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“...Pensa che tu sia intrappolato nella ricerca infantile dell’affetto che ti è stato negato da piccolo perché eri il fratello “normale” che veniva ignorato tutto il tempo, e che questo ti ha riempito di tutta una serie di schifosi comportamenti aggressivi che tu non riesci ad ammettere.”
― Best Boy
― Best Boy
“Quarant’anni alle quattro di mattina li senti di piú. A quell’ora può capitarti di voltarti indietro e scorgere un paio di rimpianti piccoli che nell’oscurità s’ingigantiscono, o un pugno di ricordi belli che ti spaccano il cuore. Poi mi sono accorto che l’albicocco che abbiamo appena piantato era un po’ secco, allora ho riempito una bacinella d’acqua e gli ho dato da bere. È stato guardando l’albicocco che mi sono ricordato di una cosa. Mi sono ricordato di quando fra cinque anni mangeremo le albicocche del nostro giardino. Me ne sono ricordato perché il mio sguardo è stato per un attimo quello di un quasi cinquantenne che si volta indietro, si ricorda l’albicocco, si ricorda con una punta di malinconia come sono stati i primi frutti e i sorrisi delle bambine. Oppure no, magari l’albicocco morirà e diventerà un ricordo triste. Ora però, seduto al buio sul muretto – ho pensato – io sono un quarantenne che guarda avanti. L’albicocco è qui e deve ancora crescere. Lo guardo e non vedo un rimpianto, né un ricordo, vedo solo un obiettivo. Mi viene in mente quest’immagine di un senso unico trafficato in cui c’è un uomo che deve attraversare sulle strisce. L’immagine mi porta un pensiero. Il pensiero è che quel che conta, quando ti avventuri su una strada, che tu sia al volante o che tu stia attraversando a piedi, è solo ricordarsi di guardare dalla parte giusta.”
― Notti in bianco, baci a colazione
― Notti in bianco, baci a colazione
“Molto più tardi avrei imparato che il pensiero non si affaccia spontaneamente alla porta del nascosto. Non basta voler penetrare nell’inconscio perché la mente venga dietro. Il pensiero temporeggia, va avanti poi indietro, esita, sta in agguato ma poi quando viene il momento giusto, si ferma davanti alla porta come un cane da punta, rimane paralizzato. Poi, è il padrone che deve far alzare la selvaggina.”
― The Words to Say It
― The Words to Say It
“«Quello che mi colpisce» disse Ernest «è che abbia perso qualunque prospettiva. È così preso da tutti questi eventi e sentimenti che ha cominciato a identificarsi con essi. Dobbiamo trovare un modo per aiutarlo a prendere un po’ di distanza da sé. Dobbiamo aiutarlo a vedersi da lontano, persino da una prospettiva cosmica. È esattamente quello che stavo cercando di fare con lei, Carolyn, ogni volta che le chiedevo di esaminare qualcosa preso dall’ammasso di eventi della sua vita. Il suo cliente è diventato queste cose: ha perso il senso di un io persistente che sperimenta questi eventi per una piccola frazione della sua esistenza. E quel che peggiora le cose è che il suo cliente ritiene che la sua attuale disgrazia diventerà una condizione permanente nel futuro. Naturalmente questo è un elemento caratteristico della depressione, una combinazione di tristezza e pessimismo».
«Come si fa a interrompere questo meccanismo?»
«Ci sono parecchie possibilità. Da quel che mi ha detto, per esempio, è chiaro che per l’identità di questa persona il conseguimento di un risultato e la sua efficacia sono centrali. In questo momento deve sentirsi assolutamente indifeso, e terrorizzato per questa condizione. È successo che potrebbe avere perso di vista il fatto che ha delle scelte, e che queste scelte gli danno il potere di cambiare. Dev’essere aiutato a comprendere che la situazione difficile in cui si trova non è il risultato di un destino predeterminato, ma delle sue scelte: per esempio quella di venerare il denaro. Una volta accettato che è lui l’artefice della propria situazione, sarà anche possibile condurlo alla comprensione del fatto che ha il potere di uscirne: sono state le sue scelte a portarlo dov’è, saranno le sue scelte a tirarlo fuori da lì.
«Oppure» continuò Ernest, «probabilmente ha perso di vista la naturale evoluzione del suo turbamento attuale, che esiste in questo momento, ma ha avuto un inizio e avrà una fine. Lei potrebbe persino rivisitare le volte, in passato, in cui il suo cliente ha provato questa stessa rabbia e turbamento, e aiutarlo a ricordare il modo in cui quel dolore è svanito, così come il dolore presente, a un certo punto, si tramuterà in un ricordo sbiadito».”
― Terápiás hazugságok
«Come si fa a interrompere questo meccanismo?»
«Ci sono parecchie possibilità. Da quel che mi ha detto, per esempio, è chiaro che per l’identità di questa persona il conseguimento di un risultato e la sua efficacia sono centrali. In questo momento deve sentirsi assolutamente indifeso, e terrorizzato per questa condizione. È successo che potrebbe avere perso di vista il fatto che ha delle scelte, e che queste scelte gli danno il potere di cambiare. Dev’essere aiutato a comprendere che la situazione difficile in cui si trova non è il risultato di un destino predeterminato, ma delle sue scelte: per esempio quella di venerare il denaro. Una volta accettato che è lui l’artefice della propria situazione, sarà anche possibile condurlo alla comprensione del fatto che ha il potere di uscirne: sono state le sue scelte a portarlo dov’è, saranno le sue scelte a tirarlo fuori da lì.
«Oppure» continuò Ernest, «probabilmente ha perso di vista la naturale evoluzione del suo turbamento attuale, che esiste in questo momento, ma ha avuto un inizio e avrà una fine. Lei potrebbe persino rivisitare le volte, in passato, in cui il suo cliente ha provato questa stessa rabbia e turbamento, e aiutarlo a ricordare il modo in cui quel dolore è svanito, così come il dolore presente, a un certo punto, si tramuterà in un ricordo sbiadito».”
― Terápiás hazugságok
“Cinque cicatrici (L’abitudine di restare).
Ho cinque cicatrici.
Una me la feci a tre anni ruzzolando per le scale. Sbattei forte col mento contro uno spigolo, il mento si aprí a metà. Ogni tanto Virginia mi dice: «Papà, mi fai vedere la cicatrice sotto la barba?», io alzo la testa e lei fruga fra i peli della barba e guarda la cicatrice, poi mi chiede se fa male.
La seconda è sul torace, frutto di un lungo intervento chirurgico di quando mi esplose un polmone in una sera d’estate. Ci dormii su per tutta la notte pensando a un dolore intercostale, invece era un polmone che mi era collassato sul cuore. Sopravvissi per un misto d’intuizione e tempismo e perché il secondo medico mi prese sul serio, anziché rimandarmi a casa con due compresse di Voltaren come aveva fatto il primo.
La terza cicatrice è sul medio della mano destra, che mi affettarono con un coltello quand’ero giovane e troppo stupido per capire che certe volte vinci proprio quando perdi.
La quarta e la quinta non si vedono, ma sono le uniche cicatrici che fanno ancora male.
Dalle prime tre non ho imparato niente, dalle altre invece sí.
Ho imparato che quando le cose finiscono non è necessariamente colpa tua, ma che, se tieni distanti gli altri nel tentativo di proteggerti, allora non puoi pretendere di riprenderteli quando d’un tratto ti senti pronto tu. Che la vita è quel che accade, anche se è fatta di quel che scegli. E con quel che accade hai in genere solo due alternative: abbracciarlo con tutto te stesso oppure andare via.
Ho a lungo creduto che la libertà che serve fosse quella di un marinaio sempre pronto a prendere il mare. Invece oggi so che la libertà che scelgo e la forza che conta, quell’orizzonte che sentivo di dover cercare ogni volta piú lontano, non si fondano sull’attitudine a partire.
Ma sull’abitudine di restare.”
― Notti in bianco, baci a colazione
Ho cinque cicatrici.
Una me la feci a tre anni ruzzolando per le scale. Sbattei forte col mento contro uno spigolo, il mento si aprí a metà. Ogni tanto Virginia mi dice: «Papà, mi fai vedere la cicatrice sotto la barba?», io alzo la testa e lei fruga fra i peli della barba e guarda la cicatrice, poi mi chiede se fa male.
La seconda è sul torace, frutto di un lungo intervento chirurgico di quando mi esplose un polmone in una sera d’estate. Ci dormii su per tutta la notte pensando a un dolore intercostale, invece era un polmone che mi era collassato sul cuore. Sopravvissi per un misto d’intuizione e tempismo e perché il secondo medico mi prese sul serio, anziché rimandarmi a casa con due compresse di Voltaren come aveva fatto il primo.
La terza cicatrice è sul medio della mano destra, che mi affettarono con un coltello quand’ero giovane e troppo stupido per capire che certe volte vinci proprio quando perdi.
La quarta e la quinta non si vedono, ma sono le uniche cicatrici che fanno ancora male.
Dalle prime tre non ho imparato niente, dalle altre invece sí.
Ho imparato che quando le cose finiscono non è necessariamente colpa tua, ma che, se tieni distanti gli altri nel tentativo di proteggerti, allora non puoi pretendere di riprenderteli quando d’un tratto ti senti pronto tu. Che la vita è quel che accade, anche se è fatta di quel che scegli. E con quel che accade hai in genere solo due alternative: abbracciarlo con tutto te stesso oppure andare via.
Ho a lungo creduto che la libertà che serve fosse quella di un marinaio sempre pronto a prendere il mare. Invece oggi so che la libertà che scelgo e la forza che conta, quell’orizzonte che sentivo di dover cercare ogni volta piú lontano, non si fondano sull’attitudine a partire.
Ma sull’abitudine di restare.”
― Notti in bianco, baci a colazione
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