Giovanni De Matteo's Blog: Holonomikon, page 17
October 4, 2019
The Tree of Life
La visione di Ad Astra (James Gray, 2019), recentemente approdato nelle sale, mi ha riportato alla mente un paio dei temi già proposti in un altro film prodotto dalla Plan B Entertainment di Brad Pitt: The Tree of Life, l’ultimo grande film di Terrence Malick (2011). Il rapporto con i propri affetti, in particolare quello padre-figlio visto nel cambio di prospettiva che si accompagna alla crescita e al passaggio dall’infanzia all’età adulta, e l’incomunicabilità di fondo che si annida nelle nostre relazioni, erano infatti due dei punti cardinali che guidavano la rotta concettuale di Malick. Spulciando negli archivi dello Strano Attrattore ho quindi ritrovato questa vecchia recensione, che vi ripropongo qui in forma leggermente rivista, ma a cui vi rimando per l’approfondimento/confronto sviluppato nei commenti con Iguana Jo tra due modi sostanzialmente agli antipodi di apprezzare il film.
Palma d’oro al Festival di Cannes 2011, The Tree of Life arriva a sei anni di distanza dal precedente lavoro di Terrence Malick, The New World (2005), e precede di poco più di un anno il successivo To the Wonder (2012) a cui è legato da un gioco di riflessi e rimandi tematici ed estetici. Molto meno dei vent’anni intercorsi tra I giorni del cielo e La sottile linea rossa (1978-1998), con un infittirsi della produzione che denota da solo l’entrata del cineasta texano in una nuova fase della sua carriera. Sfuggente al pari di Stanley Kubrick, Malick ci regala un’opera impressionista di forte impatto visivo, che ha proprio nel sontuoso 2001: Odissea nello Spazio l’unico termine di paragone possibile nel cinema che lo ha preceduto. A onor di cronaca va detto che il confronto, ripetuto da più parti, nuoce soprattutto alla pellicola di Malick, non rendendo appieno giustizia a un’opera con l’ambizione di raccontare l’origine della vita e, forse, condensare in 138 minuti un tentativo personale – uno dei tanti possibili, ma qui con esiti sicuramente convincenti – di definirne il senso.
Le domande alla base del film sono le stesse che rincorrono l’uomo dalla notte dei tempi: chi siamo? Cosa ci facciamo al mondo? Cosa ci aspetta dopo? Quesiti filosofici contro cui ben più di un liceale (e se è per quello anche di un pensatore) ha sbattuto la testa, ma a Malick va riconosciuto l’indiscutibile merito di riproporli con un garbo che scongiura il rischio di degenerare nel facile didascalismo o nell’assolutismo dogmatico, risparmiando all’autore la trappola della retorica e allo spettatore quella della noia. Se 2001: Odissea nello Spazio può essere letto, tra le altre cose, come la storia della comparsa dell’intelligenza nel cosmo, proiettando la celebrazione della ragione verso un orizzonte transumano di fronte al quale l’uomo non può che uscire annichilito, The Tree of Life propone delle origini e del senso della vita una lettura che mi sento di definire più “empatica”.
In fondo a Kubrick poco interessava di condire di correlati emotivi la storia evolutiva della vita senziente, e il compito di appagare gli spiriti oltre alle menti viene interamente delegato agli effetti psichedelici oltre l’orbita di Giove e alle partiture sinfoniche della colonna sonora Malick si cimenta invece nell’operazione opposta: la parabola familiare degli O’Brien nella profonda provincia degli anni ‘50 (Waco, Texas) è il microcosmo che mette a fuoco il suo sguardo. Tra complicità, scoperte, dispetti, incomprensioni, conflitti, castighi, punizioni, frustrazioni, delusioni e disastri piccoli e grandi, perdite e lutti, la sua camera è l’occhio attentissimo di un osservatore che interagisce con i destini dei protagonisti, seguendone i movimenti a ogni passo, con piena e incondizionata partecipazione.
Le voci fuori campo del trio dei protagonisti (il signor O’Brien, la sua consorte e il loro primogenito Jack, a cui Sean Penn presta le fattezze da adulto) evidenziano l’importanza delle emozioni individuali come chiave interpretativa delle situazioni vissute. Lo spirtualismo panteistico di Malick risulta in questo modo proposto in maniera tutt’altro che invadente: il tema della fede – rappresentato attraverso la sua maturazione, la crisi, la riscoperta – si tinge perfino di sfumature laiche quando il tocco sapiente del regista, nelle sequenze oniriche che s’intensificano verso il finale, sembra ribadire che dopotutto l’atto di fede più grande che si possa chiedere a un essere umano è fidarsi – fino in fondo, fino all’ultimo – di un altro essere umano.
“Se non ami, la tua vita passerà in un lampo”, sostiene la figura materna della Signora O’Brien, personaggio centrale, un po’ musa e un po’ angelo, interpretata da Jessica Chastain. L’amore è l’unica ragione in grado di rallentare lo scorrere del tempo. E grazie all’amore, Jack ormai adulto rivive la sua personale scoperta del mondo e della vita da bambino attraverso il ricordo del fratello scomparso in guerra, contrastando quindi con la memoria il flusso inesorabile dell’universo. Le digressioni cosmiche fotografate da Douglas Trumbull (il maestro degli effetti speciali che da 2001 fino a Blade Runner ha dato forma, colore e sostanza al nostro immaginario fantascientifico), dal Big Bang alla comparsa della vita sulla Terra al procedere delle dinamiche siderali, inesorabili e incuranti delle disgrazie umane, riescono così ad amalgamarsi alla perfezione nella trama della narrazione, offrendo delle parentesi in cui il microcosmo individuale racchiude la complessità della dimensione macrocosmica, come se ognuno di noi non fosse altro che un frammento di un universo olografico.
“Esistono due vie per affrontare la vita”, annuncia sempre la voce fuori campo della signora O’Brien nelle prime battute del film: “La via della natura e la via della grazia”. Lei sceglie quella della grazia e plasma la sua esistenza su questo stampo. Non c’è dubbio su quale sia stata la scelta dello stesso Malick, che percorre dal primo all’ultimo minuto questo film escatologico che potremmo definire, con un po’ di audacia, come il primo film di un’ipotetica era post-connettivista, capace di tirare ponti e connessioni tra immaginario, scienza e metafisica senza lasciarsi imbrigliare dagli schemi di nessun genere in particolare. Ma andando oltre, ancora una volta al di là anche delle orbite dei satelliti di Giove.
October 3, 2019
Il cuore di tenebra di Karma City Blues
Pochi giorni fa mi sono imbattuto per caso in questo articolo che descrive gli effetti di una tendenza in atto da anni in Africa centrale, vale a dire la concessione dei diritti di sfruttamento sulle proprie risorse naturali accordata dai governi locali, tipicamente corrotti, alle multinazionali cinesi. Le royalties derivanti dal settore minerario basterebbero a migliorare le condizioni di vita della popolazione della Repubblica Democratica del Congo, che per oltre la metà vive sotto la soglia di povertà, ma invece finiscono intercettate da funzionari e signori della guerra che esercitano una forma di controllo feudale sulle regioni interne. Altri articoli che approfondiscono la situazione possono essere letti qui e qui. Oggi è ancora il cobalto che va per la maggiore, ieri era il coltan (da cui estrarre niobio e tantalio), domani potrebbero essere uranio o rame o chissà cos’altro.
Comunque, siccome si sente spesso ripetere come la fantascienza non sia sul pezzo, come si lasci superare dalla realtà troppo facilmente o finisca per invecchiare prematuramente, ecco, per l’ennesima volta, mi piace constatare come il fronte d’onda della storia non si sia ancora lasciato indietro questo mio timido tentativo di estrapolazione sulle conseguenze che un simile trend potrebbe produrre sugli assetti geopolitici del continente africano.
Quello che segue è un brano estratto dalla parte centrale di Karma City Blues, che potrete trovare a Strani Mondi il prossimo 12 e 13 ottobre. Ed è da qui che parte l’effetto domino che condurrà agli eventi narrati nel romanzo.
– Katanga, 2061 – lessi di nuovo ad alta voce. – Cosa vuol dire?
– Il Katanga nel 2061 – rispose il costrutto. – Uno dei numerosi stati indipendenti emersi dal serbatoio di instabilità politica e demografica dell’Africa centrale. E il Katanga è il cuore dell’Africa. Il cuore di tenebra dell’Africa. Quando proclamò la secessione da Kinshasa sul finire degli anni ’30, il Katanga era già la provincia più ricca della Repubblica Democratica del Congo, possedendo i maggiori giacimenti di rame, cobalto e niobio del pianeta e una varietà mineraria che spaziava dall’oro allo stagno all’uranio, ma gran parte della sua popolazione viveva in condizioni di estrema povertà. Il prezzo da pagare per l’indipendenza fu un costo umano stimato tra i trecento e gli ottocentomila morti tra la popolazione civile del paese, sommando catastrofe umanitaria a catastrofi umanitarie precedenti. Solo per limitarci ai dieci anni antecedenti, per esempio, un’ondata di disperati, in fuga dalle milizie armate di etnia Hutu che erano sconfinate dal Ruanda e dall’Uganda nel nord-est del Congo, attirate dalle riserve di tantalio della regione, era stata spinta verso sud. Oltre due milioni di rifugiati, richiamati dalle promesse di ricchezza del Katanga, si erano riversati alle porte della capitale Lubumbashi e avevano trovato accoglienza nel più grande campo profughi del continente, uno slum che occupava metà della città vera e propria. In queste condizioni, il governo indipendentista trovò una soluzione sbrigativa ed efficace per convertire il problema in opportunità. I profughi dell’Haut-Zaire vennero sfruttati per fornire manodopera a basso costo ai veri padroni del paese: il consorzio cinese Zhongzhen Amalgamated Industries, che alla fine della guerra aveva rilevato la quota di maggioranza della KMC, l’ex-compagnia di stato attraverso cui il governo secessionista gestiva i giacimenti di materie prime strappati al controllo di Kinshasa.
– Grazie per la lezione di storia e geografia. Ma cosa c’entra il Katanga con una cartolina delle Cascate Vittoria? Lo Zambesi non mi pare tocchi il Katanga, ma potrei ricordare male.
– Nel 2061 un guasto ai PLC della centrale di Kariba, sul fiume Zambesi, al confine tra Zambia e Zimbabwe, fu la causa della più grave catastrofe ambientale nella storia africana. Quell’inverno le precipitazioni erano state abbondanti in tutto il bacino dello Zambesi e, nonostante i gestori della diga avessero deciso di lasciar defluire gran parte dell’acqua in eccesso senza forzarla nelle condotte della centrale elettrica, si calcola che il lago di Kariba raddoppiò in pochi mesi la propria superficie. L’accresciuta portata dello Zambesi investì in pieno il bacino di Cabora Bassa, più a valle, e l’onda d’urto fu tale da distruggere il principale impianto idroelettrico del Mozambico, con il risultato di lasciare al buio mezzo Sudafrica.
– Molto interessante. Ma non vedo dove voglia andare a parare questa conversazione, in tutta onestà.
– Solo perché ti mancano ancora degli elementi – osservò con tono di sufficienza la scatola. – E io sono qui per darteli.
– Molto gentile da parte tua.
– Fin dal dopoguerra il Sudafrica è stato uno dei principali partner economici del governo centrale della Repubblica Democratica del Congo. Le esportazioni di materie prime su cui si regge tutta l’economia di Kinshasa, la tutela dei comuni interessi nell’area, non ultima la resistenza all’avanzata cinese e russa in Africa, hanno sancito un’alleanza simboleggiata dal faraonico progetto della Grande Inga, la più grande centrale idroelettrica al mondo, in grado di sfruttare il volume medio di circa 40.000 m³/s delle cascate Livingstone per generare oltre 40 GigaWatt di potenza. E la Grande Inga è stata anche una risposta geopolitica del Blocco dei Paesi Non Allineati al TAP e all’operazione Desertec nel Maghreb, oltre che alle strategie di penetrazione perseguite da giganti come Cina e Russia, attraverso la protezione politica, il land grabbing o le forniture militari. La Grande Inga intercetta le acque nel basso corso del fiume Congo, un centinaio di chilometri a sud-ovest di Kinshasa, praticamente al termine di un percorso di 4.700 chilometri, con un bacino idrografico grande quasi quanto l’Europa. E nel 2061, proprio mentre lo Zambesi risentiva delle piogge insolitamente copiose, dall’altra parte dello spartiacque il Congo viveva il suo periodo di minimo storico, con una riduzione della portata media di oltre il venti percento.
– Quindi?
– Quindi, si dà il caso che il tuo vecchio socio abbia scoperto che fine avesse fatto tutta quell’acqua. E, cosa ancor più interessante, chi fu l’ideatore e artefice del piano che mise in ginocchio in un colpo solo le due potenze dell’area. Motivo per cui ha deciso di sparire dalla circolazione, lasciandoti in eredità questa copia di sé in forma di oracolo digitale. Un prodotto di bassa tecnologia, non accessibile dalla rete in nessun modo. Adesso il quadro si sta facendo più chiaro?
[image error]L’articolo pubblicato dall’AGI cita anche una frase del dittatore Mobutu: “Quello che c’è sotto terra è mio, quello che si muove sulla terra è mio, quello che c’è nelle acque è mio, quello che vola nel cielo è mio“. Parole che potrebbero adattarsi a una delle forze invisibili che mettono in moto gli eventi di Karma City Blues.
Due o tre cose che ho imparato sullo spazio
Sono cieco, ma conosco la strada delle stelle.
Walter M. Miller, Jr – Lo spazio è la mia arpa
Nello spazio ogni manovra ha un costo in termini di energia. Cambiare orbita, cambiare rotta, rallentare, accelerare. Lo fai solo a costo di accendere i motori e bruciare carburante. E se non fai bene i calcoli, prima o poi il carburante finisce.
Ecco perché nello spazio ogni grammo conta. Trascurando il peso del resto della nave, imbarcare 10 tonnellate di carburante o imbarcarne 1000 comporta motori di potenza 100 volte maggiore per erogare la stessa spinta.
Ne consegue che una nave pensata per coprire lunghe tratte avrà caratteristiche necessariamente diverse da una concepita per operazioni a corto raggio.
[image error]
Source: Ad Astra.
Nello spazio, ma più genericamente in natura, vale la legge dell’inverso del quadrato: a una distanza doppia, corrisponde una portata dimezzata. Che si tratti di gravità o esplosioni di energia, gli effetti non aumentano al crescere della distanza.
Nello spazio il tuo corpo non esplode. Ciò non toglie che l’esposizione allo spazio abbia degli effetti controproducenti in termini di sopravvivenza oltre il breve termine (tre o quattro minuti). I tessuti non si nebulizzano in un’esplosione di sangue e brandelli di carne, ma la differenza di pressione ti gonfia, la temperatura ti congela. Ecco perché nello spazio non puoi pensare di accedere a un habitat pressurizzato semplicemente aprendo una porta. E nemmeno puoi pensare di portarti a bordo una pistola o dell’esplosivo, a meno che il Comando Spaziale abbia rinunciato a tutto il suo Dipartimento per la Sicurezza, la Salute, l’Ambiente e la Qualità.
[image error]
Source: Ad Astra.
Nello spazio non c’è amore. Ci sono atomi, per lo più ioni, e particelle elementari: protoni, neutroni, elettroni, fotoni, neutrini. Ci sono tracce di antimateria: positroni e antiprotoni. Ci sono i raggi cosmici, che comprendono una vasta gamma di queste particelle ad alta energia, e che hanno effetti spiacevoli per i tessuti organici ma non solo. Ci sono rocce, polveri, ghiaccio, soprattutto in prossimità di corpi celesti maggiori, dalle cui dinamiche di interazione spesso vengono prodotti. Non puoi pensare di passarci attraverso ad alta velocità, non più di quanto tu non voglia guidare una Ferrari a tettuccio scoperto sotto una grandinata.
[image error]
Source: Interstellar.
Nello spazio non ci sono verità soprannaturali in attesa di essere svelate, solo grandezze fisiche da misurare, problemi di moto da risolvere alle basse velocità ed equazioni relativistiche da considerare alle alte velocità.
Prima di avventurarti nello spazio, ti conviene aver fatto bene i tuoi compiti. O sperare di non incontrare qualcuno che li abbia fatti con più attenzione di te.
[image error]
Source: Interstellar.
Queste sono due o tre cose che so sullo spazio e potrei sbagliarmi su alcune, non mi sono aggiornato molto ultimamente e le ho imparate soprattutto leggendo fantascienza. Ma mi domando perché chi la produce per farla guardare agli altri non si degni prima di leggerne abbastanza, o per lo meno non s’impegni a rispolverare un po’ di nozioni di fisica. Eviterebbe di inciampare sempre nelle solite sviste, nei consueti errori e nei cliché di sempre.
Certi autori, evidentemente troppo pigri, ce li manderei proprio, nello spazio, per un training sul campo. E con loro anche i produttori che staccano l’assegno, visto che il concorso di colpe è palese.
Nello spazio, mal che vada, nessuno può sentirli urlare.
October 1, 2019
Un grande del Crack Rhythm a Lagos: un estratto
Un grande del Crack Rhythm a Lagos è il racconto con cui sono presente nell’antologia S.O.S. – Soniche Oblique Strategie curata da Mario Gazzola (Arcana, 2019). Questo è uno dei capitoletti che lo compongono:
Strangers When We Meet
Aisha abitava sul tetto verde di un conapt occupato di Ghost Town. Si prendeva cura dell’orto per gli altri condomini e faceva lavoretti di elettronica e programmazione come freelance per alcune ditte di Lagos. Si fece accompagnare a casa, quella sera, e mi raccontò un po’ di lei.
– C’è una cosa che mi chiedo da un po’ – disse mentre guardavamo la città da cento metri di altezza, cogliendo scorci della laguna tra i grattacieli più alti che incombevano su Lagos Mainland. Aveva smesso di piovere. – Perché voi della band non vi collegate mai?
Ricordai allora le parole di Nabil, la nostra chiacchierata notturna solo poche settimane prima. – Intenti in Li-Fi?
Aisha annuì. Attese.
– Non abbiamo più l’età per certe cose – dissi, schermendomi dietro un sorriso impacciato. – Non fa per noi. Non ho nemmeno un impianto aggiornato. Rischierei di prendermi un brainworm se ci provassi… Perché ridi?
– Sei così buffo…
– Non ridere di me.
Aisha allungò una mano verso il mio collo, mi accarezzò i capelli ancora umidi di pioggia e sudore, poi la mosse verso la presa dietro l’orecchio sinistro. Sentii le sue dita sottili sulla pelle e una scintilla blu che esplodeva in un incendio di ormoni e neurotrasmettitori da qualche parte intorno all’amigdala.
– Ti fidi di me? – mi chiese fissandomi negli occhi.
– Mi fido di te – dissi.
– Vieni dentro.
September 30, 2019
Cryptomnesiac: un estratto
Un brano da Cryptomnesiac, racconto incluso in Altri Futuri, a cura di Carmine Treanni (prima edizione Kipple Officina Libraria: Next-Stream. Visioni di realtà contigue, 2018). In uscita oggi per Delos Digital.
[image error]
Illustrazione originale di Franco Brambilla per la copertina di Altri Futuri.
La spiaggia all’alba è immersa in una quiete sovrannaturale. Ti domandi dove sia adesso quel cormorano che sembra seguirti nelle tue passeggiate sulla spiaggia. A quest’ora sembra che anche per gli uccelli marini sia troppo presto per uscire dal nido e affrontare la giornata.
Cammini a lungo, allontanandoti dalla casa e dal villaggio, procedendo verso sud sulla sabbia bianca e sottile. Superi aree attrezzate deserte, insenature, argini consolidati, letti di ghiaia, pinete e vaste distese di macchia mediterranea – senza mai incontrare nessuno.
Un’onda che viene a infrangersi sulla battigia ti richiama dalla trance a cui ti sei abbandonato. E allora ti fermi, guardi la sconfinata distesa di azzurro che hai davanti, ti sfili la maglia e t’immergi nell’acqua. Le bracciate si succedono regolari, precise come se seguissero i colpi di un metronomo. Questa costanza ti lascia stupefatto, non sei mai stato particolarmente disciplinato.
Una bracciata dietro l’altra il tuo corpo si spinge al largo, mentre con la mente visualizzi l’abisso oscuro al cui richiamo hai deciso di cedere. Le profondità ti sono ignote, ma la loro voce ti sussurra parole di comprensione e promesse di pace.
Quando decidi di averne abbastanza, ti volti verso la terraferma e resti a contemplare il profilo di granito delle montagne, le loro vette innevate che splendono nel blu del cielo che ti sovrasta. Da lì, incombono sulla costa con austera maestosità.
Chiudi gli occhi e ti lasci cullare dalle onde per un tempo imprecisato. La sensazione che sia solo un tentativo inutile si apre la strada nella tua consapevolezza, fino ad acquisire contorni certi e incontestabili. Potresti rimanere lì per giorni interi, senza fare un solo vero passo avanti per allontanarti dal paradiso di cui sei prigioniero.
Inizi anzi ad avvertire la corrente che ti sospinge indietro verso la costa. Il richiamo dell’abisso era solo un miraggio, un’illusione consolatoria. Ormai è lontano, scongiurato… e tu sei fuori dalla sua portata.
Le montagne sono sempre lì, ti indicano la direzione per tornare sulla spiaggia e poi da lei. Ariane ti aspetta. La resistenza è vana. Con lo stesso andamento rigoroso dell’andata e col favore delle onde, ti accingi a tornare a riva.
September 29, 2019
E il Karma si fece carta
Leggendo tra le righe del post di sabato, qualcuno avrà notato che a rigor di logica le novità non sono tre ma quattro, e quindi eccoci qui a svelare il quarto annuncio per l’autunno: a distanz30a da un anno dalla sua uscita in e-book, finalmente Karma City Blues conoscerà una incarnazione cartacea nella collana Odissea Fantascienza di Delos Digital. Dopo le finali al Premio Italia e, imprevedibilmente, all’ESFS Award, la storia di Rico Del Nero e della metalogica Hanuman, sullo sfondo postumano della Città del Karma, vedrà quindi la luce una seconda volta.
Se vi servisse un piccolo incoraggiamento, non trovo di meglio che riportare un estratto.
Un riflesso sui suoi occhiali mi nascose alla vista gli occhi di Valentina per una frazione di secondo e allora capii che era intenta a eseguire dei comandi sui suoi Glass-x, per richiedere le autorizzazioni necessarie e impartire le istruzioni relative alla mia richiesta.
– Abbiamo acceso cinque diverse linee di credito per consentirle di sostenere le spese necessarie – assicurò. – Le abbiamo appena trasmesso i codici di accesso. – Una notifica prese forma e scomparve in un angolo dei Glass-x. – Sono collegati con il suo q-id. Autenticazione fisica a tre fattori tramite impronte digitali, traccia nanoscopica e riconoscimento retinico, attive a partire da questo momento.
– Bene. Avrò bisogno anche di armi. Automatiche e di precisione. Armalite, se possibile. Pistole Glock da assalto. Qualche granata. tnt a scaglie o miscele esogene ricristallizzate, non sono al corrente delle ultime novità presenti sul mercato. Niente che possa dare nell’occhio, comunque.
– Vedo… – fu il commento sardonico di Valentina, mentre prendeva nota scrupolosamente.
– E nanosomi disindividuanti programmabili per l’alterazione della fisionomia e del riconoscimento informatico. Ah… dimenticavo. Mi ci vorrà anche un intervento di chirurgia un po’ invasiva.
Valentina distolse lo sguardo dal desktop virtuale su cui stava appuntando la lista della spesa. Il wetware le permetteva di sintonizzare la sua volontà con il word-processor del dispositivo portatile. Niente tastiera virtuale, per lei – qualsiasi ritardo avrebbe comportato una imperdonabile inefficienza. Il suo era di fatto un dettato telepatico. – Quanto invasiva?
– Dovrò impiantarmi tutto il necessario per una neuroscansione – spiegai.
– È uno scherzo? – Schemi comportamentali, predisposti ad hoc dall’ufficio di formazione del personale della sua vera compagnia, ne tenevano il tono di voce modulato sul livello di un cortese scambio di vedute. Era assertiva, parlava con fermezza.
– Sono serissimo.
– A cosa le può servire l’armamentario di un necromante?
– Mi assecondi, la prego. – Il suo sguardo scettico non subì il minimo mutamento. – In azione – improvvisai allora, – l’imprevisto è sempre in agguato. Inoltre, i collaboratori che ho in mente vorranno delle garanzie per lasciarsi coinvolgere nell’affare. Lo consideri come un piccolo incentivo. Non chiedo lo stato dell’arte: mi accontenterò di tecnologia sorpassata, purché ancora efficace.
– Altro?
– Una piccola modifica ai banchi di memoria. Avrò bisogno di un innesto mnemonico flesh provvisto di una linea ridondante interfacciata direttamente alla corteccia per il riconoscimento visivo e linguistico. Un buffer di bypass dovrebbe fare al caso nostro. Il mio impianto è stato inibito dalla SmartCorr.
– Avremo bisogno di tempo per preparare l’intervento. Ne servirà poi altro per il decorso postoperatorio… Non credo che…
– Voi penserete ai preparativi – tagliai corto. – Del recupero lasciate che mi preoccupi io.
Per la prima volta mi parve di cogliere una fugace ombra di esasperazione sul viso della mia interlocutrice. Si sfilò gli occhiali, li posò sulla scrivania e mi fissò dritto negli occhi, inclinando appena la testa, come a voler prendere meglio la mira sul nucleo profondo della mia anima. Se cercava l’haragei stava guardando un mezzo metro abbondante troppo in alto. Se poteva accontentarsi della ghiandola pineale, si trovava invece sulla strada giusta.
Disse: – Nient’altro?
Avevo una vita nuova, nuovi amici e un’intera gamma di nuove esperienze da affrontare, per tacere delle occasioni che ero pronto a cogliere. Decisi che potevo accontentarmi.
– Nient’altro.
Nelle arti marziali giapponesi, centro di gravità, baricentro delle energie vitali che permette al praticante di avvertire una minaccia e anticipare la mossa dell’avversario. Il termine indica anche una competenza nella comunicazione interpersonale, consistente nell’abilità di trasmettere pensieri ed emozioni tenendole implicite nella comunicazione verbale: si tratta di una forma di retorica che si prefigge di esprimere le reali intenzioni e la verità sottesa al linguaggio attraverso le implicazioni, una pratica ritenuta molto difficile da acquisire per i non giapponesi.
September 28, 2019
Incompletezza e conoscibilità: da Kurt Gödel a Neal Stephenson (andata e ritorno)
Per una di quelle strane combinazioni di eventi che classifichiamo come coincidenze, mi sono ritrovato per le mani il libro di Gabriele Lolli dedicato ai Teoremi di incompletezza di Kurt Gödel proprio mentre completavo la lettura estiva di Anathem. Il monumentale romanzo di Neal Stephenson è a mio giudizio uno dei vertici della fantascienza del nuovo secolo e meriterà presto un approfondimento dedicato. La sua impostazione fortemente neoplatonica richiama, anche nel parallelo dei personaggi con figure storiche oltre che nelle situazioni e gli eventi citati con fatti realmente accaduti (qui trovate un’utilissima guida per riconoscere le molteplici linee di intersezione tra la storia della Terra e quella di Arbre), il ruolo centrale di Gödel nel definire le condizioni sotto le quali è possibile attingere a qualche forma di verità e quindi di conoscenza. È lo stesso Stephenson a sottolinearlo in una ricchissima pagina di approfondimenti dedicata al romanzo sul suo sito web.
Le due letture si sono completate illuminandosi a vicenda, ma se è stata necessaria anche qualche rilettura del bel libricino di Lolli, integrata da materiale disponibile on-line (ai teoremi il matematico Maurizio Codogno ha dedicato due interessantissimi, e piuttosto facili da seguire, articoli sul Post, per l’esattezza qui e qui), l’argomento è così ricco di risvolti e meandri da approfondire che non ho saputo fare a meno di fiondarmi pure su un altro testo che preservi la magia dei risultati concettuali raggiunti dal matematico austriaco-americano, ovvero Logica da zero a Gödel di Francesco Berto. D’altro canto è lo stesso libro di Lolli a suggerire e chiamare percorsi di lettura che sono in qualche modo già segnati nella mia libreria, e che fanno tappa in corrispondenza delle mensole che ospitano Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante di Douglas R. Hofstadter e La Mente nuova dell’imperatore di Roger Penrose.
Per farla breve e correre il rischio di banalizzare e sminuirne la portata, i teoremi di Gödel sanciscono l’esistenza, all’interno di ogni teoria (o linguaggio o sistema formale) sufficientemente potente da contenere l’insieme dei numeri naturali, di espressioni vere ma non decidibili, e la necessità di ricorrere a metateorie (o metalinguaggi o sistemi formali più potenti) per dimostrare la coerenza di quella teoria. Da qui è scaturita tutta una serie di generalizzazioni, fraintendimenti ed equivoci che, se da un lato hanno “inquinato” il lavoro teorico di Gödel, dall’altro hanno indiscutibilmente anche contribuito più o meno direttamente al suo successo “popolare”. E nel suo libro Lolli passa in rassegna una ricca galleria di reazioni suscitate dai teoremi di incompletezza.
Se vi va di approfondire, ne ho parlato la scorsa settimana su Quaderni d’Altri Tempi. E ovviamente, se volete sviscerare l’argomento, il mio consiglio è di procurarvi I teoremi di incompletezza e usarlo come un manualetto per esplorare nuovi percorsi di lettura.
September 27, 2019
Tre antologie per un autunno sempre più caldo
Mentre il lavoro dietro le quinte va avanti, qualcuno si chiederà cosa bolle in pentola. E allora ecco le prime portate arrivare dalla cucina… Cominciamo con ordine.
[image error]La prima importante novità è la nuova antologia di Kipple Officina Libraria curata da Sandro Battisti, che s’intitola La prima frontiera e nelle parole del curatore si annuncia come un’esperienza di lettura lontana dai canoni ordinari (come per altro la casa editrice ci ha abituati):
Da pochi giorni ho terminato di lavorare sulla curatela di una nuova antologia, uno strano weird con ambientazioni non umane, poste oltre le dimensioni del conosciuto e totalmente distanti dall’antropocentrismo imperante, in uscita nel prossimo autunno. Il progetto esplora cosa può spaventare l’inumano, lo strano, il diverso; nomi meravigliosi, molto importanti, sono coinvolti nel progetto.
Numerosi sono i nomi noti coinvolti nel progetto, con alcune sorprese e due ospiti d’eccezione: Danilo Arona e Bruce Sterling (tradotto da Salvatore Proietti). Il mio racconto incluso nell’antologia s’intitolerà Dharma Connection e avrà a che fare con uno strano intrigo in un mondo futuro prossimo che sta affrontando l’apocalisse cosmica e metafisica di un’invasione di mostruose creature. Sono alieni, demoni o messaggeri di una dimensione superiore? Se il punto di partenza è senz’altro una via di mezzo tra Neon Genesis Evangelion (un mio pezzo sulla nuova ondata di animazione seriale giapponese degli anni ’90 lo trovate in un numero di Robot di qualche tempo fa) e Pacific Rim, andando avanti altre suggestioni si stratificano sulla trama. Il racconto mescola così atmosfere surreali e meccanismi da spy story, sullo sfondo di una macchinazione capital-finanziaria che fornisce una chiave di lettura del racconto in termini di… iperoggetti. Più strano di così non avrei saputo cosa offrire. Se siete fan di Cigarette Burns e John Carpenter, di Alan D. Altieri e del suo techno-weird, della serie The Black Monday Murders di John Hickman e Tomm Coker, troverete probabilmente pane per i vostri denti e easter eggs a volontà.
Seconda novità, ma non meno weird, è S.O.S. – Soniche oblique strategie. Immaginario fantastico, trovate[image error] fantascientifiche e suggestioni musicali convergono nell’ultimo progetto di Mario Gazzola, che senza tema di smentita mi spingo a definire senza precedenti: un progetto folle, quello di comporre un’antologia di 8 racconti ispirati a un gioco di ruolo ideato dal produttore musicale Brian Eno durante le sessioni di registrazione di 1. Outside, uno degli album più singolari di David Bowie. Gazzola ha delineato una cornice metanarrativa che tiene insieme il tutto e va al di là delle pagine del volume edito da Arcana, che si ramifica fino al web con un sito dedicato all’eminenza occulta che muove le trame dei racconti: il produttore Brain One.
Il curatore ne parla su Posthuman.it e su Facebook potete trovare anche una pagina ricca di contenuti extra.
Per quanto mi riguarda, il mio racconto s’intitola Un grande del crack rhythm a Lagos e mi ha offerto l’occasione di giocare con un’ambientazione inedita: per questo ne ho approfittato per ridisegnare la megalopoli nigeriana nella seconda metà del XXI secolo, aggiungendo un tocco di cyberpunk e afrofuturismo, e facendone uno dei nuovi nodi strategici del panorama economico globale. Anche qui, come in Dharma Connection, c’è un intrigo dietro le quinte che vede scontrarsi due (o forse più) entità in una lotta senza esclusione di colpi per l’egemonia dei nuovi mercati. Quando una variabile imprevista entra nelle equazioni finanziarie, si genera un effetto domino che in linea con le ineludibili leggi della teoria del caos finisce per sconvolgere la vita del protagonista.
E per finire, last but not least, arriviamo a una novità che terrà banco al prossimo Strani Mondi il 12-13 ottobre… e, temo, si tirerà dietro uno strascico di polemiche infinite. L’impavido Carmine Treanni, direttore di Delos Science Fiction, si è preso la briga di selezionare quello che secondo lui rappresenta il meglio del racconto di fantascienza italiano apparso nel 2018 presso piccoli e medi editori. Un lavoro immane che ha portato alla selezione di 15 racconti per Altri Futuri, in cui il mio Cryptomnesiac apparso lo scorso anno in Next-Stream. Visioni di realtà contigue si ritrova in ottima compagnia.
Questa che vedete qui sotto è la superba copertina di Franco Brambilla.
August 9, 2019
Ecco come si generano le onde per fare surf
Ecco come si generano le onde per fare surf. In mare aperto, una tempesta sconquassa la superficie dell’acqua, creando una maretta, un’increspatura di onde confuse e poco potenti che a mano a mano si addensano, si fanno più grandi e, incalzate dalla forza del vento, danno vita al mare grosso. A riva, su una costa lontana, noi riceviamo l’energia che si sprigiona da quella tempesta, irradiandosi attraverso acque più calme sotto forma di un treno d’onda–ovvero di gruppi di onde, via via più regolari, che viaggiano assieme. Ogni onda produce un’oscillazione delle particelle d’acqua lungo un’orbita che si sviluppa perlopiù sotto la superficie. Tutti i treni d’onda prodotti da una mareggiata formano quello che i surfisti chiamano swell, anche detto mare lungo o «di scaduta». Uno swell può viaggiare per centinaia di chilometri: più intensa è la tempesta, più lontano arriva lo swell. Mentre viaggia, lo swell diventa sempre più regolare–il tempo che intercorre tra un’onda e l’altra, cioè il «periodo», si fa costante. In un treno di lungo periodo, l’orbita che le particelle d’acqua descrivono sotto ogni onda può propagarsi per oltre trecento metri nelle profondità dell’oceano. Un treno del genere è in grado di attraversare con estrema facilità la resistenza superficiale di onde meno potenti o di altri swell più piccoli che incrocia nel suo cammino.
Quando lo swell si avvicina sottocosta, la parte bassa delle onde incontra il fondale marino. I treni d’onda diventano set–gruppi di onde più ampie, separate da un intervallo maggiore rispetto alle loro cugine che nascono sul posto per effetto di venti e perturbazioni locali. In base alla conformazione del fondale, le onde subiscono una rifrazione (cioè deviano rispetto alla direzione di propagazione). La parte visibile dell’onda cresce, spinta in alto dall’energia che orbita sotto la superficie. A mano a mano che la profondità dell’acqua diminuisce, aumenta la resistenza opposta dal fondale, rallentando così l’avanzamento dell’onda, che in superficie si solleva ancora e si fa sempre più ripida. Alla fine, la cresta diventa instabile ed è pronta per arricciarsi e rovesciarsi verso la riva–cioè a frangersi. Il principio empirico vuole che l’onda si franga quando la sua altezza raggiunge l’ottanta per cento della profondità marina–in altre parole, un’onda di due metri e mezzo (circa otto piedi) si infrange in tre metri d’acqua (circa dieci piedi). Ma i fattori in gioco sono numerosi, alcuni molto difficili da valutare–il vento, le caratteristiche del fondale, l’angolo dello swell, le correnti–che determinano con precisione dove e come si romperà ogni singola onda. Noi surfisti possiamo solo augurarci che ci offra l’attimo per prenderla (che abbia un punto di takeoff), che abbia una parete adatta a surfare, che non si rompa tutta insieme (closeout) ma per gradi, un poco alla volta (peel), in una direzione o nell’altra (destra o sinistra), consentendoci di viaggiare grossomodo paralleli alla spiaggia, planando lungo la parete centrale dell’onda, almeno per un po’, proprio lì, in quel momento preciso, un istante prima che si chiuda.
Tratto da Giorni selvaggi di William Finnegan
(66th and 2nd, 2016 – traduzione di Fiorenza Conte, Mirko Esposito, Stella Sacchini)
August 8, 2019
Giorni selvaggi
California Street aveva il fondale di sassi e a me, con i miei dieci anni, quelle onde che si infrangevano sopra un letto di roccia sembravano arrivare da un’officina celeste, le creste fosforescenti e le pareti sottili intarsiate da angeli dell’oceano.
[image error]Forse è tardi per un consiglio di lettura, ma voglio lo stesso segnalarvi il libro che mi ha accompagnato attraverso l’estate 2018 e che in questi giorni è tornato a riverberare con rinnovata insistenza tra i miei pensieri. Sto parlando di Giorni selvaggi di William Finnegan, portato in Italia nel 2016 da 66th and 2nd in un’edizione elegante che rende giustizia al contenuto del volume. Così, mentre l’estate avanza e lo sciabordio delle onde culla i pomeriggi stanchi di agosto, mi sono rimesso a sfogliare quelle pagine, rileggendo i passaggi che più mi avevano colpito, i brani che avevano meritato una sottolineatura o un appunto, e non vedo motivi validi per non condividere con voi questo libro meraviglioso.
Giorni selvaggi è un memoir che ricostruisce mezzo secolo di avventure sulle onde accumulate da William Finnegan, firma del «New Yorker», collaboratore di testate come «Granta», «Harper’s» e «The New York Review of Books», e autore di reportage su razzismo, povertà, crimine organizzato, guerra, globalizzazione e politica estera, viaggiando in Asia, Africa, Oceania e America Centrale. Proprio con questo libro Finnegan si è meritato nel 2016 il Premio Pulitzer per la migliore autobiografia e il William Hill Sport Book of the Year.
Come recita il sottotitolo, la sua è stata una vita sulle onde. Ma anche una vita per le onde, essendo stata proprio la passione per il surf a spingerlo a esplorare i luoghi più remoti del pianeta, ad affrontare sfide ai limiti del possibile, mettendosi in discussione, spingendo ogni volta un centimetro più in là il limite delle proprie capacità e al contempo a conoscere le persone che abitavano quei luoghi, i costumi e le tradizioni delle popolazioni, i drammi e i tormenti delle loro storie. Dalle isole Figi a Bali, dall’Australia al Sudafrica a Madeira, in queste pagine dense di adrenalina e del sapore salmastro dell’oceano ritroviamo tutto lo stupore e lo slancio, la sete di scoperte e di meraviglia, l’incanto e il disincanto, che ci accompagnano nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta. E oltre.
[image error]
Finnegan a Tavarua, Isole Figi, 1978.
Fin dal primo impatto sulle coste delle Hawaii, dove nella seconda metà degli anni ’60 Finnegan approda da grommet (ovvero, nel gergo dei surfisti, da novizio inesperto) e inizia a praticare con costanza e dedizione crescente, il suo racconto ci trascina in maniera irresistibile, alternando ironia e poesia con i toni del romanzo d’avventura e di quello di formazione, alla scoperta di un mondo regolato da codici non scritti, costruito su una matematica tanto complessa da risultare quasi incomprensibile agli esterni ed espresso da un linguaggio non meno esoterico, fino a trasmettere nella pratica delle onde la filosofia del surf, l’essenza profonda che lo rende così diverso da qualsiasi altro sport.
In mare, ogni cosa è legata in modo indissolubile e inquietante a tutte le altre. Le onde sono il campo da gioco. Il fine ultimo. Sono l’oggetto dei tuoi desideri e della tua ammirazione più profonda. Allo stesso tempo, sono anche il tuo avversario, la tua nemesi, il tuo nemico mortale. L’onda è il rifugio, il tuo nascondiglio felice, ma anche un territorio selvaggio e ostile, una realtà indifferente e dinamica. A tredici anni, avevo smesso in pratica di credere in Dio, ma questo nuovo sviluppo aveva lasciato un vuoto nel mio mondo, la sensazione di essere stato come abbandonato. L’oceano per me era simile a un Dio insensibile, infinito nella sua pericolosità, dotato di un potere smisurato.
È a Honolulu, mentre cerca di inserirsi in una nuova scuola, che Finnegan scopre il vero surf, non quello che aveva avuto modo di vedere e provare in California in un sobborgo di Los Angeles, e questa rivelazione viaggia parallelamente alla scoperta del suo nuovo ambiente, dominato dal razzismo dei suoi coetanei e dalle logiche tribali delle gang di strada (un’esperienza che molti anni più tardi si sarebbe rivenduto in un’intervista con Obama in persona, che qualche anno dopo di lui avrebbe frequentato sempre a Honolulu un istituto meno problematico di quello). Ed è da qui che parte questo viaggio nel tempo e nello spazio, che ci porterà su spiagge inaccessibili, custodite come segreti dai surfisti che le conoscono, e a contatto con personaggi bizzarri, romantici, maniacali, ma accomunati da un’unica passione.
La dedizione di Finnegan al surf (con “il piglio esoterico, ossessivo – non mainstream” e “quel marchio di monomania, antisociale e squilibrata”, che si portava dietro, destando non poche preoccupazioni nei suoi genitori) è tale che la Storia stessa finisce per essere scandita dalle sue incursioni sulle onde (a proposito del 1968, per esempio, consideriamo questo passaggio emblematico: “La rivoluzione della shortboard era inseparabile dallo zeitgeist: la cultura hippie, l’acid rock, gli allucinogeni, il misticismo neo-orientale e l’estetica psichedelica” o quest’altro: “Là fuori, nel mondo, c’era la «controcultura» con tutte le affinità e l’ispirazione che ti offriva, ma in gioco c’era anche, a un livello più immediato, il desiderio di ridefinire le nostre vite“), finendo per portarlo progressivamente a distaccarsi dal resto del mondo:
Il nuovo ideale che stava prendendo piede era quello della solitudine, della purezza, delle onde perfette in un mondo incontaminato. Robinson Crusoe, L’estate senza fine. Era un sentiero che ti conduceva lontano dalla civiltà, nel senso più antico della parola, verso una frontiera dimenticata da dio, dove avremmo vissuto come moderni selvaggi. Questa non era la chimera del felice vagabondo. Era qualcosa di più profondo. Rincorrere le onde per professione era un atto egoista e allo stesso tempo altruista, dinamico e ascetico, radicale nel suo rifiuto dei valori del dovere e della realizzazione personale.
[image error]
Finnegan sulla spiaggia di Grajagan, Java, nel 1979.
Finnegan, da solo o insieme ai suoi amici di tavola, si avventura in giro per il mondo, abbandonando prima gli studi e poi un lavoro da frenatore sui convogli merci della Southern Pacific, preferendo la scoperta alla routine, in un’epoca in cui peraltro “il meteo del surf non era quella scienza computerizzata e alla portata di tutti che è oggi“. Per quattro anni esplora i Mari del Sud, facendo di tutto per sopravvivere, dal lavapiatti al benzinaio, patendo la fame, ma accumulando un background di esperienze fantastiche e la conoscenza diretta dei migliori spot al mondo: delle dieci migliori onde elencate in un articolo del 1981 di una rivista per surfisti, gliene mancava solo una.
Non aveva ancora compiuto trent’anni e aveva già surfato quella che rimarrà per sempre l’onda insuperabile, che si sforzerà inutilmente di tenere nascosta agli altri surfisti. Lui e i suoi compagni di avventura sono pionieri, alla ricerca forse di una dimensione incontaminata che non esiste e forse non è mai esistita, ma saperlo non era una condizione sufficiente per demordere e rinunciare all’impresa:
Il sogno di quella solitudine primigenia del surf aveva un effetto collaterale del tutto prevedibile: una nostalgia senza limiti. Buona parte delle storie che scrissi nei miei diari riguardava il viaggio nel tempo, più che altro in una California agli albori della storia.
In questo viaggio sull’abisso fino a un’ideale Terra delle Ombre scoperta quasi per caso proprio alle porte del Vecchio Continente, Finnegan non di rado si ritrova a incrociare i sentieri di un’immaginario particolarmente consolidato da queste parti: imbattersi tra le sue pagine nei nomi di Philip K. Dick e Thomas Pynchon sembra la dimostrazione incontrovertibile di quel legame “indissolubile e inquietante” che il mare riesce a instaurare tra tutte le cose.
Chiusi gli occhi. Mi sembrava di sentire su di me tutto il peso dei mondi senza mappe, delle lingue non ancora nate. Ecco quello che stavo cercando: non l’esotismo, ma la comprensione assoluta della realtà così com’è.
E sulle onde, se si è particolarmente bravi e fortunati allo stesso tempo, può capitare di sperimentare epifanie capaci di ricompensare tutta la fatica sostenuta:
Al culmine dell’alta marea accadde una cosa strana. Il vento smise di soffiare e l’acqua, già molto limpida, divenne ancora più limpida. Era mezzogiorno e con il sole allo zenit l’acqua era come invisibile. Sembrava che fossimo sospesi sopra la barriera corallina, fluttuando su un cuscino evanescente, incapaci di stabilirne la profondità a meno di non urtare per caso uno spuntone di corallo. Le onde erano illusioni ottiche. Potevi attraversarle con lo sguardo e scorgere il cielo, il mare e il fondale marino.
E questo è un libro che ci racconta proprio quello (“quel luogo e il suo sedimento mitologico“), facendo toccare con mano anche ai profani la bellezza, la libertà e la grazia selvaggia di una disciplina che continua a esercitare un fascino irresistibile perfino su chi, come me, non saprebbe tenersi a galla nemmeno aggrappato a un salvagente. Leggete Finnegan, concedetevi lo stupore di quei giorni selvaggi in cui eravamo i signori delle onde, in un mondo-oceano primordiale che ancora sopravvive nei nostri sogni.
Mi sentivo galleggiare, sospeso tra due mondi. C’era l’oceano, davvero infinito, che spariva per sempre all’orizzonte. Quella mattina era placido, ed esercitava su di me un fascino dolce e languido. Ma adesso ero legato in maniera indissolubile ai suoi sbalzi d’umore. La mia devozione era assoluta e irresistibile. Non pensavo più che le onde fossero intarsiate in qualche officina celeste. Stavo diventando più pragmatico. Adesso sapevo che traevano origine da mareggiate lontane che si muovevano, per così dire, sulla superficie dell’abisso. Ma la mia totale dipendenza dal surf non aveva una motivazione razionale. Non ero in grado di opporvi alcuna resistenza: era una miniera senza fondo di bellezza e meraviglie. Non avrei saputo spiegarlo in altre parole. In linea generale, sapevo che riempiva una specie di vuoto psichico – collegato magari al mio rifiuto della Chiesa o, più probabilmente, al mio ineluttabile distacco dalla famiglia –, e che aveva rimpiazzato molti interessi precedenti. Ero un pagano riarso dal sole. Ero stato iniziato ai misteri della vita.
Tutte le citazioni solo tratte da Giorni selvaggi di William Finnegan (66th and 2nd, 2016 – traduzione di Fiorenza Conte, Mirko Esposito, Stella Sacchini)