Costanza Miriano's Blog, page 42
January 14, 2020
Cinque passi al mistero: Il padrone del mondo
Tracciabilità continua, impronte digitali, riconoscimento facciale, videocamere… lasciano ancora spazi per una reale libertà individuale. Ci chiederemo semplicemente se ancora la desideriamo.
venerdì 17 gennaio 2020 alle 21
Chiesa di Santa Maria in Vallicella
Cosa sono i 5 Passi?
I “Cinque passi al Mistero”, sono un ciclo di catechesi per giovani e adulti, che si svolge ormai da dieci anni presso la chiesa di S. Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) in Roma. Questi ciclo di incontri insieme ai Concerti Spirituali, agli Incontri dell’Oratorio in Musica, agli incontri di Cultura Cristiana, agli incontri teatrali e di poesia, ai Sermoni fa parte del cosiddetto Oratorio Grande che i padri della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri di Roma, secondo il loro carisma, offrono a tutta la città.
Nei Cinque Passi lo spirito è quello di mettersi in dialogo con le persone che si sentono più lontane dalla Chiesa, offrendo loro una spiegazione pacata di quelle che sono le ragioni della fede su vari argomenti.
Sono i laici che si formano stabilmente alla scuola dell’Oratorio di San Filippo Neri, il cosiddetto Oratorio Piccolo, a segnalare i temi di frontiera più “caldi”che, magari tengono, più lontane le persone.
Il metodo è sempre lo stesso: una introduzione di mezz’ora esatta, a cui seguono le domande scritte presentate in forma anonima ed estratte a caso.
Si rinnova così una tradizione nata fin dal XVII secolo. I discepoli di San Filippo Neri, infatti, si confrontavano con la società e con la cultura dell’epoca, mostrando la validità della prospettiva della fede a coloro che erano aperti a comprenderla, in un’epoca nella quale già si manifestavano gli albori dell’età moderna.
Oggi abbiamo lo stesso atteggiamento.
I nostri incontri sono basati sul dialogo, e sulla possibilità di porre qualsiasi domanda tesa a capire meglio il pensiero della Chiesa. L’elemento dell’improvvisazione, del non preparare tutto, si ritrova anche nei sermoni di S. Filippo e nasce dall’atteggiamento spirituale di fidarsi della parola di Gesù: quando vi trascineranno nei tribunali – e questo tipo di incontri aperti un po’ lo sono – non preparate prima la vostra difesa perché sarà lo Spirito a suggerirvi cosa dire.
S. Filippo insegna a fidarsi di Gesù come un amico e un faro che illumina il cammino, senza paura di andare “disarmati” a spiegare le proprie ragioni.
Sappiamo che c’è una grande sete di confronto.
E non è facile trovare spazi costituiti da un terzo di catechesi e due terzi di domande né persone disposte a mettersi in gioco senza sapere su cosa si verrà chiamati a rispondere.
Cerchiamo sempre di usare la ragione come strumento di dialogo che accomuna chi crede e chi non crede.
La Fede non umilia mai la ragione e rendere ragione della speranza che è in noi, come insegna la Parola, è l’unico mezzo per spegnere il livore che ostacola proprio l’uso di quella ragione in nome della quale si vuole mettere da parte la fede.
Gli incontri si svolgono presso la Chiesa di Santa Maria in Vallicella, in Piazza della Chiesa Nuova, 00186 Roma.
January 13, 2020
La bellezza e il sacro
[image error]di Roger Scruton
Roma, Auditorium della Conciliazione, 11 dicembre 2009
Definire la bellezza è una di quelle imprese necessarie ma impossibili che i filosofi cercano di evitare. Nondimeno, mi è sempre parso innegabile che scopo e appagamento veri dell’artista siano il creare bellezza, e che la bellezza e la creatività siano aspetti diversi del medesimo cimento. Inoltre, nel creare bellezza l’artista rende gloria alla creazione di Dio. E la bellezza redime ciò che tocca, mostrando come i dolori e le traversie della vita umana siano, tutto sommato, non indegni. Tale è la mia prospettiva, e nel corso della storia altri vi si sono riconosciuti.
L’arte è un tributo umano alla forza creatrice che regola l’universo, un tentativo di rappresentare, entro confini umani, l’esperienza di un mondo che è sia creato sia dato. Per ciò all’arte è riservato un posto indiscutibile nella pratica religiosa: non solo nei culti pagani dell’antichità, ma anche nella Chiesa cristiana e nei riti che in essa si celebrano. E se l’islam ha espulso l’arte figurativa dalla moschea, non ha però estromesso la bellezza. Al contrario, ha cercato di abbellire e di decorare il luogo di culto in modi che offrano un tributo confacente al Dio che lì si adora. Di quest’abitudine di offrire in un luogo di culto ciò che di più bello esiste vi è testimonianza in tutto il mondo, nell’ebraismo, nell’induismo e nel buddhismo, nelle semplici moschee del deserto così come nei gloriosi santuari dei santi cristiani. E la nostra risposta alla bellezza è per molti versi simile alla risposta che diamo alle realtà sacre. L’oggetto bello è in qualche modo al di fuori del corso ordinario degli eventi umani. Esige reverenza, rispetto e persino soggezione da parte di chi s’imbatte in esso. Una soggezione così la proviamo per esempio in presenza dell’Apollo del Belvedere, anche se non abbiamo alcuna disposizione a venerare né la statua in se stessa né la divinità che essa rappresenta. Un mondo che contiene bellezza è un mondo in cui la vita è degna di essere vissuta. Lo stesso avviene con la bellezza umana. Anche quando è l’oggetto del desiderio, il corpo bello o il viso bello ispirano in noi una sorta di reverenza, nonché compiacimento per il mondo che contiene tale meravigliosa realtà.
Di ciò ebbe cognizione Platone, che v’ispirò la propria filosofia della condizione umana. Benché radicate nell’antichità e nel credo cristiano, e ancorché siano sempre rimaste legate all’eredità spirituale che caratterizza la nostra civiltà, le nostra arte e la nostra letteratura non sono mai state subordinate alla religione. Al contrario, abbondano di messaggi opposti alle pretese della fede. Si può ben essere grandi come William Shakespeare, benché ancora oggi si discuta se quel poeta sia stato protestante, cattolico, pagano o persino ateo. L’arte moderna – l’arte iniziata con Édouard Manet, Charles Baudelaire e Richard Wagner – è solo marginalmente cristiana e contiene invece numerosi elementi pagani e scettici. Ma proprio per questa ragione è stata molto cauta nel cercare di non perdere in bellezza. In un mondo in cui Dio sembra più difficile da trovare e più difficile da tenersi stretto, l’arte si dedica all’inseguimento del bello con urgenza massima. Nell’epoca moderna, non è sempre stato semplice trovare il modo di consacrare le esperienze personali, se non attraverso il tentativo di rappresentarle nell’arte. Ne fornisce un esempio clamoroso il grandioso dramma musicale Tristano e Isotta di Wagner. In questa opera, nulla viene preso in considerazione, eccetto l’amore profano fra i due protagonisti. Accade poco, a parte quanto è inevitabile, allorché questo amore sovversivo vien scoperto e gli amanti condannati. Eppure quasi tutti gli appassionati di musica considerano l’opera con grande rispetto, non solo per la sua bellezza e per la sua potenza straordinarie, ma addirittura come cosa sacra. La si è spesso descritta come l’opera più religiosa del repertorio e almeno un critico l’ha accostata alla Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach quale esempio della più elevata esperienza religiosa in forma musicale. In essa la vita stessa è data come sacra; e tuttavia essa non menziona alcun dio, riferendosi alla vita oltre la morte come a una notte senza fine. Questo è solo uno degli esempi di una realtà di cui si ha riprova ovunque nella prima arte moderna, la quale si configura come il tentativo di santificare il nostro mondo attraverso il perseguimento della bellezza artistica. Di fronte al dolore, all’imperfezione e alla transitorietà delle nostre affezioni e delle nostre gioie, miriamo ad archetipi più perfetti. Della condizione umana cerchiamo di fare icone che possano essere contemplate.
All’arte chiediamo di riassicurarci sulla sensatezza della vita in questo mondo e sulla redenzione della sofferenza.
È questo il compito che artisti quali Paul Cézanne e Vincent van Gogh, poeti come T.S. Eliot e Anna Akhmatova, nonché compositori come Benjamin Britten e Alban Berg hanno tutti assunto per sé. Al dipanarsi del secolo XX, mentre gli orrori si succedevano l’uno all’altro, ognuno più terribile del precedente, si è guardato all’arte per ottenere quella riassicurazione decisiva circa il fatto che la vita umana non è solo una storia insulsa di nascita e decadimento, che una forza redentrice è attiva al cuore stesso delle cose e che il nome di questa forza è amore. La bellezza può essere persino definita in questo modo: è il volto dell’amore, che risplende nella desolazione. E molto spesso le più belle opere d’arte del secolo XX emergono proprio dalla desolazione. Le poesie dell’Akhmatova, gli scritti di Boris Pasternak, la musica di Dmitri Šostakovič: opere siffatte cercano di accendere una luce nell’oscurità totalitaria, di trovare la bellezza nella sofferenza e di mostrare l’amore che agisce nel mezzo della distruzione. Qualcosa di analogo si dovrebbe dire dei Quattro quartetti di Eliot, di War Requiem e Curlew River di Britten e della Chapelle du Rosaire a Vence di Henri Matisse; anzi, di tutte le grandi icone del modernismo, concepito in risposta ai crimini e alle tragedie del secolo XX. Nel dubbio e nella desolazione, artisti, scrittori e musicisti si sono aggrappati alla prospettiva della bellezza quale prova dell’influenza sempre viva esercitata dall’amore, dalla speranza e dall’idealità umana.
Non vi è sicuramente prova maggiore del bisogno religioso dell’uomo, né della presenza nelle nostre esistenze di un amore che non conosce condizionamenti e che non può essere sconfitto. Nel corso della vita del sottoscritto, però, il mondo dell’arte ha conosciuto un cambiamento improvviso. Invece d’inseguire la bellezza, e di coinvolgerci simpateticamente, gli artisti hanno iniziato a glorificare la bruttezza. Immagini di brutalità e distruzione, racconti di stili di vita viziosi e ripugnanti, musica di una sgradevolezza vessatoria o di una violenza folle e spietata: queste cose sono rapidamente divenute la moneta corrente delle scuole d’arte e delle mostre, dei media popolari e delle sale da concerto. Qualche esempio può richiamare alla memoria ciò di cui sto parlando. I fratelli Chapman, per esempio, che turbano oggi la “scena artistica” di Londra ritraendo il volto umano sfigurato da un pene al posto del naso o sostituendo la bocca con un ampio buco, e il cui triste catalogo di mutilazioni si diletta di tutti i modi in cui la forma umana può essere resa disgustosa o insulsa. La decostruzione sistematica della voce e dell’anima umani a opera del peggio dell’heavy metal, come illustra il brano Bleed del gruppo svedese Meshuggah. I suoni stridenti e perforanti mutuati dai laboratori del l’IRCAM, l’Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique di Parigi, che sono divenuti elementi quasi obbligatori della musica eseguita dal vivo in una sala da concerto. L’orribile letteratura dello squartamento e del cannibalismo, esemplificata dai romanzi di Thomas Harris incentrati sul personaggio di Hannibal Lecter, e trasposta sul grande schermo da, fra altri, Quentin Tarantino. Ovviamente, nell’arte moderna non tutto è così: vi è una distinzione importante fra l’arte che dissacra la vita e l’arte che semplicemente mette in scena i detriti della vita, con una scossa no comment delle spalle, come avviene con i prodotti serializzati di Andy Warhol o con i ripetitivi modelli sonori di Steve Reich e Philip Glass. Eppure l’inoffensività di queste posture vuote è un’altra forma di offesa, un insulto arrecato all’intero genere umano da persone per le quali nulla conta di più di una Brillo Box o è più interessante di una sequenza infinita di trittici mutevoli. Molti esempi illustrano un’abitudine alla dissacrazione in cui la vita non viene celebrata dall’arte quanto invece presa di mira da essa. Oggi gli artisti possono farsi una reputazione costruendo una cornice originale in cui mettere in mostra il volto umano gettandovi poi dello sterco. Come ci si deve rapportare dunque a tutto questo e com’è possibile trovare un modo per tornare all’oggetto che così tante persone desiderano, vale a dire la prospettiva della bellezza? Forse parlare in questo modo di «prospettiva della bellezza» potrebbe suonare un poco sentimentale. Ma ciò che intendo non è una immagine zuccherosa, da bigliettino di Natale della vita umana, quanto piuttosto i modi semplici in cui gl’ideali e il decoro entrano nel nostro mondo quotidiano facendosi conoscere. Il nostro mondo ha una gran sete di bellezza ed è una sete che l’arte popolare di oggi non riesce a riconoscere tanto quanto l’arte seria contemporanea spesso frustra. Ovviamente dico «spesso» giacché se in verità dicessi “sempre” significherebbe semplicemente che la battaglia per la bellezza è stata perduta. Solo grazie al fatto che vi sono stati artisti, scrittori e compositori i quali, durante il trascorso mezzo secolo di negatività, hanno dedicato le proprie fatiche a mantenere viva la bellezza si può sperare di emergere, un giorno, dalla tediosa cultura della trasgressione.
Si debbono sicuramente salutare come eroi dei nostri tempi scrittori quali Saul Bellow e Charles Tomlison, compositori come Henri Dutilleux e artisti come Tom Phillips e David Inshaw i quali non hanno rinunciato alla bellezza, permettendo a essa di splendere sopra il nostro mondo tormentato nonché d’indicare la via nell’oscurità che ci avvolge. Il culto della bruttezza e della dissacrazione si afferma oggi in un’epoca di prosperità senza precedenti. L’arte dei fratelli Chapman e la musica dei Meshuggah vengono prodotte dai figli viziati dello Stato assistenzialistico, persone che non hanno mai dovuto lottare per la sopravvivenza, che non hanno conosciuto la guerra e che sono finite giovanissime in braccio al lusso. Sono il prodotto della ricchezza materiale e dei valori materialistici; e lo stesso è vero di tutti gl’imbruttitori. Il contrasto con l’Akhmatova o con Henryk Górecki non potrebbe essere più eloquente. L’arte reale, l’arte bella, ha continuato a sorgere dal regno della sofferenza oltre la Cortina di ferro fino alla fine stessa di quel regime, rivolgendosi a noi con parole, tonalità e immagini che hanno parlato di amore di frammezzo alla desolazione. La grande reviviscenza della religione cristiana che abbiamo attraversato è venuta dalla Polonia, e mediante la missione di Papa Giovanni Paolo II, in una epoca in cui la Polonia soffriva il peso dell’oppressione. E nel corso di quegli anni di durezza, sia la bellezza sia il sacro hanno occupato i loro posti antichi e venerabili al cuore delle cose. Sembra, dunque, che la brama della dissacrazione cresca nell’abbondanza e nella pace, mentre la voglia della bellezza resista là dove vi sono oppressione, violenza e bisogno. Come regolarsi, allora? Com’è possibile contemplare questo fatto strano e non pensare a esso in termini religiosi? Non vi è dubbio, infatti, che in un mondo di abbondanza materiale, in cui la gente è vaccinata contro le difficoltà, la religione declina, proprio come essa sta declinando oggi in Polonia. Nella ricchezza sorge l’illusione di essere padroni del proprio fato e quindi di non avere più bisogno di un Dio che provvede per noi. S’inizia a perdere ogni senso della presenza divina, ogni senso del fatto che il mondo abbonda di momenti sacri, di luoghi sacri e di cose sacre. E così nasce in noi uno strano spirito di vendetta. Permettetemi di spiegarmi. Il termine «dissacrazione» è connesso, etimologicamente e semanticamente, al sacrilegio e quindi alle idee della santità e del sacro. Dissacrare significa depredare ciò che dovrebbe altrimenti essere posto altrove, nella sfera delle cose sacre.
Si può dissacrare una chiesa, un cimitero, una tomba; e anche una raffigurazione santa, un libro santo o una cerimonia santa. Si può pure dissacrare un cadavere, una immagine cara, persino un essere umano vivente, e ciò nella misura in cui queste cose contengono (come di fatto contengono) il presagio di una qualche sacralità originaria. La paura della dissacrazione è un elemento centrale di tutte le religioni. Anzi, ciò è esattamente quanto il vocabolo religio significava in principio: un culto o una cerimonia ideate per proteggere un certo luogo sacro dal sacrilegio.
Nel secolo XVIII, quando la religione organizzata e la regalità cerimoniale andavano perdendo autorevolezza, lo spirito democratico metteva in discussione le istituzioni tradizionali e si diffondeva l’idea che non è Dio bensì l’uomo a stabilire le legge per il mondo umano, il concetto del sacro si eclissò. Ai pensatori dell’Illuminismo credere che gli artefatti, le costruzioni, i luoghi e le cerimonie potessero avere carattere sacro parve poco più di una superstizione, stante che tutte queste cose sono prodotti della volontà umana. L’idea che il divino si riveli nel nostro mondo chiedendo la nostra adorazione sembrò sia implausibile in sé sia incompatibile con la scienza. Al tempo stesso filosofi come Shaftesbury, Edmund Burke, Adam Smith e Immanuel Kant riconobbero che non si guarda il mondo solamente con gli occhi della scienza. Vi è un altro atteggiamento – non occupa più d’indagine scientifica, ma di contemplazione disinteressata – che l’uomo rivolge al proprio mondo cercandone il significato. Assumendo questo atteggiamento, si mettono da parte i propri interessi; non ci si delle mete e dei progetti che ci fanno progredire nel tempo; non ci si ritrova più impegnati a spiegare le cose o ad accrescere il proprio potere. Si lascia invece che il mondo presenti se stesso e da quest’autopresentazione si trae conforto. Questa è l’origine dell’esperienza della bellezza. Potrebbe non esserci modo di spiegare quell’esperienza come parte della nostra ordinaria ricerca del potere e della conoscenza. Potrebbe essere impossibile assimilarla agli usi quotidiani che facciamo delle nostre facoltà. Ma è una esperienza che esiste in modo auto-evidente e che per coloro che la vivono è del valore massimo. Quando questa esperienza ha luogo e cosa essa significa? Ecco un esempio.
Supponete di trovarvi in cammino verso casa mentre piove, assorti con il pensiero nelle questioni del vostro lavoro.
Le strade e le case vi scorrono accanto senza che voi la notiate; anche le persone scorrono accanto; insomma, nulla invade i vostri pensieri eccetto i vostri interessi e le vostre ansietà. Poi, improvvisamente, il sole esce dalle nubi e un raggio di luce illumina tremulo un vecchio muro di pietra al bordo della strada. Voi date una occhiata al cielo e alle nuvole che si sparpagliano, e un uccello esplode nel canto in un giardino di là dal muro. Il vostro cuore si colma di gioia e i vostri pensieri egoistici si dissipano. Il mondo vi sta davanti, e voi siete contenti del solo guardarlo lasciandolo così come esso è. Avete fatto esperienza del mondo come dono. Forse questo tipo di esperienze sono più rare adesso di quanto lo fossero nel secolo XVIII, quando i poeti e i filosofi s’imbatterono in esse considerandole vie nuove alla religione. La fretta e il disordine della vita moderna, le forme alienanti dell’architettura moderna, il rumore e la spoliazione dell’industria moderna: sono queste le cose che hanno reso per noi più raro, più fragile e più imprevedibile l’incontro puro con la bellezza. Ciononostante, tutti sappiamo cosa è, cosa è l’essere improvvisamente trasportati dalle cose che vediamo, dal mondo ordinario dei nostri appetiti, alla sfera illuminata della contemplazione. Accade spesso durante la fanciullezza, ancorché a quell’età lo si riesca di rado a interpretare correttamente. Accade durante l’adolescenza, quando si presta ai nostri struggimenti erotici. E accade in versione attenuata nella vita adulta, plasmando segretamente i nostri progetti di vita, proponendoci una immagine di armonia che inseguiamo attraverso le vacanze, attraverso la costruzione delle nostre case e attraverso i nostri sogni personali. Ecco un altro esempio: è una occasione speciale, per la quale la famiglia si riunisce per una cena formale. Voi apparecchiate la tavola con una tovaglia ricamata e pulita, sistemate i piatti, i bicchieri, il pane nel cestino, qualche caraffa di acqua e di vino. Lo fate amorevolmente, dilettandovi di quella vista, sforzandovi per ottenere un effetto di pulizia, di semplicità, di simmetria e di calore. La tavola è divenuta così un simbolo del ritorno a casa, delle braccia aperte della madre di tutti che invita i propri figli ad entrare. E tutta questa abbondanza di significato e di buono spirito è in qualche modo contenuto nell’aspetto che ha assunto la tavola. Anche questa è una esperienza di bellezza. Ed è una di quelle che incontriamo, in una versione o in un’altra, ogni giorno delle nostre vite. Siamo creature bisognose, e il nostro bisogno maggiore è quello di casa: il luogo in cui siamo, dove troviamo protezione e amore.
Otteniamo questa casa attraverso le rappresentazioni del nostro stesso appartenere. La otteniamo non da soli, ma assieme ad altri. E tutti i nostri tentativi di far sì che ciò che ci circonda appaia in ordine – decorando, sistemando, creando – sono tentativi di dare il benvenuto a noi stessi e a coloro che amiamo. Questo secondo esempio è per me molto importante. Suggerisce, infatti, che il nostro bisogno umano di bellezza non è semplicemente un’aggiunta ridondante alla lista degli appetiti umani. Non è un qualcosa che possiamo non avere e sentirci lo stesso realizzati come persone. Si tratta di un bisogno che sorge dalla nostra condizione metafisica d’individui liberi i quali cercano il proprio posto in un mondo che continua. Possiamo vagare per questo mondo, alienati, risentiti, pieni di sospetto e di sfiducia. Oppure possiamo trovare la nostra casa qui, risposando in armonia con gli altri e con noi stessi. E l’esperienza della bellezza ci guida lungo questa seconda strada: ci dice che noi siamo a casa in questo mondo, che il mondo è già ordinato nelle nostre percezioni come un luogo adatto alle nostre esistenze di esseri fatti così come noi siamo fatti. La ricerca della bellezza continua la ricerca dell’amore. E ciò spiega l’importanza dell’arte in una epoca di violenza, di oppressione e di spodestamento. L’arte può tenere desta la memoria e la speranza di codesti momenti di riposo, di costruzione di una casa, di amore nella desolazione. E quando le persone voltano le spalle alla bellezza è perché non credono più in queste cose: esprimono la natura priva di casa, di speranza e di amore delle loro emozioni. Allo stesso tempo la bellezza ci ricorda che alle nostre esistenze qualcosa manca: che l’abbondanza materiale non è di per se stessa sufficiente per noi, che è possibile soddisfare i nostri appetiti senza soddisfare noi stessi. E ciò accade quando nasce il desiderio di vendetta. La dissacrazione è una sorta di difesa dal sacro, un tentativo di distruggerne le pretese. Davanti alle cose sacre le nostre vite vengono giudicate; e per sfuggire a quel giudizio, noi distruggiamo la cosa che sembra accusarci. E siccome la bellezza ci ricorda del sacro — e anzi di una forma speciale di esso —, anche la bellezza deve venire dissacrata. Se si guarda alle bruttezze coltivate nel nostro mondo attuale, si scopre che molte di esse includono la dissacrazione della forma umana mostrata dall’uomo che viene sopraffatto da forze esterne, dallo spirito umano presentato come eclissato e inefficace, nonché dal corpo umano considerato come mero oggetto fra oggetti piuttosto che come soggetto libero, vincolato dalla legge morale.
Ed è su queste cose che l’arte del nostro tempo sembra concentrarsi, offrendoci non solo la pornografia di carattere sessuale, ma anche una pornografia di violenza in cui l’essere umano è ridotto a grumo di carne sofferente, reso miserabile, impotente e disgustoso. Ed è esattamente in questa epoca di abbondanza materiale, di libertà sessuale e di regno della bramosia che questa vendetta contro la forma umana è prevalente. Perché queste cose dovrebbe essere diventate normali, perché, cioè, a parte il denaro che se ne ricava (e perché, comunque, se ne può tanto facilmente ricavare del denaro)? La risposta è che si tratta di tentazioni primarie. Tutti desideriamo sottrarci alle esigenze che impone una condotta di vita responsabile, in cui ci si tratta come persone degne di reverenza e di rispetto. Tutti siamo tentati dall’idea della carne e dal desiderio di rifare l’essere umano come pura carne: vale a dire un automa, obbediente a desideri meccanici. Per abbandonarci a queste tentazioni, però, dobbiamo anzitutto rimuovere il principale ostacolo che ci si frappone, e questo è la natura consacrata della forma umana. Dobbiamo insudiciare le esperienze — come la morte e il sesso —che altrimenti ci terrebbero lontani dalle tentazioni, indirizzandoci a una vita più elevata di amore. Questa dissacrazione ostinata è quindi una negazione dell’amore: un tentativo di rifare il mondo come se l’amore non ne facesse più parte. E questa, sicuramente, è la caratteristica più importante della cultura postmoderna: che è una cultura senza amore, decisa a ritrarre il mondo umano come non amabile. Non come un dono, ma come un fatto. Per costruire una risposta piena all’abitudine della dissacrazione, vi è bisogno di riunire l’intrapresa dell’arte alle finalità della bellezza e della creatività. Come hanno mostrato i primi modernisti, non è affatto un compito facile. Se si considerano gli apostoli veri della bellezza nel nostro tempo — penso a compositori come Dutilleux e Olivier Messiaen, a poeti come Derek Walcott e Tomlison, a prosatori come Italo Calvino e Aleksandr I. Solzenicyn —, si viene immediatamente colpiti dall’immenso lavoro duro, dall’isolamento studioso e dall’attenzione per i dettagli che ne ha caratterizzato le creazioni. Nell’arte, la bellezza dev’essere conquistata e l’impresa si presenta sempre più difficile in un tempo in cui il penetrante rumore della dissacrazione — amplificato ora da Internet— affoga le voci quiete che mormorano al cuore delle cose.
Un risposta è cercare la bellezza nelle sue forme altre e più quotidiane: la bellezza delle strade ordinate e dei visi gioiosi, delle forme naturali e dei paesaggi cordiali. Certo, è possibile sporcare anche queste cose, ed è il marchio di un artista di secondo piano il portare quella strada alla nostra attenzione, vale a dire la via negativa della dissacrazione. Ma è anche possibile ritornare alle cose ordinarie nello spirito di Wallace Stevens e di Samuel Barber (o diciamo, per gl’italiani, di Eugenio Montale e di Attilio Bertolucci) per mostrare quanto ci sentiamo a casa nostra con esse, e quanto esse magnifichino e giustifichino la nostra vita. È questo il sentiero ingombro che i primi modernisti hanno ripulito per noi, vale a dire la via positiva della bellezza. Non vi è ancora ragione per pensare di doverlo abbandonare. Perché, allora, così tanti artisti si rifiutano oggi di camminare lungo quel sentiero? Forse perché sanno che conduce a Dio.
fonte: Cinque Passi al Mistero
La bellezza e il sacro
[image error]di Roger Scruton
Roma, Auditorium della Conciliazione, 11 dicembre 2009
Definire la bellezza è una di quelle imprese necessarie ma impossibili che i filosofi cercano di evitare. Nondimeno, mi è sempre parso innegabile che scopo e appagamento veri dell’artista siano il creare bellezza, e che la bellezza e la creatività siano aspetti diversi del medesimo cimento. Inoltre, nel creare bellezza l’artista rende gloria alla creazione di Dio. E la bellezza redime ciò che tocca, mostrando come i dolori e le traversie della vita umana siano, tutto sommato, non indegni. Tale è la mia prospettiva, e nel corso della storia altri vi si sono riconosciuti.
L’arte è un tributo umano alla forza creatrice che regola l’universo, un tentativo di rappresentare, entro confini umani, l’esperienza di un mondo che è sia creato sia dato. Per ciò all’arte è riservato un posto indiscutibile nella pratica religiosa: non solo nei culti pagani dell’antichità, ma anche nella Chiesa cristiana e nei riti che in essa si celebrano. E se l’islam ha espulso l’arte figurativa dalla moschea, non ha però estromesso la bellezza. Al contrario, ha cercato di abbellire e di decorare il luogo di culto in modi che offrano un tributo confacente al Dio che lì si adora. Di quest’abitudine di offrire in un luogo di culto ciò che di più bello esiste vi è testimonianza in tutto il mondo, nell’ebraismo, nell’induismo e nel buddhismo, nelle semplici moschee del deserto così come nei gloriosi santuari dei santi cristiani. E la nostra risposta alla bellezza è per molti versi simile alla risposta che diamo alle realtà sacre. L’oggetto bello è in qualche modo al di fuori del corso ordinario degli eventi umani. Esige reverenza, rispetto e persino soggezione da parte di chi s’imbatte in esso. Una soggezione così la proviamo per esempio in presenza dell’Apollo del Belvedere, anche se non abbiamo alcuna disposizione a venerare né la statua in se stessa né la divinità che essa rappresenta. Un mondo che contiene bellezza è un mondo in cui la vita è degna di essere vissuta. Lo stesso avviene con la bellezza umana. Anche quando è l’oggetto del desiderio, il corpo bello o il viso bello ispirano in noi una sorta di reverenza, nonché compiacimento per il mondo che contiene tale meravigliosa realtà.
Di ciò ebbe cognizione Platone, che v’ispirò la propria filosofia della condizione umana. Benché radicate nell’antichità e nel credo cristiano, e ancorché siano sempre rimaste legate all’eredità spirituale che caratterizza la nostra civiltà, le nostra arte e la nostra letteratura non sono mai state subordinate alla religione. Al contrario, abbondano di messaggi opposti alle pretese della fede. Si può ben essere grandi come William Shakespeare, benché ancora oggi si discuta se quel poeta sia stato protestante, cattolico, pagano o persino ateo. L’arte moderna – l’arte iniziata con Édouard Manet, Charles Baudelaire e Richard Wagner – è solo marginalmente cristiana e contiene invece numerosi elementi pagani e scettici. Ma proprio per questa ragione è stata molto cauta nel cercare di non perdere in bellezza. In un mondo in cui Dio sembra più difficile da trovare e più difficile da tenersi stretto, l’arte si dedica all’inseguimento del bello con urgenza massima. Nell’epoca moderna, non è sempre stato semplice trovare il modo di consacrare le esperienze personali, se non attraverso il tentativo di rappresentarle nell’arte. Ne fornisce un esempio clamoroso il grandioso dramma musicale Tristano e Isotta di Wagner. In questa opera, nulla viene preso in considerazione, eccetto l’amore profano fra i due protagonisti. Accade poco, a parte quanto è inevitabile, allorché questo amore sovversivo vien scoperto e gli amanti condannati. Eppure quasi tutti gli appassionati di musica considerano l’opera con grande rispetto, non solo per la sua bellezza e per la sua potenza straordinarie, ma addirittura come cosa sacra. La si è spesso descritta come l’opera più religiosa del repertorio e almeno un critico l’ha accostata alla Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach quale esempio della più elevata esperienza religiosa in forma musicale. In essa la vita stessa è data come sacra; e tuttavia essa non menziona alcun dio, riferendosi alla vita oltre la morte come a una notte senza fine. Questo è solo uno degli esempi di una realtà di cui si ha riprova ovunque nella prima arte moderna, la quale si configura come il tentativo di santificare il nostro mondo attraverso il perseguimento della bellezza artistica. Di fronte al dolore, all’imperfezione e alla transitorietà delle nostre affezioni e delle nostre gioie, miriamo ad archetipi più perfetti. Della condizione umana cerchiamo di fare icone che possano essere contemplate.
All’arte chiediamo di riassicurarci sulla sensatezza della vita in questo mondo e sulla redenzione della sofferenza.
È questo il compito che artisti quali Paul Cézanne e Vincent van Gogh, poeti come T.S. Eliot e Anna Akhmatova, nonché compositori come Benjamin Britten e Alban Berg hanno tutti assunto per sé. Al dipanarsi del secolo XX, mentre gli orrori si succedevano l’uno all’altro, ognuno più terribile del precedente, si è guardato all’arte per ottenere quella riassicurazione decisiva circa il fatto che la vita umana non è solo una storia insulsa di nascita e decadimento, che una forza redentrice è attiva al cuore stesso delle cose e che il nome di questa forza è amore. La bellezza può essere persino definita in questo modo: è il volto dell’amore, che risplende nella desolazione. E molto spesso le più belle opere d’arte del secolo XX emergono proprio dalla desolazione. Le poesie dell’Akhmatova, gli scritti di Boris Pasternak, la musica di Dmitri Šostakovič: opere siffatte cercano di accendere una luce nell’oscurità totalitaria, di trovare la bellezza nella sofferenza e di mostrare l’amore che agisce nel mezzo della distruzione. Qualcosa di analogo si dovrebbe dire dei Quattro quartetti di Eliot, di War Requiem e Curlew River di Britten e della Chapelle du Rosaire a Vence di Henri Matisse; anzi, di tutte le grandi icone del modernismo, concepito in risposta ai crimini e alle tragedie del secolo XX. Nel dubbio e nella desolazione, artisti, scrittori e musicisti si sono aggrappati alla prospettiva della bellezza quale prova dell’influenza sempre viva esercitata dall’amore, dalla speranza e dall’idealità umana.
Non vi è sicuramente prova maggiore del bisogno religioso dell’uomo, né della presenza nelle nostre esistenze di un amore che non conosce condizionamenti e che non può essere sconfitto. Nel corso della vita del sottoscritto, però, il mondo dell’arte ha conosciuto un cambiamento improvviso. Invece d’inseguire la bellezza, e di coinvolgerci simpateticamente, gli artisti hanno iniziato a glorificare la bruttezza. Immagini di brutalità e distruzione, racconti di stili di vita viziosi e ripugnanti, musica di una sgradevolezza vessatoria o di una violenza folle e spietata: queste cose sono rapidamente divenute la moneta corrente delle scuole d’arte e delle mostre, dei media popolari e delle sale da concerto. Qualche esempio può richiamare alla memoria ciò di cui sto parlando. I fratelli Chapman, per esempio, che turbano oggi la “scena artistica” di Londra ritraendo il volto umano sfigurato da un pene al posto del naso o sostituendo la bocca con un ampio buco, e il cui triste catalogo di mutilazioni si diletta di tutti i modi in cui la forma umana può essere resa disgustosa o insulsa. La decostruzione sistematica della voce e dell’anima umani a opera del peggio dell’heavy metal, come illustra il brano Bleed del gruppo svedese Meshuggah. I suoni stridenti e perforanti mutuati dai laboratori del l’IRCAM, l’Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique di Parigi, che sono divenuti elementi quasi obbligatori della musica eseguita dal vivo in una sala da concerto. L’orribile letteratura dello squartamento e del cannibalismo, esemplificata dai romanzi di Thomas Harris incentrati sul personaggio di Hannibal Lecter, e trasposta sul grande schermo da, fra altri, Quentin Tarantino. Ovviamente, nell’arte moderna non tutto è così: vi è una distinzione importante fra l’arte che dissacra la vita e l’arte che semplicemente mette in scena i detriti della vita, con una scossa no comment delle spalle, come avviene con i prodotti serializzati di Andy Warhol o con i ripetitivi modelli sonori di Steve Reich e Philip Glass. Eppure l’inoffensività di queste posture vuote è un’altra forma di offesa, un insulto arrecato all’intero genere umano da persone per le quali nulla conta di più di una Brillo Box o è più interessante di una sequenza infinita di trittici mutevoli. Molti esempi illustrano un’abitudine alla dissacrazione in cui la vita non viene celebrata dall’arte quanto invece presa di mira da essa. Oggi gli artisti possono farsi una reputazione costruendo una cornice originale in cui mettere in mostra il volto umano gettandovi poi dello sterco. Come ci si deve rapportare dunque a tutto questo e com’è possibile trovare un modo per tornare all’oggetto che così tante persone desiderano, vale a dire la prospettiva della bellezza? Forse parlare in questo modo di «prospettiva della bellezza» potrebbe suonare un poco sentimentale. Ma ciò che intendo non è una immagine zuccherosa, da bigliettino di Natale della vita umana, quanto piuttosto i modi semplici in cui gl’ideali e il decoro entrano nel nostro mondo quotidiano facendosi conoscere. Il nostro mondo ha una gran sete di bellezza ed è una sete che l’arte popolare di oggi non riesce a riconoscere tanto quanto l’arte seria contemporanea spesso frustra. Ovviamente dico «spesso» giacché se in verità dicessi “sempre” significherebbe semplicemente che la battaglia per la bellezza è stata perduta. Solo grazie al fatto che vi sono stati artisti, scrittori e compositori i quali, durante il trascorso mezzo secolo di negatività, hanno dedicato le proprie fatiche a mantenere viva la bellezza si può sperare di emergere, un giorno, dalla tediosa cultura della trasgressione.
Si debbono sicuramente salutare come eroi dei nostri tempi scrittori quali Saul Bellow e Charles Tomlison, compositori come Henri Dutilleux e artisti come Tom Phillips e David Inshaw i quali non hanno rinunciato alla bellezza, permettendo a essa di splendere sopra il nostro mondo tormentato nonché d’indicare la via nell’oscurità che ci avvolge. Il culto della bruttezza e della dissacrazione si afferma oggi in un’epoca di prosperità senza precedenti. L’arte dei fratelli Chapman e la musica dei Meshuggah vengono prodotte dai figli viziati dello Stato assistenzialistico, persone che non hanno mai dovuto lottare per la sopravvivenza, che non hanno conosciuto la guerra e che sono finite giovanissime in braccio al lusso. Sono il prodotto della ricchezza materiale e dei valori materialistici; e lo stesso è vero di tutti gl’imbruttitori. Il contrasto con l’Akhmatova o con Henryk Górecki non potrebbe essere più eloquente. L’arte reale, l’arte bella, ha continuato a sorgere dal regno della sofferenza oltre la Cortina di ferro fino alla fine stessa di quel regime, rivolgendosi a noi con parole, tonalità e immagini che hanno parlato di amore di frammezzo alla desolazione. La grande reviviscenza della religione cristiana che abbiamo attraversato è venuta dalla Polonia, e mediante la missione di Papa Giovanni Paolo II, in una epoca in cui la Polonia soffriva il peso dell’oppressione. E nel corso di quegli anni di durezza, sia la bellezza sia il sacro hanno occupato i loro posti antichi e venerabili al cuore delle cose. Sembra, dunque, che la brama della dissacrazione cresca nell’abbondanza e nella pace, mentre la voglia della bellezza resista là dove vi sono oppressione, violenza e bisogno. Come regolarsi, allora? Com’è possibile contemplare questo fatto strano e non pensare a esso in termini religiosi? Non vi è dubbio, infatti, che in un mondo di abbondanza materiale, in cui la gente è vaccinata contro le difficoltà, la religione declina, proprio come essa sta declinando oggi in Polonia. Nella ricchezza sorge l’illusione di essere padroni del proprio fato e quindi di non avere più bisogno di un Dio che provvede per noi. S’inizia a perdere ogni senso della presenza divina, ogni senso del fatto che il mondo abbonda di momenti sacri, di luoghi sacri e di cose sacre. E così nasce in noi uno strano spirito di vendetta. Permettetemi di spiegarmi. Il termine «dissacrazione» è connesso, etimologicamente e semanticamente, al sacrilegio e quindi alle idee della santità e del sacro. Dissacrare significa depredare ciò che dovrebbe altrimenti essere posto altrove, nella sfera delle cose sacre.
Si può dissacrare una chiesa, un cimitero, una tomba; e anche una raffigurazione santa, un libro santo o una cerimonia santa. Si può pure dissacrare un cadavere, una immagine cara, persino un essere umano vivente, e ciò nella misura in cui queste cose contengono (come di fatto contengono) il presagio di una qualche sacralità originaria. La paura della dissacrazione è un elemento centrale di tutte le religioni. Anzi, ciò è esattamente quanto il vocabolo religio significava in principio: un culto o una cerimonia ideate per proteggere un certo luogo sacro dal sacrilegio.
Nel secolo XVIII, quando la religione organizzata e la regalità cerimoniale andavano perdendo autorevolezza, lo spirito democratico metteva in discussione le istituzioni tradizionali e si diffondeva l’idea che non è Dio bensì l’uomo a stabilire le legge per il mondo umano, il concetto del sacro si eclissò. Ai pensatori dell’Illuminismo credere che gli artefatti, le costruzioni, i luoghi e le cerimonie potessero avere carattere sacro parve poco più di una superstizione, stante che tutte queste cose sono prodotti della volontà umana. L’idea che il divino si riveli nel nostro mondo chiedendo la nostra adorazione sembrò sia implausibile in sé sia incompatibile con la scienza. Al tempo stesso filosofi come Shaftesbury, Edmund Burke, Adam Smith e Immanuel Kant riconobbero che non si guarda il mondo solamente con gli occhi della scienza. Vi è un altro atteggiamento – non occupa più d’indagine scientifica, ma di contemplazione disinteressata – che l’uomo rivolge al proprio mondo cercandone il significato. Assumendo questo atteggiamento, si mettono da parte i propri interessi; non ci si delle mete e dei progetti che ci fanno progredire nel tempo; non ci si ritrova più impegnati a spiegare le cose o ad accrescere il proprio potere. Si lascia invece che il mondo presenti se stesso e da quest’autopresentazione si trae conforto. Questa è l’origine dell’esperienza della bellezza. Potrebbe non esserci modo di spiegare quell’esperienza come parte della nostra ordinaria ricerca del potere e della conoscenza. Potrebbe essere impossibile assimilarla agli usi quotidiani che facciamo delle nostre facoltà. Ma è una esperienza che esiste in modo auto-evidente e che per coloro che la vivono è del valore massimo. Quando questa esperienza ha luogo e cosa essa significa? Ecco un esempio.
Supponete di trovarvi in cammino verso casa mentre piove, assorti con il pensiero nelle questioni del vostro lavoro.
Le strade e le case vi scorrono accanto senza che voi la notiate; anche le persone scorrono accanto; insomma, nulla invade i vostri pensieri eccetto i vostri interessi e le vostre ansietà. Poi, improvvisamente, il sole esce dalle nubi e un raggio di luce illumina tremulo un vecchio muro di pietra al bordo della strada. Voi date una occhiata al cielo e alle nuvole che si sparpagliano, e un uccello esplode nel canto in un giardino di là dal muro. Il vostro cuore si colma di gioia e i vostri pensieri egoistici si dissipano. Il mondo vi sta davanti, e voi siete contenti del solo guardarlo lasciandolo così come esso è. Avete fatto esperienza del mondo come dono. Forse questo tipo di esperienze sono più rare adesso di quanto lo fossero nel secolo XVIII, quando i poeti e i filosofi s’imbatterono in esse considerandole vie nuove alla religione. La fretta e il disordine della vita moderna, le forme alienanti dell’architettura moderna, il rumore e la spoliazione dell’industria moderna: sono queste le cose che hanno reso per noi più raro, più fragile e più imprevedibile l’incontro puro con la bellezza. Ciononostante, tutti sappiamo cosa è, cosa è l’essere improvvisamente trasportati dalle cose che vediamo, dal mondo ordinario dei nostri appetiti, alla sfera illuminata della contemplazione. Accade spesso durante la fanciullezza, ancorché a quell’età lo si riesca di rado a interpretare correttamente. Accade durante l’adolescenza, quando si presta ai nostri struggimenti erotici. E accade in versione attenuata nella vita adulta, plasmando segretamente i nostri progetti di vita, proponendoci una immagine di armonia che inseguiamo attraverso le vacanze, attraverso la costruzione delle nostre case e attraverso i nostri sogni personali. Ecco un altro esempio: è una occasione speciale, per la quale la famiglia si riunisce per una cena formale. Voi apparecchiate la tavola con una tovaglia ricamata e pulita, sistemate i piatti, i bicchieri, il pane nel cestino, qualche caraffa di acqua e di vino. Lo fate amorevolmente, dilettandovi di quella vista, sforzandovi per ottenere un effetto di pulizia, di semplicità, di simmetria e di calore. La tavola è divenuta così un simbolo del ritorno a casa, delle braccia aperte della madre di tutti che invita i propri figli ad entrare. E tutta questa abbondanza di significato e di buono spirito è in qualche modo contenuto nell’aspetto che ha assunto la tavola. Anche questa è una esperienza di bellezza. Ed è una di quelle che incontriamo, in una versione o in un’altra, ogni giorno delle nostre vite. Siamo creature bisognose, e il nostro bisogno maggiore è quello di casa: il luogo in cui siamo, dove troviamo protezione e amore.
Otteniamo questa casa attraverso le rappresentazioni del nostro stesso appartenere. La otteniamo non da soli, ma assieme ad altri. E tutti i nostri tentativi di far sì che ciò che ci circonda appaia in ordine – decorando, sistemando, creando – sono tentativi di dare il benvenuto a noi stessi e a coloro che amiamo. Questo secondo esempio è per me molto importante. Suggerisce, infatti, che il nostro bisogno umano di bellezza non è semplicemente un’aggiunta ridondante alla lista degli appetiti umani. Non è un qualcosa che possiamo non avere e sentirci lo stesso realizzati come persone. Si tratta di un bisogno che sorge dalla nostra condizione metafisica d’individui liberi i quali cercano il proprio posto in un mondo che continua. Possiamo vagare per questo mondo, alienati, risentiti, pieni di sospetto e di sfiducia. Oppure possiamo trovare la nostra casa qui, risposando in armonia con gli altri e con noi stessi. E l’esperienza della bellezza ci guida lungo questa seconda strada: ci dice che noi siamo a casa in questo mondo, che il mondo è già ordinato nelle nostre percezioni come un luogo adatto alle nostre esistenze di esseri fatti così come noi siamo fatti. La ricerca della bellezza continua la ricerca dell’amore. E ciò spiega l’importanza dell’arte in una epoca di violenza, di oppressione e di spodestamento. L’arte può tenere desta la memoria e la speranza di codesti momenti di riposo, di costruzione di una casa, di amore nella desolazione. E quando le persone voltano le spalle alla bellezza è perché non credono più in queste cose: esprimono la natura priva di casa, di speranza e di amore delle loro emozioni. Allo stesso tempo la bellezza ci ricorda che alle nostre esistenze qualcosa manca: che l’abbondanza materiale non è di per se stessa sufficiente per noi, che è possibile soddisfare i nostri appetiti senza soddisfare noi stessi. E ciò accade quando nasce il desiderio di vendetta. La dissacrazione è una sorta di difesa dal sacro, un tentativo di distruggerne le pretese. Davanti alle cose sacre le nostre vite vengono giudicate; e per sfuggire a quel giudizio, noi distruggiamo la cosa che sembra accusarci. E siccome la bellezza ci ricorda del sacro — e anzi di una forma speciale di esso —, anche la bellezza deve venire dissacrata. Se si guarda alle bruttezze coltivate nel nostro mondo attuale, si scopre che molte di esse includono la dissacrazione della forma umana mostrata dall’uomo che viene sopraffatto da forze esterne, dallo spirito umano presentato come eclissato e inefficace, nonché dal corpo umano considerato come mero oggetto fra oggetti piuttosto che come soggetto libero, vincolato dalla legge morale.
Ed è su queste cose che l’arte del nostro tempo sembra concentrarsi, offrendoci non solo la pornografia di carattere sessuale, ma anche una pornografia di violenza in cui l’essere umano è ridotto a grumo di carne sofferente, reso miserabile, impotente e disgustoso. Ed è esattamente in questa epoca di abbondanza materiale, di libertà sessuale e di regno della bramosia che questa vendetta contro la forma umana è prevalente. Perché queste cose dovrebbe essere diventate normali, perché, cioè, a parte il denaro che se ne ricava (e perché, comunque, se ne può tanto facilmente ricavare del denaro)? La risposta è che si tratta di tentazioni primarie. Tutti desideriamo sottrarci alle esigenze che impone una condotta di vita responsabile, in cui ci si tratta come persone degne di reverenza e di rispetto. Tutti siamo tentati dall’idea della carne e dal desiderio di rifare l’essere umano come pura carne: vale a dire un automa, obbediente a desideri meccanici. Per abbandonarci a queste tentazioni, però, dobbiamo anzitutto rimuovere il principale ostacolo che ci si frappone, e questo è la natura consacrata della forma umana. Dobbiamo insudiciare le esperienze — come la morte e il sesso —che altrimenti ci terrebbero lontani dalle tentazioni, indirizzandoci a una vita più elevata di amore. Questa dissacrazione ostinata è quindi una negazione dell’amore: un tentativo di rifare il mondo come se l’amore non ne facesse più parte. E questa, sicuramente, è la caratteristica più importante della cultura postmoderna: che è una cultura senza amore, decisa a ritrarre il mondo umano come non amabile. Non come un dono, ma come un fatto. Per costruire una risposta piena all’abitudine della dissacrazione, vi è bisogno di riunire l’intrapresa dell’arte alle finalità della bellezza e della creatività. Come hanno mostrato i primi modernisti, non è affatto un compito facile. Se si considerano gli apostoli veri della bellezza nel nostro tempo — penso a compositori come Dutilleux e Olivier Messiaen, a poeti come Derek Walcott e Tomlison, a prosatori come Italo Calvino e Aleksandr I. Solzenicyn —, si viene immediatamente colpiti dall’immenso lavoro duro, dall’isolamento studioso e dall’attenzione per i dettagli che ne ha caratterizzato le creazioni. Nell’arte, la bellezza dev’essere conquistata e l’impresa si presenta sempre più difficile in un tempo in cui il penetrante rumore della dissacrazione — amplificato ora da Internet— affoga le voci quiete che mormorano al cuore delle cose.
Un risposta è cercare la bellezza nelle sue forme altre e più quotidiane: la bellezza delle strade ordinate e dei visi gioiosi, delle forme naturali e dei paesaggi cordiali. Certo, è possibile sporcare anche queste cose, ed è il marchio di un artista di secondo piano il portare quella strada alla nostra attenzione, vale a dire la via negativa della dissacrazione. Ma è anche possibile ritornare alle cose ordinarie nello spirito di Wallace Stevens e di Samuel Barber (o diciamo, per gl’italiani, di Eugenio Montale e di Attilio Bertolucci) per mostrare quanto ci sentiamo a casa nostra con esse, e quanto esse magnifichino e giustifichino la nostra vita. È questo il sentiero ingombro che i primi modernisti hanno ripulito per noi, vale a dire la via positiva della bellezza. Non vi è ancora ragione per pensare di doverlo abbandonare. Perché, allora, così tanti artisti si rifiutano oggi di camminare lungo quel sentiero? Forse perché sanno che conduce a Dio.
fonte: Cinque Passi al Mistero
January 12, 2020
Le regole della seduzione
di Costanza Miriano
Le regole della seduzione le ho trasgredite tutte.
Ci siamo scambiati i numeri di telefono e l’ho chiamato io per prima (errore numero uno). Prima dello scambio dei numeri gli avevo detto che ero sola da anni, e temo che abbia intuito che, a 26 anni suonati, ero alla ricerca di Mister Right (errore numero due, madornale, irrecuperabile). Quando l’ho chiamato e l’ho invitato a uscire lui, appunto, mi ha detto di no: aveva il raffreddore. Non i calcoli renali in fase acuta, non la febbre a 40. Il raffreddore e mi ha detto di no.
Il giorno dopo però è stato lui a invitarmi a cena e le regole della seduzione avrebbero previsto che io dicessi di no a mia volta, come minimo. Almeno al suo primo tentativo. Invece ho detto sì, perché io vorrei tirarmela, ma proprio non sono in grado (errore numero tre, da…
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January 10, 2020
Auguri marito
di Costanza Miriano
Auguri all’uomo che ancora stamattina era indeciso su quanti anni avrebbe compiuto oggi perché “i compleanni sono roba da scuola media”, e infatti quest’anno si è dimenticato anche il mio e io sono offesa a morte solo che lui non se ne è manco accorto; all’uomo che mi regge da 23 anni pur essendo l’essere più diverso da me dell’intero sistema solare fatta eccezione per alcune specie di alghe; al marito che resiste solidamente imperturbabile a tutti i miei cambi di umore, le mie proposte, le iniziative, rispondendo no a qualsiasi idea io lanci con entusiasmo, all’uomo a cui a volte salterei al collo, ma che più spesso mi salva la vita, contenendomi, potando ciò che non serve, mantenendomi con i piedi non dico per terra, quello no, ma almeno nel raggio dell’atmosfera terrestre dove ancora la forza di gravità mi può riacchiappare;
auguri all’uomo che quando lo chiamo al lavoro mi risponde a monosillabi perchç il modello base è programmato per fare una cosa alla volta, e quando lavora si dimentica che io esisto e ogni volta la sera mi devo presentare di nuovo – “salve, sono la bionda finta con cui hai fatto quattro figli” –; auguri all’uomo che mi ha raccattato quando ero così squinternata che adesso in confronto sembro un ingegnere svizzero in pensione e che mi è stato accanto mentre diventavo una donna e poi una mamma e poi molte altre cose, e si è adattato a tutti i cambiamenti brontolando ma alla fine restando, solidamente presente; auguri all’unico analista politico di cui mi fidi, all’unico che mi spiega tutte le cose che non mi va di capire, le strade, le guerre, la storia, la tecnologia, e che si rifiuta categoricamente di interessarsi di frange e piume, e mi guarda schifato quando mi leopardo, ma alla fine mi tiene così come sono; auguri al mio navigatore personale nel mondo, quello che chiamo per sapere cosa devo pensare su tutto lo scibile umano; auguri al padre più amorevole che potessi sognare per i nostri figli, capace di giocare e sgridare nelle giuste dosi, di tagliare i cordoni ombelicali, di lasciar uscire di casa i figli, di permettere che facciano esperienze e si tolgano golfini (l’indumento che i figli indossano quando la mamma sente freddo), di sedare le mie ansie e protrarre i permessi di uscita oltre i miei limiti (ma non all’infinito), capace di intervenire quando serve e di tacere, quasi sempre (infatti quando lui parla i figli ascoltano); auguri all’uomo a cui posso confidare tutte le vicende delle mie amiche, tanto non gliene importa niente e se le dimentica subito, ma negli anni ha imparato a fingere di ascoltare fissando un punto a caso dietro la mia testa, però alla fine le cose importanti di noi due le ricorda tutte; auguri all’uomo che mi perdona ogni giorno; auguri all’uomo più di poche parole che conosco, ma quelle poche pensate con cura; all’uomo che mi lascia libera di organizzare cose folli, correre sotto la neve, viaggiare alle tre di notte da sola con le lenti a contatto spaiate sotto il traforo del Gran Sasso e che si arrabbia tantissimo con me, che poi è il suo modo di dirmi che si preoccupa e mi ama, ma non sia mai che lo dica. Insomma, auguri alla mia versione personale – un po’ ridotta, ma va be’ – di san Giuseppe. Anche io provo della stima per te. Grande stima.
Ps: a proposito, a grande richiesta, domani 11 gennaio dalle 17 alle 20 alla basilica di santa Anastasia al Palatino a Roma ultima straordinaria esposizione del sacro manto di san Giuseppe e del velo di Maria, con messa alle 19.
January 2, 2020
Il Sacro Manto di San Giuseppe, una preghiera potente, una reliquia quasi sconosciuta
di Costanza Miriano
Tra tutti i miliardi di uomini che sono passati e passeranno su questa terra, Dio ha scelto Giuseppe per fare da padre a suo figlio nella vita terrena, e già questo ci dovrebbe bastare per provare a immaginarne le qualità. L’altra cosa che mi fa impazzire di lui è il silenzio. Cioè, stava facendo il padre a Dio, poteva dire un sacco di cose. Io mi sarei vantata a mille, avrei messo i manifesti, avrei rilasciato dichiarazioni, pareri, pensieri, opinioni. Lui niente, manco una parola. Lui faceva e basta, nel silenzio. Ha accettato l’incomprensibile, si è fidato di Dio che gli ha, apparentemente, “tolto” l’unica cosa che desiderava, la sua bellissima sposa, per restituirgliela in un modo nuovo. Non secondo i suoi desideri, non per sé, ma per tutti noi. E’ l’uomo fecondo per eccellenza, è l’uomo che muore per dare la vita, è il vero sposo, è il vero padre a cui i nostri sposi e padri cercano di somigliare. Io lo amo!
E credo che in questo tempo orfano di paternità, in particolare, san Giuseppe sia un modello da riscoprire e riproporre ai nostri cuori. Al contrario di quello che dice il pensiero unico, infatti, che parla di necessità di ribaltare il patriarcato (ma chi l’ha mai visto oggi, il patriarcato? ma magari!), e di donne che devono “prendersi il potere”, quello che manca oggi sono proprio i padri, capaci di dire i no e i sì giusti, di stare al proprio posto, di rimanere nonostante la fatica, la noia, la pesantezza, e difficoltà. Di stare nella realtà ordinaria, come ha fatto anche Gesù, accanto a Giuseppe, per trenta anni.
La mia devozione a san Giuseppe è stata una scoperta di questi anni, la prima a parlarmi del Sacro Manto è stata la mia amica Raffaella, e da allora non l’ho più abbandonato. Il Sacro Manto è una preghiera un po’ lunga e impegnativa, dura trenta giorni e a farla bene ci vuole più del tempo di un rosario, ma potentissima: il mio libretto ciancicato, sbavato e sporco di fondotinta – mi ci addormento sempre su, con la torcia dell’iPhone accesa sotto il cuscino per non disturbare il mio Giuseppe personale che mi dorme accanto – è ormai mio compagno inseparabile.
Anche io come santa Teresa d’Avila ho sperimentato la sua incredibile, davvero incredibile potenza. Ecco cosa scrive Teresona (per noi amici, per distinguerla da Teresina): “Non mi ricordo finora di averlo mai pregato di una grazia senza averla subito ottenuta. Ed è cosa che fa meraviglia ricordare i grandi favori che il Signore mi ha fatto e i pericoli di anima e di corpo da cui mi ha liberata per l’intercessione di questo Santo benedetto. Ad altri Santi sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell’altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso S. Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte. Con ciò il Signore vuol farci intendere che a quel modo che era a lui soggetto in terra, dove egli come padre putativo gli poteva comandare, così anche in cielo fa tutto quello che gli chiede. Ciò han riconosciuto per esperienza anche altre persone che dietro mio consiglio si sono raccomandate al suo patrocinio. Molte altre si sono fatte da poco sue devote per aver sperimentato questa verità.
Procuravo di celebrarne la festa con la maggior possibile solennità. È vero che ci mettevo più vanità che spirito, perché volevo che si facesse tutto con ricercatezza e scrupolosità, ma l’intenzione era buona. Del resto, era questo il mio male, che appena il Signore mi faceva grazia d’intraprendere qualche cosa di buono, lo frammischiavo a molte imperfezioni e mancanze. – Dio mi perdoni se per il male, le ricercatezze e le vanità usavo invece tanta industria e diligenza! Per la grande esperienza che ho dei favori ottenuti da S. Giuseppe, vorrei che tutti si persuadessero ad essergli devoti. Non ho conosciuto persona che gli sia veramente devota e gli renda qualche particolare servizio senza far progressi in virtù. Egli aiuta moltissimo chi si raccomanda a lui. È già da vari anni che nel giorno della sua festa io gli chiedo qualche grazia, e sempre mi sono vista esaudita. Se la mia domanda non è tanto retta, egli la raddrizza per il mio maggior bene”.
E’ questa la vera preghiera, chiedere, ma accogliere quello che viene anche se è diverso, nella certezza che Dio sa cosa è bene per noi. Non vorrei infatti dare l’idea di una devozione magica, so che la vera preghiera è dire, ma veramente e con tutto il cuore, “sia fatta la tua volontà”, ma so anche che, come mostra il Vangelo in tanti episodi, Dio vuole che chiediamo, perché non viola la nostra libertà se non siamo noi a chiederglielo, e soprattutto perché vuole entrare in un rapporto vero con noi, vuole che davvero scopriamo che siamo figli, che Lui è Padre. Credo che i santi siano nostri compagni di cammino, come modello, e anche come aiuto con la loro intercessione.
Da quando avevo scoperto – grazie a un’altra amica, Serena – che in una cassaforte nei locali della basilica di Santa Anastasia sono custoditi il manto di Giuseppe e il velo di Maria portati a Roma da san Girolamo, non mi davo pace perché desideravo vederli, e non riuscivo mai a scoprire quando si potesse. Poi è diventato parroco il fantastico don Dario Criscuoli (quello di “e se non ve la sentite, sentitevela”), che ha deciso di offrirli alla nostra venerazione, prima da natale al 29 dicembre, poi ha esteso fino al 1 gennaio, e infine, vista l’affluenza di persone, ha prolungato l’esposizione fino al 6 gennaio: tutti i giorni le reliquie sono esposte dalle 18 alle 21. Alle 19 c’è la messa. Il 5 gennaio la celebrerà il Vicario del Papa, il Cardinal Angelo De Donatis. Siamo tutti invitati.
PS In questi giorni l’accesso è stato difficile per via delle feste al Circo Massimo – chiusure di strade, parcheggi introvabili – ma adesso non abbiamo più scuse!
December 31, 2019
Propositi ambiziosi per il 2020
di Costanza Miriano
Per questo 2020 che inizia ho un proposito molto ambizioso, che però credo si infrangerà sullo scoglio della mia umanità verso mezzanotte e quaranta, a meno che non riesca ad andare a letto prima, nel qual caso potrà resistere fino a domattina sul tardi, perché non parlo mai prima di avere preso due caffè. Vorrei imparare a controllare le mie parole. Come dice la lettera di Giacomo non è vero che quello che pensiamo condiziona quello che diciamo.
Molto spesso è vero anche il contrario. Spesso lasciamo che le parole partano senza troppo pensare – un pensiero solido organizzato, serio e non emotivo è una rarità – e lasciamo che vadano dietro al nostro mondo emotivo, e così diciamo con leggerezza cattiverie a volte anche inutili, spesso ingiuste, a volte anche giuste ma non necessarie. E piano piano le nostre parole modificano ciò che sentiamo, ciò che pensiamo, e infine come viviamo.
Sembra un cambiamento da poco, ma è una leva potentissima per la nostra conversione. Non per niente abbiamo due barriere, i denti e le labbra, per cercare di frenare la voce. E non per niente abbiamo due orecchie, mentre di bocca una sola, perché dovremmo ascoltare più che parlare. Il silenzio, più spesso possibile. Un silenzio che ascolta davvero gli altri: quante volte nelle conversazioni ci è capitato di notare di non essere ascoltati? E quante volte anche noi forse parlando con qualcuno non avremo ascoltato. Io ho diverse amiche molto capiscione, come le chiamo io, cioè capaci di ascoltare davvero e di capire, ma sono una rarità, e non sono neppure sicura di essere capace di fare altrettanto per loro. Sembra un cambiamento da poco, ma non lo è. Una volta a un’omelia di un matrimonio il sacerdote si è raccomandato di non commentare la festa che sarebbe seguita: se i camerieri saranno in ritardo, se il riso sarà freddo, se l’invitata seduta vicino a noi antipatica. Non dite niente. Zero. Io lì per lì mi sono chiesta che senso avesse. Cioè, non parlare male dell’invitata posso anche capirlo. Ma che male c’è a dire che il riso è freddo? Eppure è vero, è proprio cambiare lo sguardo, adottare un altro paradigma, cominciare a ringraziare per quello che c’è: c’è una festa, sono stata invitata, c’è del cibo e anche oggi posso mangiare, ho degli occhi per vederlo e le mani per portarlo alla bocca. Quando cominci a spegnere le mormorazioni e ad accendere questo sguardo – azionare l’App Occhi, marchioregistrato – cambia anche il cuore. Mi è capitato anche di notare che quando con un’amica ti lasci andare alle critiche a qualcuno (ovviamente per il suo bene, per carità), le critiche si autoalimentano. Ne trovi sempre di nuove, e altre persone a cui destinarle. Sparlare è uno sport di resistenza, e più sei allenato più ti riesce.
Il silenzio poi ci permette di ascoltare la voce di Dio. Silenzio dalle parole ascoltate, dette e scritte, come ha detto ieri il Papa, invitandoci a spegnere i telefonini (il problema per me è ricordare dove nascondo quelli dei miei figli, attendo un Angelus con consigli in merito).
Il silenzio dunque non è un valore in sé, io non sono buddista: il silenzio che cerco è per far parlare Dio. Spazio per lui. Spazio per ricordare la Sua Parola, ricordarla nel senso proprio etimologico di riportarla al cuore, osservarla, custodirla (che poi è stato il tema del capitolo generale del monastero Wi-Fi, e vorrei dire grazie a Dio per questa cosa meravigliosa che si è inventato in questo 2019 che finisce, con la complicità di una delle sue bionde preferite, Monica, e di tutta la squadra delle amiche, figli spintaneamente arruolati compresi).
Se riuscirò a fare un po’ di silenzio, il mio manifesto per il 2020 è: imparare il Padre Nostro. Non nel senso del testo, ovviamente, non sono ancora a quel punto anche se dimentico chiavi e auto parcheggiate e compleanni, e sto entrando in quella fase della vita in cui parlo sorridente con delle persone di cui ignoro totalmente l’identità (di solito mamme di compagni di classe, medici e vicini di casa, mentre con i confratelli del monastero wi-fi ho una grazia speciale, e memorizzo non so come vicende umane e nomi di figli e malattie). Comunque di solito me la cavo anche abbastanza bene, se non compare qualcuno che conosco e a cui dovrei presentare quella simpatica bionda con cui sto parlando da quattro minuti senza avere la minima idea di chi sia.
Il Padre Nostro lo voglio imparare nel senso di piantarmelo dentro al cuore, perché sono le uniche parole che Gesù ci ha raccomandato di dire, invitandoci a non sprecarne altre, inutili. Proprio mentre riflettevo su questo mi sono imbattuta in due libretti (etti per dimensioni) preziosi, di Santo Marcianò. Il primo ha un titolo folgorante, Signore, insegnaci a parlare, ed è una raccolta di meditazioni proprio sul Padre Nostro come vocabolario della preghiera e dell’amore. Penso che se proviamo a fare nostra una parola per volta abbiamo da lavorare per tutto l’anno, a essere ottimisti. Forse per tutta la vita, se consideriamo che a volte san Francesco non riusciva ad andare oltre la prima parola, Padre, tanto lo commuoveva la scoperta di essere figlio di Dio. Quanto al nostro, quindi la comunione, come spiega il libro, ci sarebbe da lavorare davvero una vita.
E il cuore del Padre Nostro è quel “sia fatta la tua volontà” così difficile da dire a volte, ma così pacificante. E così davvero ribelle e coraggioso, così liberante come scrive monsignor Marcianò. Ma per dire davvero, ma davvero sia fatta la tua volontà ti devi convertire sul serio. A pagina 62:
“Che tutto diventi cielo! Traduce così un antico autore, Origene, il significato di questa domanda del padre Nostro. E aggiunge: La volontà di Dio si compia perché, per così dire, tutto si incieli e un giorno non ci sia terra, ma tutto sia cielo”.
E così, aggiungo io, diventa cielo quella moglie nervosa, quel marito musone, quei figli egoisti, quel cattivo umore che neanche noi sappiamo perché, quel lavoro che oggi piuttosto ti spareresti, quella torta da preparare. Sia fatta la tua volontà rende il cuore docile come quello di un infante, a cui tutti scelgono tutto, e lui si lascia fare certo dell’amore di quelle mani.
Se riesco a mantenere il proposito un po’ oltre la mattina del 1 gennaio, un altro effetto collaterale potrebbe essere quello di riscoprire il vero senso delle parole, e di questo si occupa l’altro libretto di cui parlavo, pensato per i giovani che a volte si vedono consegnate parole impoverite di senso, (penso per esempio a “love is love”): Parole sempre giovani cerca invece di riscoprire il senso di parole di uso comune, come per esempio amore, appunto. È insomma un dizionario italiano italiano, per mettere alcuni punti fermi necessari come non mai (ogni volta che mi trovo a parlare con i ragazzi nelle scuole mi rendo conto della confusione che c’è sui fondamentali).
Ecco, dire meno parole, dire se possibile solo quelle buone (vale sempre la regola del mio amico Pippo Corigliano: se non puoi lodare, taci), ridare il senso alle parole, ascoltare Dio, osservare la Sua Parola, ascoltare di più chi mi è consegnato come compagno di cammino ogni giorno (con mio marito è facile, dice una parola al mese), imparare a pregare seriamente il Padre Nostro. Io direi che fino al 2070 sto a posto. Ma solo perché nel caso avrei 100 anni. Più probabilmente sarò morta e allora magari starò zitta (così spera mio marito).
December 29, 2019
Filosofia cristiana e politica in Augusto Del Noce
[image error] di Emiliano Fumaneri
C’è una ricorrenza che rischia di passare inosservata ai più. E sarebbe un peccato perché parliamo di un maestro del pensiero cattolico – e non solo – tra i più grandi del Novecento. Lui è Augusto Del Noce, filosofo («attraverso la politica», come amava definire la propria riflessione) scomparso proprio trent’anni fa, il 30 dicembre 1989.
La figura è il percorso intellettuale di Del Noce (nato a Pistoia nel 1910 ma trasferitosi a Torino già allo scoppio del primo conflitto mondiale) sono stati ricostruiti – provvidenzialmente – da Luca Del Pozzo, che ha da poco dato alle stampe Filosofia cristiana e politica in Augusto Del Noce (290 pagine, nella bella collana dei libri del Borghese).
Del Noce è noto, tra le altre cose, per aver previsto, in un certo senso, la fine dell’ideologia comunista. È il suicidio della rivoluzione, titolo di una delle sue opere più celebri assieme al Problema dell’ateismo . Ma la grandezza della speculazione delnociana non si limita certo a questo. All’epoca la narrazione prevalente – almeno da parte della cultura non comunista – interpretava la caduta del comunismo come la prova storica della bontà della democrazia e del capitalismo (sugellando quello che Michele Federico Sciacca aveva battezzato come «occidentalismo»). Non così Del Noce che, in perfetta sintonia col pontificato di Giovanni Paolo Ii, aveva già intravisto l’avvento della «dittatura del relativismo», per riprendere la famosa espressione coniata da Joseph Ratzinger.
A dispetto dei sei lustri che ci separano dalla sua morte (data peraltro emblematica, il 1989, anno del crollo del muro di Berlino) Del Noce resta perciò un pensatore estremamente attuale. Egli giudico con chiaroveggente lucidità anche la rivoluzione antropologica del ’68, l’imporsi dell’erotismo come fenomeno di massa, il nichilismo, il relativismo. Insomma, i materiali di quella dittatura del desiderio che oggi appare come il nuovo senso comune del mondo occidentale.
Per il filosofo i due idoli della società tecnologica – il sesso e la tecnoscienza – cooperano in questo senso: che riducono l’uomo ad animale. Già gli Antichi avevano intuito che la presenza del pudore è uno dei principali elementi che distinguono l’uomo dall’animale. Ora, se è facile capire che l’erotismo possa scacciare il pudore retrocedendo l’uomo a un essere pulsionale (homo zoologicus) in balia degli istinti, meno chiaro è il discorso sulla scienza. Il punto, spiega Del Noce è che la scienza è per sua natura anassiologica: non può cioè fondare direttamente valori ;ci dice come va il mondo, non come dovrebbe andare. La scienza studia i fatti, indaga il mondo come un sistema di forze. Ma dalla forza dei fatti (il factum brutum) non si può derivare un valore. Il fatto che tanti rubino, ad esempio, non è un buon motivo per regolamentare il furto (sul piano legale) né per giustificarlo (sul piano morale). In più la scienza non può che «studiare l’uomo soltanto un animale, di specie e di grado superiore», scrive Del Noce nel suo libro L’epoca della secolarizzazione. Ecco perché una morale della scienza sarà sempre una morale della forza (cioè una non-morale, al massimo una ideologia che canonizza i rapporti di forza della società).
In questo humus affonda le proprie radici quel totalitarismo dal volto umano, ma non per questo meno duro nei fatti, che sta svuotando dall’interno le democrazie occidentali sotto la forma del multiculturalismo politicamente corretto.
La sua critica del marxismo non faceva certo di Del Noce un nostalgico dei bei tempi andati. Per sincerarsene basterebbe pensare non solo alla sua geniale rilettura della filosofia moderna (la linea Cartesio–Vico–Rosmini) ma anche a quel vecchio passo delle Lezioni sul marxismo (del 1972) in cui il Nostro bolla lo spirito reazionario come un utopismo rovesciato. Al contrario del progressista, che sogna società perfette nel futuro, il reazionario idealizza la società del passato (in una sorta di versione «archeologica» dell’utopia). Per Del Noce l’eternità dei principi non escludeva la novità dei problemi, che necessitano di risposte nuove, adeguate ai tempi.
E allora, anche grazie a fatiche come quella di Del Pozzo, varrà la pena riprendere in mano (o prenderle in mano per la prima volta) le mai ingiallite pagine delnociane per capire e affrontare le sfide del nostro tempo così tormentato.
Domenica 29 a Teramo
December 25, 2019
Auguri di un Santo Natale
Quando Gesù nacque in questo mondo, il mondo non lo conobbe. Fu deposto in una ruvida mangiatoia tra gli animali, ma tutti gli angeli di Dio lo adorarono. Anche ora egli è presente sull’altare, in modo semplice e nascosto, e senza molta dignità; la fede adora, ma il mondo vi passa accanto senza badarvi.
Preghiamolo affinché illumini gli occhi della nostra mente, sì che possiamo appartenere alle schiere celesti, e non a questo mondo. Se gli spiriti carnali saranno impotenti a riconoscerlo anche in cielo, un cuore sensibile allo spirito può avvicinarlo, vederlo, possederlo anche sulla terra.
Beato John Henry Newman, in: Gesù. Pagine scelte, Paoline, Milano 1992, p. 213 Auguri di un Santo Natale
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