto di suonare proprio Jesus Alone.


Ok, certo: nel repertorio recente di Cave è uno dei pezzi più riusciti e, perciò, citati. Potrebbe essere persino considerata la traccia più significativa di Skeleton Tree. La combinazione però resta, e il passaggio tra la mia lettura e l’esecuzione di Finaz sembrava in tutto e per tutto pianificato. Una sincronicità. Bella e buona. Al cui senso, ha provveduto tutto ciò che è venuto dopo. Puntualmente.



 

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Published on April 14, 2018 05:09

April 12, 2018

45

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Ziggy volò in America. Tornò pazzo e meraviglioso.


45 anni fa.

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Published on April 12, 2018 23:27

April 9, 2018

Radicale. Distruttivo.

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Ljubo Ungherelli, fiorentino classe ’79, da adolescente “decide di diventare scrittore”. Dopo alterne vicende e una ventina di romanzi, il mondo editoriale non ha dimostrato interesse. Ma lui, bontà sua, continua a scrivere. Scrive e pubblica con licenza Creative Commons (trovate tutto qui ). Mi incuriosì sentirlo in radio (a Riserva Indie, una trasmissione che andrebbe considerata patrimonio dell’umanità) nel reading di Galvanoterapia, il suo più recente romanzo: mi sembrò, come dire, rock. Di quel rock che a volte vibra nella scrittura e diventa spigolo, additivo, snodo e orizzonte. Ultimo tour sulla Luna, pubblicato nel 2016, è la sua penultima fatica. Ne esiste anche un’edizione cartacea, che ho deciso di leggere.


Sette giorni in tour, una road story nel cuore depresso del circuito indie rock italiano, a bordo di un furgone sponsorizzato dall’autonoleggio La Luna. I protagonisti sono Vicni e Guy (da leggersi “ghi”, alla francese). Lei è batterista/tastierista, lui chitarrista e cantante, assieme fanno i 2 Dualità, sorta di versione nostrana dei White Stripes, allusioni e ambiguità comprese (tra i due, come presto verrà chiarito, vige una “relazione complicata”). Finanziati da un crowdfunding che è andato bene ma neanche troppo, puntano tutte le carte su questo mini tour per sfondare, o almeno per incrementare la notorietà sul fronte degli onnipresenti social. Li seguiamo così in una sorta di via crucis del disincanto, dove allo spettacolo rock’n’roll (“radicale e distruttivo!“) che si consuma su palchi variamente minuscoli, si affianca quello della fauna che affolla il pianetucolo del rock indipendente, coi suoi local hero velleitari, le sale improbabili, i fan squinternati e le rivalità straccione.


Ungherelli alterna il punto di vista – la terza persona, la prima persona (dei due protagonisti) diaristica, il dialogo teatrale – tra i capitoli brevi, rendendo la lettura tesa, dinamica, lubrificata da personaggi scolpiti con piglio pulp, i cui nomi – TUTTI – suonano improbabili e fittizi, sottolineando l’improbabilità dell’ambiente, di un mondo che galleggia sulla poca acqua dell’autoreferenzialità. Spiccano sul resto le pagine in cui viene tratteggiato il personaggio di Teseo Il Minotauro, cantautore indie rampante, arrogante e nevrotico in sella alla bestiolina di una estemporanea notorietà, dovuta a un talento discutibile seppur glorificato da media e ambiente, bisognosi di quel poco ossigeno da respirare finche è possibile stare in punta di piedi. Particolarmente adeguato – direi quasi inevitabile – è quindi il tono, in bilico tra la commedia sarcastica e il dramma crepuscolare. E privo, graziaddio, di politically correct (vedi le pagine dedicate alla “scena romana”).


La scrittura non azzarda preziosismi stilistici, va al sodo in scioltezza e con brillantezza, senza concedere mezza pagina di noia. Insomma, funziona. Forse un editing meno “indie” avrebbe reso il tutto più solido, ma non più vivo, non ne avrebbe cambiato il percorso, la consistenza.


E quindi, quindi Ljubo Ungherelli non sarà “il più grande scrittore vivente”, come ironicamente suggerisce egli stesso. Ma la sensazione è che sappia raccontare storie che meritano di essere raccontate. Mica da tutti.


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Published on April 09, 2018 00:03

April 4, 2018

Amnesia

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Tra le paste del bar ieri ne spiccava una. Era enorme. Sembrava un tir in un parcheggio di utilitarie. Sembrava una cattedrale in mezzo a una distesa di villette monofamiliari. Era, evidentemente, una pasta fuori pezzatura. Un errore di dosaggio. Non è altro che un uomo, in fondo, il pasticciere. Può sbagliare, può riderci sopra, lasciar correre. Perciò è un uomo. Consola sapere che sia ancora così.


Ho osservato la pasta senza nascondere lo stupore. Per le sue dimensioni, certo, ma anche per il fatto che fosse esposta da almeno due ore e ancora nessuno l’avesse scelta e offerta in sacrificio sull’altare del languore mattutino. Sono stato, ovviamente, tentato di farlo io. Ma, colto da una indecifrabile ritrosia, ho desistito. Per pudore? Per una contorta forma di rispetto o venerazione? Boh. L’unica cosa che mi sento di escludere è la mancanza di appetito. Comunque, mi sono limitato a fare una battuta al ragazzo dietro al bancone, lui ha concordato sull’eccezionalità delle dimensioni, quindi ho scelto una pasta-utilitaria, l’ho annaffiata col caffè e la giornata ha ripreso a rotolare verso i suoi prevedibili esiti.


Questa mattina, ovviamente, la pasta-cattedrale non c’era più. Il ragazzo dietro al bancone è, appunto, un ragazzo. Come prima cosa, senza pensarci molto, gli ho domandato che fine avesse fatto “la Luisona”. Non ha risposto. Si è limitato a rivolgermi uno sguardo smarrito. Di fronte a quello sguardo, mi sono sentito di colpo vecchio. Anzi, non vecchio, escluso. Meglio ancora: consegnato a un’altra epoca. Catalogato.


Ho spezzato l’impasse chiedendo a chi fosse toccata la “pasta grossa” di ieri. A quel punto, l’espressione del ragazzo si è illuminata, non molto, solo un po’. Poi ha scosso la testa e ha risposto che non sa, non ricorda, “può darsi che l’abbia venduta la mia collega”. Ho annuito, indicandogli una pasta-utilitaria col ripieno di marmellata ai frutti di bosco. Che si è rivelata molto buona, devo dire. Niente male anche il caffè, aggiungo. Ma non è servito a compensare l’amarezza, lo sconcerto.


E quindi, mi chiedo, quindi, tra le competenze minime di un barista non è contemplata la familiarità col mito della Luisona? Dobbiamo forse accettarlo? Non sono più, i bar, luoghi in cui convergono le scorie di ogni immaginario? Rifugi leggendari sotto il mare implacabile della quotidianità?


Dove sei, Luisona? Come hanno progettato, costruito, diffuso la tua amnesia?

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Published on April 04, 2018 02:29

March 31, 2018

Raccontare

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Tre anni fa, quasi a segnare il cuore di questi anni Dieci, usciva Carrie And Lowell. Non il disco più bello del decennio, neppure dell’anno (forse). Lo stesso Sufjan Stevens ne ha fatti probabilmente di migliori.


Eppure è un disco che ho amato molto per la sua bellezza e per la sua importanza, perché ha saputo dimostrare quanto il folk-rock possa ancora raccontare, farsi testimone di storie credibili, vere, capaci di significare universalmente.


Qui la mia recensione dell’epoca, con cui mi trovo ancora d’accordo (mica era scontato).

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Published on March 31, 2018 02:05

March 28, 2018

Stardust memories

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Ogni volta che parlo di Bowie, mi succedono sempre almeno due cose: arrivo “lungo” e dimentico di citare interi passaggi a cui tenevo.


Certo, colpa della mia memoria sempre più logora e rigida, ma è pur vero che con Bowie tocca affrontare un fenomeno particolare: più lo indaghi e ne interpreti i passaggi (le svolte e i risvolti), e più la trama rivela connessioni, implicazioni, densità. Si schiudono brecce verso mondi che vorresti esplorare, e vorresti farlo subito.


Sì: è bello parlare di Bowie. L’ho fatto una sera di primavera negli studi di Contatto Radio, ne è uscita una trasmissione di chiacchiere e musica lunga (quasi) un’ora e mezza. E avremmo potuto continuare. A lungo.


Chi vorrà, potrà ascoltare il podcast a questo link.

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Published on March 28, 2018 14:34

March 21, 2018

Psicometria

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Di Cambridge Analytica lessi circa un anno fa su Internazionale, venendo così a conoscenza di questa oscura azienda che, grazie a un algoritmo ottenuto in maniera abbastanza contorta, riusciva a profilare gli utenti con una puntualità sconvolgente.


Il concetto di psicometria entrò quindi a far parte dei miei incubi e tracimò inevitabilmente in Nastri, il romanzetto distopico che stavo in quei giorni finendo di scrivere.


Ne riporto qui sotto una pagina, che chioserei con un banale ma quanto mai opportuno: a volte la realtà supera la distopia.


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Published on March 21, 2018 04:30

March 19, 2018

Scommettiamo?

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“Non avea membro che tenesse fermo”, diceva il Poeta nel celebre Canto VI dell’Inferno a proposito del simpatico Cerbero. Un verso che quando lessi per la prima volta – da qualche parte in mezzo agli 80s – mi spaccò la testa per il dinamismo febbrile, per l’irrequietezza famelica, viscerale.


Ecco, mi è tornato in mente per l’ennesima volta, questo verso, pensando a quel fenomeno irrefrenabile che risponde al nome terreno di Neil Percival Young. Prevedere le mosse del settantaduenne canadese è praticamente impossibile. Se di lui non hai notizie, significa che sta covando qualcosa. Se hai notizie, significa che presto ne avrai altre. E difficilmente somiglieranno alle tue aspettative.


Su Sentireascoltare ho scritto una breve scheda monografica, che devo continuamente aggiornare. L’ho appena fatto inserendo anche qualche immagine di quelle che fanno bene agli occhi. Consapevole che presto, prestissimo, ci sarà bisogno di aggiungere altro, e altro ancora.


Scommettiamo?




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Published on March 19, 2018 05:03