Alessio Brugnoli's Blog, page 161

February 6, 2018

8 febbraio 2018 Festa di Carnevale con il Coro di Piazza Vittorio presso il Palazzo del Freddo

Esquilino's Weblog




Festeggiamo l’inizio del carnevale con un costume e un buon gelato in compagnia del Coro del Piccolo Coro di Piazza Vittorio!

Il costume più “sferzante” sarà premiato con un adeguato riconoscimento! Possono partecipare adulti e bambini!



Gelateria Fassi – Palazzo del Freddo



8 febbrio 2018 ore 19,30



Via Principe Eugenio, 65






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Published on February 06, 2018 12:19

Castle Rock di Stephen King: il primo trailer ufficiale

KippleBlog




Castle Rock è una delle serie televisive horror più attese dell’anno. Finora si sapeva solo che la serie Tv Hulu era tratta dai racconti di Stephen King. Con questo nuovo trailer che vi presentiamo in coda all’articolo, molte domande rimangono ancora senza risposta, ma possiamo pregustare comunque le atmosfere del film che sembrano catturare molto bene quelle dei libri del re dell’horror. A parte questo, appare chiaro che l’attore protagonista sarà Henry Deaver, che reciterà insieme a tanti altri volti noti. Non resta che aspettare ulteriori notizie. Intanto buona visione!




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Published on February 06, 2018 12:17

February 5, 2018

CarnevalEsquilino 3.0

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Con un poco di fatica, perché quest’anno i tempi sono stretti, per la necessità di non pestare i piedi a iniziative altrui e diciamolo pure, una serie di sfighe lavorative e non, finalmente abbiamo il programma di CarnevalEsquilino 3.0.


Che detto fra noi, è un ottimo risultato: all’Esquilino, a differenza di tanti altri rioni e quartieri di Roma, siamo vulcanici, partorendo decine e decine di iniziative: il problema è che ci manca la costanza e sono rare le imprese che si ripetono del tempo, diventando un appuntamento tradizionale.


CarnevalEsquilino, giunto alla terza edizione, ci sta riuscendo. Per cui, permettetemi un grazie a tutti coloro che stanno collaborando a questa impresa: a mia moglie, che mi sopporta in ogni dove, a Filippo D’Ascola e a tutte le Danze di Piazza Vittorio, instancabili nel proporre feste, a Giuseppe Puopolo e al Coro di Piazza Vittorio, di cui farei volentieri parte, se non fossi più stonato di un mazzamurello, e a Paola Morano, che ogni anno si prende la briga di organizzare la festa per i bambini, i veri protagonisti del Carnevale.


Un grazie va ai ragazzi di Radici, Andrea e Davide, che ci danno sempre una mano, ad Andrea Fassi e Valeria Bilancioni, che ogni anno sopportano con pazienza infinita i nostri eventi e a Francesco Ciamei, quest’anno trascinato in questa impresa.


Tutti quanti, nella propria specificità, crediamo come Solidarietà, la Cultura, Arte e Musica siano gli strumenti per rendere più vivibile il nostro Rione, aiutandoci le paure artificiali, la sfiducia e gli imprevisti che incrociamo ogni giorno


Detto questo, che ci aspetta ?


8 Febbraio Giovedì Grasso

Ore 19.30 Palazzo del Freddo di Giovanni Fassi in via Principe Eugenio 65, Flash mob di Musica, Canto e Gelati a cura del Coro di Piazza Vittorio


10 Febbraio Sabato Grasso

Ore 10.30 Giardini di Piazza Vittorio, la tradizionale festa di Carnevale dei Bambini a cura di Paola Morano e del Salotto di Alicia


13 Febbraio Martedì Grasso

Ore 19.00 Ciamei Caffè Torrefazione, Via Emanuele Filiberto, 57, “La Caciarera della Seduzione: Danze Mascherate su Musiche Sbagliate” a cura de Le Danze di Piazza Vittorio e del Savoy Swing


Per cui, signori, che la festa cominci…. Diamo fondo alla nostra voglia di divertirsi e godersi la vita, indipendentemente dal popolo e della cultura di provenienza !

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Published on February 05, 2018 05:35

12-14 dicembre 2010: i tre giorni che sconvolsero l’Italia

Scrittori precari


Poi hanno spento la luce. E non mi son più svegliato.



Bombe e orologi fermi, tanto per cambiare. I tre giorni che sconvolsero l’Italia, e chi se li dimentica. Tutto cominciò la mattina del 12 dicembre, tanto per cambiare. Dopo 41 anni. Poco dopo mezzogiorno un’edizione straordinaria del telegiornale dava la notizia di un’esplosione a Piazza Fontana. Durante le commemorazioni della strage. Uno sfregio, si pensò in molti. Ma nessuno poteva immaginare quello che ne conseguì. D’altronde gli eventi precipitarono in fretta.



Il presidente del Senato Schifani, poche settimane prima, in seguito all’assalto degli studenti a palazzo Madama, aveva detto: “Da tempo ci sforziamo con i nostri appelli e richiami al senso di responsabilità di tutti ad abbassare i toni per evitare che l’aumento degli episodi di violenza e di intolleranza in occasione di manifestazioni pubbliche possa trasformarsi in gesti non solo incivili ma anche forieri di eventi luttuosi”. Ci scappa il…


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Published on February 05, 2018 04:49

Storia, religione e misteri in un tour virtuale che parte dall’Esquilino e si diffonde in tutta Roma

Esquilino's Weblog


Misteriose linee che partono dal nostro Rione per arrivare in altre parti di Roma passando per monumenti attuali e della Roma antica. Vengono tracciati itinerari interessantissimi  da un punto di vista religioso, spirituale, storico e esoterico. Il numero quattro ricorre in maniera quasi ossessiva  e molti luoghi e monumenti dovrebbero essere riconsiderati anche sotto questo aspetto. Guardate con attenzione questi due filmati :






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Published on February 05, 2018 00:12

February 4, 2018

Antonio Giovanni Lebolo

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Sempre in ambito delle potenziali vicende dello steampunk italiano, riprendo la strana vicenda di Antonio Giovanni Lebolo.


Antonio era nato il 22 gennaio del 1781 a Castellamonte, nel Canavese; il papà era un ricco commerciante di granaglie e la sua vita sarebbe corsa lungo binari usuali, se come tanti piemontesi dell’epoca, non si fosse innamorato dell’epopea napoleonica. Cosa non gradita dal padre, codino e grande sostenitore dell’Ancien Régime.


Così desideroso di avventure e stanco di litigare con il padre, a diciotto anni Antonio, si arruolò volontario nell’esercito napoleonico, dove conobbe Drovetti, all’epoca segretario del Comitato di sicurezza generale del governo provvisorio di Torino il quale prendendolo in simpatia per l’origine canavese, gli diede l’incarico di sovraintendere all’arruolamento di truppe in Piemonte. Compito che Antonio portò avanti con più entusiasmo che risultati concreti.


In compenso, si rafforzò l’amicizia con Drovetti; entrambi divennero il gatto e la volpe di filonapoleonici piemontesi: militarono nella 1ademi-brigade piemontese, parteciparono alla battaglia di Marengo, dove fu testimone dell’eroico salvataggio compiuto da Drovetti nei confronti di Murat, poi infine si accasarono nello squadrone negli ussari piemontesi, dove Antonio fu ferito in un’azione contro gli austriaci


Dato che il suo amico Drovetti aveva smesso di dedicarsi alla vita militare, Antonio decide di imitarlo. Però, visto che il padre lo considerava un traditore della causa savoiarda e gli aveva tagliato i viveri, fu costretto a trovarsi un lavoro.


Grazie alla raccomandazione del solito generale Colli, Antonio entrò nella polizia, visse a Milano, dove, trasformandosi in una specie di Sherlock Holmes, divenne l’incubo della ligera dell’epoca, e fu fedele alla causa di napoleonica sino alla caduta dell’impero. Dopo Waterloo, come molti altri, si ritrovò intorno terra bruciata e decise di cambiare aria: il problema era dove andare, visto che a casa continuavano a non volerlo. Fortuna volle che, mentre oziava in un’osteria a Porta Comasina, per caso scoprì come il suo vecchio amico Drovetti fosse diventato console in Egitto.


Per cui, presi armi e bagagli, decise di andare a trovare Drovetti,che avendo fatto carriera, sicuramente gli avrebbe dato una mano a sistemarsi in terra straniera; ahimè, quando arrivò ad Alessandria d’Egitto, trova il suo amico nella stessa situazione, senza arte né parte.


Entrambi, però, non si perdono d’animo, trasformandosi in cacciatori e commercianti di anticaja e petrella egizie. Proprio per il rapporto con Drovetti, Antonio, più che un impiegato, fu una sorta di socio di minoranza. Drovetti lo autorizzò a scavare parecchio per conto suo e, alla fine, gli diede in dono una schiava africana che l’esule di Castellammonte convertì al cristianesimo e sposò qualche anno più tardi.


E in uno di questi scavi autonomi, un giorno non precisato fra il 1819 e il 1821 Antonio uscì dal suo antro nella Valle dei Re per il consueto giro a caccia di antichità egizie. Come quasi tutti nel distretto di Gurna, abitava una tomba arredata alla meno peggio e combatteva l’umidità bruciando pezzi di sarcofago. Fuori, fra le asperità della necropoli tebana, lo attendeva il suo squadrone di operai pronto per una nuova tornata di scavi. Sembrava una giornata come tante altre, almeno sino a che le urla eccitate dei fellah egiziani non annunciarono la grande scoperta. Fra le pieghe del terreno era stato trovato un sepolcro intatto. All’interno, oltre a qualche povero oggetto di legno, c’era un mucchio polveroso di corpi bendati, undici mummie.


Antonio ne fu tanto contento, che sulla parete di quella tomba, che gli archeologi hanno poi classificato con il numero 32, tracciò la sua firma. Ma ahimè, l’entusiasmo per la scoperta svanì rapidamente. Nessuno voleva comprare quelle mummie. Preso dalla disperazione, tento di piazzarle anche alla concorrenza, a Salt, a un prezzo iperscontato, ma non vi fu verso


Gli rimasero sul groppone, sino a che, nel 1825, dopo la morte del padre e stanco di scavare tombe nel deserto, Antonio se ne tornò a Castellammonte, dove passò gli ultimi anni, morì nel 1830 a dedicarsi alla bella vita, in uno straordinario lusso orientale.


Per liberarsene, Antonio le appioppò a uno spedizioniere di Trieste, Albano Oblasser, perché li mettesse in vendita. La transazione avvenne nel 1833, e l’acquirente fu tale Michael H. Chandler di New York. Le undici mummie così varcarono l’Atlantico e per cominciare una tournée nel nuovo mondo. Chandler, che si spacciava per un nipote di Antonio, le espose per la prima volta a Philadelphia dell’aprile del ‘33 e, strada facendo, prese a venderne una dopo l’altra (il che immagino, in qualunque luogo dell’oltretomba sia finito, abbia fatto rosicare alquanto il buon piemontese)


Nel febbraio del 1835 l’insolita carovana arrivò a Hudson nell’Ohio che le spoglie egizie erano ridotte a quattro, numero sufficiente per attrarre l’attenzione di un personaggio fuori dal comune come Joseph Smith, il profeta della Chiesa dell’Ultimo Giorno. Per il padre della religione dei mormoni fu un’illuminazione: acquistò le antiche reliquie e da queste trasse undici frammenti di papiro che tradusse a modo suo e nei quali riconobbe il «Libro di Abramo», volume destinato a diventare uno dei testi sacri fondamentali della Chiesa.


Questi papiri furono in seguito venduti, finirono in un museo, si credettero perduti nel grande incendio di Chicago del 1871, e sono infine riapparsi nel 1966 nel Metropolitan Museum of Arts di New York che, senza pensarci due volte, li ha restituiti ai mormoni. Ora sono conservati con tutti gli onori nello Utah


Il paradosso è che, se nel Canavese pochi conoscono la storia di Antonio, a Salt Lake City, capitale dei mormoni, è invece una mezza celebrità. E ogni tanto qualcuno dall’Utah, parte a visitare la sua casa…

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Published on February 04, 2018 08:42

February 3, 2018

La dea dei serpenti







 


Come raccontato molte volte, Arthur Evans era uomo dai grandi ideali, pacifista e femminista: però, proiettando la sua visione del mondo sull’interpretazione dei reperti archeologici trovati a Cnosso, ha generato una visione distorta della cultura minoica.


Questo vale anche per la loro religione, vista come un di culto pacifico  dedicato alla Madre Terra, una sorta di Wicca ambientata nell’età del bronzo.


Interpretazione da cui ci stiamo liberando con lentezza, grazie a tanti ritrovamenti archeologici: a quanto pare, a Creta vi era forse un politeismo centrato su una coppia divina, la Potnia Theron, la Signora degli animale e Diwonuso, il nostro Dioniso che veniva onorata con sacrifici animali, umani e cannibalismo rituale di bambini.


Cosa che tra l’altro, ha lasciato numerose traccie nella mitologia ellenica: pensiamo alle storie di Teseo e il Minotauro o al mito di Zagreo. Nel continuo scambio culturale tra mondo minoico e mondo elladico, questa religione fu adottata e modificata.


Allo stato attuale, mancando le prove archeologiche, possiamo ipotizzare come gli aspetti più sanguinosi del culto non fossero adottati in Grecia. Al contempo, che il ruolo della Dea, che da signora delle forze primigenie e feroci della Natura diventava la patrona dell’Agricoltura e dell’Allevamento, diventasse primario rispetto a quello del compagno maschile, che a seconda delle zone micenee, poteva essere o la forma arcaica di Zeus o di Poseidone, non visto come dio del mare, ma come dio dei terremoti e signore dei cavalli


Ora, le tavolette in lineare B rinvenute a Tebe tra il 1995 e 1997 ci hanno dato alcuni spunti di riflessione su tali culti: le espressioni che menzionano azioni rituali, come ote tuwatero, quando si offrì il sacrificio, fanno riferimento a Ma Ka, Madre Gea, e a Kowa, Kore, la figlia, Proserpina.


Il che da l’impressione come il culto di Demetra fosse già presente all’epoca: in più, nelle varie iscrizioni, appaiono diversi nomi di animali, come i serpenti, gli epetoi, e maiali, i koro,cosa che è meno strana di quanto appaia a prima vista, pensiamo ad esempio al legame tra Asclepio e il Serpente, con il suo culto, legato alla guarigione, alla morte e alla risurrezione, che prevedeva anche una sorta di rituale sciamanico a cui venivano sottoposti i fedeli malati.


Oppure, sempre parlando di Demetra, durante le Tesmoforie, le feste in cui ad Atene si celebrava tale dea, secondo Luciano di Samostrata, venivano plasmati, con la pasta di grano, oggetti particolari che riproducevano serpenti e genitali maschili e venivano gettati maiali in grotte sotterranee. Plutarco, invece, racconto come durante il secondo giorno dei Grandi Misteri di Eleusi, i fedeli si recavano al mare per purificarsi, portando con sé un maialino che veniva sacrificato il giorno successivo.


Altri termini, presenti nelle tavolette tebane, sono indizi del culto di Demetra ai tempi micenei: si citano infatti i topaporoi, i portatori di torce, che ricordano i componenti della processione, che sempre in occasione dei Grandi Misteri Eleusini, portava i “sacri oggetti” da Atene ad Eleusi, la sede del megaron del Wanax o del Lawagetas, a seconda di come si interpreti la complessa gerarchia del potere elladica, al santuario templare, agitando le torce per rievocare il vagare di Demetra alla ricerca di Persefone, rapita da Ade.


Oppure la presenza del termine akeneusi, i purificati, che fa pensare a una qualche forma di rito di purificazione o della definizione della dea come Sitopotinija Karawija, la vecchia del grano, che ricorda il mito in cui Demetra, sempre cercando la figlia, arrivò a Eleusi nelle sembianze di una vecchia e che poi, terminate le sue peripezie, insegnò a Trittolemo la coltivazione di tale cereale.


Inoltre, negli scritti di Teocrito, così si parla di tale dea


“Per i Greci Demetra era ancora la dea dei papaveri”

“Nelle mani reggeva fasci di grano e papaveri”


Una statuetta d’argilla trovata a Gazi sull’isola di Creta, rappresenta la dea del papavero adorata nella cultura Minoica mentre porta i baccelli della pianta, fonte di nutrimento e di oblio, incastonati in un diadema. Appare dunque probabile che la grande dea madre, dalla quale derivano i nomi di Rea e Demetra, abbia portato con sé da Creta nei Misteri Eleusini insieme al suo culto anche l’uso del papavero, ed è certo che nell’ambito dei riti celebrati a Creta, si facesse uso di oppio preparato con questo fiore


Infine, il ruolo di coppia divina di Demetra e Poseidone nell’Età del Bronzo, è testimoniato anche da un racconto mitologico poco noto ai più: Poseidone (il cui nome significa “il consorte di colei che distribuisce“) una volta inseguì Demetra che aveva assunto l’antico aspetto di dea-cavallo. Demetra tentò di resistere alla sua aggressione, ma neppure confondendosi tra la mandria di cavalli del re Onkios riuscì a nascondere la propria natura divina; Poseidone si trasformò così anch’egli in uno stallone e si accoppiò con lei. Demetra fu letteralmente furibonda (“Demetra Erinni”) per lo stupro subito,

ma lavò via la propria ira nel fiume Ladona (“Demetra Lousia”). Dall’unione nacquero una figlia, il cui nome non poteva essere rivelato al di fuori dei Misteri Eleusini, ed un cavallo dalla criniera nera chiamato Arione. Anche in epoche storiche, in Arcadia Demetra era adorata come una dea dalla testa di cavallo:


Sempre il geografo Pausania scrive:


“La seconda montagna, il Monte Elaios, dista circa 30 stadi da Figaleia e c’è una grotta sacra a Demetra Melaine (Nera)… gli abitanti di Figaleia dicono di aver dedicato la grotta a Demetra e di avervi posto una statua di legno. La statua fu realizzata in questo modo: era seduta su una roccia ed aveva l’aspetto di una donna tranne la testa. Aveva la testa e la criniera di un cavallo, e da questa testa uscivano serpenti ed altri animali. Il suo chitone era lungo fino ai piedi, in una mano teneva un delfino, nell’altra una colomba. La ragione per cui realizzarono la statua in questo modo dovrebbe essere chiara a chiunque si intenda delle antiche tradizioni. Dicono che l’hanno chiamata “Nera” perché la dea indossa una veste nera. Tuttavia non sanno dire chi abbia realizzato la statua o come finì per bruciare.; ma quando venne distrutta gli abitanti di Figaleia non ne realizzarono un’altra e il suo culto e i sacrifici in suo onore furono ampiamente trascurati finché i loro campi divennero sterili”


Per cui, i Misteri di Eleusi e quelli meno noti di Pellené in Arcadia, di Samotracia, di Tebe e di Lemno, quest’ultimi due dedicati a Demetra e agli dei Cabiri, non nascono da strane influenze della Tracia o dell’Oriente, come si riteneva sino a una trentina d’anni fa, ma sono le tracce residuali dei culti elladici dell’Età del Bronzo…

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Published on February 03, 2018 11:25

The Rain: il primo teaser trailer della nuova serie TV postapocalittica in arrivo su Netflix

KippleBlog




The Rain è il nome della nuova serie TV postapocalittica prodotta dal gigante del video streaming Netflix. La storia si svolge in quello che rimane del mondo, dopo che un virus ha contaminato l’acqua, uccidendo gran parte della popolazione. Due fratelli dovranno lottare per trovare la salvezza. Segue il trailer della prima serie TV danese trasmessa da Netflix che andrà in onda nella primavera del 2018. Buona visione!






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Published on February 03, 2018 08:44

February 2, 2018

Il lungo cammino dell’indipendenza greca

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Negli ultimi mesi, tra parecchi giornalisti anglosassoni e tedeschi va di moda sostenere come lo stato greco, nel 1821 fosse costruito a tavolino dalle grandi potenze dell’epoca, senza alcun radicamento storico e territoriale. Cosa che ovviamente fa irritare alquanto gli intellettuali greci, che, nel rispondere, danno fondo a tutto la loro retorica nazionalista.


Entrambe le posizioni, ahimè, semplificano troppo una storia tanto complessa e affascinante, piena di colpi di scena, tradimenti e voltafaccia, che, come spesso accade da quelle parti, è conseguenza della politica veneziana nell’Egeo.


Dopo la pace di Carlowitz, che assegnava alla Serenissima il possesso di tutto il Peloponneso fino all’istmo di Corinto, compresa l’isola di Egina, il Senato dovette porsi il problema di come governare la nuova provincia.


Fu nominato così il Provveditore generale da Mar, con sede a Nauplia che sovraintendeva quattro province:Romania (con capoluogo la stessa Nauplia), Laconia (Malvasia), Messenia (Navarino) e Acaia (Patrasso). A Nauplia e Patrasso, quali sedi più importanti, vennero nominati a reggere le rispettive province un Provveditore per sovrintendere agli affari militari e un Rettore per l’amministrazione della giustizia, che esercitava con l’assistenza di due consiglieri anch’essi veneziani, oltre a un Camerlengo per la riscossione delle entrate fiscali. A Malvasia e Navarino vennero invece destinati semplici Provveditori, mentre le fortezze di Modone e Corone furono rette da castellani e da due consiglieri.


Il nuovo dominio appena acquistato dai veneziani, che secondo una relazione del 1692 comprendeva 1459 tra città, borghi e villaggi e 116.000 abitanti, fu oggetto di notevoli cure da parte della Repubblica, che cercò in qualche modo di far fronte alla grave situazione economica e demografica prodotta dalle distruzioni della guerra. A Corone e Modone furono fatti tentativi per impiantarvi colonie di popolamento e fu iniziata una rilevazione catastale della penisola.


Se tali interventi portarono a un boom economico notevole, che favorì la nascita di una borghesia locale, furono però mal digeriti dai proprietari terrieri, che da una parte persero, con l’accentramento burocratico, parte della loro autonomia e del loro potere politico, dall’altra, furono costretti a pagare le tasse. Così, quando scoppiò la nuova guerra nel 1715, questi, schierandosi in massa con i turchi, ne favorirono la riconquista.


Costantinopoli, compresa la lezione, lasciò carta bianca agli agrari, che nella Morea riconquistata, godettero di larga autonomia, a scapito dei commercianti: ogni villaggio disponeva infatti di un consiglio di notabili, incaricato delle questioni locali. Questi consigli inviavano dei delegati all’assemblea di provincia che, a sua volta, nominava dei deputati al senato peloponnesiaco, nel quale erano discusse le questioni fiscali e amministrative riguardanti l’intero Peloponneso. Due membri del senato, insieme a due consiglieri turchi formavano poi il consiglio privato (divano) del governatore generale della regione, un beylerbey con titolo di pascià che si stabilì a Tripolitsa. Sotto di lui furono istituiti quattro vilayet aventi per capoluoghi Mistrà, Corinto e Lepanto. In più, la Sublime Pora chiudeva entrambi gli occhi sull’endemica evasione fiscale della zona.


Il che fu però un’arma a doppio taglio: non avendo da guadagnarci, il Sultano non si curò particolarmente della crescita economica del Peloponneso: senza gli investimenti veneziani, con la diminuzione dei commerci con l’Italia e la difficoltà a piazzare le eccedenze dell’agricoltura e della pastorizia nei mercati esteri, cominciò una lunga e pesante recessione economica, che prima colpì la borghesia cittadina, poi i latifondisti, infine i contadini più poveri, che cominciarono a dedicarsi in massa al brigantaggio.


Il culmine della crisi si raggiunse intorno al 1760 e paradossalmente, furono gli agrari, sempre più a corto di braccianti e preoccupati per l’ordine pubblico, temi di scarsissimo interesse per Costantinopoli, a prendere l’iniziativa: nel 1760 tramite un emissario, Pazalis, contattarono la Russia, prospettando la possibilità di creare un regno di Morea, alleato con San Pietroburgo.


La Russia, desiderosa di espandersi in direzione del Mediterraneo, decise di  approfittarne, spedendo una serie di inviati nella Maina a metà degli anni ’60 del XVIII secolo, per stringere un patto con i vari capi e capetti locali: tale politica raggiunse il culmine nel 1769, quando, durante la Guerra russo-turca, una flotta di navi da guerra comandate dal conte Aleksey Grigoryevich Orlov salpò dal Mar Baltico per Mediterraneo, per appoggiare la rivolta del Peloponneso.


Rivolta, che nonostante i primi, inaspettati successi, si arenò rapidamente: i russi consideravano l’azione come un semplice diversivo militare, mentre i greci non avevano la più pallida idea di cosa fare dopo. Vi era infatti chi sosteneva la creazione di un regno autonomo, chi l’annessione a San Pietroburgo, chi addirittura il ritorno sotto il dominio do Venezia.


Come conseguenza della repressione, la condizione del Peloponneso peggiorò ulteriormente: d’altra parte, non è che nel resto della Grecia se la passasse meglio. L’Ellade, a inizio Ottocento, era una realtà frammentata linguisticamente, vi erano grandi differenze tra le varianti locali del greco, etnicamente, nella penisola vi erano ampie minoranze turche, albanesi e rumene ed economicamente.


Da una parte vi era la contrapposizione tra commercianti e agrari, dall’altra, la divisione tra la piccola borghesia locale e i Fanarioti. Questi erano i ricchi mercanti di origine greca o ellenizzati, alcuni discendevano probabilmente da antiche famiglie bizantine di Costantinopoli o di Trebisonda, altri erano originari delle isole del mare Egeo, dell’Epiro, altri ancora erano Albanesi, Romeni o Levantini che abitavano il quartiere del Fanar di Costantinopoli.


Istruiti e poliglotti, spesso inviati a Padova per istruirsi in medicina o legge e imparare le lingue europee, dal 1661 al 1821 dei Fanarioti furono Grandi Dragomanni della Sublime Porta, cioè interpreti in capo dell’amministrazione ottomana; ciò che permise loro di dirigere col titolo di reis effendi la politica estera dell’impero ottomano. Questa funzione li portò poco a poco a dirigere le isole dell’Egeo e a ricoprire dal 1715 al 1821 la carica di Hospodar o Voivoda dei Principati danubiani (Moldavia e Valacchia) e poi dal 1835 al 1906 quella di Principe di Samo.


Ora, i Fanarioti stessi erano divisi tra coloro che avevano queste posizioni di potere, che difendevano lo status quo e coloro che , invece, ne erano ai margini: questi ultimi, imbevuti di romanticismo e nazionalismo, vedevano nell’indipendenza greca la possibilità di guadagnare il rango e il potere, che, altrimenti non avrebbero mai avuto.


Per cui, nel 1814, fondarono a Odessa, per raggiungere il loro scopo, la Filikí Etería, una società segreta che inizialmente ebbe uno scarsissimo seguito. Le cose cambiarono a seguito dell’evoluzione della politica interna turca, la cui amministrazione era soggetta a una forte ristrutturazione: da una parte, tendeva, a volte con scarsi risultati, come in Egitto, a togliere potere ai capi locali, dall’altra a combattere l’evasione fiscale.


La perdita di autonomia, la crisi economica e le tasse, fecero così schierare agrari e piccola borghesia dalla parte della Filikí Etería. A questo si aggiunse l’appoggio ambiguo di Alì Pascià di Tepeleni, il quale era seguace del detto il nemico del mio nemico è mio amico.


Alì Pascià infatti riteneva come una rivolta in Morea avrebbe distolto le attenzioni di Costantinopoli dai suoi domini. questa combinazione di eventi, fecero precipitare le cose, con lo scoppio della rivolta nel 1821. Se da una parte i ribelli greci non ebbero l’appoggio russo, poiché lo zar Alessandro I era alquanto ondivago sulla questione, incerto se vedere con il fumo negli occhi qualsiasi modifica a quanto stabilito nel Congresso di Vienna o mettersi a capo della crociata degli ortodossi contro i turchi, dall’altra, insomma, godevano di buona stampa: gran parte degli intellettuali europei dell’epoca, che avevano una vaga idea di cosa fosse la Grecia reale, si schierarono al loro fianco.


Alcuni, come Byron, presero armi e bagagli e andarono a combattere al fianco degli insorti: molti invece, se ne rimasero a casa, a fare azione di lobbying presso i loro governi, che però, si tenevano ben alla larga da una rivola, che, come spesso accade da quelle parti, degenerò rapidamente una mattanza tutti contro tutti: la situazione però si sbloccò grazie all’intervento di truppe inviate dal pascià egiziano Mehmet Ali, grazie all’aiuto delle quali vennero riconquistate nel 1825 Navarino e anche Atene a giugno, mentre Missolungi, irriducibile roccaforte degli indipendentisti, fu messa sotto assedio nel 1826 e conquistata l’anno seguente anche se poi verrà presto riconquistata grazie alla flotta britannica alla fine dell’anno.


La notizia di queste vittorie e l’ascesa al trono dello zar Nicola I, che considerava l’indipendenza greca lo strumento per ottenere uno sbocco nel Mediterraneo, indebolire ulteriormente gli osmanici e attuare un controllo maggiore sui Balcani, cose che Francia e Gran Bretagna vedevano con fumo negli occhi, costrinsero i governi di Londra e Parigi a intraprendere una mediazione che garantisse l’autonomia della Grecia sotto una formale autorità ottomana, riducendo così al minimo i margini di manovra e le possibili acquisizioni di San Pietroburgo.


Ma la Sublime Porta, convinta di avere la vittoria a portata di mano, benché, nel Novembre del 1826, avesse preso ad Atene dagli insorti una grossa batosta, fece orecchie da mercante: per ammorbire la sua posizione e spingerla ad accettare il compromesso, Gran Bretagna e Francia organizzarono una sorta di missione di pace internazionale, spedendo le loro flotte congiunte, a cui, dopo le proteste di Nicola I, si aggiunsero anche le navi russe, per mostrare i muscoli, interporsi tra i contendenti, in modo da fare cessare gli scontri e dissuadere gli ottomani ed i loro alleati egiziani dal compiere ulteriori rappresaglie.


Le flotte alleate furono ancorate nelle acque del porto di Navarino, di fronte alla flotte egiziane e ottomane, guidate da Ibrahim Pashà, figlio di Mehmet Ali; le istruzioni agli Ammiragli (le regole d’ingaggio, come verrebbero chiamate oggi) non prevedevano azioni offensive, ma in risposta a colpi di moschetto partiti da una lancia turca contro una lancia britannica, l’ammiraglio inglese Codrington ordinò di aprire il fuoco e lo scontro divenne una battaglia generalizzata. Dopo tre ore di combattimento, tutte le navi egiziane e turche all’ancora nel porto furono affondate e, con esse, pressoché annientato il potenziale della flotta ottomana.


Dopo la battaglia, Codrington si recò a Malta per far riparare le proprie navi. Egli rimase sull’isola sino al maggio del 1828 quando salpò coi colleghi francesi e russi alla volta delle coste della Morea ove tentò di evacuare i numerosi profughi dalla penisola. Operazione che però fu ostacolata dalle stragi compiute dalle truppe egiziane di Ibrahim Pashà.


Così Codrington diede ordine alla flotta di dirigersi al largo di Alessandria, minacciando di bombardare la città se Mehmet Ali non avesse convinto il figlio a tornare a più miti consigli. Mehmet Ali non si fece intimorire e a sua volta, diede ordine alle batterie costiere di prepararsi a combattere. Il bagno di sangue fu evitato grazie a Drovetti, che convinse il Pashà d’Egitto a tirarsi fuori dal caos greco.


In questo modo, la posizione di Costantinopoli fu enormemente indebolita: la Sublime Porta dovette così accettare condizioni ben peggiori di quelle proposte all’inizio. La fine della guerra e l’autonomia della Grecia furono sancite, sotto il protettorato di Francia, Gran Bretagna e Russia, con il trattato di Adrianopoli del 1829, poi trasformata in indipendenza con il protocollo di Londra nel 1830. La Grecia mancava ancora di alcune regioni rimaste in mano ottomana, come Creta, la Tessaglia, la Macedonia, l’Epiro e la Tracia, mentre le regioni dell’Asia Minore e del Ponto con numerose popolazioni greche

avranno in futuro un destino diverso.


Fin dal 1827 i rivoluzionari si erano dati un ordinamento repubblicano interno, sotto la presidenza di Giovanni Capodistria; la sua politica autoritaria e filorussa non piacque e, conseguita l’indipendenza, venne assassinato (1831). L’episodio fu il pretesto colto dalle potenze protettrici per ingerirsi nella politica greca ed imporre la monarchia. La scelta del sovrano cadde sul principe ereditario di Baviera, Ottone di Wittelsbach, eletto re dei greci a Nauplia nell’Agosto del 1832, sancendo così la fine della lunga lotta di indipendenza.

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Published on February 02, 2018 11:38

February 1, 2018

Colonna degli Ossessi

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Due ore m’han tenuto a la Colonna come spiritato con tutto il mondo intorno, pestandomi e fracassandomi. Chi voleva ch’io percotessi la porta, chi che io spegnessi la lampada, e chi il canchero …


Questo brano della commedia la Cortigiana del buon Pietro Aretino, colui che Paolo Giovio appella con


Qui giace l’Aretin, poeta Tosco. Che d’ognun disse mal, fuorché di Cristo, scusandosi col dir: “Non lo conosco”


cita ironicamente uno dei pochi elementi architettonici ancora esistenti dell’antica basilica costantiniana di San Pietro, la cosiddetta colonna degli ossessi. Quando con Bramante fu cominciata la demolizione del vecchio edificio e la costruizione del nuovo, molto fu distrutto, ma qualcosa si salvò, più per la devozione popolare, che per motivazioni artistiche.


Una delle rare reliquie del passato furono 12 colonnine tortili di marmo tardo antiche, altre tre metri, che la tradizione, senza alcuni motivo logico, attribuì al tempio di Salomone di Gerusalemme. Di queste 12 colonnine, 10 furono incorporate nella nuova basilica: 8 sotto la cupola, ossia 2 in ognuna delle logge delle cappelle delle reliquie, nei pilastri che sorreggono la cupola, in cui secondo la tradizione vi sono custodite la Veronica, il velo leggendario in cui fu impresso il volto di Gesù durante la salite al Calvario, frammenti della Vera Croce, una delle tante lance di Longino e sino agli anni Settanta, il cranio di Sant’Andrea, portato a Roma dal Bessarione e restituito da Paolo VI a Paolo VI a Patrasso, in Acaia.


Altre due colonnine sono finite nella Cappella del Santissimo Sacramento: delle ultime due, una è scomparsa nel nulla, l’altra, ora conservata nel Tesoro della Basilica, è la nostra colonna degli ossessi.


Sempre la fantasia popolare la scelse a caso, tra le dodici, come quella preferita da Gesù Cristo per appoggiarsi mentre predicava nel tempio. Avendo così, per induzione, acquisito parte della potenza divina, poteva essere utilizzata come ottimo rimedio per la possessione diabolica.


Per cui, nel Medioevo e Rinascimento, qualsiasi presunto indemoniato dell’Urbe vi veniva trascinato, legato a forza, per subirsi ore di gavettoni d’acqua santa, di prediche e di suffumigi d’incenso… Oltre questo, però, tale colonna, assieme alle sue colleghe, ha svolto un ruolo importante nella Storia dell’Arte: sono servite da ispirazione al Bernini per quelle che sorreggono il famoso baldacchino che sovrasta l’altare maggiore della basilica…

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Published on February 01, 2018 07:22

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Alessio Brugnoli
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