Moony Witcher's Blog, page 4

April 22, 2020

Ricordi – 8 – LA MADONNA di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.

Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.

Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro

che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.


ricordi 8 La Madonna - racconto a puntate di Moony WitcherNon andavo in chiesa. Non avevo una fede religiosa. Non vestivo con la nuvola di velo quando era il tempo delle Comunioni e delle Cresime. Niente coroncina in testa, niente festa.

Insomma, non ero una piccola sposa come tutte le mie amiche che camminavano verso la chiesa del Santissimo Redentore, alla Giudecca, per partecipare al sacro rito.

La madre di mia mamma, nonna Tisana (sì, si chiamava proprio così), ebbe un’idea per allietare quel giorno per me buio e triste. Mi comprò un bellissimo vestito bianco e blu con tanti fiorellini in evidenza. La sottogonna in velo mi gonfiava come un palloncino e così, anch’io, mi sentii un po’ come le altre. Presa per mano andai in famoso ristorante di Rialto per festeggiare la non-festa. Apprezzai molto nonna Tisana e a pranzo mangiai avidamente tutto quello che il cameriere portava. Eppure, nei giorni successivi, rimasi con il dubbio che dentro la chiesa succedesse qualcosa di straordinario. Un segreto che le altre bambine scoprivano ed io, invece, ne rimanevo all’oscuro.

Cosa mai accadeva in quella grande costruzione con i crocifissi e la scalinata che portava al portone della fede?

La curiosità mordeva lo stomaco e con una banale scusa uscii di casa e attraversai tutta la fondamenta delle Zitelle, scalai il ponte e arrivai con il fiatone davanti alla chiesa. Era un pomeriggio assolato e la scalinata era deserta. Con un certo timore varcai il portone e subito mi avvolse un profumo d’incenso. Enorme, potente, maestosa, la chiesa mi accolse nel silenzio. Nessuno stava pregando e le panche di legno erano vuote. Davanti a me solo l’altare. Ai lati tanti quadri di santi con sguardi estatici. M’incamminai lenta e il rumore dei passi rimbombò facendo sentire la mia anomala presenza. Fui attratta da una statua che s’innalzava alla mia destra, poco prima dell’altare. Raffigurava una donna velata e vestita d’azzurro, totalmente illuminata da lunghe candele bianche. Le fiammelle danzavano nell’aria e quell’immagine fu per me un richiamo fortissimo. Era la Madonna, e lo capii perché tante donne e molte mie amiche, avevano una medaglietta d’oro appesa al collo che raffigurava proprio quella donna.

Con una certa apprensione mi posizionai davanti alla statua. Lo sguardo dolce e fisso di quella donna era un po’ inquietante ma anche invitante. In piedi e con le mani dietro la schiena, la osservai per alcuni minuti. Poi, di getto, le parlai: “Se davvero esisti, rispondimi. Muoviti! Solo se lo farai io ti crederò”.

Le lasciai il tempo per vedere se reagiva. Se davvero poteva spiegarmi il mistero della fede. Se era così sbagliato non indossare il vestito da sposa per la Comunione e se era così grave non conoscere le preghiere.

La statua, ovviamente, rimase immobile. Solo le fiammelle delle candele continuarono a danzare. Abbassai gli occhi e pensai che la risposta non arrivava poiché non lo meritavo. Io ero quella diversa. Ero sbagliata. Ero la bambina che stava fuori dalla porta nell’ora di religione. Ero fuori dalla convenzione delle regole, fuori dalla grazia e della compassione.

Me ne andai a testa china, convinta che nella vita avrei dovuto cercare la quiete e la speranza solo dentro di me. Bambina senza velo ma con la forza di correre su un sentiero impervio, unico e reale.

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Published on April 22, 2020 01:00

April 20, 2020

Ricordi – 7 – TUNA E LE FARFALLE di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.

Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.

Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro

che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.


ricordi 7 Tuna e le Farfalle - racconto a puntate di Moony WitcherCapelli corti, tagliati a maschio, nessun profumo e mani forti. La dolcezza era nelle parole e nei gesti. Zia Vittorina era così e in famiglia la chiamavamo Tuna, e non so perché.

In verità non era proprio una zia, mia nonna Maria l’aveva ricevuta in casa quando era solo una ragazza. Una figlia acquisita che negli anni diventò parte fondamentale della famiglia guadagnando l’appartenenza, per questo era per tutti noi una “zia”.

La casa di nonna Maria era a pianoterra, in Campo Marte, a pochi metri abitava Tuna con la vecchia “Peri”, sua madre.

Ho un’immagine fissa della vecchia Peri, sempre vestita di nero tabaccava tirando col naso e se ne stava seduta accanto alla finestra della cucina. Il suo panorama, per anni e anni, fu sempre lo stesso: il campiello colmo di pietre e fango. All’epoca molte fogne erano a cielo aperto e l’erba cresceva ai lati dei condomini. Non vi erano fiori e nemmeno aiuole. Eppure noi bambini giocavamo a perdifiato, perché l’infanzia si adagia e cresce anche nel nulla. Quel nulla, che per noi, era tutto. Le urla delle mamme che si affacciavano ai balconi si alternavano in un ritmo armonico. Tutte chiamavano i propri figli, li sgridavano, li ammonivano con frasi irripetibili. Le grida erano come musica e la vivacità delle parole sottolineavano la genuinità di un’educazione antica.

Ero contenta di stare a casa di nonna, mia madre e mio padre lavoravano nell’osteria di nonno Gigio e dunque i pomeriggi li trascorrevo con Tuna. Lei sapeva a malapena leggere e scrivere, eppure aveva il pregio di stimolare la mia fantasia.

Sui quaderni di scuola mi faceva disegnare piccole farfalle. Un disegno semplice, fatto con un banale trucco. Bastava un pezzetto di colore a cera premuto e girato sul foglio per far nascere ali variopinte.

Mi piaceva tanto avere pagine che potevano colorare le giornate.

Farfalle che volavano dentro la mia mente di bambina irrequieta.

L’inverno passava nel calore del cibo cotto che Tuna preparava con pazienza. Il lungo tavolo di marmo era sempre apparecchiato per chi passava da casa e mangiava senza porsi il problema dell’orario. Pranzi e cene fugaci e io mi nutrivo di farfalle imprigionate sui quaderni. No, non mangiavo molto e la magrezza era talmente evidente che amici e famigliari iniziarono a chiamarmi “due etti”. Due etti di occhi grandi e un vuoto enorme nel cuore. La morte di mia sorella riempiva la voragine e non c’era cibo che potesse sostituire il dolore.

Superare, crescere, capire, accettare. Sì, lo dovetti fare. Non c’erano alternative alla morte. E così le farfalle di Tuna portavano il sorriso in quella casa dove il via vai di cugini era continuo.

La merenda arrivava come i coriandoli a Carnevale, ed era uguale o quasi per tutti i bambini di Campo Marte: pane e zucchero, pane e olio o talvolta un frutto.

Ammetto che nonno Gigio aveva una preferenza per me, con la sigaretta in bocca e lo sguardo furbo metteva la mano in tasca e mi dava un soldino. Lo spendevo subito correndo alla baracchina verde, quella della “Lidia dei dolci” e dietro il banco spuntava Marina, ragazza bionda, con le guance rosse che accoglieva bimbi golosi con uno sguardo azzurro, come il cielo.

C’erano caramelle profumate, bottigliette di liquidi aromatici da bere in un attimo, strisce di liquirizia e bon-bon di ogni gusto.

Colori e profumi che si sommavano agli arcobaleni delle farfalle che rimanevano sulla carta e nel mio cuore.

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Published on April 20, 2020 00:30

April 18, 2020

Ricordi – 6 – LA SCUOLA E LA STRADA di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.

Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.

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che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.


ricordi 6 La Scuola e la Strada - racconto a puntate di Moony WitcherHo frequentato la scuola elementare “Carlo Goldoni”, magnifica villa della Giudecca affacciata sulla laguna. Là ho imparato le tabelline e l’alfabeto. Le aule non erano semplici aule ma vere e proprie stanze con travi a vista, pavimenti con mosaici preziosi e in quella del prima elementare c’era persino il caminetto! Ma senza fuoco! Le maestre erano rigorose, alcune affettuose e altre altere. In ogni caso, ognuna di noi alunne aveva il suo mondo da raccontare e gli scherzi da fare. Sui banchi s’intervallavano pianti e risate, brutti voti e 10 e lode che marchiavano i quaderni e le pagine con le “orecchie”. Voti che poi venivano commentati dai genitori, non sempre clementi. E così io cercavo di farcela tentando di non cadere in troppi errori. Volevo capire perché quando il prete entrava, io dovevo uscire fuori dalla porta e stare con la bidella. Ero l’unica bambina della scuola esonerata dall’ora di religione e per questo abbandonavo l’aula. Negli Anni Sessanta gli atei erano considerati il diavolo! Ed io, ero il demonio? A 6 anni era una domanda alla quale non sapevo proprio rispondere. Il dubbio mi creò non pochi disagi interiori. E mi arrovellavo anche quando vedevo il gruppetto di orfani accompagnati dalle suore che fungevano da mamme. I bambini senza genitori indossavano tutti lo stesso cappotto di colore grigio. Grigio come lo sguardo che mostravano.

Ma nel grande parco della scuola, quando sbocciava la primavera, era lecito correre e giocare tutti insieme durante l’ora di ricreazione. La fontana non zampillava mai. Io, la immaginavo viva, con l’acqua fluente che bagnava mani e viso. I sogni di come poteva essere la realtà che non mi piaceva iniziarono a farsi sempre più frequenti. E non ci volle molto perché i pensieri diventassero frasi o disegni. Non mostravo a nessuno ciò che componevo. Ne avevo vergogna.

Però la vivacità che esplodeva dentro il mio cuore la condividevo con le mie compagne di classe e con tante altre amiche.

La strada diventava la scuola più importante, perché ti avviava alla cura dei sentimenti e delle sfide da superare per forgiare il carattere.

E così con Donata, Rossana, Manuela, Daniela mi scatenavo in giochi divertenti e molto semplici che oggi non si fanno più.

Insomma, i pomeriggi scorrevano come il vento. Giocare a Nascondino e ai Quattro Cantoni, era il modo per stringere amicizie che sempre più diventavano forti e solide. I dispetti si univano alle piccole vendette, ma bastava una pietra per giocare al Campanon…e tutto passava.

Le confidenze, i primi “amori” infantili. Pettegolezzi e delusioni. Emozioni che duravano poco anche se erano potenti e fulminee.

Chi aveva fratelli e sorelle poteva contare sempre in una compagnia durante le ore in casa, io ero figlia unica e allora le mie “sorelle “erano le bambine del palazzo dove abitavo. Le rispettive mamme si affacciavano alle finestre per stendere le lenzuola e le chiacchiere si perdevano in quel cielo azzurro che brillava più dei loro occhi giovani. La madre di Susanna si complimentava con la mia quando cucinava il pesce, e le risate si sentivano fin oltre le case. Mentre la mamma di Rossana, vedendo che ero sola senza sorelle, mi chiamava per andare a mangiare la bistecca da lei, assieme a sua figlia. Era la bistecca più buona del mondo!

E le abbuffate di felicità e cibo erano d’obbligo alle Feste dell’Unità. Con le sorelle Mara e Barbara mi sono divertita così tanto a cantare e a correre che potrei sentire ancora adesso la gola bruciare e i polpacci dolere. E il pane? Sì, il pane di Gilmo (mi pare si chiamasse così) era fantastico, soprattuto i “montasù”. E la “Lilli del latte”, donna dai modi gentili, era sempre pronta a porgere la bottiglia con quel buon liquido bianco fresco e sano. Peccato che il banco del negozio fosse un po’ troppo alto per me, piuttosto bassa di statura. Infatti, per arrivarci mi sforzai talmente tanto che alla fine sbattei la bocca e mezzo dente saltò per aria. Il mio sorriso cambiò in un istante trasformandosi in un pianto inevitabile. Ricordo perfettamente che per consolarmi l’amica Adriana mi portò dalla “Moretta”, donna con in testa uno chignon acconciato con le forcine, che mi abbracciò fortissimo: “Ti se bea anca col dente rotto”.

Una frase, tanto affetto e le lacrime terminarono.

Ricordo. Ricordo tutto. Anche i silenzi e gli sguardi sinceri dei giudecchini.

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Published on April 18, 2020 00:30

April 16, 2020

Ricordi – 5 – I FUNGHI E IL CERBIATTO di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.

Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.

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Ricordi 5 I funghi e il cerbiatto - racconto a puntate di Moony WitcherStivali, giacca a vento e un cestino in vimini. Nei boschi l’odore di muschio entrava nelle narici come ossigeno puro. Camminare per ore nei boschi di quella che ora è l’ex Jugoslavia era naturale. La fatica di alzarsi all’alba era compensata dalla freschezza della rugiada che bagnava il viso. Salire, scalare, imprimere le proprie orme sui sentieri impervi era conquistare quella libertà che ti permetteva di urlare e sentire di ritorno l’eco della voce. Foglie gialle e marroni, rosse e verdi erano il tappeto sul quale chinarsi per scovare tra i cespugli funghi enormi. Mio padre avanzava spedito schivando arbusti e roveri, l’incitazione di proseguire era un ordine perentorio. Arrivare là in alto e ancora più in alto per conquistare il panorama che mozzava il fiato. Noi bambini avevamo le guance rosse per lo sforzo ma la gioia di riempire i cestini di finferli e porcini, russole e mazze di tamburo era talmente tanta da farci dimenticare sete e fame.

Bastoni d’accompagno ricavati dai rami caduti, mani nude e occhi puntati come laser per scovare funghi sempre più grandi. La sfida continuava senza sosta. E così le urla entusiastiche si spargevano con il vento più di quelle che facevamo durante i giochi alla Giudecca. Pierangelo Federici e Davide Federici, fratelli di tempra e carattere aperto, avevano in saccoccia porcini dalle dimensioni spropositate. Io li seguivo, speranzosa di trovarne almeno uno, seppur piccolo e malandato. In realtà la ricerca dei funghi non era per me la priorità. Amavo osservare i raggi del sole che s’intrufolavano tra gli alberi, mi piaceva odorare l’erba e accarezzare pietre e sassi di remota era geologica. Striature che mostravano il tempo passato.

I due fratelli avevano nelle gambe quell’energia che solo i “civapcici” potevano dare. Polpettine di carne che in Croazia e in Slovenia si gustavano in ogni trattoria. Noi bambini eravamo davvero affamati quando tornavamo dalla spedizione e i nostri genitori lo sapevano. Le vacanze d’estate spesso univano la mia famiglia a quella dei fratelli Federici. Il loro padre, Momi, aveva sempre una parola gentile. Politico impegnato e grande oratore, abbracciava sua moglie, Lia Finzi, con quell’amore che ricordo come integro e grande. Lia era ,ed è, una donna di raro spessore umano. Lo sguardo e il sorriso sapevano accogliere qualsiasi dolore. Sofferenza e gioia. Io l’adoravo. L’adoro tutt’oggi e non solo per la sua storia politica e d’impegno sociale ma per una ragione intima straziante. Lia fu il nome dato anche a quella sorella che non ho mai conosciuto. Una vita che si è spenta al primo vagito.

Non bastavano le risate e i giochi per attenuare la spaccatura del mio cuore e l’enorme angoscia scavò un vuoto carsico. Anche nell’età dell’infanzia i dolori rompono i pensieri e restano nel profondo che s’inoltra nel buio della morte. Non c’erano alternative per uscire dal guscio sofferente e solo la mano eterna della Natura mi aiutò a risalire. Accadde in un giorno di vacanza a Logarska Dolina. Successe qualcosa che quietò l’ansia e lo sgomento. Sì, avvenne proprio lontano dalla casa dall’Italia e dalla casa della Giudecca.

La ricerca dei funghi e le lunghe passeggiate erano oramai una consuetudine ma quel giorno eravamo solo io e mio padre. Ci eravamo alzati che era ancora buio e arrivati nel bosco lui s’inoltrò a passo veloce, io rimasi indietro. Stanca e ancora assonnata, approfittai di un grosso tronco addormentato in mezzo al sentiero. Mi sedetti e il silenzio fu rotto da uno strano rumore. Dietro ad un grande cespuglio notai un certo movimento sospetto. Poi, d’improvviso, spuntarono due orecchie e un muso. Era un cerbiatto! Un cucciolo meraviglioso che ruminava tranquillo. Per qualche secondo rimasi immobile ma la felicità di trovarmi a pochi metri da quella meraviglia agitò gambe e piedi. Il cerbiatto bloccò la masticazione e girò il muso verso di me. Gli occhi, grandi e profondi, mi fissarono.

Restammo a guardarci e quegli occhi riempirono i miei del nutrimento di cui avevo bisogno. Un cibo immateriale che è come l’amore. Il suo era uno sguardo colmo di sorpresa. Di vita giovane e selvaggia. La fragilità di quel momento si sommò alla bellezza dell’esistenza di ogni miracolo della natura.

Un pensiero mi attraversò come una lama: quel cucciolo inerme poteva sparire dal mondo per qualsiasi imprevisto. Ucciso dal cacciatore di turno, una scivolata in uno strapiombo o una malattia. I suoi grandi occhi si sarebbero chiusi per sempre. Così come accadde a mia sorella, la cucciola che la mia famiglia aveva atteso per nove mesi.

Con la bocca aperta fermai il respiro. Sentii come se una doccia improvvisa mi lavasse dal dolore.

Il cerbiatto mosse le orecchie e avanzò timidamente. Mi alzai per accarezzarlo, però la mossa non fu felice. Il piccolo corse via.

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Published on April 16, 2020 05:18

April 14, 2020

Ricordi – 4 – COLORI E MUSICA di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.

Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.

Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro

che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.


Non potevo entrare là. Solo personaggi di alto rango avevano l’onore di varcare la soglia. Il portone del Palazzo Tre Oci era sempre chiuso ma non mi arrendevo. Quella dimora affacciata sul canale della Giudecca era a pochi passi da casa mia, e questo mi spingeva a raggiungerla con comodità. Sapevo che il vecchio, con le braccia grosse e la camicia arrotolata fin sopra i gomiti, mi aspettava. Potevo tentare l’arrembaggio solo di pomeriggio, infatti uscivo da casa verso le quattro con la scusa di andare a giocare in Campo Marte con gli altri bambini. Alla mamma raccontavo una bugia che ancor oggi non mi pento di averle detto.

Ero rimasta troppo colpita da quel vecchio che profumava di colori e la sua casuale conoscenza mi permise di frequentarlo in modo fugace.

Presa dal desiderio di vedere le sue opere, percorrevo la fondamenta delle Zitelle a passo veloce e invece di entrare nella calle “del vento” per raggiungere le amiche, andavo dritta con la speranza di trovare aperto quel benedetto portone. E quando lo spiraglio c’era, i miei occhi si riempivano di arcobaleno. Salivo le larghe scale di marmo ed infine bussavo timidamente alla porta di Gregorio Sciltian, notissimo pittore di origine armena che parlava poco e bofonchiava davanti a numerose tele che attendevano il suo estro. Che fosse un artista conosciuto nel mondo lo ignoravo, per me era il vecchio che sapeva dipingere. Un signore di buona stazza e con il carattere un po’ burbero. Burbero con gli altri, non certo con me!

Avevo sempre una storia da raccontargli, una vicenda che riguardava la scuola, i compiti e anche cosa avevo sognato. Lui mi ascoltava distratto mentre sceglieva tra mille tavolozze i pennelli da usare. Il suo sguardo era acuto e quando mi dava le spalle concentrandosi sul suo dipinto, mi zittivo. La miscellanea di tinte che raccoglieva come fiori di campo era per me un’alchimia miracolosa. La tela prendeva vita e la luce proveniente dall’enorme finestra neogotica rifletteva lo splendore che soltanto il cielo di Venezia poteva donare.

Bastava una sua distrazione o la necessità di andare in cucina, e le tele rimanevano incustodite, davanti a me.

Non resistevo. Non ci riuscivo. Afferravo i tubetti dei colori e li strizzavo al punto che il bianco si univa al rosso, il verde macchiava il giallo e la tavolozza si riempiva di piccoli laghi densi di sfumature inconsuete. Pensavo ingenuamente di aver composto nuove tinte per il vecchio pittore. Non avrei mai osato imbrattare le sue tele ma spremere i tubetti sì. Quei nuovi colori macchiati sarebbero stati la scelta che avrebbe fatto per le sue opere.

Appena sentivo i suoi passi, indietreggiavo, mettevo le mani dietro la schiena, erano sporche del guaio che avevo combinato.

Sciltian si sedeva sul suo largo sgabello e riprendeva il pennello. Emetteva strani rumori, si girava a guardarmi senza dire una parola. So per certo che si accorgeva del mio pasticcio. La tavolozza con i colori confusi rimaneva là, accanto a lui che continuava a dipingere come se io non ci fossi.

Me ne andavo felice chiudendo la porta e salutandolo con un semplice “Ciao pittore”.

E se i colori stavano diventando una delle passioni più forti, anche la musica iniziò a prendermi la mente. La scuola di danza classica del Teatro la Fenice mi aveva forgiato i piedi ma anche l’anima. Stare sulle punte era doloroso ma la musica classica guariva ogni ferita. Ciajkovskij prese il mio cuore. E ancor oggi è suo. La musica parla oltre la realtà. Ti porta lontano, dentro e fuori di te. Ti fa viaggiare come le parole che ancora non sono espresse.

La fortuna di essere nata in una città dove l’arte è madre, mi ha portato a incontrare persone e personaggi unici al mondo. E così la mia famiglia incrociò quella di un uomo grande, timido e forte.

Così me lo ricordo. Luigi Nono, compositore e politicamente impegnato, antifascista come mio padre, aveva il raro dono della sincera simpatia. Sposato con Nuria, figlia dell’altrettanto famoso compositore austriaco Arnold Schonberg, era solito passeggiare sulla riga di marmo bianco della fondamenta. Proprio a filo d’acqua. Solitario se ne andava camminando e pensando. Ho un ricordo nitido e dolcissimo: la sua figura che ondeggia cercando qualcosa che solo lui poteva immaginare. Ero molto contenta quando andavo a casa sua, a una fermata di vaporetto dalla mia. Era una casa bellissima dove l’ordine delle cose era perfettamente intonato alle risate delle sue figlie: Silvia Nono e Serena Nono. Mie coetanee. Amiche da subito. Bambine libere e accoglienti che amavano gli animali. Ma quando il loro padre era chiuso nella stanza magica e stava studiando, scrivendo e componendo, non si poteva creare disturbo.

Capii che la musica ha bisogno di silenzio per nascere.

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Published on April 14, 2020 03:04

April 10, 2020

Ricordi – 3- IL GIOCO DEL SILENZIO di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.

Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.

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Ricordi 3 Il gioco del silenzio di Moony WitcherAlberi altissimi, margherite sbocciate tra l’erba e una vasca di sabbia. La scuola materna era una casa immersa in un grande parco affacciato sulla laguna veneziana. La meraviglia incantava gli occhi ingenui che al primo impatto non lacrimavano. Ma i pianti disperati scoppiavano subito dopo, sulla soglia della porta. Le piccole mani non volevano lasciare quelle delle mamme.

Io feci lo stesso. Un pianto convulso che fece tremare persino le vetrate. La bidella gentile sorrideva porgendo una caramella alla frutta per zuccherare la disperazione. Il volto di mia madre sparì lasciando spazio ai primi passi verso l’aula ricca di scarabocchi. I disegni erano appesi alle pareti come trofei di un’infanzia che celava ombre nere e pungenti. La disciplina, stare in fila per due, non mettersi le dita nel naso, alzare la mano se scappava la pipì. Prime regole che preparavano alla scuola elementare. Tre anni di “Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra. Tutti giù per terra!” di filastrocche e canzoncine cantate in coro. Anni che scorsero veloci, così come in fretta si accorciava il grembiulino e i calzettoni slabbrati scendevano alle caviglie.

Certo, il teatrino delle marionette rallegrava i pomeriggi più uggiosi e in primavera si usciva correndo per raggiungere la vasca di sabbia per costruire vaghi castelli e torri sbilenche. Le risate si sommavano al profumo delle mele che ogni bambina aveva nel cestino della merenda. Il cestino era un pezzo di casa. Un pezzo di mamma che ti rimaneva accanto.

Ricordo perfettamente che nell’armadietto che mi avevano assegnato era disegnata una caffettiera. Chissà perché! Avrei voluto un altro marchio che distinguesse la mia presenza e segnalasse quale era il luogo dove deporre cappotto e sciarpa. Mi sarebbe piaciuto un pupazzo o una stella. Forse sarà per questo che iniziai a fantasticare per modificare la realtà che mi circondava.

I giochi e le capriole cancellavano a lontananza da casa ma non sempre il chiasso era accettato. Anzi, c’era una maestra che lo puniva! Che lo annientava.

Era una donna secca secca, con il naso a punta e i capelli neri. Aveva le sembianze di uno di quei scarabocchi che disegnavamo. Non aveva una forma morbida. Umana. Anzi, di umano non aveva proprio nulla. Era tanto diversa dalla direttrice della scuola materna che aveva un sorriso dolce come la panna.

La maestra dal naso a punta chiudeva a chiave la porta dell’aula, in tal modo nemmeno le bidelle potevano entrare. Poi ci ordinava di rimanere sedute sulle panche addossate al muro.

“State composte! Immobili e zitte!”, ordinava tenendo una lunga bacchetta in mano.

Il Gioco del Silenzio era il peggior gioco che dovevamo fare. Bisognava accettarlo senza capirne la ragione.

“Mani congiunte! Girate solo i pollici. E non parlate!”, era il secondo ordine.

Vicine, con le scarpe che toccavano il pavimento, i respiri sottili e gli occhi che cercavano altri sguardi persi nel grigiore dei pomeriggi. Mille pensieri attraversavano la mia mente e il corpo protestava. Stare ferma per troppi minuti era impossibile. E poi, il girar dei pollici era davvero noioso.

E così, finivo per essere punita. Avevo trasgredito la regola del silenzio perché ridacchiavo con la mia compagna vicina.

La punizione era sconcertante. Terribile più del silenzio.

Messa al centro dell’aula, mentre tutti gli altri bambini guardavano attoniti, dovevo togliermi il grembiule, la gonna, la maglietta…e tutto il resto. La nudità che ritenevo condizione normalissima diventò uno scandalo da coprire. La vergogna entrò in me e ci vollero tanti e tanti anni per potermi liberare da quel perfido Gioco del Silenzio.

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Published on April 10, 2020 00:00

April 8, 2020

Ricordi – 2 – GRANELLI DI SABBIA di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.

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Ricordi 2 - Granelli di sabbia di Moony WitcherFaceva caldo e da poco eravamo tornati ad abitare nell’Isola della Giudecca. Questa volta l’appartamento era ben più grande di quello del Dolo e dalle finestre vedevo passare i vaporetti e le navi sul canale che divide l’isola della Giudecca dal centro storico.

Dal terzo piano osservavo benissimo Palazzo Ducale, la Riva di San Zaccaria e San Marco. Spesso soffermavo lo sguardo su una statua dorata, l’Angelo che sostava inesorabilmente sulla Punta della Salute. Un panorama unico al mondo!

Ma quello che mi entusiasmava tantissimo era la cameretta. Sì, una cameretta tutta per me, con il letto e l’armadio. I miei genitori potevano dormire tranquilli nella loro stanza, piuttosto ampia e ariosa tant’è che mio padre, preso da un’insolita allegria, si era finalmente tagliato la barba!

La cucina era ben ammobiliata e nel salotto regnava un divano verde, un tavolo tondo, due poltrone e una libreria stracolma di enciclopedie, volumi di politica, di economia e storia. Alcuni libri erano piuttosto consumati e altri nuovi di zecca che si alternavano a scartoffie e documenti.

Da giorni mia madre preparava asciugamani, borse con saponette impacchettate accanto ad un rastrello viola, una paletta rossa e un secchiello bianco. Addirittura avevo ricevuto in regalo un cappellino di paglia e un costume da bagno color pesca.

Era luglio e avevo 3 anni.

Seduta sulle ginocchia di mio padre ascoltavo curiosa il suo racconto sulla bellezza delle conchiglie e di quanto era grande il mare: «Non è come il Canale della Giudecca che vedi dalla finestra e non è neppure come la laguna. E’ molto ma molto più grande».

Non riuscivo ad immaginare la vastità e la profondità dell’acqua, eppure l’idea di trovarmi di fronte a quel luogo sconosciuto alimentava la mia curiosità. Era la prima volta che i miei genitori mi portavano in spiaggia, al Lido di Venezia e l’ansia di vedere il mare riempiva i sogni della notte. Ed ero ancor più agitata nel sapere che i miei genitori avevano prenotato una capanna. Già, a Venezia, le cabine della spiaggia si chiamano così. Sono piccole casette di legno, patio e tavolo con quattro sedie. Ebbene, giunti all’ingresso dello stabilimento balneare, affollato di mamme con bambini piccoli come me, giovanotti abbronzati e signorine dai grandi occhiali da sole, non volli più camminare. I granelli di sabbia mi terrorizzavano! E la spiegazione che in realtà erano conchiglie frantumate dal tempo non cambiò la mia opinione. I granelli di sabbia mi facevano schifo!

Mia madre insisteva dicendo che dovevo andare avanti e raggiungere la capanna ma io, con le scarpe immerse nella sabbia, ero rimasta immobile. I granelli mi davano un fastidio enorme e non sapevo come toglierli e pulire i piedi che ai miei occhi si erano sporcati fin troppo. Iniziai a strillare come una sirena. Bocca spalancata, occhi chiusi e lacrimoni densi di paura.

Mio padre, allibito, si innervosì parecchio. Mi prese in braccio mentre il pianto continuava incessante. Solo sulla battigia, davanti all’immensità dell’acqua, smisi di frignare. I piedi calciarono le onde e la sabbia bagnata diventò per me una materia morbida dove affondare le mani e il sedere!

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Published on April 08, 2020 00:00

April 6, 2020

Ricordi – 1 – PENTOLE PER TERRA di Moony Witcher

Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.

Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.

Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro

che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.


Copertina di Ricordi 1 - pentole per terra di Moony WitcherLe pentole per terra, in mano un mestolo di legno e sotto il sedere un cartone come cuscino. Alle soglie del 1960 avevo poco più di 2 anni e accanto a me c’era sempre Laika, una dolcissima cagnetta di razza Spinone. Pelo marrone, coda in movimento, muso bianco e occhi che parlavano di sentimenti incondizionati. Lei era la mia guardia. Non potevo arrampicarmi sulle sedie, Laika arrivava con il suo scodinzolare e bastava la sua presenza per farmi desistere. E se cadevo potevo contare sul morbido appoggio della sua pancia rotonda.

Tutto succedeva in cucina, anche perché erano solo due le stanze utilizzabili, oltre al minuscolo bagno con doccia e piastrelle verdi pisello. L’altra stanza vivibile era la camera da letto, dove, accanto a quello matrimoniale, dondolava una larga culla dentro la quale mi addormentavo rannicchiata. Sono stata sempre piccolina per la mia età e dunque la culla andava ancora benissimo.

Mia madre aveva sempre il sorriso che illuminava il volto nonostante la scarsità di mobilio e mancanza di ciò che ora mi pare indispensabile. Eppure la donna che mi ha donato la vita appese sulla porta d’ingresso un pezzo di legno sul quale aveva inciso “Casa dolce casa”. Lo aveva fatto sicuramente perché era ottimista e forte dell’amore che la legava allo sposo barbuto, scelto dopo un lungo fidanzamento.

Eravamo finiti in quel minuscolo appartamento a pianoterra. Lo volle mio padre. Infatti ci aveva traslocato temporaneamente dall’Isola della Giudecca a Dolo, nell’entroterra lagunare. Doveva fare comizi e vivere almeno un anno per organizzare riunioni mirate all’elezione del sindaco. Questo lo ricordo abbastanza bene perché le frequentazioni dei miei genitori avvenivano sempre in contesti dove il vociare di uomini e donne si alternava a risate e promesse per costruire un mondo migliore.

Di giochi non ne avevo molti anche se la famiglia che abitava al piano di sopra ci aveva fatto un regalo: la radio! Mia madre l’ascoltava intonando canzoni melodiche e la musica accompagnava il borbottio del sugo al pomodoro.

La cucina era dunque il luogo dove tutto diventava possibile, anche giocare.

Un vecchio mestolo di legno, pentole sbeccate , coperchi ammaccati e un colino storto. Picchiare a ritmo sul pentolame bastava per divertirmi.

Laika sopportava il trambusto standosene accucciata con gli occhi chiusi. Per me quelle pentole rappresentavano non solo oggetti per fare rumore ma diventavano elmi luminosi, cavalli sui quali viaggiare lontano brandendo il mestolo come una lancia altissima e colorata. Tinte di un arcobaleno che sognavo di avere

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Published on April 06, 2020 00:00

March 14, 2020

February 23, 2020

#ProposteDiLettura: Piano concerto di Maria Chiara Duca

La proposta di oggi è un romanzo per ragazzi con al centro il tema della crescita, dell’amore per la musica, della competizione e dell’amicizia. Una lettura di generazione con importanti elementi su cui riflettere.
Età indicata dai 13 anni in su.






Piano Concerto



Maria Chiara Duca



Editore: Edizioni EL
Pagine 144
Età da 13 in su
Prezzo € 11.50






La quindicenne Vanessa partecipa a un concorso pianistico e incontra il coetaneo Kai. Fin da subito i due diventano rivali e allo stesso tempo alleati, traendo forza l’uno dall’altro, e insieme dalla musica, per affrontare gli ostacoli di una vita in continuo mutamento. Nelle quattro edizioni del concorso, infatti, tutto intorno a Vanessa cambia (la migliore amica e la professoressa di piano lasciano la città, la madre si risposa), solo Kai rimane. Nel corso della competizione i due approfondiscono il loro rapporto e imparano a conoscere a fondo se stessi, aiutandosi a vicenda. Perché è questo che significa concertare: gareggiare, lottare, contendere. L’uno contro l’altro e insieme contro le insidie del mondo.





Un romanzo che ruota interamente attorno a una delle passioni più intense del mondo giovanile, nonché elemento fondamentale per un’educazione degna di questo nome: la musica.

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Published on February 23, 2020 09:26