Stefano Solventi's Blog, page 53
June 29, 2018
Ultimo Mucchio
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Iniziai a collaborare col Mucchio Selvaggio nel 2001. Il modo in cui venni “reclutato” meriterebbe di essere raccontato, magari in futuro lo farò. Mi limito a dire che l’inizio di quella collaborazione arrivò dopo un colpo duro, molto duro, da cui non sapevo bene come riprendermi. Forse è per quello che mi ci aggrappai con la foga di chi trova un’insperata riserva di ossigeno nel serbatoio. Mi aiutò a risollevarmi regalandomi nuovi motivi per affrontare le giornate, una febbre di obiettivi (anche se non sapevo bene quali, a dire il vero) che affrontai come in trance, con un entusiasmo che ero arrivato a credere di non poter provare mai più.
Per mesi scrissi a un ritmo furibondo recensioni, articoli, rubriche. A ripensarci, mi sembra che in quel periodo non avessi tempo e testa per pensare ad altro. Era proprio così: galleggiavo su una specie di euforia insensata, lasciai che il mio amore per il rock prendesse i comandi. Mi abbandonai al flusso. Fu elettrizzante, faticoso, bellissimo. Fu la cosa migliore che potesse accadermi e potessi fare. Fu una delle cose migliori che abbia mai fatto.
[image error]Il primo numero del Mucchio
Negli anni l’intensità del mio impegno è cambiato come è cambiata la rivista, la sua periodicità (da settimanale a mensile) e l’impostazione. Arrivarono tempi difficili, soprattutto quando persone che stimo molto – un’ammirazione che in qualche caso è diventata amicizia – decisero di lasciare, alcune sbattendo la porta: avevano le loro ragioni. Io sono rimasto, non perché volessi appoggiare una parte in una disputa che non ho mai vissuto in prima persona: semplicemente, sentivo di doverlo fare, sentivo di non essermi messo abbastanza in gioco, di non avere restituito abbastanza da potermi permettere di lasciare al suo destino una nave che rischiava di affondare.
Sentivo che in qualche modo a suo tempo mi ero preso un impegno che non era ancora giunto alla sua conclusione (un impegno dal quale, che ve lo dico a fare, non guadagnavo un euro: ma non era quello il punto).
[image error]L’ultimo numero del Mucchio
Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata da Daniela, la direttrice del Mucchio. Mi ha annunciato che non ci sarà più alcun Mucchio (qui il comunicato ufficiale). La notizia mi ha sorpreso, perché il nuovo corso della rivista mi sembrava interessante, vitale, coraggioso. Mi ha fatto male, perché ho scoperto che il pensiero di “far parte del Mucchio” aveva una sua estensione, una densità, quella che adesso è diventata una zona inerte, una vibrazione di colpo muta, da qualche parte tra ciò che sono stato e quello che credo di poter (ancora) essere.
Di tutti questi anni da collaboratore e di quelli precedenti da lettore, sono grato al Mucchio. È stato un luogo, una dimensione, un appuntamento, un rifugio, un orizzonte di storie che ne implicavano altre e altre ancora. È stato un approdo. È stato uno dei modi in cui potevo dire “io” che significava anche un “noi”, un’appartenenza fatta di argomenti e motivi. È stato ossigeno nel momento in cui credevo di non riuscire più a respirare, ogni volta che credevo di non riuscirci più.
La prima cosa che scrissi per il Mucchio fu una recensione, quella di Stories From The City, Stories From The Sea di PJ Harvey. Per una serie di motivi che sarebbe inopportuno dire, non scorderò mai il groviglio di cose che sentivo attorcigliarsi nel petto mentre buttavo giù quelle righe, con particolare riguardo per questa canzone.
I cerchi si chiudono, il tempo chiama alla raccolta. Le parole, come i fatti, diventano cadaverini sparsi sulle pagine di chi vorrà leggere. Di chi vorrà ricordare.
So long, Mucchio.
June 27, 2018
Cometa
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Quando venne a farci visita, nel 1997, la cometa di Hale-Bopp suscitò emozioni forti. La sua presenza, uno sbrilluccichìo sbaffato nella volta stellata, divenne una sensazione costante, un retropensiero, un miscuglio di meraviglia e insidie appeso sopra lo srotolarsi della quotidianità. Qualcuno se ne fece ossessionare: non mancò chi la giudicava un vero e proprio messaggero da un’altra dimensione/civiltà, tanto da ipotizzare un’astronave nascosta nella sua coda. A San Diego, California, la setta ufologica Heaven’s Gate ipotizzò con così tanto fervore da optare per un suicidio di massa: 39 persone si avvelenarono credendo così di staccare un biglietto per salire a bordo del torpedone alieno. Un episodio estremo, certo, di un fenomeno comunque diffuso: Hale-Bopp fu un argomento di tendenza – diremmo oggi – per molte settimane, un vero e proprio meme – il primo? – per l’internet agli albori, almeno dal punto di vista della diffusione di massa, del suo impatto sulla cultura, sui costumi, sulla struttura del pensiero.
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Tutto questo non c’entra molto con Cometa (NEO. Edizioni), secondo romanzo di Gregorio Magini, fiorentino classe ’80. Eppure, mi è capitato spesso di pensare a quel senso di incombenza, di imminenza, di cambio di paradigma che avrebbe segnato (stava per segnare) una discontinuità profonda nelle vite di tutti, in quel finire di secolo/millennio che Hale-Bopp – a sua insaputa – ci stava annunciando. Questioni di timori atavici, di soggezione naturale per fenomeni che intrattengono con tempo e spazio relazioni ben più estese di quanto la nostra esperienza e la nostra intelligenza ci permettano. [image error]Fatto è che Raffaele e Fabio, i protagonisti di questa storia, sembrano incarnare due approcci opposti alla contemporaneità – sessuomane e cinico il primo, introverso e genialoide il secondo – che finiranno per incontrarsi e coincidere, cospirando per un attimo la soluzione perfetta per una società immersa in un brodo di afasia mimetizzata da fermento social. Ad unirli c’è in realtà qualcosa di profondo, anche se casuale: sono cresciuti scollegati dal resto, hanno sviluppato un’interfaccia tra sé e il mondo, una cortina fumogena di apatia e consapevolezza su cui proiettano una loro rielaborazione di ciò che (gli) accade. Sono, in un certo senso, gli autori/narratori delle loro stesse vite, delle quali non riescono però a dominare la trama, alla quale si abbandonano, invischiati dal suo risucchio gravitazionale.
Più che il plot, che si srotola abbastanza errabondo (una scelta tutto sommato congrua), a colpire sono i punti di vista, il modo in cui le due diverse sensibilità decifrano il reale, ne interpretano il codice. Per questo Magini passa dalla terza persona del periodo di “formazione” alla prima della crisi sentimentale/esistenziale, come se regolasse sensibilità e profondità dell’indagine, per cogliere il cuore dello spaesamento informatissimo, dell’eradicazione emotiva e culturale che ha saputo diventare sostrato del presente, consegnandoci ricettivi e vulnerabili al carosello sovrabbondante e frenetico delle suggestioni.
Irriverente, arguta, scomoda, brutale, sorretta da un lirismo vibrante e lucido, la scrittura di Magini diverte e scuote, ci trascina nelle maglie di un presente di cui ricostruisce – per così dire – le fasi costituenti, o una sua stratificazione, un’angolazione che oscilla costantemente dal marginale all’essenziale, dal comico al terrificante. A suo modo, questo romanzo fa il punto e ci conduce sul bordo. Ci invita ad alzare lo sguardo, a non distoglierlo dal buio.
June 24, 2018
Sopravviversi
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25 anni fa, oggi, moriva Massimo Urbani, un grande, grandissimo sassofonista. Vorrei ricordarlo con questa recensione di Easy To Love, l’ultimo disco pubblicato in vita.
Roma. Anzi, Primavalle, a dirla tutta. Un fiore selvatico sboccia nella suburbia pasoliniana. Fin da bambino, Massimo Urbani è un mostro. Inizia col clarinetto, ma è nel sax, l’impervio sax alto, che trova la sua vera voce. Una clamorosa rivendicazione di esistenza nel grigiore. Mario Schiano, sassofonista e organista free jazz, è il primo a scorgere talento nel quindicenne Urbani, tanto da includerlo nel sestetto che registra Sud (Splasch Records, 1973). Quindi il pianista Giorgio Gaslini lo nota nella mischia del suo corso di jazz al Conservatorio di Santa Cecilia: fin da subito ne stima il piglio istintivo e la preparazione, rimproverandogli al contempo la dissennata mancanza di self control. Vista lunga, quella di Gaslini. Nel bene e nel male.
Poi il fiore sboccia. Uno stupendo fiore carnivoro. L’incontinenza espressiva produce una musica sbrigliata, impetuosa, a rotta di collo contro le ringhiere che chiostrano i palazzoni di borgata. Il jazz italiano capisce subito di non poterne fare a meno. Fioccano le collaborazioni con Pierannunzi, Liguori, Fresu.
A Umbria Jazz ‘74 si guadagna l’ammirazione di una leggenda come Sonny Stitt. La leggenda invece nostrana di Enrico Rava lo porta con sé a New York (dove il Nostro scompare per due giorni, dormendo su una panchina di Central Park). Da ognuno Urbani coglie, impara, esplora. Ma quel che più gli preme è il raglio in faccia al creatore di Ayler e Coltrane, movenze che informano il fenomenale Dedications (Red Records, 1980).
È una febbre in via d’implosione, sguinzagliata sulle tracce del cuore: ecco avviarsi la sua strana carriera a ritroso, dal free verso il cuore della “cosa” jazz, quel crogiolo/caleidoscopio che fu la rivoluzione bop di Charlie Parker e Gillespie. Il contrabbassista Giovanni Tommaso, storica figura del jazz rock coi Perigeo, lo vuole nello splendido Via G.T. (Red Records, 1986), dove Massimo dimostra un senso dell’interplay ormai pari al furore formale. Arriva quindi, col 1987, questo Easy To Love in quartetto con Roberto Gatto ai tamburi, Furio Di Castri al contrabbasso e l’altrettanto compianto Luca Flores al piano.
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La combinazione di personalità e “voci” si rivela azzeccatissima: la puntigliosità assorta e lunare del piano e l’imprendibile calligrafismo ritmico di basso e batteria (si senta la trepida Night Walk) si rivelano la trama ideale per il quid artistico maturato da Urbani. Asciutto, affilato, vibrante, il sound è un’ode generosa ai numi imprendibili che da sempre ossessionano il sassofonista. Il Cole Porter di Star Eyes e della title track sono velluto che soffoca il fuoco, sinuoso e duttile il timbro del sax come nervi spalmati su stati di grazia e abbandono, palpitante il piano di Flores a ricucire un pacificazione in fieri. La classica Good Morning, Heartache tiene al guinzaglio una malinconia svolazzante come t’immagini avrebbe potuto Bird stesso dopo aver contemplato le placide trepidazioni delle Ballads coltraniane.
Coltrane che è presenza palpabile nell’originale A Trane From The East, apprensione spirituale e carnalità fosca riconducibili al periodo Crescent, ma anche nei guizzi e sfarfallii bop/swing di Three Little Words (che il grande John interpretò assieme a Milt Jackson). In mezzo al programma ancheggia una volitiva I Got Rock, piglio funk-rock dritto e squillante, il riff del sax colto tra rovello febbrile e lucido raziocinio, bestia sonica ormai del tutto sotto controllo. Perché a volte il jazz assomiglia a una spasmodica, toccante ricerca di sé, della propria voce come uno stare nel mondo tra le cose del mondo.
Ahimé, spesso è una ricerca (e un trovare) che sublima lo smarrimento irrimediabile dell’uomo dietro al musicista. Non riuscirà, Urbani, a sopravviversi. Tra i pochi altri lavori autografi spicca un eccellente The Blessing (Red Records, 1993), ossequio parkeriano definitivo. Uscito postumo.
June 21, 2018
Miraggio
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Move like syrup through the evening
With a sweet resign
I won’t pine for what could have been-
I’m preoccupied!
Summer turns to high
È un album che non mi ha mai convinto del tutto, Reveal. Messo in prospettiva, lo considero il disco che inaugurava per i R.E.M. la fase tarda, quasi senile, dell’ispirazione. Eppure conteneva gioielli, a parte quel capolavoro pop di Imitation of life.
Una delle canzoni che da allora, ogni anno, in questo periodo dell’anno (e in questo giorno in particolare) mi torna in mente, è il miraggio beachboysiano sovraesposto di Summer Turns To High. Questa pellicola cotta, questo sogno esausto, questo carosello ipnotico di memorie sparse, questo languore abbacinato.
Buona estate.
Apolide
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Le traiettorie di certi musicisti mi affascinano. Senza bisogno di scomodare le direzioni ostinate e contrarie col loro eroismo virtuoso e scomodo, mi sembrano già assai interessanti quanti s’impeganno a disegnare orbite defilate rispetto al centro della scena, a un fare musica che s’impernia sulle proprie inclinazioni e quanto al resto, boh, è tutto un manipolo di conseguenze, che deve alla bontà del lavoro il raggiungimento della quota di successo bastevole a farti stare a galla sul mare (o nella tinozza) della vita.
Gerardo Balestrieri è un fisarmonicista e polistrumentista classe ’71 che dai Novanta si muove sulla linea d’ombra tra cantautorato, musica etnica e popolare, jazz, teatro, pop-rock e via discorrendo. Lo seguo da un bel po’, almeno da quando ho avuto modo di sentire l’album d’esordio I nasi buffi e la scrittura musicale, che ho recensito per Sentireascoltare. Ho continuato a seguirlo, scrivendo di altri lavori, convincenti come Un turco napoletano a Venezia, molto convincenti come Quizas, appena più sfocati come Canzoni al crocicchio. Ha poi pubblicato – nel 2016 – l’ottimo Canzoni nascoste (qui una bella recensione di Carmine Vitale), quindi – lo scorso anno – mi ha sconcertato con lo sbalorditivo e irriverente Covers, nel quale ha reinterprato pezzi tanto celebri quanto disparati (da Perfect Day a Lontano lontano passando da White Rabbit, I Got a Woman e Azzurro) in una giocosa chiave punk-rock (nella cartella stampa lo presentava come un “un esercizio di defaticamento”).
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Si definisce “cantautore apolide” e non sembra affatto un vezzo, anzi è proprio la sostanza di quel suo esprimere sempre in bilico tra mondi che vaporizzano frontiere, tra oriente e sudamerica, nel mormorio ombroso di un cortile o immerso nel fumo denso di un jazz-club, dettando il passo con Daniele Sepe o Tonino Carotone, seguendo le tracce solenni e guitte di Gainsbourg, Paolo Conte o Boris Vian. Ma sempre, sempre, mettendo innanzitutto in gioco la musica, mettendosi in gioco, lasciando che al gioco del protagonismo funzionale, dell’espediente efficace, giochino altri.
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Pochi giorni fa è uscito Syncretica, sono altre dodici (più una) canzoni che svariano attraversando varchi geografici e temporali, teatrini irriverenti e golfi (mistici) dall’approdo esotico, di nuovo un consegnarsi alla magia insidiosa di un carosello sonoro che si squaderna liberando buio e luce, allegria e contrizione. Probabile che non ne sentirete parlare granché, ma se avete letto fin qui almeno adesso sapete che c’è: un viaggio immobile tra Mediterraneo e Rio della Plata, tra Andalusia e Venezia, tra balcani e New Orleans.
Un ascoltare che è un “sentire”, una sensazione: che i confini bisogna iniziare a demolirli da dentro.
June 19, 2018
Tempi del Kaiser
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Mi sono detto che, massì, leggere un romanzo sul calcio in tempo di mondiali ci sta proprio bene. Soprattutto pensando a questi mondiali monchi, amputati di senso (e controsenso) para-nazionalistico, questi mondiali che non ci hanno voluti (ah, il fato crudele) tifosi ma spettatori, amanti del giuoco, votati a un commentario che ricalchi quello scandito dalle formule e dagli schemi degli intenditori. Insomma, ben venga un romanzo sul calcio a iniettare un po’ di epica in questi giorni da contabili e scommettitori. La lettura di Kaiser (Arkadia editore) di Marco Patrone ha ribadito però che aspettarsi da un libro (romanzo o meno) che sia funzionale a qualcosa, è sempre un errore. Kaiser è molto di più che un romanzo sul calcio, parla del senso e della sostanza delle storie, dei motivi e delle necessità che spingono una storia a farsi raccontare, e quindi inventare, e di come la loro sagoma coincida spesso con quella di chi le racconta e di chi, raccontato, vive e si racconta.
La vicenda di Carlos Henrique Raposo – detto Kaiser – mi era nota, anche se non ricordo quando e attraverso chi ne ero venuto a conoscenza: un “quasi” calciatore che riesce a spacciarsi per calciatore, anzi per un gran calciatore, facendosi tesserare per importanti società brasiliane (Flamengo, Fluminense, Botafogo…) pur senza quasi mai calcare i campi da gioco. Muovendo le leve giuste: amicizie, sesso, ancora sesso, anzi: fica. Un personaggio emblematico nell’epoca della post-verità, del talento che è sempre più solo talent. Ma il valore aggiunto di questo romanzo è la sua struttura, il modo in cui – pure esso – muove le leve del linguaggio, insistendo sulle simbologie funzionali delle frasi fatte, dei codici dell’immaginario, della narrazione cronachistica che diventa il guscio di una realtà fittizia sotto la quale accade – vive – tutto il resto. Un resto quasi inenarrabile, fatto di umanità spicciola e meschina, di debolezze e perversione, di a-Moralità senza possibilità né desiderio di assoluzione.
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Il giornalista che si crede scrittore che rielabora testimonianze raccolte da un altro giornalista che forse è un manipolatore, siamo un po’ tutti noi di fronte alla difficoltà quotidiana di comprendere la verità nel flusso delle narrazioni. Kaiser è un mistero sbruffone, un laido rappresentante del vero, è l’effetto collaterale in cui è riposta una consapevolezza residua, forse l’ultima: e Marco Patrone ha saputo trovare la chiave migliore per farlo diventare una storia.
Patrone, che gestisce con successo il blog Recensireilmondo, dimostra che leggere una quantità industriale di romanzi e comprenderne i meccanismi non è affatto incompatibile col saperli scrivere. Rispetto all’esordio Come in una ballata di Tom Petty, uscito tre anni fa, la crescita è notevole.
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June 15, 2018
Stardust
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46 anni fa usciva The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders From Mars di David Bowie.
Quello che segue è un estratto da Le dinamiche del cambiamento, articolo monografico pubblicato qualche anno fa su Sentireascoltare
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Certe illuminazioni scendono dall’alto. Altre collassano a terra e si mettono a sproloquiare deliri spremuti da circuiti neuronali irrimediabilmente compromessi.
Bowie – anzi, David Jones – incontra la ex star del rock’n’roll Vince Taylor alla metà dei Sixties. Gira per Londra assieme a lui, è attratto dall’energia nera di una carriera brillante ormai decaduta, dall’oscurità che emana quell’uomo un tempo famoso – nella cuspide tra 50’s e 60’s coi suoi Playboys ottenne grande seguito soprattutto in Francia – stritolato dalla tossicodipendenza. Taylor a un tratto apre una carta geografica, la distende sul marciapiede, invita David ad inginocchiarglisi accanto e si mette a dire cose assurde circa l’esatta ubicazione di una base extraterrestre sotterranea. Vince Taylor è completamente andato, un pazzo totale. Oppure – se preferite – è appena caduto da un’altra dimensione.
Storia vera? Leggenda? Poco importa. “All’epoca, ero affascinato da personaggi come lui“, dirà Bowie molti anni più tardi. “Certe persone creano un doppio sulle cui spalle si sbarazzano della propria colpa, della vergogna, della paura. E’ quello che ho fatto. Mi sono creato un doppio per sbarazzarmi delle mie nevrosi, della mia paranoia, della mia timidezza, delle mie inibizioni (…). Ziggy, era lui, mi sono servito di Vince per creare il mio personaggio.” Ma Ziggy come personaggio è molto di più. Un ibrido, una pelle multistrati. Il suo “cognome” rimanda ad un altro bel tipino strambo, il texano Norman Odam noto ai più come The Legendary Stardust Cowboy, pioniere dello psychobilly con la fissa per le esplorazioni spaziali e le (speculari?) invasioni aliene, folle e lancinante come un Captain Beefheart strafatto di peyote sui monti Appalachi. Per molti nient’altro che un fenomeno da baraccone, per Bowie invece è lo squarcio nella tela, l’ossessione spettacolarizzata che procura brividi d’inquietudine, il segno di una dimensione alternativa. L’alieno tra noi, dentro di noi, tanto più dissennato quanto più credibile, perché perfettamente autonomo nel proprio ordine impazzito di valori al di là della fenomenologia freak.
Ziggy è questo e molto altro, certo. Il dark side degli idoli totali (e totalizzanti) alla Elvis, ciò che di malsano e minaccioso si cela dietro la loro iconografia sexy e rassicurante. Il frutto assieme aspro e marcio del cinismo metropolitano di Arancia Meccanica (il controverso capolavoro kubrickiano uscito nel gennaio del ’72). Un diamante pazzo dalle mille sfaccettature, ed ogni riferimento a Syd Barrett è tutt’altro che casuale. La parabola di un’anomalia spettacolare piovuta da chissà dove e destinata a bruciarsi rapidamente, come un’estasi tossica, come il voodoo infuocato di Jimi Hendrix (“Ziggy played for time, jiving us that we were Voodoo“). Uno spasmo vitale dai sottofondi laceri della società, una sarabanda chiassosa sulle ceneri marce delle prospettive, il sabba cialtrone che esorcizza l’angoscia per l’estinzione degli ideali Sixties. L’estetica trash – vedi l’aneddoto del giovane Bowie che assieme a Bolan raffazzona il look raccogliendo la spazzatura dei negozi di Oxford St. – come un cialtronesco razzo spaziale carburato ad escapismo sci-fi: un lancio destinato a fallire miseramente subito dopo la fiammata del decollo, esattamente come da progetto. La gloria scintillante e stracciona del fallimento come il paradigma di un’epoca.
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E poi ancora le ossessioni dittatoriali, la rock’n’roll star dominante che incarna per eccesso – con ciò rivelandolo – il sempre più pervadente meccanismo mediatico-spettacolare (un canovaccio che Roger Waters svilupperà sette anni più tardi nel parossistico personaggio di Pink, chiudendo idealmente con The Wall un decennio di riflessioni sul ruolo e l’essenza del rock). Non ultimo, Ziggy è una grande trovata, concentrato di ambiguità e a-moralità glitterizzate allestito riadattando il conflitto iperbolico tra identità e ruoli delle drag queen. Assieme furbesco e artisticamente impavido, è un avatar micidiale che spacca l’occhio dei media, impone i propri canoni oltraggiosi sulle prime pagine, trasforma ogni apparizione in una performance.
Sebbene non manchino nella biografia e nella carriera di Bowie segnali anticipatori – e ne abbiamo incontrati – è difficile non associare la comparsa di Ziggy all’exploit ottenuto dai T.Rex di Bolan col capolavoro Electric Warrior, uscito nel settembre del ’71, album che in sostanza segna l’inizio ufficiale della breve stagione glam. Di lì a poco sarà tutto un frullare di band dal peso specifico più o meno rilevante, da Gary Glitter ai Roxy Music, dagli Sweet agli Slade, unite da un approccio che nel migliore dei casi potremmo definire arty, con una spiccata propensione alla più opportunistica delle cialtronerie. Tutto parte del gioco. E Bowie ne viene investito, riuscendo da par suo a sfruttare la corrente. The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars (RCA, giugno 1972, 8.0/10) non è propriamente un disco glam, è il rock all’epoca del glam, la pasticca psichedelica scaduta che ingoi comunque perché sai che le reazioni avverse sono comunque preferibili alla desolazione del post-Sixties. Un affronto rock’n’roll fuori tempo massimo che pure ha la forza di dimostrare quanto il rock abbia modificato il DNA espressivo, i codici comportamentali, i limiti e i modelli della comunicazione.
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L’idea di far confluire in questo buglione gli espedienti espressivi della pantomima forse sorprende di meno se consideriamo come i primi mimi, risalenti all’età di Augusto, utilizzassero gesti, danza e musica per rappresentazioni che pare fossero molto spesso di carattere osceno. I pantomimi erano considerati empi, corruttori della moralità e dei costumi. Forse inconsapevolmente, ma senza che questo cambi di una virgola la valenza semantica del gesto, Bowie raccoglie il testimone di questa antica tradizione e la sottopone ad una cura d’urto attualizzante. Probabile che il rock lo abbia fatto fin da subito: quelli che salivano sul palco fin dai 50s altro non erano che personaggi, spiantati provocatori con una ben riconoscibile uniforme (in questo senso Quadrophenia ci offre un ottimo esempio sulla “guerra” tra stili, costumi e relative “forme mentis”).
Detto questo, se il più immediato e chiassoso precedente di messinscena sul palcoscenico in ambito pop va ricercato in Alice Cooper, che nel ’71 allestisce la sua baracconata shock-rock, più significativo in quanto ad intensità e impersonificazione mi sembrano le impagabili manfrine allestite fin dai primi 60s da James Brown. Proprio lui, il Godfather Of Soul che entra ed esce dal cono di luce avvolto in un mantello, che collassa trafitto dalle pene d’amore durante Please ed è scosso da incontenibili spasmi danzerecci durante Night Train. C’è già quella sorta di superidentificazione in un personaggio che oltrepassa l’artista. E vale la pena ribadire quanto James Brown rappresentasse un idolo assoluto per gli appassionati errebì del periodo mod.
Ziggy resta però un’intuizione per molti aspetti originale. Un’operazione di sintesi trasversale prodigiosa. Del personaggio abbiamo detto già abbastanza ma ci sarebbe parecchio altro da dire: a partire dalla sua morte, poeticamente implicita, perciò annunciata, necessaria. Ziggy è un dead man walking. La sua vicenda immaginifica e stracciona non ha fondamenta, si muove in una distopia vaga, tracciando la parabola di un concept tenuto assieme in verità più dalla potenza dell’impatto estetico (la “sconcezza” dei capelli rossi, l’impudenza da drugo e quei vestiti da checca cosmica) che non da una linea narrativa attraverso le canzoni.
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Vero che Five Years apre le danze nel segno del parossismo apocalittico, ma come già per Space Oddity la componente sci-fi vale come puro contesto teatrale, in ossequio alla teoria kubrickiana secondo cui la fantascienza è essenzialmente un genere “da camera”, che consuma il corpus espressivo più nella tensione degli interni (vedi la palpitante scena dello spegnimento di HAL 2000) che non nelle scaramucce spaziali alla Star Wars (riconducibili più ad un western trasfigurato fantasy). In questo senso, la opening track è puro teatro, ballad folk blues che sboccia dallo spot light per un crescendo a tinte fortissime di voce e violino, birignao istrionico che getta una luce angosciosa sui guizzi e le giravolte di tutta la scaletta, fino ad approdare alla triste fanfaronata vaudeville della conclusiva Rock ‘N’ Roll Suicide.
Nel mezzo accade un ventaglio di stati d’animo e frammenti d’immaginario appesi al plot di questa stramba figura piovuta dal cielo per portare un verbo rock tanto scandaloso quanto fragile, anche se è una falsariga che si spampana tra episodi perfettamente autonomi e stilisticamente pure lontani. C’è il power-folk sussiegoso di Starman – forse il pezzo più debole in scaletta però dotato di un eccellente potenziale radiofonico, tanto da uscire come singolo a ridosso dello Ziggy tour, ben tre mesi prima della pubblciazione dell’album – ed il rock’n’roll ipercinetico di Star, Hang On To Yourself e Suffragette City, c’è il soul strapazzato glam di Soul Love ed il blues con additivi chimici di It Ain’t Easy (splendida cover da un originale di Ron Davies, forse però mutuata dalla versione che ne fecero nel ’70 i Three Dog Night).
Meriterebbero poi separata e ampia trattazione le due sorellastre (a partire dal titolo) Ziggy Stardust e Lady Stardust, quest’ultima dedicata a Bolan, per come riescono a far confluire la decadenza nel cuore del glamour, la prima sprimacciando con foga struggente il cuscino dell’hard rock e la seconda ritagliando una scena madre melò dall’aureola tragica, di quelle che circondano ogni regina del palcoscenico che si rispetti. In questo frullare di situazioni diversamente soniche, il pezzo più ambizioso e riuscito è Moonage Daydream, capace di fondere visioni spacey e barocchismi pseudo-prog al fuoco caldo di un crooning broadwayano.
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Musicalmente parlando The Rise And Fall… è quindi un disco straordinario, ma se lo consideriamo un lavoro spartiacque è soprattutto perché sbaraglia le barriere tra rock e rappresentazione del rock, compenetrando i campi in un gesto solo. Non a caso lo Ziggy Stardust Tour inizia già nel febbraio del ’72, cinque mesi prima della comparsa dell’album sugli scaffali e appena due mesi dopo l’uscita di Hunky Dory, come se Bowie bramasse di presentare al mondo questo personaggio tanto contemporaneo, la sua più grande idea fino a quel momento, a prescindere dal disco. L’accelerata subita dalla carriera di Bowie, l’hype – diremmo oggi – attorno alla sua figura, anche viste attraverso la lente opaca di ben quattro decadi è qualcosa di impressionante. Il tour ottiene un enorme successo ma ancora più grande è la sua eco.
Bowie ottiene d’un botto tutta la capacità di épater le bourgeois in profondità che andava cercando da tempo. Il fatto che il personaggio acquistasse sfaccettature e spessore serata dopo serata – integrando in scaletta pezzi nuovi e vecchi, pescando dal repertorio di Chuck Berry e The Who, adottando in pianta stabile intuizioni estemporanee come la celebre pseudo-fellatio con Mick Ronson – contribuisce a rendere Ziggy un’entità viva, reale, in progress. A luglio, il fenomeno di culto è diventato la parola sulla bocca di tutti, l’immagine su ogni copertina, la canzone in ogni radio. Lo spettacolo è energico, un frullato di elettricità, costumi sgargianti, decadenza, perversione, romanticismo, stravisione. Mimica, teatro, sci-fi, rock’n’roll.
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Infine, la morte, la sfida al tabù della sua rappresentazione come esito inevitabile della parabola spettacolare. Tutto un immaginario edificato a shock sensazionalistici ed espressivi cannibalizzato dal coup de teatre del suicidio rock’n’roll, annunciato e messo in atto la sera del 3 luglio 1973 all’Hammersmith Odeon di Londra, nel celebre concerto immortalato dalle macchine da presa di Donn Alan Pennebaker. Bowie uccide Ziggy ed i suoi ragni marziani: per pubblico e critica si tratta di una scossa emotiva cui non sono preparati. Se la morte “reale” è un trauma, l’esecuzione di un personaggio all’apice del successo appare come un affronto, un gettare la maschera dell’idolatria, mettendone a nudo i meccanismi, la struggente vacuità.
June 13, 2018
The Gloaming
“Durante tutta la serata – due ore e un quarto di concerto – Yorke e soci hanno fatto benissimo quello: i Radiohead. Al massimo. Perfettamente. Come nessun altro è in grado di fare. Due ore e un quarto in cui non ho avvertito, mai e poi mai, la possibilità di venire condotto altrove, un’ipotesi di oltrepassamento, di sbalordimento. La liturgia, che sempre presuppone la presenza – la compresenza – del mistero, è divenuta una celebrazione.”
Il 14 giugno di un anno fa, i Radiohead e il popolo dei Radiohead (oltre cinquantamila persone) si fronteggiarono alla Visarno Arena di Firenze. Fu un concerto molto bello da cui uscii scosso, frastornato da sensazioni contrastanti, la maggior parte delle quali – ahimé – poco piacevoli.
Quelle sensazioni provocarono la nascita di questo articolo-recensione, pubblicato pochi giorni più tardi su Sentireascoltare. Lo considero un pezzo importante perché contiene in nuce quel groviglio che – ribollendo e montando, crescendomi dentro come un blob ventrale e batterico – sarebbe divenuto il manoscritto sui Radiohead e sul rock (o viceversa sul rock e sui Radiohead: non ho ancora capito) a cui sto apportando gli ultimi ritocchi proprio in questi giorni, e che dovrebbe vedere la luce – salvo intoppi o catastrofi – tra qualche settimana.
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Si intitolerà The Gloaming e sarà un tentativo di riflettere su un processo in corso, di raccontarlo per ciò che è stato e per ciò che ancora è: un progressivo ricollocarsi del senso del rock rispetto all’immaginario collettivo e degli stessi Radiohead in esso (nel senso del rock, nell’immaginario). Sono consapevole che si tratta di un tentativo presuntuoso (ma, in fondo, non lo è ogni libro?), considerata la sproporzione tra obiettivi e mezzi, ma anche e soprattutto per l’impossibilità di cogliere un senso sedimentato, l’immagine stabile di una situazione tutt’altro che compiuta, resa sempre più inafferrabile anzi liquida dalle prassi tecnologiche.
Non so dire se sarà un buon lavoro o una catastrofe. Quello che so è che scrivere non mi è mai sembrato tanto difficile e assieme intrigante, come inseguire pesci strani nel cuore ipnotico di un miraggio.
June 10, 2018
Questa non è una celebrazione
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Un anno fa usciva Nastri, il mio secondo romanzo. Detto ciò, ci tengo a precisare: questa non è una celebrazione.
Non lo è per due motivi. Il motivo buono è che vorrei non fosse ancora il suo anniversario. Vorrei essermi preso più tempo per sostituire parole, aggiustare frasi, ritoccare paragrafi. Quando mi capita di rileggerne alcuni passaggi, insomma, mi prende la tentazione – il bisogno – di riscriverlo. È un motivo buono, perché mi fa sospettare che da allora il mio modo di scrivere sia cambiato, probabilmente in meglio.
L’altro motivo – quello meno buono – è che un bilancio sincero di questo anniversario, privo cioè della tipica edulcorazione forzosa ad usum social, non può che giungere a una conclusione: l’uscita di Nastri ha avuto sul pubblico e sul mondo dell’editoria un effetto paragonabile a quello di una zanzara sul parabrezza di un tir in un giorno qualsiasi di mezza estate. È stato un evento irrilevante.
Sarebbe semplice farlo sembrare migliore, più importante e significativo di ciò che è stato. Basterebbe raccontare solo gli aspetti positivi e omettere quelli negativi: un po’ come usa fare con le fotografie delle presentazioni, scattate o tagliate in modo da escludere le sedie vuote. Ma non vedo perché dovrei farlo.
La verità è che le vendite sono state scarse, e i feedback (scusate il termine) lo sono stati ancora di più. È un’esperienza che non esiterei un istante a ripetere, certo, e infatti a breve lo farò: scrivere e pubblicare è un delizioso atto di presunzione che provoca dipendenza. Ma per quanto riguarda gli obiettivi che un libro dovrebbe raggiungere, quelli che ognuno si augura di raggiungere col proprio libro, non posso che definire l’esperienza di Nastri un fallimento. Non c’è nessun dramma in questo, è così per questo come per gran parte dei tanti (forse troppi) libri che escono.
Va da sé che sono molto grato a quei pochi che lo hanno letto, e ancor più a quanti tra questi pochi hanno scritto un apprezzamento sui social, su anobii, su goodreads, sulle piattaforme di vendita online (anche solo due righe, anche soltanto un voto, valgono molto, credetemi). Ringrazio chi ha organizzato le presentazioni, i fantastici relatori, tutti coloro che sono intervenuti con domande, sorrisi, strette di mano. Ringrazio di cuore quanti lo hanno recensito, per l’attenzione con cui hanno saputo entrare nel cuore (un cuore grigio, disperato, in fondo vivo) di questo romanzetto. Ringrazio, ovviamente, l’editore, il grande Giordano di Eretica.
Sono grato a costoro perché mi hanno regalato l’illusione che Nastri potesse valere più di quanto non valga in realtà. Un’illusione che coincide con quanto valeva e vale ancora per me, suppongo.
June 7, 2018
Luce
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Furore di John Steinbeck è uno dei romanzi più belli che abbia mai letto. Uno di quelli che ha la capacità di lasciarti dentro, prima che una storia, un’impronta, un’inclinazione emotiva. Nelle sue pagine vive una luce, un tempo, una particolare tensione che domina la relazione tra i personaggi, tra di essi, la storia e la Storia. Tom Joad, il protagonista, contiene già tutto, è il romanzo incarnato in un personaggio, un coagulo di temi e motivi: su tutti quel disincanto profondo che si scontra incessantemente con la volontà – una volontà quasi obbligata, doverosa, arresa – di perseguire la dignità di essere se stesso, di vivere pienamente, di ricostruire una base di valori comuni che possano costituire fondamenta e sostanza. E ancora la consapevolezza che la vita è l’unico e irripetibile tentativo per raggiungere la felicità, e assieme di quanto il meccanismo sociale ti esponga al tiro di dadi della rovina, uccidendo fin dalla culla quell’unico tentativo.
Questo è il rovello e il motore che spinge Tom Joad lungo la strada di una ricerca desolata, di una pagliuzza di luce nel buio che ingoia le prospettive, quel buio che fa marcire i margini dei rapporti umani, piegandoli a una logica di prevaricazione. Il finale – esiste un finale più bello, più crudo e commovente? – intreccia tragedia e speranza, dolore sconfinato e una quasi intollerabile necessità di donare, di amare. Tom nel frattempo è uscito di scena, si è nascosto nelle pieghe della trama, una fuga che è anche una dichiarazione di immanenza: la sua sottrazione è un altro colpo di genio di Steinbeck, rende Tom Joad un fantasma – quello di cui cantò Springsteen a metà dei Novanta – che continuerà ad esserci, ad aggirarsi tra gli uomini ogni volta che strideranno i confini, ogni volta che la giustizia somiglierà al suo contrario.
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Il milanese Simone Massaron (uno che negli anni ha incrociato la chitarra assieme a Nels Cline, Elliott Sharp, Marc Ribot e Carla Bozulich) ha fatto uscire da poco un album dedicato a Furore. Quattordici tracce strumentali, cartigli acustici ed elettrici, abitati all’occorrenza da field recording mai invasivi, allestiscono altrettante soundtrack di sequenze immaginarie, in ognuna un frammento di quella tensione, di quella luce. Viene da pensare al Neil Young di Dead Man o al Ry Cooder di Paris Texas, però l’approccio di Massaron è meno monolitico, varia il registro secondo la situazione che intende – quasi plasticamente – rappresentare, rivelandosi capace di sbrigliare brume rock-blues, estro jazz, siparietti vaudeville/psych e apprensioni folk con padronanza e ispirazione pari alla mancanza di autoindulgenza.
E’ un album bellissimo che, al di là di tutte le sacrosante discussioni sul ruolo residuo e persino marginale del rock (folk, blues, jazz…), suona oggi particolarmente vivo. In Furore, disco che porta con merito il titolo del capolavoro di Steinbeck, la musica sembra dirci che non ha ancora finito di raccontare quello che deve. Di conoscere la natura dei confini, che prevede tra le altre cose il loro superamento. E l’arte di una bellezza che sa essere monito.


