Giovanni De Matteo's Blog: Holonomikon, page 22
February 19, 2019
Fumetti e fantascienza – 1. Un’introduzione
The Shadow in una illustrazione di Francesco Francavilla.
Tra gli anni ’20 e gli anni ’30 del Novecento, in piena Depressione, negli Stati Uniti esplode un settore destinato a sconvolgere le dinamiche dell’intrattenimento di massa: il fumetto. Per una nazione avviata a diventare grande e per questo bisognosa di miti come gli USA dell’epoca, il fumetto rappresenta un serbatoio inesauribile, in cui la creatività magmatica di autori e artisti si può sbizzarrire per creare i miti dell’America di domani. Sono gli anni di Buck Rogers (1928), Dick Tracy (1931), Flash Gordon (1934), che sviluppano trame fantascientifiche o poliziesche in un dialogo continuativo e proficuo con le riviste pulp dell’epoca.
Riviste di fumetti e narrativa vendute per 10 centesimi (e per questo i romanzi a editi anche a puntate in queste pubblicazioni venivano chiamati dime novels) raggiungono un pubblico sempre più ampio, soprattutto tra i più giovani: tra gli studenti, ma poi anche i militari impegnati nella Seconda Guerra Mondiale, diventano le pubblicazioni più vendute. Qui fanno la loro comparsa eroi come The Shadow o The Spider. Sono spesso riviste scritte e disegnate da autori e artisti giovanissimi, non di rado figli di immigrati o immigrati loro stessi (ebrei soprattutto, ma anche italiani, slavi, polacchi).
Una giovane coppia di artisti ebrei, Jerry Siegel e Joe Shuster, appassionati di fantascienza, nel 1934 ha un’idea con [image error]tutte le carte in regola per rivoluzionare il settore. E come tutte le grandi idee, viene rigettata da tutti gli editori a cui viene proposta, fino al 1938, quando il personaggio viene accettato dalla neonata rivista Action Comics che nel primo numero ospiterà la prima avventura di questo nuovo supereroe: Superman. Superman incarna la quintessenza del supereroe, di cui andrà a rimpiazzare tutti i modelli preesistenti, sostituendoli con una nuova idea: quella dell’eroe mascherato che non si limita più a vivere rutilanti avventure, ma si batte per un superiore ideale di giustizia. Non è un caso se riassume nella propria figura le caratteristiche di due personaggi mitologici tratti dalla tradizione classica e cristiana come Ercole e Sansone e al contempo presenta richiami alla tradizione ebraica, come l’arcangelo Metratron o il golem, il gigante di argilla animato dalla conoscenza segreta della Cabala per difendere il popolo ebraico dai suoi persecutori; né è un caso, viste le origini degli autori, che Superman sia sostanzialmente un immigrato clandestino, fuggito dal suo pianeta natale e disposto al sacrificio pur di farsi accettare nella sua nuova terra.
Proprio Superman segna l’entrata del fumetto nella sua Golden Age, ispirando un esercito di supereroi che va da Batman a Wonder Woman, dalle Lanterne Verdi a Flash (per DC Comics e il marchio associato All-American Comics), come pure i personaggi del marchio rivale Timely Comics (poi Marvel), la Torcia Umana e Capitan America. Durante la guerra tutti questi eroi s’impegnano in un modo o nell’altro, in storie ora più ispirate ora più banali, nella sconfitta del Male incarnato dal Nazismo. E i fumetti invadono il medium di massa per eccellenza dell’epoca: la radio. Celebri e popolarissime diventano le trasposizioni radiofoniche delle avventure dei supereroi, che impongono anche un cambio di registro e – date le esigenze comunicative del mezzo – l’introduzione di personaggi di supporto: è così che nasce Robin, per permettere a un personaggio come Batman, per lo più silenzioso e riflessivo (ovvero didascalico) nelle sue avventure a strisce, di vivere nel nuovo medium, permettendogli così di parlare con qualcuno.
Dopo la guerra il ruolo dei supereroi subisce un progressivo ridimensionamento: gli editori cominciano a chiedere sempre più storie western o romantiche, al più di fantascienza, e i supereroi entrano in una fase di popolarità calante. Come se non bastasse, sulla spinta del libro Seduction of the Innocent dello psichiatra Fredric Wertham, nel 1954 viene istituita la famigerata Comics Code Authority, un organo di censura a tutti gli effetti nato con l’intento di purificare il contenuto dei fumetti da messaggi ritenuti lesivi per la morale: niente più donne poco vestite, niente più violenza, stop agli attacchi all’autorità; e basta con tabacco, alcolici, coltelli, esplosivi o pin-up. Un attentato al concetto stesso di divertimento, ma anche un forte ostacolo allo sviluppo di storie complesse, a tutto vantaggio di storielle tanto innocue quanto insulse.
February 18, 2019
Segnalazioni olonomiche 2018
Si è aperta ieri la prima fase delle votazioni al Premio Italia 2019. Se siete tra gli aventi diritto, fino al 13 marzo potrete segnalare i lavori e gli operatori attivi nel campo della fantascienza e del fantastico (in lingua italiana) che ritenete meritevoli di concorrere per un riconoscimento in una delle categorie previste dal regolamento.
Per quanto mi riguarda, nel 2018 sono usciti il romanzo Karma City Blues, la riedizione di YouWorld scritto a quattro mani con Lanfranco Fabriani (che in effetti è una cosa abbastanza diversa dalla precedente edizione in appendice a Urania da poter essere candidato nuovamente, almeno credo) e il racconto Cryptomnesiac in Next-Stream. Visioni di realtà contigue (per le categorie rispettivamente dedicate al racconto su pubblicazione professionale e all’antologia).
Tra gli articoli su pubblicazione professionale, segnalo Harlan Ellison, o l’immaginazione al potere, apparso a ridosso della scomparsa di questo gigante su Quaderni d’Altri Tempi (e QdAT è anche candidabile come rivista professionale).
Tra i progetti a cui ho partecipato, in aggiunta a quelli già menzionati sopra, segnalo inoltre Filosofia della fantascienza a cura di Andrea Tortoreto tra i saggi in volume, sempre a cura di Andrea Iperuranio per le antologie e infine Lost by Univers di Linda De Santi, che abbiamo pubblicato su Next-Station.org (racconto su pubblicazione non professionale).
Benché tecnicamente candidabile, Holonomikon non ha svolto un’attività continuativa durante l’anno e quindi non ve lo segnalo. Vi segnalo però due cose apparse su queste pagine: il racconto Civiltà di prova sempre per la categoria racconto su pubblicazione non professionale e il post Angeli killer per le strade di San Francisco per la categoria articolo su pubblicazione non professionale.
Nei prossimi giorni cercherò di tenere aggiornato questo post con eventuali altre segnalazioni. Intanto invito tutti gli interessati a segnalare nello spazio dei commenti i vostri lavori votabili. Ogni indicazione è benvenuta.
February 17, 2019
L’impatto di Blade Runner sull’immaginario del futuro
Nel libro di cui parlavamo pochi giorni fa, Roy Menarini sottolinea le tensioni tra i produttori di Blade Runner e Philip K. Dick, a cui a un certo punto fu chiesto di scrivere una novelization più aderente allo sviluppo narrativo della[image error] pellicola diretta da Ridley Scott. Dick, che dei suoi lavori aveva una considerazione una o due tacche più alta della media degli scrittori, rifiutò la proposta e alla fine fu trovato un accordo per una riedizione di Do Androids Dream of Electric Sheep? che, come racconta Paul M. Sammon nella sua Future Noir (da noi Blade Runner. La storia di un mito), richiamasse il titolo del film e apportasse minimi cambiamenti al testo originale (principalmente date e toponimi: il libro di Dick, non dimentichiamolo, si svolgeva a San Francisco nel 1992). Tuttavia, per così dire, le divergenze di vedute tra l’autore e la produzione potrebbero essere state largamente esagerate.
Nel 2012, infatti, sul sito ufficiale dell’autore californiano curato dai suoi eredi, purtroppo non più in linea, venne resa pubblica una lettera inedita indirizzata a Jeff Walker della Ladd Company, una delle società che parteciparono alla produzione di Blade Runner. La lettera, redatta in un tono a dir poco entusiasta, si segnala come documento incontestabile del livello di gradimento che la trasposizione di Scott riscosse da parte di Dick, oltre che del suo punto di vista sulla fantascienza di quegli anni.
Suscita una certa emozione leggerne i passaggi, perché testimonia anche il livello di coinvolgimento a cui giunse Dick semplicemente guardando uno spezzone di Blade Runner, trasmesso durante un servizio che ospitava anche un’intervista a Harrison Ford all’interno di un programma sul cinema mandato in onda dall’emittente locale Channel 7. L’autore rimase sinceramente impressionato dall’estetica di Scott, apprezzò il lavoro dei diversi artisti e tecnici coinvolti nell’adattamento cinematografico di Do Androids Dream of Electric Sheep?, spingendosi infine a profetizzare, sull’onda dell’entusiasmo, una rinascita della fantascienza che negli ultimi anni – secondo il suo giudizio, forse un po’ troppo severo – era “scivolata in una morte monotona”, diventando “fragile, derivativa e stantia”.
Il documento fece la sua apparizione nell’anno del trentesimo anniversario dell’uscita nelle sale del capolavoro imprevedibilmente destinato ad attestarsi come cult movie, oltre che della prematura scomparsa di Dick. Ben prima della rivalutazione critica che avrebbe riabilitato il film decretandone un successo duraturo e una fama planetaria, l’autore seppe cogliere le sfumature di un’opera complessa e, grazie alla sua spiccata sensibilità, riuscì istintivamente anche ad anticipare l’impatto che sia dal punto del linguaggio che dei contenuti il film avrebbe esercitato negli anni a seguire, sulla letteratura di genere, sul cinema tout-court ma anche sulle forme d’arte più varie (“potreste aver creato una nuova forma, unica nel suo genere, di espressione artistica, qualcosa di mai visto prima”, scrive nella sua lettera a Walker, e qui echeggiano le riflessioni di Menarini sul rapporto della pellicola con il ruolo dell’arte).
Dopo le esperienze del cyberpunk e il successo delle declinazioni di temi intrinsecamente fantascientifici secondo gli stilemi della letteratura noir e hard-boiled, è difficile smentire le sue previsioni. E gli echi che se ne riescono a cogliere tuttora nelle opere più disparate e in particolare in capolavori della letteratura di SF (come la trilogia di Kovacs di Richard K. Morgan), del cinema (si pensi a Strange Days di Kathryn Bigelow, a Gattaca di Andrew Niccol, al sequel Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve) e della televisione (da Battlestar Galactica a Westworld), dell’animazione (Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, da un manga di Masamune Shirow), dei videogiochi (Deus Ex di Warren Spector, prodotto dalla Eidos Interactive, senza dimenticare l’insuperato videogioco della Westwood Studios), stanno a dimostrare che la sua influenza è ben lungi dall’estinguersi.
Per consentire un accesso diretto ai contenuti della lettera di Dick, pubblico qui di seguito una mia traduzione integrale.
Caro Jeff,
Stasera mi sono imbattuto su Channel 7 nel programma Hooray For Hollywood con il pezzo su Blade Runner. (Be’, a essere sinceri, non ci sono capitato per caso; mi avevano avvertito che si sarebbe parlato di Blade Runner, perché non me lo perdessi.) Jeff, dopo averlo visto – e soprattutto dopo aver sentito Harrison Ford parlare del film – sono giunto alla conclusione che non si tratta veramente di fantascienza; non è fantastico; è esattamente quello che Harrison ha detto: futurismo. L’impatto di Blade Runner sarà semplicemente travolgente, sia sul pubblico che sugli autori… e, credo, sull’intero settore della fantascienza. Da quando ho iniziato a scrivere e vendere fantascienza trent’anni fa, questa è stata l’unica questione di qualche rilevanza per me. In tutta onestà, devo dire che negli ultimi anni il nostro campo è andato gradualmente e inesorabilmente deteriorandosi. Niente di ciò che abbiamo fatto finora, singolarmente o collettivamente, può rivaleggiare con Blade Runner. Non è escapismo; è iperrealismo, così crudo, particolareggiato, autentico e dannatamente convincente che dopo aver visto la sequenza non ho potuto fare a meno di trovare in confronto sbiadita la mia “realtà” quotidiana. Quello che voglio dire è che tutti voi insieme potreste aver creato una nuova forma, unica nel suo genere, di espressione artistica, qualcosa di mai visto prima. E penso che Blade Runner sia destinato a rivoluzionare le nostre nozioni su cosa sia e “possa” rappresentare la fantascienza.
Fammi ricapitolare così. La fantascienza è lentamente ma ineluttabilmente scivolata in una morte monotona: è diventata fragile, derivativa, stantia. All’improvviso arrivate voi, alcuni dei più grandi talenti in attività, e abbiamo infine un ritorno alla vita, un nuovo inizio. Per quanto riguarda il mio ruolo nel progetto di Blade Runner, posso solo dire che non pensavo che un mio lavoro o una mia manciata di idee potessero essere sviluppate fino a dimensioni tanto sbalorditive. La mia vita e il mio lavoro creativo sono giustificati e compiuti da Blade Runner. Grazie… e sarà un grande successo. Si dimostrerà imbattibile.
Cordialmente,
Philip K. Dick
[Questo articolo riprende e rielabora un mio post apparso su HyperNext il 17 maggio 2012.]
L’enigma di Ada Lovelace
Arte e intelligenza artificiale rappresentano un connubio affascinante al quale io stesso non ho saputo resistere,[image error] mettendolo al centro di uno dei miei ultimi racconti. In Maja, che potete leggere su Propulsioni d’improbabilità (curato da Giorgio Majer Gatti per Zona 42), l’attenzione si focalizza sulla musica e sull’ipotesi che il talento innato e le basi della creatività possano rappresentare un fertile terreno d’incontro e di dialogo tra intelligenze «naturali» e artificiali, sviluppando esiti che al momento possiamo solo vagamente immaginare.
Dopotutto, è da alcuni anni che il celebre test di Turing, da sempre portato a esempio pratico come campo di prova per valutare un costrutto (aspirante o presunto) candidato a essere riconosciuto come IA, raccoglie un numero crescente di critiche sulla sua effettiva validità pratica, tra le altre cose anche per il suo ispirarsi all’altrettanto famoso imitation game (da cui anche il titolo dell’interessante biopic di Morten Tyldum, tratto dalla biografia di Andrew Hodges, in cui il Benedict Cumberbatch intrepreta il ruolo del grande matematico e criptoanalista britannico). Il punto non è tanto una sottigliezza, perché di fronte agli adeguamenti normativi richiesti dall’introduzione di sistemi automatici in grado di prendere scelte con conseguenze reali e quindi non prive d’impatto per l’ecosistema «umano» in cui agiscono (come potrebbero essere i veicoli a guida autonoma, ma anche IA preposte al controllo del traffico aereo, per non parlare delle eventuali applicazioni militari) le questioni etiche assumono una rilevanza centrale, e quindi non il discrimine per l’attribuzione di una responsabilità non può basarsi sulla pur sofisticata capacità di “ingannare” un interlocutore umano.
Già nel 2008 alcuni esperimenti condotti da Kevin Warwick all’Università di Reading (UK) avevano destato scalpore, se non altro per alcuni esiti quanto meno inquietanti (Think deeply about mysterious dubjects) delle conversazioni con le candidate IA.
Negli ultimi tempi, si sono invece intensificate le notizie sul ruolo possibile delle IA nella costruzione di artefatti video, che spaziano dall’esperimento cinematografico con il corto Sunspiring pensato e scritto da Benjamin, una rete neurale ricorsiva addestrata con una collezione di film di fantascienza, alle frontiere della post-verità con le aberranti prospettive della tecnologia deepfake. Evoluzioni che rendono ancora più concreta e urgente la necessità di pensare a un superamento del test di Turing, magari evolvendolo in una direzione analoga a quella che non facevo altro che estrapolare in Maja pensando a un ipotetico test di Lovelace (ovviamente da Ada, figlia di Lord Byron e prima programmatrice informatica della storia, convinta sostenitrice dell’incapacità delle macchine di sviluppare uno spirito creativo – o banalmente anche solo sorprendere i loro programmatori).
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Immagine di Luca Zamoc (fonte: Il Trascabile ).
È notizia di questi giorni che i ricercatori di OpenAI, l’organizzazione non profit fondata a San Francisco nel 2015 da Sam Altman e Elon Musk, e finanziata tra gli altri da Amazon e dall’indiana Infosys (un colosso della consulenza IT con oltre 113.000 dipendenti, uffici in 22 paesi, centri di ricerca sparsi su quattro continenti e proprietaria nel campus di Mysore della più grande università d’impresa al mondo), con lo scopo di gestire i rischi esistenziali connessi alla ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale e promuovere lo sviluppo di una Friendly AI (una IA benevola), hanno messo a punto un’intelligenza artificiale tanto avanzata da non poter essere rilasciata pubblicamente. Il modello denominato GPT2 risulterebbe infatti talmente efficace nell’ambito per cui è stato sviluppato, ovvero la scrittura di testi deepfake in grado di ingannare un lettore umano, da rappresentare un rischio concreto.
Tra le possibili applicazioni distorte del loro costrutto, i creatori hanno da subito annoverato la generazione di recensioni fake per orientare il gusto dei consumatori e la diffusione di notizie false, la generazione di spam e di fishing. IA come GPT2 potrebbero persino comportarsi come un utente reale, oppure sostituirsi a profili hackerati impersonando versioni alterate ad hoc dell’utente originale, per i motivi più disparati: trarre in inganno altri utenti, per esempio; oppure screditare gli utenti originali, diffondere false informazioni, etc. Inoltre almeno un caso recente ha sicuramente fatto accendere un ulteriore campanello d’allarme nei laboratori di OpenAI: la possibile influenza di un bias ultraconservatore, bigotto e reazionario nelle risposte di GPT2 in caso di addestramento con testi ricavati dalla rete (sorte già toccata al chatbot di Microsoft addestrato per interagire su Twitter).
Questa volta, insomma, ci è andata bene. Ma se la tecnologia ha ormai raggiunto questo livello, non possiamo escludere che altrove qualcuno con meno scrupoli possa a breve mettere (o aver già messo) a punto sistemi altrettanto validi, adottandoli per le applicazioni più subdole. Per quello che ne sapete, non potrebbe questo stesso blog essere mandato avanti da una IA dagli scopi ancora imperscrutabili? Pensate a certe pagine e profili attivi sui social network, a certe piattaforme politiche, a certe dinamiche in atto nei motori di ricerca e nella promozione di beni e prodotti. Il futuro potrebbe essere già davanti ai nostri occhi, e sfuggirci solo perché non abbiamo ancora metabolizzato le categorie giuste per riconoscerlo.
February 15, 2019
Ridley Scott. Blade Runner
La mia intenzione era di girare un film ambientato tra quarant’anni con lo stile di quarant’anni fa.
Ridley Scott
[image error]Titolo quanto mai paradossale, quello scelto da Roy Menarini, critico cinematografico già professore associato di Storia e Critica del Cinema presso il DAMS di Gorizia al momento della pubblicazione di questo volume e ora in servizio presso la sede di Rimini dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, per la monografia dedicata a una delle pietre miliari del cinema di fantascienza e non solo. Ridley Scott. Blade Runner risale infatti al 2007, anno di uscita del Final Cut presentato in anteprima alla Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, ma è invecchiato piuttosto bene. Infatti, se da un lato è vero che la discussione critica intorno al film è andata avanti incessante, ricevendo nuovo impulso dall’uscita del sequel diretto da Denis Villeneuve, è altrettanto vero che i 25 anni trascorsi dalla deludente uscita nelle sale di Blade Runner avevano già prodotto una mole imponente di letture, interpretazioni e disamine, di cui Menarini tiene giustamente conto nella sua esegesi. Dall’analogia marxista tra replicanti e la forza lavoro che si ribella alle tendenze oppressive del capitale, a tutto il simbolismo cristologico che pervade la pellicola, qui dentro l’appassionato hard troverà pane in abbondanza per i suoi denti.
Il libro si compone di una decina di brevi capitoli: parte con un paio di pezzi critici di inquadramento dell’opera, prosegue con l’esame del film fino al livello delle singole scene, riprende la lettura critica con i due capitoli più interessanti del volume (L’estetica delle rovine (umane): un mondo replicante e Modernità di «Blade Runner») e si riserva interessanti divagazioni sui montaggi alternativi, le influenze sul cinema successivo e i seguiti letterari firmati da K. W. Jeter (se volete iniziare, provate a partire da qua). Destano qualche perplessità solo la scelta del materiale incluso nell’antologia critica che fa da appendice al volume, a mio parere inutilmente italo-centrica, come anche il giudizio non proprio lusinghiero espresso su Future Noir: The Making of Blade Runner di Paul M. Sammon, autentica miniera di retroscena sulla pellicola e l’immaginario che ha generato, pubblicato in Italia da Fanucci con il titolo di Blade Runner. Storia di un mito e purtroppo finito fuori catalogo. Nota negativa purtroppo anche per la bassissima risoluzione delle immagini incluse nella galleria che dovrebbe essere il cuore del volume, e che purtroppo disperdono tutto il potenziale visionario dei fotogrammi.
Ma i pregi superano di gran lunga questi piccoli nei. In primis, il punto di partenza. L’autore cerca di rispondere a un quesito apparentemente nonsense: a che cosa pensa Blade Runner? E da qui muove per cercare di “comprendere il funzionamento del cinema, della storia e della cultura contemporanea”. In seconda battuta, e qui torniamo al paradosso di cui dicevamo sopra, propone la lettura di Blade Runner come di un film senza autore, o meglio di un film dai molti autori, visti non solo i contributi di assoluto spessore su cui da sempre siamo costretti a soffermarci quando si parla di Blade Runner, sottolineando l’apporto di Hampton Fancher e David Peoples, di Syd Mead e Douglas Trumbull, di Vangelis e Jordan Cronenweth, senza dimenticare il romanzo originale di Philip K. Dick, ma anche per lo status di cult movie che ne ha determinato un’affermazione tale da portarlo a occupare un posto privilegiato nell’immaginario di ogni spettatore.
Soprattutto, Menarini si sofferma sul rapporto di Blade Runner con il postmoderno, proponendo di converso un’interessante riflessione sulla sua modernità, che finisce per riallacciarsi con il predetto interrogativo di partenza:
Tornando alla suggestione di cui si parlava all’inizio, i replicanti potrebbero essere film che pensano, prendendo la parola film per il suo significato pre-linguistico: una pellicola, una riproduzione tecnica, un nastro, un oggetto dotato improvvisamente di logos. Il replicante è, tautologicamente, la replica della vita, ma finisce con l’essere una vita surreale (o surrealista?), una macchina che pensa per accidente, una forma che prende sostanza.
Il saggio finisce così per rimarcare un importante parallelo tra i replicanti e le riflessioni di Walter Benjamin sull’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, illuminando di luce nuova una prospettiva che credevamo di conoscere fin troppo bene. Un compendio perfetto da abbinare alla lettura della bibbia di Sammon.
February 10, 2019
Ancora sulla scienza della fantascienza
Sul numero 3 di Anarres, la rivista di studi sulla science fiction curata da Salvatore Proietti, che come i precedenti si presenta dall’indice ricca di contributi di estremo interesse tanto per lo studioso quanto per l’appassionato, è inclusa una riscrittura di una mia vecchia recensione del volume di Renato Giovannoli La scienza della fantascienza.
February 7, 2019
La sublime perpetuazione di Thomas Ligotti
Il destino di Frankenstein nel romanzo originale era una degna punizione del suo crimine? E la vita della sua creatura si poteva rendere ancora più tormentosa? Si potrebbe convenire che il dolore inflitto dalla giovane Mary Shelley all’uno e all’altro possa bastare. Ma a volte i lettori di storie dell’orrore non sono sazi delle tragiche agonie offerte alla loro approvazione. E se tra essi c’è un autore dell’orrore, la posta in gioco può raggiungere le vette dei torvi cieli gotici. Ciò non avviene per puro amore di sadismo, il dare alla vite un altro giro per il piacere di strappare nuove urla ai torturati. Si compie – è stato compiuto – a mo’ di autoflagellazione vicaria, brutalissimo schiocco di frusta che colpisce alla schiena i personaggi di fantasia e distrae l’autore dai colpi che la vita reale infligge a lui in uno specifico momento dell’esistenza.
Thomas Ligotti, dalla Prefazione a La straziante resurrezione di Victor Frankenstein
Tra gli autori che hanno saputo plasmare le frontiere della letteratura dell’orrore, modificandone la percezione e la considerazione presso lettori e studiosi, un posto di rilievo è occupato da questo schivo e ormai leggendario scrittore di Detroit. Quello che prima di lui era riuscito con la narrativa di genere a H. P. Lovecraft, di cui in qualche modo raccoglie il testimone, Ligotti ha saputo riproporlo a partire dagli anni ’80 con i suoi racconti, che da qualche anno l’attenzione di case editrici come Elara e Il Saggiatore sta facendo conoscere anche ai lettori italiani.
Per un’introduzione alla sua figura e opera non posso che rimandare all’eccellente profilo tracciato da Andrea Bonazzi, tra i primi in Italia a occuparsi di Ligotti e suo massimo conoscitore.
Tutt’altro che popolare, Ligotti propone una letteratura weird estremamente ambiziosa, coerente con una poetica antiumana di cui in molti (scrittori e sceneggiatori, ma non solo) hanno finito per nutrirsi, e la sua parabola è analoga a quella descritta da Philip K. Dick nella fantascienza, se non fosse per la non irrilevante differenza che Ligotti è diventato un oggetto di culto ancora da vivo e in attività.
Il Saggiatore ha recentemente dato alle stampe l’edizione italiana di questo affascinante libello, impreziosito dalle meravigliose opere d’arte di Harry O. Morris e rivolto ai seguaci del suo culto. Oggi ne parlo su Quaderni d’Altri Tempi.
February 6, 2019
L’Algebra del Bisogno
La droga produce la formula di base del virus del «male»: l’Algebra del Bisogno. La faccia del «male» è sempre la faccia del bisogno assoluto. Il drogato è qualcuno che ha un bisogno assoluto di droga. Oltre una certa frequenza il bisogno non conosce nessun limite né controllo. […] E la droga è una grande industria. […] Se volete alterare o annientare una piramide di numeri in correlazione seriale dovete alterare o rimuovere il numero alla base. Se vogliamo annientare la piramide della droga dobbiamo partire dalla base: il Tossicodipendente della Strada, e smetterla di partire lancia in resta contro i mulini a vento, cioè contro i pesci grossi, i quali sono tutti immediatamente sostituibili. Il tossicodipendente della strada, che ha bisogno della roba per vivere, è l’unico fattore insostituibile nell’equazione della droga. Quando non ci saranno più tossicodipendenti disposti a comprare la droga non ci sarà più traffico di droga. Finché esisterà il bisogno della droga, ci sarà qualcuno pronto a soddisfarlo.
William S. Burroughs, Deposizione: testimonianza di una malattia, dall’Introduzione a Pasto nudo.
Ieri Burroughs avrebbe compiuto 105 anni. L’influenza che ha esercitato sulla mia scrittura, come pure su alcune elaborazioni teoriche e sugli stessi esiti artistici dei connettivisti, è difficile da riassumere nel breve spazio di un post. Controverso, estremo, eccessivo, sono tutte definizioni che gli si attagliano alla perfezione e che potrebbero risultare perfino riduttive tanto per le sue opere quanto per il suo personaggio, avendo incarnato alla lettera il ruolo di scrittore senza mezze misure.
Smaltita la febbre controculturale dei miei anni giovanili non sono certo, oggi come oggi, che sedendomi al tavolo di un bar di Tangeri con Burroughs avrei avuto molti punti d’incontro per imbastire una chiacchierata tranquilla, senza correre il rischio di innervosirlo e far degenerare la conversazione in un confronto armato, ma ancora adesso non posso non riconoscergli un forte e duraturo impatto sulla visione / impressione / comprensione / elaborazione di certi meccanismi, non ultime le spietate dinamiche di controllo in cui ci ritroviamo quotidianamente invischiati.
Nel corso degli anni, ho cercato di rendergli omaggio come ho potuto. Dapprima con una delle mie primissime recensioni, dedicata al suo libro forse più noto, Pasto nudo (e ormai sono trascorsi la bellezza di oltre tredici anni…), poi con un profilo di oltre quarantamila battute per la rubrica che all’epoca tenevo sulle pagine di Delos SF, e che successivamente, in occasione della riedizione di Nova Express da parte di Adelphi, ho condensato in un pezzo un po’ più agile sempre per la rivista curata da Carmine Treanni.
Su Robot 73 potete inoltre leggere Cloudbuster, un racconto in cui Burroughs fa capolino come personaggio insieme ad altri volti e nomi noti del mondo fantascientifico e non solo, tutti catapultati in un universo discronico in cui le teorie di Wilhelm Reich da fringe science si sono tradotte in vera scienza, con tanto di applicazioni tecnologiche che diventano l’ago della bilancia degli equilibri mondiali.
February 3, 2019
Fantascienza e futuro: un discorso sulle conseguenze
Come sa chi la frequenta con una certa assiduità, la missione della fantascienza non è tanto di provare a prevedere il futuro, esercitando facoltà divinatorie di cui i suoi scrittori non sono affatto più dotati rispetto ai colleghi di altri generi, quanto piuttosto quella di parlarci di noi, qui e ora, come potremmo essere visti attraverso una prospettiva storica che inevitabilmente ci porta a guardarci indietro dal futuro. L’estrapolazione delle coordinate attuali fa parte del gioco, ma non ne è l’essenza, né tanto meno ne rappresenta lo scopo ultimo. Piuttosto, attraverso l’elaborazione di scenari e l’allestimento dell’equivalente letterario di un esperimento scientifico, il genere ci consente di mettere in pratica – con economia di mezzi – una forma di ricerca, in cui l’oggetto ultimo è il destinatario stesso della conoscenza: l’essere umano, preso in sé o inserito nel contesto storico della nostra contemporaneità.
Una conseguenza delle caratteristiche del genere, tuttavia, è che chi scrive fantascienza deve prima o poi confrontarsi con una situazione singolare, che viene a verificarsi nel momento in cui la storia lo mette davanti al risultato delle sue estrapolazioni oppure allo scenario alternativo maturato in seguito allo svolgimento del nastro della storia. È un discorso che si ricollega idealmente alle riflessioni sul futuro che ci siamo persi per strada, in particolare alla percezione/consapevolezza generale del futuro. Il 2019 è un anno cruciale in tal senso: come il 2001, ma in una certa misura più del 2001 di Kubrick, rappresenta uno snodo cruciale nel nostro immaginario connesso al futuro. Non abbiamo i replicanti e nemmeno le colonie extra-mondo, ma non è detto che questo sia necessariamente un male (in fondo, la martellante insistenza propagandistica del programma coloniale governativo mi ha sempre ispirato una certa diffidenza).
Quello che abbiamo sono invece: a. legioni di utenti zombie sui social network, usati per condizionare l’opinione pubblica in favore di questo o quel personaggio, e in ultima istanza a vantaggio di una superiore agenda politica; b. elettrodomestici smart infettati da malware per reclutarli in botnet con cui sferrare attacchi DDoS di portata planetaria; c. disperati in fuga dai loro paesi trattati come comparse di uno spot nemmeno più originale, in una campagna elettorale eterna e senza confini; d. la tragicommedia di intere nazioni che per secoli sono state pilastri della civiltà occidentale tenute in ostaggio dalla pantomima dei loro governi legittimamente eletti, da una parte; e. dall’altra, le manovre di una superpotenza militare che non esita a ricorrere a tutte le armi messe a sua disposizione dalla tecnologia per condizionare la vita politica delle nazioni di cui al punto precedente; f. la farsa della nazione più potente al mondo incastrata sotto il tallone di ferro di un Manchurian Candidate; g. come possibile effetto del combinato disposto dei precedenti due punti, la sospensione del trattato INF per la non proliferazione delle armi nucleari; h. l’intensificarsi dei fenomeni catastrofici direttamente legati alle dinamiche dei cambiamenti climatici (ondate anomale di caldo, incendi, siccità, inondazioni, etc.), sufficienti per scriverci sopra un’intera enciclopedia di fantascienza apocalittica, altro che tetralogia ballardiana degli elementi. E fermiamoci pure qua.
Il futuro, insomma, è arrivato ed è tutto intorno a noi, anche se non è esattamente il futuro che avevamo in mente quaranta, venti o anche solo dieci anni fa, a cui forse somiglia in maniera pur vaga negli aspetti peggiori, se solo non fosse che proprio questi aspetti peggiori sembrano portati alle loro conseguenze estreme, imprevedibili a chiunque.
Da scrittori di fantascienza abbiamo quindi sbagliato? E, se è così, dove abbiamo sbagliato?
Gli scrittori di fantascienza devono tenere le loro antenne ben sintonizzate sul presente, per poter estrapolare futuri se non impeccabili almeno attendibili, abbastanza da risultare efficaci e non interrompere la sospensione dell’incredulità del lettore. Ma non devono mai dimenticare di tenere in debita considerazione anche il passato. Per esempio, appena dieci anni fa, all’inizio di una crisi da cui non siamo ancora del tutto venuti fuori, già sembravamo in grado di mettere in prospettiva gli anni del terrore che avevano caratterizzato le due amministrazioni Bush e che oggi, a fronte dell’inedito mix di incompetenza, negligenza, affarismo e avventurismo rappresentato dall’amministrazione americana in carica, ci sembra quasi di ricordare come anni tranquilli e tutto sommato ancora a modo loro normali.
Le vicissitudini dello scorso decennio sono state la conseguenza dell’attacco sferrato all’Occidente da parte di un’organizzazione terroristica di stampo islamico allevata dagli stessi USA fin dagli anni ’80 per contenere l’espansionismo sovietico. Questo decennio si chiude invece con un fantoccio in carica a Washington grazie alla più assurda macchinazione politica che si sia mai vista in una democrazia occidentale: non dovremmo sorprenderci se l’obiettivo del Cremlino non fosse altro che rimuovere il vincolo del trattato che impediva l’escalation nucleare per meglio potersi muovere nella prospettiva degli anni di instabilità geopolitica e disordini crescenti che ci attendono, a partire dall’approssimarsi di una Brexit in condizioni di no deal. Peggio sarebbe se ancora non avessimo visto tutti gli effetti più deleteri del piano russo…
Siamo usciti vivi dagli anni Zero, con qualche ferita in più riusciremo a sopravvivere anche a questi anni ’10. A patto però di continuare a scrutare nel buio che a volte sembra avvolgerci, chiudendo qualsiasi possibilità di proiezione, qualsiasi prospettiva di alternativa, dietro la cortina di ferro di un futuro a zero dimensioni, come piace immaginarlo a quelli che sono i nostri veri avversari.
La fantascienza è un lago e gli scrittori di fantascienza sono dei villeggianti che trascorrono il tempo a passeggiare sulle sue sponde: ogni volta che si siedono davanti a una tastiera, lanciano una pietra in acqua. Le onde che si generano tornano indietro sulla riva e trovano lo scrittore ogni volta più avanti, in una posizione diversa. Prima di lanciare il sasso, lo scrittore prova a farsi due conti e cerca di anticipare dove lo raggiungerà il fronte d’onda che scaturirà dall’impatto con l’acqua. I suoi calcoli sono approssimazioni, i suoi passi influenzati dalle condizioni di un terreno che non conosce. Ma la cosa fondamentale, è che lo scrittore di fantascienza si interroga sulle conseguenze. Volente o nolente, dovrà farlo in ogni caso: è una delle regole non scritte del gioco.
Esattamente dieci anni fa concludevo uno dei mie interventi sul Blog di Urania, che all’epoca avevo il piacere di amministrare sotto la guida di due maestri del fantastico e della speculative fiction in senso lato come Sergio Altieri e Giuseppe Lippi, con questa chiosa:
[…] ancora una volta le conseguenze dell’atto di immaginare il futuro potrebbero incidere sulla distribuzione delle probabilità tra i futuri possibili. E la fantascienza, continuando a essere chiamata in causa per parlarci attraverso l’immagine del futuro dei cambiamenti che hanno luogo attorno a noi, non può ancora permettersi di prescindere dalle conseguenze.
Non è ancora tempo di fermarsi. Ogni lancio ha un grande potere: può disinnescare un futuro peggiore. Ora più che mai, gli scrittori di fantascienza devono continuare a lanciare pietre nell’acqua. Nessuno di noi può permettersi di rinunciare alle conseguenze.
January 31, 2019
Linda De Santi: La forma del vuoto
[image error]Tra le nuove voci più interessanti che stanno plasmando la fantascienza del futuro, Linda De Santi spicca per la qualità della sua scrittura e per un’attenzione non comune all’impatto della tecnologia sulla sfera dei rapporti umani. Inoltre i suoi racconti, come scrivevo nella nota introduttiva a Lost by Univers (che abbiamo avuto il piacere di pubblicare l’anno scorso su Next-Station.org), non sono estranei a una vena di malinconia che aggiunge un retrogusto inconfondibile ai suoi futuri, rivelando un’ispirazione di fondo che praticamente accomuna diversi lavori, pur con esiti e soluzioni molto diverse tra di loro. Di volta in volta i suoi personaggi sono chiamati a fare scelte di rottura (come accade in Saltare avanti, il racconto Premio Urania Short 2017 che me l’ha fatta conoscere come scrittrice, dopo che per anni l’avevo seguita come blogger) o nel loro piccolo rivoluzionarie (come in quel gioiello che è Involucri, contenuto nell’ultima antologia made in Kipple, Next-Stream. Visioni di realtà contigue).
Ospitata nella collana Futuro Presente, curata per Delos Digital da Elena Di Fazio e Giulia Abbate, la sua ultima fatica è un racconto lungo che si situa all’altra estremità dello spettro distopico rispetto a Lost by Univers. In effetti, tanto cupo e post-cyberpunk era quello, quanto fiabesco risulta fin dalle prime battute La forma del vuoto, che sia per le atmosfere sia per la caratterizzazione dei personaggi si situa dalle parti delle fiabe ecologiste di Hayao Miyazaki.
In un mondo regredito a una società rinascimentale, grandi flotte si contendono l’egemonia sui mari. La Terra non è più quella che conosciamo: il livello delle acque si è alzato sommergendo vaste regioni che un tempo appartenevano alla terraferma, stravolgendo in questo modo il volto del pianeta; e sulla superficie delle onde i rifiuti plastici che sono andati accumulandosi nei secoli hanno dato forma alla crosta, un’entità ributtante e letale. Se per gli ultimi umani il futuro si divide tra le insidie dei mari e quelle dei complessi rituali e intrecci di faide e alleanze che regolano la vita di corte, pacifiche comunità di mutanti sopravvivono in villaggi sommersi nutrendosi proprio degli scarti degli abitanti della superficie.
Sara è la figlia insoddisfatta di un ammiraglio della flotta commerciale del Neo Granducato e da bambina ha assistito impotente al suicidio della madre, incapace di rassegnarsi al ruolo di oggetto di scena in questa società maschilista regredita a una struttura neofeudale. Ormai in età di matrimonio, mentre si appresta a essere usata come merce di scambio nelle manovre politiche dell’ammiraglio, la sua vita cambia all’improvviso grazie a un incontro inatteso. Perché Joram non è un ragazzo come gli altri, ma un morply:
Era praticamente un ragazzo pesce: aveva il corpo ricoperto di squame, con grandi pinne sulle gambe e alette più piccole sulle braccia e sui fianchi. Gli occhi, a mandorla e di colore dorato, avevano una membrana nittitante.
Sara ebbe la stessa impressione che aveva avuto la prima volta: in quella stranezza c’era una sorta di magnetismo, che la attirava.
La bravura di Linda riesce a farci appassionare alla loro storia di reciproca scoperta, narrata attraverso un sapiente incastro di punti di vista. La moltiplicazione della angolazioni conferisce uno spessore tridimensionale al mondo in cui si muovono e l’originalità della storia risiede anche nel netto rifiuto di ogni nostalgia: la natura non è uno stato immutabile alle cui regole siamo condannati a obbedire, ma diventa un organismo vivo, mutevole, in evoluzione, capace di trovare nuovi equilibri. La metafora della crosta, che spinge alle estreme conseguenze gli effetti dell’inquinamento e dell’inconsapevole azione plasmatrice dell’uomo sull’ambiente, già ben rappresentata da fenomeni di scala globale come il Pacific Trash Vortex, rende inequivocabile il gioco di specchi con il nostro presente e fornisce un imprevedibile modello di comportamento per i postumani che verranno.
Se volete, chiamatela climate fiction o, se preferite, solarpunk. In pochi riusciranno forse a riconoscerne i legami, anche perché critica e autori della Letteratura che conta continuano a guardare in un’altra direzione, pur essendo questo esattamente quel Graal di cui sono costantemente alla ricerca altrove. Pubblicata direttamente in e-book da un piccolo editore ignorato dalla critica che conta, La forma del vuoto dispensa senso del futuro a piene mani. Qui sì che tutti loro troverebbero pane per i loro denti e le loro menti. Perché questa è letteratura dell’Antropocene dispiegata in tutta la sua inerzia immaginifica e potenza comunicativa. Almeno voi non fatevelo scappare.