Stefano Solventi's Blog, page 48

November 17, 2018

Vuoto

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Gli eroi son tutti giovani e belli, certo. Quelli rock, poi, tendono a dare il meglio appena oltrepassata la soglia dell’adolescenza, quando genio e ribellismo compongono un cocktail esplosivo. Ma, ovviamente, non sempre è così.


Sono molti i capolavori sfornati da autori ormai – “ormai” – trentenni e persino oltre, molto oltre. Vedi Lou Reed, che ci ha regalato Transformer, Berlin e Coney Island Baby negli anni Settanta, quei Settanta che lo videro – appunto – trentenne muoversi verso i quaranta costruendosi nel frattempo una carriera post-Velvet formidabile, suggellata da almeno altri due capolavori (New York e Magic And Loss) usciti quando di anni ne aveva ormai una cinquantina.


Discorso simile potremmo fare, ça va sans dire, per Mr. Bob Dylan: Blood On The Traks e Desire furono i lavori di uno splendido (circa) trentenne che poi, parecchi anni più tardi, ha avuto la forza di calare carte stupende come Oh Mercy e World Gone Wrong, per non dire di quel capolavoro che è Time Out Of Mind. Altri esempi? Neil Young che dopo i trenta fa uscire Zuma, Rust Never Sleeps, il Live Rust e Ragged Glory (tra le altre cose). Bowie che proprio a trent’anni licenzia i pazzeschi Low e Heroes, e più avanti Lodger, Scary Monsters, quella bomba pop che fu Let’s Dance, e infine – infine – quei due clamorosi botti di commiato, The Next Day e Blackstar. E John Lennon, già, Lennon che si lascia i Beatles alle spalle per ritagliarsi una dimensione gigantesca anche da solista – trentenne e oltre – con Plastic Ono Band, Imagine e Mind Games


Il gioco, come potete immaginare, potrebbe proseguire ad libitum. Ma, insomma, possiamo chiuderlo qui. Tanto ci siamo capiti. È chiaro dov’è che volevo arrivare.


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Oggi Jeff Buckley avrebbe compiuto cinquantadue anni. Ne aveva trenta quando è scivolato via, sprofondato, scomparso. Ci ha lasciato poco, pochissimo rispetto alle potenzialità enormi che ha fatto intuire nella sua maledettamente breve parabola. Quel pochissimo ci ha comunque cambiato la vita. Ma è impossibile non tentare di immaginare ciò che avrebbe potuto fare, quello che ha perduto, quello che abbiamo perduto. Ed è un pensiero tremendo. Un rimpianto arido e devastato. Un vuoto in cui molti, forse tutti quelli che lo hanno amato, non smetteranno mai di precipitare.


 

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Published on November 17, 2018 03:58

November 12, 2018

73

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The world is full of changes

Sometimes all these changes make me sad

(I have to plant them seeds, till something new is growing)


Ne compie 73 oggi Neil Young.

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Published on November 12, 2018 00:04

November 9, 2018

Pescara

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A Pescara ho passato un’estate particolare, molti anni fa.


Mi ero appena diplomato. Durante il lavoretto estivo una cesoia a ghigliottina mi aveva tranciato metà falange del dito indice. L’indice della mano destra. Una cosa da poco, ma a diciott’anni pensare che quel dito sarebbe rimasto mutilato per sempre, per quella strana distesa di tempo denominata “il resto della mia vita”, sembrava una prospettiva terribile.


[image error]Seguii la mia fidanzata e i suoi genitori al mare, a Pescara. Fu un agosto di quasi convalescenza, col dito immerso in una soluzione cicatrizzante un’ora al mattino e un’altra nel pomeriggio. O soltanto per mezz’ora, non ricordo. L’aria pigra degli stabilimenti balneari mi faceva venire in mente un tempo che non avevo mai vissuto, villeggiature da film anni Cinquanta e Sessanta, tra biancoenero e colori slavati, gli altoparlanti che diffondevano un sottofondo blando, la quiete attecchita sulla superficie delle cose, a smorzare gesti e pensieri. Lessi molto. Scrissi qualche sciocco raccontino. Fu un’estate di strani assestamenti interiori.


[image error]Sono passati esattamente trent’anni. A Pescara mi è capitato di tornare per poche ore in un paio di occasioni, ma senza mai fermarmi davvero. Il tempo di un pranzo e via andare.


 


 


Domani ci torno. Presenterò The Gloaming al FLA – Festival di Libri e Altre Cose. Sarà un modo, forse, di chiudere qualche cerchio che non sono neppure sicuro di avere mai aperto. Chissà.

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Published on November 09, 2018 02:45

November 7, 2018

Cioccolata (funzionale) e Realismo (capitalista)

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L’altro ieri in farmacia, mentre aspettavo il mio turno, ho notato un espositore nuovo e insolito. Conteneva barrette di cioccolata di una marca che ritenevo specializzata in prodotti di erboristeria. Una dicitura mi ha particolarmente colpito: CIOCCOLATA FUNZIONALE. I quattro tipi di barretta presentati vantavano peculiari proprietà: ce n’era una per il buonumore, una per il tono (?) e l’energia, un’altra capace di migliorare la memoria (!), infine la più classica e ricoluzionaria di tutte che prometteva, tenetevi forte, di rispettare la linea.


In ultima analisi credo che si trattasse, né più né meno, di cioccolata. Il fatto che venga venduta in farmacia come un prodotto funzionale mi sembra tanto lecito quanto emblematico: abbiamo bisogno di crederlo, no? In fondo sarebbe bello poter trovare tutto, di tutto, in un luogo come la farmacia: cibo, riviste, abiti, videogiochi, ogni prodotto riarticolato in senso funzionale. Non sarebbe rassicurante?


[image error]Leggendo Realismo capitalista di Mark Fisher, mi sono imbattuto tra le altre cose nel concetto di interpassività, forse sfuggente ma a mio avviso cruciale. In poche e grossolane parole, lo spiegherei così: quando esercitiamo il nostro ruolo di consumatori, spesso agiamo secondo regole nelle quali intimamente non crediamo, o di cui sappiamo l’illusorietà. Ma proprio questa sorta di “consapevolezza differita” ci consente di mantenere un equilibrio tra ciò che siamo e ciò che accettiamo. Un po’ la stessa cosa avviene, in maniera più evidente, quando il capitalismo crea le condizioni per l’esistenza dell’anti-capitalismo, lo prevede, lo contiene. Rifacendosi al filosofo sloveno Slavoj Žižek, Fisher scrive: “fintantoché, nel profondo dei nostri cuori, continuiamo a credere che il capitalismo è malvagio, siamo liberi di partecipare agli stessi scambi propri del capitalismo“. Credo di avere letto questo passaggio poche ore prima l’episodio della farmacia. E, beh, forse esagero, ma ho trovato molta interpassività nello strano fenomeno della “cioccolata funzionale”.


Mi è piaciuto molto Realismo capitalista perché è uno di quei libri che ti racconta quello che hai sempre sospettato (sentito, intuito) di sapere ma non hai mai trovato le parole più efficaci per dirlo, per dirtelo, per metterlo a fuoco. In più, Fisher ha il dono della chiarezza, da un punto di vista stilistico, strutturale e argomentativo. Quel suo ricorrere sistematico alla cultura pop (da Kurt Cobain a William Gibson, da Alfonso Cuaròn alla Pixar…) chiamata a irradiare nel presente le intuizioni di Kafka, Marx e Deleuze, costituisce sì un approccio intrigante ma senza perdere un grammo di autorevolezza. Un’autorevolezza necessaria, perché con questo libretto di 150 pagine Fisher intende arrivare al cuore della questione, e ci riesce. Ci fornisce in un certo senso gli occhiali di Essi Vivono, quelli che nel film di John Carpenter svelano la realtà delle cose, la superficie sotto la superficie, il codice che genera in ogni istante la scomparsa di alternative e di futuro, le basi stesse di un ripensamento profondo del modello su cui strutturiamo le nostre vite di individui e cittadini.



Mi spiace, francamente, non averlo scoperto prima di scrivere molte cose che ho scritto nel frattempo, malgrado Simon Reynolds – che era tra l’altro un suo grande amico – lo citasse ogni tre per due. Di certo il prossimo passo sarà leggere The Weird and the Eerie: Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, il suo ultimo libro pubblicato in vita.

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Published on November 07, 2018 02:39

November 4, 2018

Luoghi

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A volte, semplicemente, penso che la musica sia un luogo in cui sostare. Ne esistono molti di questi luoghi, ognuno con caratteristiche peculiari: diversi per densità, estensione, pressione atmosferica, per quanto e come elaborano il proprio rapporto col tempo, per le bave di passato, le feritoie sul presente e per i tentativi di allungare lo sguardo su un futuro che forse, forse, è ancora lì. O, almeno, dovrebbe esserci.


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Da pochi giorni è uscito Somewhere, il nuovo album dei Silent Carnival, band che gravita attorno al polistrumentista, autore e cantante Marco Giambrone. Ai tempi in cui scrivevo recensioni mi affannavo a cercare similitudini, le coordinate per indirizzare il lettore su nomi noti e consentirgli così di “farsi un’idea”. In questo caso, avrei citato Yo La Tengo, Low, Red House Painters, più altre aspersioni dreamy che non rinunciassero al polso del folk, certi Mazzy Star, per dire, qualcosa persino di Marissa Nadler e addirittura Vashti Bunyan.


Ma questa non è una recensione. Qui voglio solo dire che Somewhere definisce uno spazio in cui stare, in cui sostare, e t’impone una densità, un silenzio abitato, uno sguardo che si fa luce aggirandosi nella gravità degli istanti, dilatandoli, recuperando il valore dell’esserci, in questo qui e ora che precipita su tutto il resto.


È un disco cupo, lento e pieno di cuore, di carne e ferite che si sottraggono mentre alludono al loro esserci. È un disco bellissimo.

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Published on November 04, 2018 03:21

November 1, 2018

The Gloaming su Ondarock

"Partendo dagli edonistici anni 80, l’autore crea un azzeccatissimo parallelo fra la storia dei Radiohead e l’evoluzione musicale, artistica (si parla anche di cinema e letteratura), politica (la Guerra del Golfo, il disastro delle Torri Gemelle), sociale e tecnologica in atto."

Claudio Lancia è l'autore di una approfondita e puntuale recensione di The Gloaming pubblicata da Ondarock

http://www.ondarock.it/speciali/stefa...
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Published on November 01, 2018 09:27 Tags: radiohead

October 31, 2018

Insoddisfazione (una pseudo recensione di Shotgun Lovesongs)

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Non ho provato un grandissimo piacere letterario leggendo Shotgun Lovesongs di Nicholas Butler, nel senso che sono stato colto abbastanza spesso da un senso di artificio, come se i contorni delle vicende e dei personaggi scricchiolassero e cedessero lasciando intravedere il dietro le quinte, quei meccanismi che l’autore stava alimentando e direzionando per arrivare a destinazione. Eppure, mentre si chiariva il disegno, la risultante vettoriale delle forze in gioco, mi sono fatto catturare, sono entrato in connessione con quello che credo sia il centro e il senso della vicenda, che ho finito per amare.


Quasi tutto si svolge a Little Wing, piccola città che, come la Holt di Kent Haruf, non esiste, è un luogo che intende riassumere il senso di provincia sperduta da qualche parte nel Wisconsin, non lontano dal grande lago Michigan e da Chicago, ma lontano da tutto quello che diresti città, globalizzazione, le dinamiche di una vita socialmente condivisa. E’ una periferia parossistica, forse, ma [image error]serve appunto a stabilire l’estremo a cui la vicenda di Lee, in arte Corvus, si allaccia come un elastico teso fino allo spasimo nel suo decollare fino allo status di rockstar. Chi resta, vive tra successi problematici (il broker Kip), vampe di fama rovinosa (il “rodeo man” Ronny, destinato a perdere la lucidità in un brutto incidente) e una stanzialità precaria (Beth e Harry, fidanzati da sempre e poi sposi, genitori, agricoltori e allevatori che oppongono alle difficoltà economiche una sorta di fiducia stolida nei confronti della terra e del bestiame).


Non entro nei dettagli della trama, dico solo che non ho trovato granché interessante quando affronta i temi dell’amicizia e dei rimpianti, degli amori logori e profondi. A catturarmi è stata semmai, pagina dopo pagina, quella nota costante di insoddisfazione, puntellata dai tentativi di oltrepassare la normalità, il solco del già scritto. Utilizzando la tecnica dei diversi punti di vista – ogni capitolo sposta l’angolazione adottando come io narrante uno dei poersonaggi – Butler sembra girare attorno alla questione come se osservasse una scultura. Quello che ne esce è un quadro caldo ma sconfortante, abitato da un’umanità destinata a vedere frustrati i sogni finché non si realizzano proprio aderendo alla loro versione più normalizzata, “civile”.


[image error]Nicholas Butler

Tutto ciò mi ha fatto pensare ai motivi stessi che ci portano a cercare qualcosa in più, a sporgerci oltre la quotidianità, pur restando individui integrati, rispettosi delle regole, civili. Il consesso civile visto quindi come struttura ineludibile e allo stesso tempo trappola, condanna auto-inflitta, laccio che stringe, gabbia che soffoca. E in tutto ciò l’arte – qualunque cosa significhi questa parola così equivoca e ricca, così irriducibile – diviene la nota che rende arioso l’accordo, la breccia virtuale (?) che consente la fuga (reale?), la connessione che ti ripaga di ogni comunicazione interrotta, la forbice che ritaglia una nuova sagoma attorno al tuo profilo.


In Shotgun Lovesongs il musicista sfigato Lee si isola volontariamente, improvvisa un mini studio di registrazione in un vecchio pollaio e lì incide le sue canzoni di rivalsa, spingendosi a incrociare la fame di “oltre” di Beth, che del romanzo è la vera protagonista con la sua consapevolezza profonda, dei valori certo, di ciò che è destinatyo a rivelarsi solido e affidabile nel tempo, ma anche di quanto perdere il controllo sia ingrediente irrinunciabile della “normalità”. In questo caso quindi – sempre? – la musica (rock, o folk rock, nella fattispecie) nasce dall’attrito tra accettazione e insoddisfazione, nasce nel momento in cui comprendi il senso profondo delle regole e capisci che le accetterai pagando un prezzo altissimo che sei disposto a pagare.


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Non credo sia un caso che il rock’n’roll abbia visto la luce proprio dove e quando – negli USA della metà dei 50s – si andava definendo un modello sociale molto potente, quello a cui mutatis mutandis guardiamo ancora oggi, nei cui percorsi incanaliamo le nostre vite come se fossero leggi di natura. La musica – il rock in particolare, l’arte in generale – è un momento di consapevolezza tra integrazione e rivolta, la sublimazione del gesto con cui dichiaramo la nostra unicità agli altri, al mondo.


In questo senso, Shotgun Lovesongs – coi suoi tempi collassati, con le sue elusioni, con gli spazi pigri e dilatati, con la sua identità tra azione e tensione tra i personaggi e le loro aspettative – è una storia struggente ed efficace, ferocemente paradigmatica.

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Published on October 31, 2018 04:48

October 30, 2018

Due mesi (auto-ritratto)

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Uno si distrae un attimo, ed ecco, sono già passati due mesi. Sessanta giorni, circa, da che è uscito The Gloaming. Non voglio stare qui a celebrare. In realtà, non so neanche cosa dovrei celebrare. Però credo che sia arrivato il momento di aggiungere un paio di cose, oggi, dopo qualche presentazione, qualche recensione, qualche chiacchierata.


Sono bastati due mesi a The Gloaming per diventare il mio libro più venduto su Amazon, Feltrinelli e IBS. L’editore dice che sta andando bene anche nelle librerie. Non ho idea di quali siano i numeri, di certo non sono grandi numeri. Diciamo che rispetto ai pochissimi numeri dei libri precedenti, sono quelli sufficienti a farne il mio best seller. Che bello. Che emozione. Sì, certo. Ma anche no. In realtà, mi importa poco. Spero che venda solo per l’editore, che ha scelto di investirci. A me in ogni caso non cambierà la vita vendere cento copie in più o in meno. Cento, non mille: questi sono gli ordini di grandezza, tanto per capirci. E per quel che vale.


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Ma passiamo oltre. Quando ho deciso di scrivere The Gloaming, poco più di un anno fa, avevo chiara in testa una cosa: nella situazione attuale, i libri che contano davvero sono pochi, pochissimi. Di libri davvero importanti, non ne escono molti. La maggior parte dei libri che escono sono importanti – persino molto importanti – soprattutto per i loro autori (e per gli editori). Sono molto importanti, aggiungerei, quasi esclusivamente per chi li ha scritti e pubblicati. In realtà, leggere un particolare libro tra le migliaia che escono ogni mese non è importante. Importante è leggere in generale, restare in contatto, tenere aperte le feritoie.


Ero così convinto di questo che mi sono proposto di scrivere The Gloaming per me, solo per me. Sentivo di avere bisogno di questo e non mi preoccupavo granché di tutto il resto. Di cosa sarebbe diventato. Di cosa ne avrebbero pensato. Mi preoccupavo solo di metterci dentro tutto, anche il troppo. Sì, ci ho messo dentro troppo. E ci avrei messo anche di più se ne avessi avuto la forza, se non avessi da dedicare le mie energie anche ad altro per tirare avanti.


Scrivere un libro sui Radiohead mi interessava relativamente poco, anche se alla fine ne è uscito indubbiamente un libro sui Radiohead. Scrivere un libro sulla crisi del rock mi interessava, certo, ma avrei potuto benissimo affrontare l’argomento attraverso gli articoli che potevo pubblicare su Sentireascoltare o da qualche altra parte. In realtà, The Gloaming è una terapia, un deposito, un punto di raccolta. Una terapia di cui avevo bisogno. Ci è finito dentro di tutto, lo so: era quello che volevo, raccogliere tutto, errori compresi. Ricostruire un percorso, anzi ricomporlo, proprio come si ricompone qualcosa che non ha più vita.


[image error]Alberto Savinio – Autoritratto in forma di gufo (1936)

La scrittura è fatta di parole e le parole sono “cadaverini neri”, come sosteneva Alberto Savinio, uno di cui se non avessi mai letto le opere (quei folli, evocativi, eleganti, lucidissimi e ricomposti deliri in forma di libro) probabilmente non avrei mai scritto una pagina di diario, una recensione, un racconto, un libro. Avrei speso il mio tempo a leggere, e non sarebbe cambiato molto. Parole come cadaverini neri: è per questa immagine – per motivi che so soltanto io e che tengo per me – se vivo come se vivere significasse scrivere ogni istante, in ogni istante.


A novembre sosterrò altre presentazioni: a Pescara, a Cagliari, più avanti a Brindisi e poi chissà. Le presentazioni ti illudono che ciò che hai scritto possa interessare a qualcuno, possa rappresentare qualcosa di importante per un pugno di lettori. Niente male come presunzione. Tuttavia, anzi proprio per questo, amo le presentazioni. So che sono una recita, ma le amo. Funziona così: ci guardiamo, negli occhi o meno, dipende, io da una parte, loro dall’altra, io che so di dover dire cose che già sanno dove andare a parare, loro che sembrano seguirti e incamminarsi nel solco tra pensieri diversi, i loro e i miei. E sappiamo bene, lo sappiamo tutti cosa sta accadendo. Però ci guardiamo, ci trasmettiamo convinzione reciproca, e sorridiamo. Ci divertiamo.


Ok, basta, la chiudo qui. Chiedo perdono a chi ha comprato The Gloaming se leggendolo ci ha trovato cose che avrebbe preferito non incontrare. Parti di me, equivoci, incomprensioni, idiosincrasie. Perdonatemi: è un gioco che ho scelto di giocare, che avevo bisogno di giocare. Mi stupisce, devo ammetterlo, non avere ancora ricevuto critiche negative. Le sto aspettando. Non fatemi attendere troppo.


Leggetelo. Compratelo. Criticatelo.

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Published on October 30, 2018 07:59

25 anni (e sentirli tutti, e sentirli ancora)

[image error]Su Sentireascoltare abbiamo fatto un gioco. Eccolo: ripensa al 1993, un quarto di secolo fa, ed estrai dal mazzo dieci dischi che hai amato, che ti hanno formato, a cui ripensi con una esitazione particolare del cuore.


Più che una classifica, un catalogo di amori sonori ancora vivi. Ci sono i Grant Lee Buffalo, i Mercury Rev, gli Smashing Pumpkins. C’è, ovviamente, PJ Harvey. Ci sono alcune assenze, anche clamorose, ma era inevitabile (non è, ripeto, una classifica). Qui sotto metto il link al pezzo. Servitevi pure.


https://sentireascoltare.com/articoli/25-e-non-sentirli-i-dieci-dischi-del-1993-per-stefano-solventi/

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Published on October 30, 2018 02:17

October 29, 2018

The Gloaming a Un libro tira l'altro su Radio 24

Un sentito grazie a Salvatore Carrubba che nella sua trasmissione domenicale Un libro tira l'altro ha parlato di The Gloaming.

Nel podcast al link qui sotto, dal minuto 17 (circa).

http://www.radio24.ilsole24ore.com/pr...
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Published on October 29, 2018 05:02