Costanza Miriano's Blog, page 44

December 1, 2019

Lunedì 2 catechesi ai Ss.Quattro Coronati #monasteroWiFi

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Per cominciare l’Avvento, tutti i romani sono invitati domani sera, lunedì 2 dicembre, ai Santi Quattro alle 20.30 a una catechesi tenuta da don Ubaldo Orlandelli, un altro sacerdote dal cuore ardente e dalla vita avventurosa (quando era in Siberia fu lui a regalare a Franco Nembrini la pelle dell’orso protagonista dell’esilarante episodio con i ragazzini della scuola). A seguire adorazione e compieta.




Chi può e voglia, può arrivare già dalle 20 a condividere qualcosa da mangiare (portare qualcosa solo se possibile) e qualche chiacchiera.

L’invito è valido per tutti i primi lunedì del mese (il prossimo non sarà però lunedì 6 gennaio ma martedì 7 e ci sarà don Antonio Interguglielmi).


 

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Published on December 01, 2019 06:50

November 29, 2019

Meditazioni Avvento 2019

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di Don Vincent Nagle


Qualcuno ha trasmesso questa frase della tradizione cristiana “Maria, tu sei la sicurezza della nostra speranza”. Tu sei la sicurezza della nostra speranza. È vero che l’amore è il motivo, lo scopo, la realizzazione di tutto. È vero questo, eppure l’amore grazie al quale siamo stati creati, (infatti siamo nati da un amore eterno per il nostro destino e l’esperienza dell’incontro travolgente con questo amore apre il nostro l’animo, spalanca orizzonti, stabilisce per noi una strada) ebbene questo amore non è l’aspetto del nostro animo che rende questo mondo, questa esperienza, questa strada, una cosa umana, stupendamente umana. È la speranza, la speranza, perché la speranza sa bene che quello che abbiamo incontrato è una caparra, una piccola, piccola ed esigua caparra.



La speranza sa che quello che abbiamo incontrato è presente, è una promessa. E l’ Avvento è la nostra occasione. È la stagione che la vita della Chiesa ci offre per tornare ad essere belli, belli realmente. Non belli perché puliti, che è comunque cosa da augurare, neanche perché una certa crema veramente funziona e divento luminoso perché ho utilizzato questa crema che mi rende bello, no! È un’altra cosa. È uno sguardo. È lo sguardo che ci rende belli.


Sto leggendo un libro bellissimo “Strappata all’abisso” di Milly Gualteroni, una giornalista di Sondrio morta l’anno scorso. Lei, che molto seriamente, ma poco efficacemente, ha cercato più volte di togliersi la vita a causa della sua esperienza di depressione terribile, infernale, ha compiuto tanti passi ed anche un passo definitivo: l’incontro con il Signore. Ed è accaduto che per mesi, dopo, le persone le chiedevano cosa avesse fatto ai suoi occhi; sembrava che avesse trovato quelle costosissime lenti a contatto che rendono gli occhi più brillanti e luminosi, così a tutti i costi volevano capire che cosa avesse scoperto. La salvezza di Gesù Cristo, che ha un prezzo inestimabile, e fa tornare belli.


La questione è nel tuo sguardo perché siamo fatti per un di più, siamo creati per un di più, e non solo questo in verità, ma per un miracolo di Gesù che ci salva e ci porta con sé alla casa del Padre; noi veramente possiamo stare davanti al trono dell’Altissimo. Potresti pensare, allora, che ogni dinamismo finisce lì per lì davanti al trono, e dunque che cosa ci facciamo con l’eternità? No, non finisce affatto, comincia.


Voi in molti siete sposati, lo so, avete casa insieme, avete figli insieme: la vostra storia insieme è finita quando avete costruito casa insieme? No, è cominciata. Davanti all’amore, all’incontro con l’Altissimo tu ancora sei sproporzionato, infinitamente sproporzionato e per l’eternità potrai diventare sempre più proporzionato. È tosto, veramente tosto.


Questa dinamica porta ad uno sguardo vivo per un di più, per una promessa, e quindi alla ricerca, in ogni particolare, della Salvezza che è con noi. Allora l’Avvento è veramente tornare a vivere fino in fondo la dinamica che rende la nostra vita una promessa per un di più: vivere per una promessa, per quello che c’è stato promesso, avere uno sguardo che cerca, che è attento ai segni della realizzazione di questo “di più” in ogni cosa.


Sì, lo ripeto un’altra volta perché so che state escludendo ancora categorie vastissime di avvenimenti e fatti, lo ripeto, in ogni cosa!


Siamo veramente avvantaggiati, essendo nell’emisfero nord, perché da noi l’Avvento coincide con la diminuzione della luce. C’è un’esperienza che ho fatto più volte, perché sono distratto, ma a volte è un vantaggio esserlo, perché non prevedi le cose e arriva sempre una sorpresa. Sono cresciuto in una foresta, veramente molto grande, molto densa e molto buia; sto pensando specialmente a quelle estati che ho passato facendo l’istruttore di sopravvivenza forestale e andavamo proprio dentro la foresta per vari chilometri. Ogni tanto accadeva, per un motivo o per un altro, che scendesse la sera e diventasse buio quando stavo lontano dall’accampamento. Anche se avevo intenzione di arrivare in un punto preciso della foresta per poi tornare subito, per qualche motivo o qualcosa di particolare che avevo visto, capitava di fare tardi; quando ci sono le nuvole e tramonta il sole, non si vede la luna e tu sei sotto quegli alberi immensi, enormi, altissimi, anche 100 m (così sono le sequoie). La luce se ne va completamente, è come entrare in una stanza con tutte le luci della casa spente e non vedi niente, proprio niente. Questo mi è successo più di una volta e mi colloca nella classifica delle persone veramente distratte, perché non avevo con me né una torcia né altro, ma non dimenticherò mai cosa si prova a cercare di andare verso l’accampamento e vedere quel primo bagliore del fuoco che lo indica: è la salvezza, la salvezza. È un niente ma, poiché vedere quella luce rappresenta la strada verso il destino, diventa un vantaggio per noi anche la mancanza della luce perché quando ne siamo inondati è bello, ma esistono tantissime luci e molte di esse non sono il nostro destino, non sono la nostra speranza e spesso illuminano solo per un momento e non tutta la strada. Noi vorremmo restare in quella luce ma passa, e restiamo smarriti. Anche i rapporti possono essere così: il buio ci fa fissare l’unica luce – pur piccola – del destino.


Ricordo una serata in cui già faceva buio perché in febbraio in Massachusetts, che è molto al Nord, fa buio presto: ho ricevuto la notizia della morte di Luigi Giussani. Lui era in Europa ed io ero in America del Nord ma per me era come se si fosse spenta una luce e onestamente in quel momento non vedevo alcun vantaggio per me nel fatto che si fosse spenta quella luce, era come se si fosse spenta la luce del mondo. Però io insisto, è un bene per me, un bene per noi, anche quell’avvenimento; e ripenso a quanto dice Giovanni nel suo Vangelo parlando di Giovanni Battista, lui non era la luce ma annunciava la luce che doveva venire nel mondo.


È un vantaggio per noi, un vantaggio difficile da accettare perché noi vogliamo vivere per una promessa, ma esiste il peccato che è questo: noi non vogliamo vivere veramente per una promessa, vogliamo vivere per un possesso. Non voglio vivere per la grandezza di Qualcuno che mi promette realmente un di più, voglio vivere per quello che possiedo, sono io la sicurezza della mia speranza, non la Madonna, invece lei è la sicurezza della mia speranza perché lei dice di sì e attraverso quel sì viene la luce del destino. Se non dico di sì con lei divento brutto e il mio sguardo non è quello che viene generato in ogni cosa.


Come accade per un bambino alla festa di Natale, quando sa che in quella camera lo aspettano tanti regali ed entra pensando che ogni cosa è possibile: forse ci sarà una persona che mi presenterà un regalo dietro quella porta, forse è questo il momento in cui mi daranno un regalo. E il suo sguardo è così “avido”, e ciò rende quello sguardo così bello, perché lui pensa, onestamente pensa, che se riceve un bel regalo, se trova una cosa bella che corrisponde al desiderio del suo cuore, allora vorrà dire che sarà felice in eterno. Chi non è avido così non è neanche vivo; ma abbiamo qualche anno in più e abbiamo capito che tante luci non sono “quella luce”, neppure le luci più brillanti, belle, fulgenti che rivelano colori mai immaginati. Forse adesso ce l’ho, ma è un vantaggio per me che venga la notte.


Come ho detto, in tante parti del mondo l’Avvento non corrisponde con il tempo in cui va via della luce, ma da noi sì e questo è un vantaggio perché l’Avvento è la stagione in cui possiamo tornare belli, davvero belli, per questo sguardo che è all’erta in attesa di quella luce, forse la più piccola.


Quando è venuto Gesù come è apparso? Come un bagliore che ha illuminato il cielo e tutti gli uomini della terra sono rimasti impietriti di terrore e stupore, e ogni cosa è sembrata buia a confronto di questo grande chiarore? No, no, è venuto come una piccola luce, ma quando la vedi è quella che parla del destino, quindi allo scopo di vederla è un vantaggio per noi che vengano portate via le altre luci. E’ un vantaggio per noi perdere anche una grande luce nella vita, come un figlio, un padre, un marito, una guida, un educatore, qualsiasi uomo, e sembra che siamo buttati nel buio per arrangiarci come animali nella notte, sembra di non camminare più, ma solo sopravvivere, finché qualcuno non spenga anche la mia luce: la vita non è più vita.


Io posso veramente dire che è un vantaggio. Mi considero nato sotto una stella particolarmente fortunata. Le prime reali consapevolezze riguardo la Chiesa cattolica, (che già avevo incontrato a 16 anni, quindi negli anni 74-75) cioè quando ho cominciato ad avere senso che ci sono dei sacramenti, un papa da qualche parte, che esiste una Chiesa veramente cattolica, non solo costituita dalle persone che avevo incontrato nella mia zona, tutto ciò risale all’anno dei tre papi, il 1978. È morto Paolo VI, è stato eletto Giovanni Paolo I che è morto molto presto e poi è stato eletto Giovanni Paolo II, tutto questo ha fatto molto rumore e per me ha coinciso con il guardare a quel corpo di Cristo, che è la Chiesa, attraverso l’elezione di Giovanni Paolo II. Tutti ne parlavano. Era il capo di questa cosa che all’inizio non accettavo. Ricordo bene che durante la prima visita di Giovanni Paolo II negli Stati Uniti ero ormai all’università e c’era una sala con la tv nel luogo dove abitavo. Sono andato lì ed ho assistito in diretta all’incontro di Giovanni Paolo con i giovani, avvenuto nello stadio degli Yankees di New York: c’erano 60.000 giovani per quel papa. Lui stava facendo un discorso in cui parlava della libertà, cioè di cosa rende libero il cuore ed era un grande comunicatore. Ricordo che era presente il prete del mio gruppo di studenti, un prete che poi ha fatto storia a suo modo, Joseph Fessio, autore anche di molte pubblicazioni. Conoscevo appena quel tipo, che si avvicinava alla tv, ascoltava e ripeteva le parole del papa; io pensavo “questo è proprio matto”, ma poi è successo qualcosa, c’era qualcuno a cui guardare e quando lo guardavi, quando lo ascoltavi, ti dava qualcosa di grande. Ora non c’è più, ed anche questo è un vantaggio per noi.


Ho conosciuto e incontrato quattro volte Madre Teresa di Calcutta, ogni sua parola per me era Luce. Non c’è più, è andata. Don Giussani è andato.


E’ un vantaggio per noi, sì, perché noi siamo stati fatti per una cosa indescrivibilmente più grande, la cui prima caratteristica non è il suo bagliore, non è abbagliante, non conquista, ma è inestinguibile, non passa. E chi è all’ erta per una luce così la può accogliere.


Ho letto l’autobiografia di Bob Dylan che è un artista e senz’altro una buona parte di questa biografia è come poesia, molto interessante; dicono che non è del tutto affidabile dal punto di vista della veridicità, ma poco importa, ha raccontato la sua storia. E non sono i fatti che dicono la verità di quello che ho vissuto io, quindi per me non è fuori posto che un artista come lui dica cose non storicamente corrispondenti a come sono realmente state. Racconta come, dopo gli anni in cui era stato il famoso Bob Dylan, si sentisse stanco molto stanco, ma faceva ancora il musicista ed ha cominciato a girare insieme ad altri artisti grandi. Ogni tanto volevano che lui suonasse una delle sue canzoni bellissime ma per lui era come essere schiacciato da un peso perché questa cosa non gli diceva più niente, anche se tutti volevano sentirle. Così lui si sentiva schiacciato, soffocato, come ucciso; pensava che la sua vita d’artista capace di dire qualcosa era finita e non sopportava di dover rifare quelle canzoni. Poi è successo qualcosa: era a Saint Louis perché stava facendo un giro negli Stati Uniti con quel gruppo di musicisti. Lui, molto contrariato, lascia l’albergo per andare a girare nella città. Saint Louis, insieme a New Orleans, è il luogo della nascita del jazz e Bob si ritrova nei pressi di uno scantinato, un giovedì pomeriggio, che non è il momento in cui tutti vanno in un locale di jazz, però sente che c’è musica ed entra. Lì trova un vecchio sassofonista che sta suonando e lui comincia a bere alcol per preparare a esibirsi quella sera; usando più alcol possibile comincia ad ascoltare ed è sorpreso da quella musica che sentiva mentre il vecchio suona la sua melodia. Poi ne ascolta un’altra e prova sempre la stessa sensazione perché il punto di partenza di questo anziano musicista con il sassofono non è la melodia ma qualcosa del suo animo: non sta suonando una canzone, sta suonando la sua anima. Si chiede chissà quale storia avrà vissuto, sapendo che i jazzisti non sono noti come quelli che fanno una vita da mulino Bianco, chissà che perdite avrà subito, chissà che foresta di note avrà perso, però capisce che sta traendo ogni nota dalla sua più originale domanda. E lui ha pensato che è così che si deve fare, ha ricominciato a suonare, ed oggi a 73 anni è ancora famosissimo e non cessa mai di fare grandi giri per il mondo a presentare le sue canzoni. Anche se è andato avanti a fare nuovi dischi non sono solo canzoni quelle che sta producendo, perché ha cominciato a tirare fuori la nota più originale che c’è in lui.


E cos’è la nota più originale presente in me e in te, soprattutto dopo il nostro incontro con il Destino, il nostro Signore Gesù Cristo così vero per tanti di noi? È qualcosa avvenuta attraverso incontri spettacolari, pezzi di strada così pieni di verità, scoperte, novità, interessi, un pezzo di strada indescrivibile. Perché ora non è più così? Non è più così, ma è un vantaggio per noi, come fu un vantaggio per Bob Dylan aver perso lo stesso fuoco dell’inizio nell’esibire le sue canzoni. Era un bene per lui che quel pezzo di strada fosse finito perché così ha dovuto andare a trovare la nota più originale di sé, quella che lo sa descrivere.


Allora chiediamoci quale è la nota più originale, quella fiamma inestinguibile che rende ogni nostro passo un passo di destino, che rende I nostri sguardi bellissimi perché sono vivi, aperti, alla ricerca degli indizi della rivelazione di quel Destino. Vieni, vieni Signore Gesù, vieni, vieni Signore Gesù, vieni perché la vera consistenza, la vera bellezza, la vera sostanza di qualunque momento, persona, avvenimento della nostra esistenza urge verso quello che la luce di Cristo ha annunciato, cioè la Sua seconda venuta quando Dio sarà tutto in tutti, ogni cosa sarà sottomessa ai piedi di Gesù, e l’ultima nemica che sarà sottomessa ai suoi piedi sarà la morte. Così tutto, tutto, diventa interessante per noi e nulla è contro di noi; so che ognuno di voi sta escludendo categorie vastissime di cose, ma nulla è contro di noi. Se la crocifissione di Gesù non è contro di noi, nulla è contro di noi. Sono certo che ognuno ha in mente almeno una cosa che è stata contro di lui, ma nella misura in cui abbiamo da dire che qualcosa è stato contro di me dimostriamo che non stiamo ancora cantando con quella nota più originale che esiste in noi.


Vieni Signore Gesù. Vieni Signore Gesù. Vieni Signore Gesù, vieni Signore Gesù e compi tutto quello che hai promesso, porta a compimento tutta la promessa che ci hai fatto, porta a compimento la mia esistenza, porta a compimento le promesse che ci fai. Vieni Signore Gesù. Vieni Signore Gesù. Cos’è il digiuno? Perché questo invito al digiuno da parte della Madonna, a Medjugorie per esempio, e di Gesù stesso quando dice (in Matteo 9,15) “Possono forse gli invitati alle nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro, ma verrà un giorno in cui la sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno.”? Cos’è il digiuno? Vieni, Signore Gesù! Questo è il digiuno: non quello che possiedo ma quello che a me è stato promesso. Io vivo non per quello che possiedo ma per quello che a me hai promesso tu.


Vieni Signore Gesù. Vieni Signore Gesù. Così nel capitolo 16 di Giovanni leggiamo “E’ meglio per voi che io me ne vada”. È meglio per voi. Se resto qua, non vivrete per quella bellezza per cui siete stati creati, per il compimento di tutto, vivrete per il possesso del mio corpo qua e non per quello per cui sono venuto: portarvi dentro il compimento di tutto. È meglio per voi! Posso ben credere che Tommaso, Filippo, Pietro, Taddeo, Andrea e Giovanni pensassero “Non mi sembra sia così! Per noi è un vantaggio averti qua così, proprio così, non ti muovere.” Ma non è così, non è così.


E se ne va. E come se ne va? Con vergogna, con il dolore, con l’ingiustizia e la menzogna e loro vengono sommersi dalla paura e dalla vergogna, così se ne va e a loro vantaggio perché possano cominciare a vivere il pre-gusto dell’eterno.


Vieni, Signore Gesù! Il Tuo regno, il regno del Padre Dio si compia! Quanto siamo vivi se è per questo, e quanto siamo indomabili se è per questo, e quanto sei bella se è per questo! Io dico spesso che umanamente la cosa più bella della mia vita è che faccio tanti matrimoni e onestamente posso affermare che tutte quelle spose sono bellissime; io spesso ho anche preparato queste coppie al matrimonio senza mai notare questo. C’è una frase in inglese che dice “illuminata come una sposa”, ma dov’è quel fuoco nella sposa che la rende così luminosa? È nel suo sguardo, perché quello sguardo dice che c’è uno qui che mi promette la sua vita per rendermi madre, moglie, per darmi una casa, un luogo per compiere me stessa. Ci crede in questa cosa, e diventa bellissima: la sposa diventa più bella di tutti.


Della Chiesa si possono dare tante definizioni: il corpo di Cristo, l’inizio del regno di Dio, però c’è una metafora per la Chiesa che è quella definitiva, è quella che riassume tutto. Chi è la Chiesa e chi sei tu? La sposa. La sposa. Sì, anche tu uomo, anche io: sposa, sposa.


E come finisce la Bibbia? Così:


“E mi mostrò un fiume di acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città [ e la città è la sposa che scende dal cielo] e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione. Il trono di Dio e dell’agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno; guarderanno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli……. Ecco io vengo presto [dice l’agnello] e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine. Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città.”


Chiamano, coloro che aspettavano quel giorno, chiamano coloro che hanno riconosciuto Cristo nel tempio, quando Giuseppe e la Madonna hanno portato il bambino a 40 giorni; essi stavano aspettando il regno di Dio, avevano passato anni nel digiuno e gemevano dentro: “Vieni Dio, vieni, vieni Dio, vieni. E questo piccolissimo segno del bambino Gesù portato nel tempio per consacrarlo a Dio, li ha folgorati.


“Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino.” E’ la luce inestinguibile, quello che ci vuole, ma spesso è irriconoscibile se non entriamo nella notte.


“Lo Spirito e la sposa dicono [e queste sono le ultime parole della Bibbia, il culmine, il vertice] “Vieni!” E chi ascolta ripeta “Vieni!” Chi ha sete, venga; chi vuole prenda gratuitamente l’acqua della vita. A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro io dichiaro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro. Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!” Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen.”


E così finisce la Bibbia.


Ecco l’Avvento: noi che siamo nell’emisfero nord vediamo che va via la luce proprio in questo momento dell’anno e siamo avvantaggiati nel tornare a chiedere come spose “Vieni, sposo vieni!” E quando nella notte, come per quel sassofonista di Saint Louis tutto diventa vivo, diciamo “Vieni, vieni!”.


Possiamo vivere così perché la Madonna è la sicurezza della nostra speranza e questo lo diciamo a Lei e attraverso di Lei, la madre della Chiesa: “Vieni, vieni!”

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Published on November 29, 2019 15:41

November 28, 2019

Non voglio essere creativa, voglio essere obbediente

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di Costanza Miriano


Sarà che alla giornata del Timone di Milano, sabato, devo parlare insieme al Cardinal Muller, che oltre a essere tedesco è stato anche Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (interrogherà? Se prende volontari mando Giampaolo Barra o Vittorio Messori al posto mio, i secchioni di solito si sacrificano per il bene dei compagni), ma sono giorni che cerco qualcosa di intelligente da dire sul tema.



Il titolo della nostra conferenza sono le minoranze creative. Ma mentre riflettevo – anzi a esser precisa mentre correvo, che è il momento in cui i pensieri mi diventano più lucidi – ho realizzato che a esser creative oggi non sono le minoranze, bensì la maggioranza. Il contesto culturale in cui noi viviamo è appunto la creatività, o meglio la sua versione depotenziata, o cialtrona a ben vedere: tutto quello che ti viene in mente ha diritto di cittadinanza, tutto quello che senti devi esprimerlo, tutti i desideri che hai, per il solo fatto che li hai, hanno il diritto non dico di essere soddisfatti, ma almeno hanno dignità, solo perché tuoi desideri (Anche io vorrei essere una campionessa olimpionica di maratona, vincitrice del Nobel della letteratura e Dottore della Chiesa e anche una modella di Victoria’s Secret e la sceneggiatrice di The Marvelous Mrs. Maisel: invece sono una normale e se penso che è colpa del mondo ostile, è una patologia psichiatrica. Lo stesso se voglio avere un figlio e sono maschio, se voglio volare e non ho le ali, cioè se voglio sfondare con i miei desideri i limiti che la realtà mette).


Questo clima culturale in cui siamo immersi, questo brodo, che io chiamo la palude dell’inconscio ha radici culturali che hanno attecchito nel ‘700, e sono fiorite nel dopoguerra, ma insomma non vorrei spericolarmi in un terreno non mio. Fatto sta che le cose oggi stanno così: è il mondo della pubblicità della Vodafone, tutto intorno a te.


Questa postura nei confronti del mondo non poteva che toccare anche la Chiesa. Anche nella Chiesa mi sembra che si faccia fatica a obbedire, che molti vogliano piuttosto esprimere se stessi, che non farsi tramite della grazia di Dio. Più che tubi per incanalare la grazia a volte noi credenti ci facciamo tappi, e non facciamo entrare gli altri. Per esempio qualche mese fa a Verona sono andata a messa e il sacerdote ha detto al momento della consacrazione “Lo diede alle sorelle e ai fratelli e disse questo è il simbolo del mio corpo”. Sarebbe stato bello vedere quello che avrebbe fatto Muller, col suo metro e 90, a quel sacerdote…


Anche in molti altri casi mi sembra che le minoranze siano rimaste aderenti alla dottrina mentre la maggioranza del paese – e questo si sa – ma anche la maggioranza o piuttosto i vertici delle gerarchie ecclesiastiche sono stati “creativi”. Per esempio, prendiamo il caso della battaglia contro le unioni civili: rispetto a una legge che – oggettivamente e insindacabilmente – è contro la Verità della Chiesa sull’uomo e sulla donna, molti anche nelle gerarchie hanno preferito ascoltare la loro sensibilità piuttosto che il Magistero. Ci sono sacerdoti che dicono che il Catechismo induce le persone al suicidio: l’idea è che se il catechismo scontenta qualcuno, insomma, va cambiato.


Io invece non voglio essere creativa, voglio essere obbediente: a rendere creativa l’obbedienza è il fatto che pochi cercano di praticarla.


Prendiamo l’esperienza del nostro Monastero Wi-Fi che cercherò di raccontare sabato alla Giornata del Timone. E’ stata la cosa meno creativa possibile: preghiera del rosario, messa, adorazione del Santissimo, catechesi. Eppure davanti alle Basiliche c’era la fila, duemila persone e oltre, venute da tutta Italia. E non per un protagonista, tanto meno per me che non ho tenuto nessun discorso, ma per la gioia di essere nella Chiesa, modello basic davvero. Cioè quello che abbiamo ricevuto, senza fiocchi, abbellimenti, modifiche. La Chiesa deve ritrovare l’orgoglio di essere se stessa, della sua bellezza: l’umiltà dei singoli è fondamentale, ma ci vuole anche l’orgoglio di essere parte di un corpo che è la Sposa di Cristo. Immaculata ex maculatis. Se entro nel Duomo di Orvieto io oltre a sentirmi piccola e peccatrice, mi sento orgogliosa di essere parte di una grandezza che non mi appartiene, alla quale però partecipo.


Poi, certo, il rapporto con Cristo non è mai una questione di maggioranza, di appartenenza, di grandi numeri, di identità. Il rapporto con Cristo può essere solo personale, è unico, è viso a viso con una persona. E in questo senso questo momento particolare della storia della Chiesa secondo me è una grande opportunità: riappropriarci di questo rapporto con il Signore facendo ciascuno di noi un cammino individuale, una ricerca amorosa del suo volto, cercando vie, aprendo relazioni e rapporti, recintando spazi per l’incontro con lui. E poi cercare momenti di confronto con altri che fanno la stessa ricerca, per capire come metterci davanti alle domande che la realtà ci mette davanti. In questo anche i social sono preziosi. Per esempio io ammetto tranquillamente che le idee su molte questioni importanti me le sono chiarite confrontandomi con delle persone che stimo, a volte anche via facebook o mail… per esempio sulle unioni civili, sulla fecondazione assistita, sul fine vita tante volte ho precisato la mia posizione parlando con le amiche come Raffaella Frullone e Benedetta Frigerio.


E poi, non perché devo andare alla festa del Timone, volevo dire che il Timone su tante questioni mi ha aiutato ad avere la posizione giusta, con il suo amore fermo alla Chiesa e al Papa, e la sua chiarezza dottrinale. I dizionari pubblicati per esempio sono strumenti preziosissimi, anche l’ultimo uscito, il dizionario dei luoghi comuni redatto da Scandroglio. Un’arma di difesa infallibile contro il rimbambimento, un invito a usare l’intelligenza.


Lo stesso devo dire per alcuni libri pilastro come Ipotesi su Gesù, di Vittorio Messori, appena ripubblicato in edizione tascabile con la premessa del 1992 e una nuova introduzione (ce l’ho, ma me lo ha fregato mio marito, appena riesco glielo tolgo dal comodino): un corpo a corpo di un uomo colto e intelligente che alla fine del combattimento decide di abbracciare la fede proprio perché ha verificato come la ragione e la storia la confermano e la rendono più forte. Un libro oggi più necessario che nel 1976, quando in quel clima culturale doveva mostrare come la fede non fosse contro la ragione. Oggi invece serve a spiegare a tutti, anche ai non credenti, che la ragione va usata.


 

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Published on November 28, 2019 15:01

November 27, 2019

Oggi in classe ho detto Amore

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di Emanuele Fant


Oggi in classe ho detto Amore, e tutti si sono zittiti, come se avessi esagerato, come se li stessi provocando con un termine inadatto alla mia posizione.


Ho pensato: “Io non sono proprio esperto di Sacre Scritture, ma l’unica cosa che non passerà, non era mica l’amore? E allora, com’è che la verità esiste, ma io non la posso pronunciare?”.


In treno ho messo in fila qualche riflessione:




Ogni parola coniata per parlare del trascendete è nata per essere comprensibile in un certo tempo e in un preciso contesto sociale. Un ipotetico linguaggio perfetto e universale non potrebbe entrare nelle orecchie limitate degli esseri umani, immersi nella contingenza.
Le parole che oggi usiamo per dire Dio sono ereditate e, quasi sempre, usurate; pure se alla loro origine erano buone. Per esempio, lodare Cristo come “re” risulta incomprensibile a un essere umano attuale, perché la monarchia richiama cieco assolutismo, o Emanuele Filiberto conduttore di Pechino Express. Diverso era qualche secolo fa.
Chi ci ascolta da fuori (penso ai ragazzi, perché lavoro con loro), può scambiare il contenitore per il contenuto, ed attribuire ad un messaggio ancora perfettamente vitale, le colpe che invece dovrebbe scontare la forma esausta dei termini con cui lo vorremmo riferire.   Anche una parola di un certo lignaggio come “amore”, vampirizzata da decenni di San Remo e di cartelloni negli oratori, può risultare stridente e inattuale.
L’usura irrimediabile di tutti i termini che dicevano qualcosa di immortale, è la vera emergenza che dobbiamo affrontare, più dell’Amazzonia, più dell’obesità, più della fame.

Fare piazza pulita del linguaggio stantio è il dovere di chi crede che davvero esista un Discorso in grado di varcare le epoche. Chi non è sicuro, si protegge con parole morte e rassicuranti.  Sapendo bene di tradire.


 


Superata la stazione di Bovisa, ho steso sul mio taccuino un piano per il futuro.


Per rinnovare il linguaggio è necessario:



Tornare al nucleo della Proposta e capirne intimamente il significato vitale, spogliandola con coraggio di tutti i termini che di recente l’hanno definita e ora non sanno più parlare.
Inventare a briglia sciolta, senza sensi di colpa, un frasario nuovo e luccicante, che accenda di nuovo l’intuizione, evitando con accuratezza ogni parola che circoscrive ereditata passivamente dalla tradizione, che maldispone.

Ai collezionisti e ai glossatori, dico che se una persona ha un tumore, si asporta l’arto malato, di certo con dispiacere; ma in nome della salvezza del tutto, il sacrificio si può accettare. Il corpo è l’intramontabile messaggio cristiano. L’arto che era buono, ma adesso ha un grave male, è il linguaggio usurato da secoli di catechesi e di prontuari per l’anima. La prova che il tumore si sta prendendo il corpo sono i miei alunni quando smettono di ascoltarmi se pronuncio le parole “fede”, “vita eterna”, “comunione” (figuriamoci peccato, contrizione, sacralità).


Non è colpa loro! Non possono scontare con una vita senza Verità, il nostro rifiuto di accompagnare all’uscita termini con la barba e il bastone, che una volta splendevano di senso, e che il tempo ha ridotto a larve senza seduzione.


I ragazzi meritano un linguaggio coraggioso, mai immaginato, all’altezza della loro potente percezione. Per ridire, con l’urto necessario, quella insopprimibile Verità, tanto grande da far scoppiare le parole.


 

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Published on November 27, 2019 06:55

November 25, 2019

Amare come Dio comanda

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di Costanza Miriano


C’è questa cosa che ricordo spesso, ma mai abbastanza: non sono un’esperta di matrimoni, avendone vissuto solo uno (al momento, come dico sempre per precauzione), e non sono in grado di insegnare molto sul tema, perché il nostro è un matrimonio normalissimo, e di certo non esemplare. Comunque, in qualità di non esperta mi arrivano tanti libri sul tema, e da tutti ho qualcosa da imparare, appunto perché non so quasi nulla, se non la mia esperienza.



L’ultimo che mi è arrivato, pubblicato dalla Tau è di Padre Stefano Nava, ofm, si chiama E’ ancora possibile, che è praticamente il mio motto (una versione rivisitata del motto del nonno colonnello, che ho fatto mio: muro o non muro, tre passi avanti).


Il libro racconta infatti una serie di relazioni nate problematiche sin dall’inizio, o che a un certo punto della storia hanno vissuto una crisi seria, e che alla fine hanno ingranato (infatti il sottotitolo è Storie di matrimoni che fanno gioire Dio, e gli sposi). Ecco, a parte che io un matrimonio facile facile devo ancora vederlo – Chesterton diceva che uomo e donna sono strutturalmente incompatibili come forchetta e coltello – a parte questo, dicevo, quando mi raccontano di una difficoltà seria penso sempre a quello che diceva don Giussani, o almeno a quella che mi è stata riportata come una sua affermazione: tu ti puoi sbagliare, ma Dio no. Cioè, quando Dio ha benedetto un’unione darà tutta la grazia necessaria per portarla avanti. E tante volte, quando sembra che quelle due persone proprio non dovessero stare insieme, guardando meglio si scopre che in un modo misterioso diventano una la salvezza dell’altra.[image error]


Mi sembra che padre Stefano sia particolarmente acuto nel leggere attraverso le trame delle vite, nel cogliere le minacce e le trappole, nel capire quali i punti su cui lavorare. Ognuno di noi è il prodotto di una storia, e viene da una famiglia che ha a sua volta una storia, delle dinamiche particolarissime (qualche volta quando in treno mi capita di passare accanto a diverse famiglie, mi stupisco sempre nel vedere come da una fila all’altra, nello stesso vagone, sembra proprio di passare da un continente all’altro: ogni famiglia è un microcosmo unico): noi ci portiamo dietro un mondo, quando ci innamoriamo. Non siamo io e te, siamo le nostre famiglie, siamo le nostre esperienze, le nostre vite. Siamo il nostro rapporto con Dio, siamo il nostro modo di stare davanti alla realtà, nel mondo, perciò non è una cosa che si risolve tra me e te, non siamo solo due individui che se la vedono fra loro, in una stanza chiusa, una cosa di emozioni e sentimenti, una piccola storia privata. È qui che entra in gioco il discernimento di una guida spirituale, nel caso padre Stefano, che ha la sapienza di mettere la coppia davanti alla Parola di Dio, che è come una mappa del tesoro, una via sicura alla felicità, un modo per evitare gli scogli, le correnti pericolose, per trovare tra i flutti la terra su cui fiorire e portare molto frutto.


Tutto questo è raccontato non in teoria, ma attraverso delle storie (il mio modo preferito, farmi i fatti degli altri!), esemplari dei problemi con cui ci si può trovare a fare i conti: l’infanzia ferita, l’incapacità di tagliare il cordone ombelicale con la famiglia di origine, il tradimento, la bassa autostima di uno degli sposi, i figli che cambiano gli equilibri o i figli che non arrivano, la malattia, la precarietà economica. In ogni situazione è possibile imparare – o cominciare – ad amare come Dio comanda, perché, contrariamente a quanto ci racconta il mondo con la sua sottile, continua, violenta catechesi, l’amore è un comandamento, non un sentimento.

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Published on November 25, 2019 07:34

November 20, 2019

L’artigianato educativo

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di Costanza Miriano


Quando ho letto la traccia degli argomenti previsti per l’incontro di Milano mi sono detta che sarebbe stato proprio interessante da ascoltare: usi di internet, alleanza tra genitori, come vivere la spiritualità in famiglia, e soprattutto adolescenza oggi. Magari mi spiegano questi oggetti misteriosi – soprattutto quelli femminili – che mi girano per casa. Poi ho realizzato che a parlare sarò io, e questo è il problema.



Perché non è che abbia tante certezze sull’educazione, anche perché è una materia che ha a che fare con la libertà di un altro, e allora più che di regole possiamo provare a fare dell’artigianato. Si va per tentativi, insomma, sbagliando un sacco e riprovando, chiedendo anche scusa, ma tenendo qualche punto fermo: il primo, che ho messo quando i quattro pargoli nati in sette anni stavano giocando a bowling con l’unico neurone che riusciva a tenersi attivo dopo le notti insonni, è “siamo più grossi di voi, e questa è casa nostra”. Principio che continua a tenere, sebbene adesso tre su quattro siano più grossi di me, che pure non sono bassissima, dall’alto del mio metro e settantasei, settantotto se tiro su i capelli. Insomma, i figli non sono amici, e su certe cose non si contratta, né tanto meno si decide insieme.


Tecnologia: togliere e nascondere telefoni è il mio vero lavoro, anzi in realtà quello che mi prende più tempo è ritrovarli, allora i figli mi guardano con occhi pieni di rancore, sebbene quella volta che stavano sotto la scatola delle fettuccine e ci ho messo due ore a ricordarlo non fosse colpa mia, perché mentre mi stavo dirigendo verso la lavatrice per metterli nel catino dei panni è scoppiata una rissa per l’uso del controller e io ho cambiato strada mentre avevo già memorizzato l’informazione cellularinelcatino (il mio cassetto della memoria a breve termine è sempre più piccino, mentre i ricordi della prima elementare stanno lì belli larghi e nitidi, dicono che sia l’inizio della demenza senile).


Alleanza tra genitori: qui sono preparatissima, nel senso che sono continuamente tentata di tradirla, cioè di criticare le decisioni che prende mio marito, e di farlo davanti ai figli. Però la teoria la so, ho studiato: piuttosto che litigare e rompere l’alleanza, magari facendo vedere loro una mancanza di stima e di rispetto fra i genitori, meglio una decisione educativa sbagliata però presa in sintonia, anche a costo di ingoiare qualche rospo – cioè tipo quando strozzeresti tuo marito/tua moglie, e ti decidi a fare come dice lui/lei, e poi scopri che aveva ragione, anche se l’ultima volta che lo hai ammesso eri giovane. Oppure scopri che comunque i figli sopravvivono egregiamente anche se prendete una decisione imperfetta.


E poi come trasmettere la fede: qui potrei impiegare ore per dire che non lo so. Non lo so come si trasmette la fede perché la fede è un regalo e un incontro. In quanto regalo possiamo solo chiedere al proprietario, e chiederlo fino a farci sanguinare le ginocchia, che lo dia anche ai nostri figli. In quanto incontro possiamo solo non impedirlo (e anche qui, di nuovo, chiedere fino a farci sanguinare le ginocchia che avvega anche per loro).


Di questo e molto altro parleremo venerdì a Milano e sabato a Roma. Se c’è qualcuno che ha consigli da dare, sono molto interessata. Magari a ‘sto giro mi siedo in platea.






 

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Published on November 20, 2019 03:59

November 13, 2019

Maestri, maestrini e cattivi maestri. Tornano i Cinque Passi

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Venerdì 15 novembre 2019, ore 21,00


Chiesa di Santa Maria in Vallicella


 


Cosa sono i 5 Passi?


I “Cinque passi al Mistero”, sono un ciclo di catechesi per giovani e adulti, che si svolge ormai da dieci anni presso la chiesa di S. Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) in Roma. Questi ciclo di incontri insieme ai Concerti Spirituali, agli Incontri dell’Oratorio in Musica, agli incontri di Cultura Cristiana, agli incontri teatrali e di poesia, ai Sermoni fa parte del cosiddetto Oratorio Grande che i padri della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri di Roma, secondo il loro carisma, offrono a tutta la città.

Nei Cinque Passi lo spirito è quello di mettersi in dialogo con le persone che si sentono più lontane dalla Chiesa, offrendo loro una spiegazione pacata di quelle che sono le ragioni della fede su vari argomenti.

Sono i laici che si formano stabilmente alla scuola dell’Oratorio di San Filippo Neri, il cosiddetto Oratorio Piccolo, a segnalare i temi di frontiera più “caldi”che, magari tengono, più lontane le persone.

Il metodo è sempre lo stesso: una introduzione di mezz’ora esatta,  a cui seguono le domande scritte presentate in forma anonima ed estratte a caso.

Si rinnova così una tradizione nata fin dal XVII secolo. I discepoli di San Filippo Neri, infatti, si confrontavano con la società e con la cultura dell’epoca, mostrando la validità della prospettiva della fede a coloro che erano aperti a comprenderla, in un’epoca nella quale già si manifestavano gli albori dell’età moderna.

Oggi abbiamo lo stesso atteggiamento.

I nostri incontri sono basati sul dialogo, e sulla possibilità di porre qualsiasi domanda tesa a capire meglio il pensiero della Chiesa. L’elemento dell’improvvisazione, del non preparare tutto, si ritrova anche nei sermoni di S. Filippo e nasce dall’atteggiamento spirituale di fidarsi della parola di Gesù: quando vi trascineranno nei tribunali – e questo tipo di incontri aperti un po’ lo sono – non preparate prima la vostra difesa perché sarà lo Spirito a suggerirvi cosa dire.

S. Filippo insegna a fidarsi di Gesù come un amico e un faro che illumina il cammino, senza paura di andare “disarmati” a spiegare le proprie ragioni.

Sappiamo che c’è una grande sete di confronto.

E non è facile trovare spazi costituiti da un terzo di catechesi e due terzi di domande né persone disposte a mettersi in gioco senza sapere su cosa si verrà chiamati a rispondere.

Cerchiamo sempre di usare la ragione come strumento di dialogo che accomuna chi crede e chi non crede.

La Fede non umilia mai la ragione e rendere ragione della speranza che è in noi, come insegna la Parola, è l’unico mezzo per spegnere il livore che ostacola proprio l’uso di quella ragione in nome della quale si vuole mettere da parte la fede.


Gli incontri si svolgono presso la Chiesa di Santa Maria in Vallicella, in Piazza della Chiesa Nuova, 00186 Roma.


 

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Published on November 13, 2019 15:01

“Il primato di Dio e la purezza della nostra vita, quando crollano quelli, con il tempo vengono giù anche gli altri”

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Sono onoratissima di ricevere e pubblicare in esclusiva il testo integrale del discorso con cui Flora Gualdani ha accolto il premio Cultura cattolica. Leggetelo tutto, magari un po’ per volta, e arrivate alla fine, perché in fondo trovate delle perle, come questa:


In conclusione, se dovessi riassumere il nostro compito nella società, direi così: davanti alla diffusa malattia delle “3S” cioè soldi, sesso e successo, cerchiamo di rispondere con la terapia delle “3P”, cioè povertà, purezza, piccolezza. Con dosi sempre abbondanti di preghiera. E’ una ricetta che porta frutto e dà futuro. Ve lo assicuro.

Mi permetto di dire che certe sofferenze della società derivano da una profonda crisi della Chiesa. Mi pare che siano stati decapitati il primo e sesto comandamento: il primato di Dio e la purezza della nostra vita. Quando crollano quelli, con il tempo vengono giù anche gli altri. Ma tutto parte da un problema di fede. Quando si ha paura ad annunciare verità impopolari, alla radice c’è un calo della nostra fede.


Ecco il testo integrale:



La vocazione di un’ostetrica e le origini dell’opera “Casa Betlemme”.


Buonasera a tutti. Prima di iniziare il mio intervento desidero rivolgere un grazie speciale al cardinale Bassetti che ci ha voluto onorare della sua presenza. Ringrazio l’opera di Don Didimo Mantiero, la sua scuola e la prestigiosa giuria per aver voluto dare anche a me un riconoscimento così importante. E’ stata una sorpresa che mai avrei immaginato. Non amo i riflettori e mi fa una certa impressione essere premiata al fianco di figure giganti*, ma una delle cose che ho imparato nella vita è l’obbedienza agli eventi, cioè accettare serenamente tanto le mitragliate quanto gli apprezzamenti.


Cercherò di ripercorrere qui con voi i passaggi fondamentali del mio cammino e i cardini che mi hanno guidato. L’opera di Casa Betlemme viene da lontano e va nel futuro. Ha le sue radici e ha la sua missione.


Le radici sono fondamentali. Casa Betlemme è nata dalla mia professione ostetrica, perché ho lavorato 40 anni in ospedale. Ho sentito forte la vocazione ostetrica fin da bambina, e l’ho realizzata anche contro il consiglio dei professori che mi riconoscevano un talento nelle belle arti e volevano dissuadermi dallo studio dell’ostetricia.


Tutto è nato però anche dalla mia famiglia che qualcuno definirebbe “tradizionale” ma è stata esemplare aiutandomi ad avviare quest’opera un pò folle. E’ lì che ho respirato la fede a contatto con la saggezza della natura. I genitori contadini mi hanno educato al valore del sacrificio, testimoniandomi la fedeltà del loro amore. Sono stati capaci di volersi bene tutta la vita.


L’emozione che provo nel ricevere stasera il vostro riconoscimento è duplice perché sono venuta a ricevere un gran premio proprio nella terra dove mio padre 100 anni fa ricevette il tormento di tre anni di prigionia dopo la disfatta di Caporetto. Era un contadino toscano analfabeta che sapeva maneggiare bene soltanto la zappa, ma a 18 anni gli misero in braccio un fucile. Deportato nel lager austro ungarico, mentre gli altri si lasciavano morire di stenti, lui riuscì a sopravvivere grazie ad un sogno che lo reggeva in piedi: avere un giorno una famiglia, e una bambina con gli occhi neri. Quella bambina sono io.


Tornato a casa dopo tre anni, c’era la povertà e lui voleva fare il contadino ma da uomo libero. Così emigrò, analfabeta autodidatta, undici anni negli Stati Uniti per riuscire poi a comprarsi due ettari di terra ad Arezzo, da coltivare in libertà. I primi risparmi che si guadagnò in America, li spedì subito per comprare ai suoi genitori un podere. Alla fine della seconda Guerra Mondiale, poiché lui conosceva bene l’inglese e poteva fare da interprete, gli alleati offrirono a questo contadino ricche prospettive di lavoro a Firenze.


Ma lui preferì rimanere insieme alla sua famiglia, che aveva tanto sognato, in quel fazzoletto di campagna toscana. Diceva sempre: «la famiglia al primo posto, non la malattia dei soldi!». In paese lo chiamavano “il filosofo cristiano”. E il professore che lo ebbe in cura durante il calvario della malattia, si rammaricava di non aver potuto conoscere prima un uomo così saggio, che trasmetteva pace.


Sono diventata ostetrica nel 1959 e usavo le mie ferie per viaggiare. Nel mio primo viaggio in Terra Santa, nel 1964 a Betlemme ebbi l’intuizione forte che dette il via all’opera: mentre in Vaticano c’era il Concilio, io dentro quella Grotta compresi che la procreatica sarebbe diventata una questione epocale e drammatica, e che il terzo millennio dovrà tornare a genuflettersi davanti al Creatore. Rientrata al lavoro, trovai in reparto una gestante 24enne, sposata e povera. Aveva un cancro ma non intendeva abortire, nemmeno davanti al consulto dei tre specialisti. Le rimasi accanto, la bambina nacque, era sana e aveva due bellissimi occhi azzurri. Me la portai a casa, fu il mio primo amore. La tenni con me finché quella madre coraggiosa, lentamente, guarì. E oggi con suo marito fa la nonna. Perché Dio è regale, restituisce vita per vita a chi ha messo il rispetto della vita al primo posto.


 


Un “ospedale da campo” sulla procreatica ai tempi del Concilio Vaticano II: opera pionieristica nella pastorale della vita nascente. La prevenzione dell’aborto e i frutti del reparto accoglienza.


Casa Betlemme è nata dalla scelta eroica di quella giovane mamma malata. Sul momento pensai che la cosa sarebbe finita lì, invece Dio aveva un progetto. Quel bambino accolto diventò il primo di una lunga serie. Il Signore, che è un Padre buono, i suoi progetti te li fa capire piano piano: perché sa che altrimenti ti spaventeresti e scapperesti via.


Iniziai a collaborare con il Tribunale per i Minorenni, l’Istituto degli Innocenti a Firenze, il reparto di pediatria, i servizi sociali, le parrocchie, e poi – quando arrivò – con il Movimento per la vita. Lo facevo gratis. Ho preso in affidamento neonati venuti dall’abbandono, dalla violenza, dalle peggiori tragedie delle periferie esistenziali. Alcuni di loro sono rimasti con me per qualche mese, qualcuno per 25 anni.


Negli anni ‘70, con l’arrivo della legge 194, iniziarono a bussare alla mia porta le “ragazze madri”, da ogni parte d’Italia e poi del mondo, donne di ogni religione. Ad un certo punto la mia casa diventò stretta e chiesi a mio padre la mia parte di eredità. Usai quell’ettaro di terra per costruirci, con ingenti sacrifici personali e l’aiuto di qualche volontario, alcune casette dove ospitare le “maternità difficili”. Con un termine oggi di moda potremo definirlo un piccolo “ospedale da campo”: un mini-villaggio della solidarietà, dove ho accolto decine di storie di sofferenza e casi sociali. Storie indicibili di umana catarsi, dove ho visto rifiorire l’impensabile grazie a quella faticosa maternità.


Non ho mai tenuto i conti perché non avevo tempo e sono allergica alla burocrazia. L’unica cifra di cui sono sicura è che nessuna donna è mai tornata da me pentita di aver accolto la vita. Neppure la undicenne incinta di incesto, la prostituta o la donna vittima di violenza, cioè i cosiddetti “casi limite”. L’importante è che la donna si senta amata, non lasciata sola.


Tra il lavoro in ospedale, l’accoglienza e i colloqui con le donne, credo che siano qualche centinaio i bambini tolti dalla pena d’aborto, e altrettante le donne che a Casa Betlemme hanno scoperto la libertà di non abortire. La vita è libertà. A queste donne non ho dato assistenzialismo. Le ho aiutate a recuperare la loro dignità e a tornare autonome in mezzo alla società. La maternità è stata la loro “terapia” adeguata. L’unica. Quelle centinaia di bambini non dovevano esserci e invece oggi sono cittadini adulti che producono, pagano le tasse, hanno una famiglia. Questo frutto ha un valore sociale ed economico che nella nostra epoca di inverno demografico (direi di “inferno” demografico) si definisce come “capitale umano”.


 


Il “balsamo della misericordia”: un’opera di accompagnamento a fianco delle donne ferite dal trauma post-aborto.


In questo ospedale da campo mi sono specializzata nel prendermi cura non soltanto delle maternità più difficili ma anche delle maternità negate. Di quelle donne cioè, che hanno fatto una scelta diversa e sono tornate, magari a distanza di decenni con i capelli imbiancati, a portarmi il loro tormento che riemerge e non passa. Le aiuto usando il balsamo della misericordia e lo sguardo della trascendenza, in un percorso di accompagnamento tra spiritualità e psicologia.


La misericordia di Dio può “atterrare” soltanto là dove trova il pentimento e quindi occorre chiamare il peccato con il suo nome e capire la gravità di quel gesto. Ma poi alzare lo sguardo verso Gesù che è misericordioso, cioè scende con il cuore sopra le nostre miserie, lavandole con il suo sangue. E’ Lui l’unico farmaco capace di guarire un cuore da quella ferita viscerale. Alle donne spiego che la migliore cura di bellezza non passa dall’estetista ma dal confessionale.


Questo tipo di consulenza è particolarmente delicata e da 50 anni la svolgo da sola nella più assoluta discrezione, con pazienza e premura. Donne di ogni livello culturale che arrivano da tutta Italia. Colloqui senza orario, con frutti meravigliosi che hanno un valore immenso a livello personale e familiare. Donne che raggiungono la guarigione e la “resurrezione” ricongiungendosi con il loro figlio abortito che non è finito in un buco nero e non è un “angioletto” ma una creatura innocente, vive nell’eternità e un giorno la sua mamma lo riabbraccerà. In questo servizio ho sviluppato una mia “ricetta” che ho condensato in un testo intitolato Lettera a una donna ferita.


 


Papa Francesco insiste oggi su una “Chiesa in uscita”. Dalla maternità affidataria alla “maternità senza frontiere”, la fondatrice di Casa Betlemme era già testimone di una Chiesa in uscita verso le periferie esistenziali.


Come accennavo prima, continuando a lavorare in ospedale, usavo le mie ferie per viaggiare. Sono uscita dal mio ettaro di terra per servire la vita nascente negli angoli più poveri del mondo e ai bordi delle strade, in un personale “servizio alla maternità senza frontiere”. Una buona dose d’incoscienza e spirito d’avventura mi hanno sostenuto in mezzo alle guerre e ai disastri umanitari: India, Bangladesh, Africa, Messico, l’inferno della Cambogia, l’Irpinia terremotata, la Bosnia dello stupro etnico. Facevo quei viaggi anche per fare confronti, volevo osservare e studiare come veniva trattata la maternità in altre culture e contesti geografici. Anche nei paesi ricchi: Stati Uniti, Inghilterra, Svezia. Andavo quindi nelle missioni ma anche dentro le cliniche universitarie. Nel 1979, quando ancora le frontiere erano chiuse, bussai alla porta dell’ospedale di Pechino e mi confrontai con il primario ginecologo che era una donna che aveva studiato a Parigi. Fu un bel colloquio.


Tra gli anni ’60 e ‘70 pensai che per rispondere meglio a quelle catastrofi umanitarie in cui m’immergevo, nonostante fossi ostetrica mi occorrevano altre quattro cose: conoscere una lingua, diventare ginecologa, possedere un ambulatorio con le ruote (cioè un’ambulanza) e saper pilotare un elicottero. Così presi un diploma da interprete, frequentai per quattro anni la facoltà di medicina a Firenze e acquistai i primi strumenti per attrezzarmi un’ambulanza. Nel frattempo a Roma superai i test per il brevetto da elicotterista. Ad un certo punto però dovetti fare delle scelte perché ogni esercitazione di volo mi portava via mezzo stipendio.


 


L’attenzione ai segni dei tempi: l’impegno culturale e l’apertura del “reparto formazione”. Dagli anni ’80 Casa Betlemme diventa una scuola di vita.


All’inizio degli anni ’80 mi rendevo conto che da noi stava crescendo una povertà culturale su questi temi. Il vescovo di Bangkok voleva che rimanessi e aprissi una casa là. Ma io sentivo che la mia missione era qua nel nostro occidente gaudente e disperato. Vedevo crescere l’emergenza educativa, il degrado morale dentro e fuori le sacrestie, la disinformazione pastorale e i suoi danni. Così decisi di aprire un altro reparto: quello della formazione come chiave della prevenzione. Per prepararmi frequentai a Roma l’Università Cattolica del Sacro Cuore dove incontrai i miei maestri, i giganti della fede e della scienza: Lejeune, la Półtawska, la ginecologa Cappella con i coniugi Billings insieme a Sgreccia e Caffarra. Ma sopra tutti conobbi san Giovanni Paolo II, dai suoi insegnamenti mi sono sentita particolarmente sostenuta.


Le lezioni di queste grandi figure le ho riportate nella mia diocesi avviando un’intensa attività di formazione. Organizzavo corsi e laboratori rivolti a giovani, sposi, educatori, sacerdoti e operatori sanitari. E continue consulenze agli sposi. Casa Betlemme ha allargato così la sua azione diventando una scuola di vita dove si formano formatori e generazioni di famiglie cristiane. Perciò, più che ospedale da campo, io la definisco una piccola Università dell’amore alla persona, con Facoltà della vita. Dove sono passati in molti: vergini e prostitute, analfabeti e professori, piccoli e anziani, artisti e giornalisti, vescovi e sbandati, famiglie ferite. E tante coppie di innamorati.


La nostra scuola si occupa di procreatica, divulgando tre materie: alfabetizzazione bioetica, teologia del corpo (quella di San Giovanni Paolo II) e insegnamento dei metodi naturali per la regolazione della fertilità.


Portiamo avanti ciò che Wojtyla auspicava come un “nuovo femminismo” che parte dalla grandezza della maternità come realtà ontologica, cioè sostanza profonda della natura femminile, non accessorio opzionale. Ogni donna deve sentire di appartenere a qualcuno: ad un marito o a Cristo. E ogni donna deve gioire di sentirsi femmina, sposa e madre: tre dimensioni che devono andare in armonia. Questo vale anche per la suora, per essere capace di tenerezza nella sua gioiosa scelta di oblazione. La donna è visceralmente madre: nella mente, nel cuore e nel corpo. E si realizza pienamente soltanto quando vive la sua maternità: che può essere fisica, adottiva o spirituale.


La gente ha bisogno di riscoprire la sacralità della vita ma anche la sacralità del gesto che la consente. A Casa Betlemme cerchiamo di contrastare sia la disinformazione sia le due derive che s’incontrano a vari livelli: il relativismo morale e l’angelismo. Agli sposi e ai consacrati spiego che Dio non ci ha fatto con le ali ma con i genitali. Spiego che il Creatore, nella sua sapienza, ci ha fatti bene anche dalla cintola in giù. Mentre l’uomo moderno si è illuso di correggere ciò che Dio ha già creato in modo perfetto. Un concetto basilare che cerco di trasmettere è la sacralità della fisiologia femminile, in una visione creaturale. E’ cosa ben diversa da chi vorrebbe divinizzare la natura come “madre terra”. Noi vogliamo portare la gente a ritrovare meraviglia e rispetto per le leggi che il Creatore ha impresso nella natura, fatte di armonia e bellezza, per amore.


Oggi finalmente anche il mondo medico e quello femminista stanno iniziando a rivalutare la sapienza del Creatore. Io lo definisco “il cerchio della vita”: prima hanno capito che dobbiamo de-medicalizzare la gravidanza. Cioè che la gestazione non è una malattia. Poi hanno capito che dobbiamo de-medicalizzare il parto, con meno interventismo. Poi hanno capito quanto è importante l’allattamento naturale, al seno. L’ultima tappa, che chiude il cerchio, sarà la de-medicalizzazione nella gestione della fertilità. C’è chi ancora si ostina a fare resistenza, per una serie di motivi. Molti pastori e teologi purtroppo insistono sulla contraccezione, lo abbiamo visto negli ultimi sinodi. Tocca a noi laici fargli capire che sono fuori strada. Il futuro è dei metodi naturali. Lo ripeto: il futuro è dei metodi naturali. Ne va della qualità dell’amore e della qualità della generazione, cioè della famiglia. La contraccezione è una proposta vecchia. E anche la provetta non ha futuro. Perché la natura non tollera a lungo la violenza, neppure sulle ovaie.


Alla nostra scuola aiutiamo le persone a superare pregiudizi ed equivoci, come quello che confonde i metodi naturali per una tecnica cattolica o contraccezione ecologica per non fare figli. Si tratta invece di uno stile di vita fatto di conoscenza di sé ed esercizio della virtù per amore, nella reciproca fedeltà, in una ragionevole apertura alla vita. Superando la disinformazione, la gente si rende conto che il messaggio dell’Humanae vitae – se si vuole – funziona ad ogni latitudine, anche nelle periferie esistenziali. E’ una conoscenza di sé (fertility awareness) che fa bene alla persona prima che alla coppia: l’ho portata anche dentro conventi e monasteri e potrei stare ore a raccontarvi i frutti stupendi tra le donne consacrate (anche suore cinesi della Chiesa sotterranea).


Vorrei sottolineare che tutto questo impegno di scienza e cultura, ha un profondo valore sociale: aiutare la Chiesa a trasmettere l’Humanae vitae significa diffondere lo splendore della verità e farlo diventare prassi tra la gente. E’ un messaggio incarnato da cui passa la soddisfazione sessuale e la felicità di tante famiglie, che si aprono alla vita e restano unite. Cioè significa costruire famiglie più solide nell’epoca dell’amore liquido.


 


I frutti dell’impegno culturale: una fraternità di laici missionari alle sorgenti della vita umana.


Ho trovato una certa sintonia tra l’opera di don Didimo e Casa Betlemme. Anche io, nel mio piccolo, ho aperto una scuola di cultura cattolica. Ero una giovane ostetrica dell’Azione Cattolica, ma sentivo che occorreva lavorare culturalmente di più sul campo della procreatica, trasmettendo ai giovani sapere e valori. Me ne resi conto all’ospedale di Londra in un periodo di studio, vedendo giovani donne italiane che volavano là il fine settimana per abortire, quando da noi ancora non c’era la legge 194. Tornai turbata, ne parlai in Azione Cattolica ma i tempi non erano maturi e così dovetti incamminarmi da sola.


E’ stato molto faticoso ma ho aperto una strada. Fin da piccola sono stata molto determinata e ogni tanto mio padre mi diceva: «tu farai il battistrada!». Io non capivo e lui mi rispondeva: «lo capirai da grande…». Ho insegnato l’Humanae vitae prima nelle vallate della mia diocesi, poi sempre più in giro per l’Italia. Un impegno sfiancante e capillare, per amore della Chiesa. Corsi di formazione, serate di sensibilizzazione, laboratori e continue consulenze: prima da sola per anni, poi affiancata da alcuni collaboratori che si sono entusiasmati di questa opera.


I collaboratori aumentano e la fraternità sta crescendo: siamo laici, sposati e non, che vivono del proprio lavoro immersi nel mondo e hanno deciso di spendere seriamente (e gratuitamente) la propria vita nell’opera di Casa Betlemme, come volontari qualificati. Sono professionisti di ogni ambito che arrivano, chiedono di prepararsi qui, e ogni tanto qualcuno decide di fermarsi. Oppure aprono un gruppo locale nella loro realtà. Abbiamo una Regola di vita che dice Ora, stude et labora.


Ogni tanto mi chiedo cosa spinga tante giovani famiglie a buttarsi su questa opera, cosa le attrae. Alcune di loro stasera sono qui con me. Se lo chiedete a loro, vi diranno che sono stati affascinati dall’armonia tra scienza e fede, dal coniugare azione e contemplazione, dall’impegno sociale con quello morale, dal tenere unite la carità con la verità. Hanno trovato a Casa Betlemme una morale incarnata che diventa balsamo per i cuori. Io lo definisco “carisma dell’armonia”, che mi pare gradito sia dai marciapiedi che dalle accademie. E, visti i frutti sempre più abbondanti, mi pare sia una risposta adatta ai tempi che viviamo.


Nel grande giardino della Chiesa, dove fioriscono lungo i secoli tante opere preziose, evidentemente c’era bisogno anche di questa piccola opera: come una risposta precisa ad un bisogno del nostro tempo, un bisogno che mi pare purtroppo drammatico nel cattolicesimo di oggi, oltre che nella società.


Esercitando obbedienza e tanta pazienza tipicamente femminile, ho dovuto attendere 40 anni per avere un riconoscimento ufficiale dalla Chiesa: un tempo biblico che ci ha consentito di arrivare maturi all’appuntamento della storia. Fu il nostro vescovo Bassetti a riconoscere questo carisma. Dopo aver visto i frutti e conosciuto da vicino la fraternità, nel Natale 2005 volle approvarci come opera della Chiesa, cioè come associazione pubblica di fedeli. Quando ne parlò a Benedetto XVI, il papa gli disse compiaciuto: «queste sono persone che vivono e servono la Veritatis splendor». Ho quindi un’immensa riconoscenza verso il nostro caro cardinale Bassetti, che è diventato come il padre di questa opera, facendola decollare.


Portiamo avanti una missionarietà laica, moderna e specifica. Il mio obiettivo, in definitiva, non è preparare intellettuali della bioetica né spiritualisti disincarnati ma apostoli intelligenti, capaci con la loro vita di rendere testimonianza in mezzo alla società. E di compiere una delle opere di misericordia spirituale oggi più urgenti: cioè “istruire gli ignoranti” sul Vangelo della vita.


Un piccolo esempio del nostro apostolato itinerante dove, tra scienza e fede, usiamo anche il linguaggio artistico. Il sinodo dei vescovi sulla famiglia nel 2015 chiedeva di trovare linguaggi nuovi per trasmettere certi insegnamenti poco compresi dalla gente (Instrumentum laboris n. 78). I miei collaboratori hanno raccolto la sfida realizzando una specie di spettacolo (un recital intitolato “Dal cielo alla terra”) dove si parla della bellezza dell’amore coniugale secondo il piano di Dio, usando canzone e poesia, riflessioni tra danza e colori. Parlare dell’Humanae vitae così in modo spettacolare è un esperimento che sta funzionando meravigliosamente: in giro per l’Italia abbiamo sensibilizzato già 4000 persone e domani sera saremo a Verona per la 32esima tappa. Le famiglie di Casa Betlemme ci stanno mettendo preparazione e talenti, testimonianza personale e tanto sacrificio, autofinanziandosi. Voglio sperare che prima o poi anche qualche vescovo si affacci a vedere questo bel progetto nato dal basso, dal popolo di Dio.


 


Altra caratteristica dell’opera Casa Betlemme: la piccolezza e la povertà, in un voluto nascondimento.


Le opere di Dio le conduce Lui a modo suo. E quando lo ha ritenuto opportuno, ha portato alla luce anche questa opera. Come vi dicevo, è stato il cardinale Bassetti a portare alla luce questa opera. Io l’ho consegnata alla Chiesa dopo averla portata in gestazione per 40 anni nel nascondimento e nel silenzio, lontano dai riflettori. Ho semplicemente seguito le leggi della natura: ogni creatura, per nascere bene, va custodita e protetta nella gestazione.


Altra caratteristica di questo piccolo ospedale da campo è la povertà, cioè la follia di uno stile francescano. Di solito gli ospedali vivono di convenzioni e finanziamenti pubblici. Io invece ho voluto affidarmi a forti convinzioni e alla totale gratuità. Perché ho capito che si sta in piedi soltanto se si resta in ginocchio. Se il latore non è un povero, “il Mandante” non è il protagonista. La povertà è parecchio faticosa, ti fa esercitare la fede ma in cambio ti dà una libertà che è letizia (libertà anche di parola). C’è stato un periodo in cui avevo più debiti che capelli. Quando non hai i soldi nemmeno per comprarti le calze, ti metti i pantaloni. E vai!


Quando ho aperto Casa Betlemme erano gli anni ’60 e il mio vescovo monsignor Cioli, di ritorno dal Concilio Vaticano II, mi ordinò che finché fossi stata viva avrei dovuto avere in casa con me l’Eucarestia. Così la stalla con la mangiatoia, dove i miei genitori tenevano gli animali, diventò una cappella che è il cuore che sorregge tutta l’opera: un cenacolo di preghiera e Adorazione. Con una spiritualità centrata sul mistero dell’Incarnazione e sull’esaltazione della maternità di Maria Corredentrice.


Non ho mai voluto l’appoggio di politici e potenti, ho preferito legarmi a tre santi: Francesco d’Assisi, Caterina da Siena e Teresa di Lisieux, nell’armonia di tre spiritualità in cui mi riconosco. Ho scelto loro come patroni, insieme alla Madonna che è la perfetta regista della storia, di ogni storia e anche della storia di Casa Betlemme.


 


Riflessioni conclusive. Un paio di diagnosi e di “ricette”, pensando al futuro.


Ho cercato di raccontarvi il mio cammino e mi scuso se vi ho rubato qualche minuto. Vi ho spiegato alcune convinzioni profonde che mi sono fatta ascoltando la vita concreta di migliaia di donne e di coppie, camminando accanto a loro. L’ambulatorio ostetrico è come un confessionale speciale, più frequentato di quello dei sacerdoti. E ad una certa età le cose le vedi con più sintesi e chiarezza, come dall’alto di un oblò.


La mia esperienza si è forgiata nella solitudine, nella tribolazione e nel fuoco, anche il fuoco amico. Perché il “Vangelo della vita”, come tutto il Vangelo, disturba le coscienze. Quello su cui ho consumato la mia esistenza e tutti i miei beni è un campo spinoso, il capitolo più scomodo di tutto il Magistero. San Giovanni Paolo II diceva da profeta che su questi temi scottanti siamo chiamati all’impopolarità, ad essere accusati di durezza, incomprensione e altro ancora: oggi si dice “rigidità”. Ho imparato che la testimonianza è dialogo ma anche combattimento, bisogna saper coniugare dolcezza e fermezza. Ai miei collaboratori ripeto sempre che devono prepararsi al martirio delle idee e al martirio del cuore. Cioè per rimanere fedeli alla verità tutta intera, occorre il coraggio di rinunciare alla carriera e all’indice di gradimento, accettando di perdere per strada certe amicizie, a volte anche le più care. Dolorosamente, ma in letizia francescana.


In conclusione, se dovessi riassumere il nostro compito nella società, direi così: davanti alla diffusa malattia delle “3S” cioè soldi, sesso e successo, cerchiamo di rispondere con la terapia delle “3P”, cioè povertà, purezza, piccolezza. Con dosi sempre abbondanti di preghiera. E’ una ricetta che porta frutto e dà futuro. Ve lo assicuro.


Mi permetto di dire che certe sofferenze della società derivano da una profonda crisi della Chiesa. Mi pare che siano stati decapitati il primo e sesto comandamento: il primato di Dio e la purezza della nostra vita. Quando crollano quelli, con il tempo vengono giù anche gli altri. Ma tutto parte da un problema di fede. Quando si ha paura ad annunciare verità impopolari, alla radice c’è un calo della nostra fede.


La crisi della fede viaggia insieme alla crisi della castità: parola desueta che disturba molti e ci interpella tutti. E’ la parola chiave, parola profetica in questa società decadente fatta di melma e di sangue. Castità è una virtù non banale ma basilare per ogni vocazione: per la fedeltà e la felicità degli sposi, per la salute dei nostri giovani, per l’equilibrio di una vita consacrata, per il bene di una persona con tendenza omosessuale. E’ la mancanza di castità che porta alla infedeltà e allo sfascio delle famiglie. Ed è la mancanza di castità che ha portato certi sacerdoti a sfregiare il volto della Chiesa. Qualche anno fa al cardinale Caffarra facevo notare che anche tutto il dibattito infuocato degli ultimi Sinodi, se ci pensiamo bene, si ricapitola in fondo sulla grande questione della castità. E’ sempre quello il nodo che viene al pettine: dal vivere “come fratello e sorella” dei divorziati alla questione dell’Humanae vitae, da quella dei giovani a quella del celibato sacerdotale.


Con i miei collaboratori insisto nella fedeltà al “BTD”: Bibbia, Tradizione e Dottrina. Anche noi a Casa Betlemme preghiamo continuamente per sostenere i nostri pastori, affinché sappiano resistere alle pressioni del mondo e ci confermino nella fede.


 


Documentazione video:


Intervista a Flora prima della premiazione (TVA Bassano notizie del 7/11/2019):



 


Seconda intervista a Flora prima della premiazione: “Alle donne dico: non rinunciate alla gioia di un figlio” (Reteveneta, Tg Bassano del 7/11/2019):



 


Video integrale della cerimonia di conferimento del 37º Premio Internazionale Cultura Cattolica (Bassano del Grappa 8/11/2019):



 


Servizio tv sull’intervento fatto dal card. Bassetti nel premio a Flora (TVA Bassano notizie del 09/11/2019):



 


* A Flora Gualdani la 37esima edizione del Premio Internazionale Medaglia d’Oro al merito della Cultura Cattolica.


La Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, nata nel solco dello spirito apostolico di don Didimo Mantiero, da 37 anni assegna un premio internazionale per indicare a credenti e meno credenti alcune personalità eminenti che si sono impegnate per la promozione della cultura cattolica. La autorevole giuria del premio, presieduta dal prof. Lorenzo Ornaghi, è composta da: dott. Cesare Cavalleri, prof. Sergio Belardinelli, prof. Francesco D’Agostino, dott. Stefano Fontana, prof. Onorato Grassi, dott. Vittorio Messori, avv. Gabriele Alessio, prof. Gianfranco Morra.


Il Premio è patrocinato dalla Regione Veneto, dalla Provincia di Vicenza, dal Comune di Bassano del Grappa ed è organizzato con il sostegno dell’Osservatorio Internazionale cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa.


Nell’albo dei premiati figurano personalità di primo piano come i cardinali Ratzinger, Biffi, Caffarra, Ruini e Scola, a fianco di Mons. Luigi Giussani e Mons. Luigi Negri, l’Abbé René Laurentin, Padre Cornelio Fabro e Don Divo Barsotti, intellettuali e scienziati come Augusto Del Noce, Vittorio Messori e Adriano Bompiani, uomini del mondo artistico come i Maestri Riccardo Muti e Krzysztof Zanussi, Ettore Bernabei.


Quest’anno la giuria ha deciso di assegnare il prestigioso riconoscimento alla fondatrice di Casa Betlemme. Nella motivazione si legge che «Flora Gualdani ha testimoniato esemplarmente la fede, ponendo la propria professione di ostetrica a servizio della vita, della vita intera di ogni persona dal concepimento alla morte. Nell’instancabile, quotidiano lavoro in reparti ospedalieri, ambulatori e aule, ha sempre posto alla base del suo impegno la preghiera e la fedeltà al magistero della Chiesa. Ha applicato gli insegnamenti sull’amore umano di San Giovanni Paolo II e, con lo studio, ha approfondito tematiche sia mediche sia teologiche. Per lei, “fisiologia del corpo e mistica sono un’armonia”. Conseguito il diploma di ostetricia a Firenze, compie nel 1964 il suo primo viaggio in Terrasanta. Dentro la grotta della Natività di Betlemme comprende quale sia la propria vocazione: difendere la vita nascente. Spostandosi nelle terre martoriate dalla guerra o da calamità naturali (Bangladesh, India, Cambogia, Bosnia), lì dove la maternità è più a rischio, con coraggio e senza preclusioni di credo o cultura aiuta a nascere circa cinquemila bambini. Dedica successivamente il suo impegno maggiore per l’Occidente “gaudente e disperato”: con grande attenzione ai segni dei tempi, prevede le conseguenze della legge sull’aborto e della diffusione dei contraccettivi, anche in termini di degrado morale e povertà culturale. Si aggiorna nella sede di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sui temi fondamentali di bioetica e procreazione responsabile, sotto la guida, in particolare, di Jerome Lejeune, Anna Cappella, dei coniugi Billings, dei cardinali Caffarra e Sgreccia. Ad Arezzo, nel 1964, fonda “Casa Betlemme”, associazione riconosciuta ecclesialmente nel 2005 dal vescovo Gualtiero Bassetti. All’accoglienza di gestanti in difficoltà affianca un’intensa attività educativa e culturale, avviata prima in diocesi e poi proposta in tutta Italia, sui temi dell’alfabetizzazione bioetica e della teologia del corpo. Flora Gualdani, che è stata capace di farsi prossima ai traumi del post-aborto evidenziandone la drammatica, attuale realtà, è dunque la testimone laica di una vita autenticamente vissuta “secondo la verità nella carità” (Ef 4, 15). La Giuria del Premio Internazionale per la Cultura Cattolica è particolarmente onorata e lieta di premiare Flora Gualdani, poiché nel suo servizio all’umanità ha saputo fondere in unità vitale fede e ragione, cultura e scienza, carità cristiana e apostolato, contribuendo all’effettiva promozione della libertà dell’uomo e della donna, conformemente all’impronta data alla natura dal suo Creatore».


La cerimonia si è svolta venerdì 8 novembre a Bassano del Grappa presso il Teatro Remondini gremito di persone di ogni età, alla presenza di autorità del mondo ecclesiale, accademico e politico tra cui il Vescovo di Vicenza mons. Beniamino Pizziol, il Sindaco di Bassano Elena Pavan, gli Assessori regionali Elena Donazzan e Manuela Lanzarin. Flora, prima di ricevere il premio dalle mani del Presidente della CEI, card. Gualtiero Bassetti, ha ripercorso la storia della sua esperienza e ha sintetizzato il suo pensiero rispondendo alle domande del giornalista del Corriere della Sera Paolo Foschini. Un colloquio interrotto più volte dagli applausi del pubblico, affascinato dall’ostetrica aretina.


Pubblichiamo qui il testo integrale dell’intervento preparato da Flora e articolato in otto passaggi.


Per approfondimenti:


http://dondidimo.it/scuoladiculturacattolica


 


 

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Published on November 13, 2019 06:01

November 12, 2019

Costanza Miriano presenta “Il mistero della donna”

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di Costanza Miriano


Il femminismo è iniziato come una giusta richiesta delle donne, che volevano essere finalmente viste, ed essere libere, ma si è trasformato in una grande trappola per noi donne, perché ha preteso di trasformarci in uomini, inducendoci ad adottare stili di vita e orari e tempi maschili, finendo per aumentare la sofferenza che pretendeva di alleviare. E, ancora più a fondo, ha dimenticato che la donna si realizza dandosi, si realizza sempre in una relazione, in un modo più totalizzante rispetto all’uomo. La relazione è quello che ci definisce, e il punto centrale della nostra vita è proprio decidere “a chi voglio piacere, io?”.



A Dio, al mio uomo, a tutti? Se una donna si riscopre figlia, sposa, madre – non necessariamente in senso biologico – se mette in moto una vita spirituale seria, se entra veramente nella sola relazione che dà pienezza e compimento, può offrire il suo cuore, così intimo alla sofferenza, per la salvezza di tutti coloro che le sono affidati. Di questo parla Il mistero della donna, e di questo e molto altro (per esempio di quanto sia centrale la questione, e del perché la battaglia intorno al ruolo della donna sia così accesa) parleremo a Vicenza giovedì alle 20.30. Ingresso e contestazione liberi.

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Published on November 12, 2019 15:05

November 7, 2019

Voglio solo quello che vuoi Tu

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di Costanza Miriano


Oggi abbiamo incontrato padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano in Centrafrica. Troppo brevemente, purtroppo, perché ci sarebbe da ascoltare i suoi racconti per giorni interi: intanto in qualche modo si può supplire leggendo il suo blog e anche il suo stupendo libro, che si chiama Coraggio. Il coraggio è una cosa che lui ha a palate, e lo usa esponendo la sua vita al rischio ogni giorno, come quando si oppone a chi sfrutta la terra che lui è andato a evangelizzare. E’ stato anche arrestato per questo, e rilasciato letteralmente a furor di popolo, perché mentre l’auto lo portava in caserma, spontaneamente e naturalmente tutta la popolazione ha circondato l’edificio e urlando ha preteso che un uomo così prezioso per tutti venisse restituito a quella che è diventata la sua gente.



Di fronte a un uomo così, a un segno così potente di contraddizione, mi salta agli occhi ancora più evidente la mia, di contraddizione: e cioè le tensione tra la radicalità richiesta dal vangelo e la realtà di vivere da questa parte del mondo. Fino a che si è genitori, responsabili (o potenziali, cioè aperti alla vita) di altre persone, bisogna vivere in una sorta di compromesso, di tensione, che è anche la nostra croce, o almeno ne è parte. Insomma non puoi dare tutto quello che hai ai poveri, ammesso che tu ci riesca, perché quello che hai non è tuo. Vivere nella “mediocrità”, in un certo senso, nella non essenzialità, nella tensione tra ciò che è importante e ciò che è buono e ciò che non è necessario ma è comunque possibile, nella libertà ma nella radicalità, in quello che io penso sempre come l’equilibrio della bicicletta. Un equilibrio mai acquisito e sempre trovato e riperso e ritrovato. Insomma un discernimento continuo. E mentre tentavo di mettere insieme abbozzi di un ragionamento con padre Aurelio mi risuonavano nelle orecchie le parole di questa omelia di padre Maurizio Botta, del 31 ottobre scorso. Noi “dobbiamo interessarci alla santità qui, in questo mondo occidentale, moderno, in città, oggi” – diceva. E anche noi abbiamo la nostra persecuzione, che è tra le altre cose vivere continuamente bombardati di stimoli e sollecitazioni e condizionamenti, vivere in questa persecuzione. Cosa significa la persecuzione per noi cristiani che viviamo nel mondo occidentale, moderno, in città? E quale può essere la risposta se non dire al Signore “voglio SOLO quello che vuoi tu a scatola chiusa”?


Ogni giorno sul blog dei cinque passi c’è l’audio dell’omelia del Vangelo del giorno, e anche un breve testo riassuntivo. Potrebbe essere un modo per rimanere in comunione con tutti i confratelli wi-fi, cominciare la giornata con dieci minuti di riflessione sulla Parola, che è poi il compito speciale di quest’anno per il monastero e anche per la Chiesa, dopo l’istituzione della giornata della Parola di Dio a gennaio (ma noi siamo avanti e l’abbiamo fatta a ottobre).


 

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Published on November 07, 2019 15:27

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Costanza Miriano
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