Francesco Verso's Blog, page 4
September 25, 2013
Rai Millepagine: intervista video su Livido
Il canale tematico della Rai TV dedicato alla letteratura – Rai Millepagine – si occupa di Livido con un’intervista a firma di Vittorio Castelnuovo. Nel video si parla dei temi principali del romanzo: la spazzatura, la realtà aumentata, il mind-uploading. Con un accenno – nel finale – all’emergere del mercato digitale nel panorama dell’editoria italiana.
Buona visione.
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March 19, 2013
Livido – premio Odissea 2013
Livido ha vinto il premio ODISSEA 2013 per la casa editrice Delos Books.

Il Peter Pains di Livido nella splendida illustrazione di Luca Cervini
Livido è una storia d’amore dall’ambientazione particolare e insieme è un romanzo di formazione con elementi tecnologici.
Tema: Una città immaginaria – la megalopoli – è assediata dal “kipple” (spazzatura) che ne minaccia l’intero territorio. Gran parte della popolazione vive sul “riciclaggio” e sul “riuso” di prodotti di scarto, sulla ricerca del loro valore residuo di scambio, mentre una piccola parte si fa registrare la memoria e caricare l’identità su dei corpi artificiali. Si chiamano “nexumani” e rappresentano la prossima evoluzione del genere umano.
Trama: Peter Pains è un “trashformer”, un ragazzo che vive cercando oggetti di valore nel kipple, il mare dei rifiuti che sommerge intere porzioni di territorio urbano. È disabile a causa di un incidente avuto durante l’infanzia, ma questo non gli impedisce di avere un sogno: Alba, una bellissima ragazza che lavora in un’agenzia di viaggi del suo quartiere – Colle Vasto – e che lui si accontenta di sognare da lontano, spiandola con un binocolo. Ma Alba non è come lui: è una donna nexumana, una persona cioè la cui mente è stata caricata su un supporto informatico e dal corpo interamente artificiale.

Cover ufficiale di Livido, algida e perturbante come Alba.
La vita di Peter Pains cambia un drammatico giorno quando la gang di teppisti guidata da suo fratello Charlie, che odia i nexumani, rapisce Alba e la fa barbaramente a pezzi. Da quel momento in poi Peter Pains avrà due soli obiettivi nella vita: recuperare tutti i pezzi per ricostruire la sua amata Alba.
E la vendetta.
Livido uscirà a maggio 2013 sia in ebook che in formato cartaceo sulla collana Odissea della Delos Books.
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Livido – premio Odissea 2011
Livido ha vinto il premio ODISSEA 2011 per la casa editrice Delos Books.

Il Peter Pains di Livido nella splendida illustrazione di Luca Cervini
Livido è una storia d’amore dall’ambientazione particolare e insieme è un romanzo di formazione con elementi tecnologici.
Tema: Una città immaginaria – la megalopoli – è assediata dal “kipple” (spazzatura) che ne minaccia l’intero territorio. Gran parte della popolazione vive sul “riciclaggio” e sul “riuso” di prodotti di scarto, sulla ricerca del loro valore residuo di scambio, mentre una piccola parte si fa registrare la memoria e caricare l’identità su dei corpi artificiali. Si chiamano “nexumani” e rappresentano la prossima evoluzione del genere umano.
Trama: Peter Pains è un “trashformer”, un ragazzo che vive cercando oggetti di valore nel kipple, il mare dei rifiuti che sommerge intere porzioni di territorio urbano. È disabile a causa di un incidente avuto durante l’infanzia, ma questo non gli impedisce di avere un sogno: Alba, una bellissima ragazza che lavora in un’agenzia di viaggi del suo quartiere – Colle Vasto – e che lui si accontenta di sognare da lontano, spiandola con un binocolo. Ma Alba non è come lui: è una donna nexumana, una persona cioè la cui mente è stata caricata su un supporto informatico e dal corpo interamente artificiale.

Cover ufficiale di Livido, algida e perturbante come Alba.
La vita di Peter Pains cambia un drammatico giorno quando la gang di teppisti guidata da suo fratello Charlie, che odia i nexumani, rapisce Alba e la fa barbaramente a pezzi. Da quel momento in poi Peter Pains avrà due soli obiettivi nella vita: recuperare tutti i pezzi per ricostruire la sua amata Alba.
E la vendetta.
Livido uscirà a maggio 2013 sia in ebook che in formato cartaceo sulla collana Odissea della Delos Books.
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January 14, 2013
Il teatro della fantascienza
Quando ho conosciuto Katiuscia Magliarisi, neppure tre mesi fa, non avrei mai immaginato che nell’arco di poche settimane un mio racconto sarebbe potuto arrivare sulla scena di un teatro romano.
Eppure è successo. Eppure “qualcosa” si muove.
Il racconto Formattazioni Celesti avrà una sua seconda genesi sul palco del Teatro Tor di Nona, il giorno 22 gennaio 2013 a Roma, grazie all’interpretazione offerta da Katiuscia Magliarisi (autrice, performer, mockumentary, BDSM, Sci-FI), Chiara Condrò (attrice, regista e vocalist) e Simone de Filippis (compositore, polistrumentista e circuit bender) all’interno della rassegna teatrale THE milky WAY con brani di autori di genere fantascientifico quali Frederic Brown, Robert Sheckley e Philip K. Dick.[image error]
Formattazioni Celesti è la storia di due amanti che si ritrovano sulla spiaggia del Circeo. I loro incontri sono “a tempo determinato” e ogni volta la durata della sessione tende ad accorciarsi finché non si rendono conto di non potersi più rincontrare. Mai più. Allora iniziano a imprimersi nelle loro rispettive memorie, sforzandosi di ricordare luoghi e eventi che hanno condiviso. Solo così avranno una speranza di potersi ritrovare quando… il tempo degli incontri sarà terminato.
Come dice Timo a Marina:“Noi apparteniamo ai ricordi e ricordandoci di loro, ricorderemo noi stessi”.
Allo scadere del tempo infatti, si scoprirà che i due amanti non vivono dove hanno sempre creduto e che il loro amore è un’esperienza molto diversa da quella che pensavano di vivere. Forse l’amore è il processo di scoperta di chi si è sempre amato senza potersene ricordare.
L’idea di portare la fantascienza a Teatro è un vero e proprio azzardo, un esercizio più rischioso dell’assurdo: per questo va fatto.
Ringrazio Katiuscia, Chiara e Filippo per dare voce e corpo alle mie parole.
Ci vediamo il 22 gennaio dalle ore 21 al Teatro Tor di Nona (vicino Piazza Navona e il Palazzaccio).
P.S. Katiuscia e io stiamo lavorando anche all’adattamento teatrale di e-Doll, per cui stay tuned, SF rocks on!
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December 30, 2012
Recensione: L’Atlante delle Nuvole di David Mitchell
Chiunque abbia provato a sedersi sotto il cielo del Nord Europa e a guardare per qualche tempo lo scorrere incessante delle nuvole, sa quanto questa esperienza possa essere ammaliante e suggestiva.
Durante la scorsa estate, in visita alla famiglia di mia moglie sul lago Ladoga, nella Karelia russofona, ho avuto l’occasione di cimentarmi nell’osservazione del “moto nuvolare”, restando colpito da questo immenso, primordiale cinema all’aperto dove l’immaginazione, lasciata libera di comporre e scomporre le forme che si susseguivano sullo sfondo, si è trasformata in un regista e le nuvole nei suoi attori.
È forse lo stesso cielo del Nord, striato di cirri, gravido di cumuli e percorso da nembi stratiformi dalle fattezze e dai colori meteocangianti ad avere ispirato il romanzo di David Mitchell, L’Atlante delle nuvole – vincitore del Book Award e finalista a premi Hugo, Nebula e Arthur C. Clark nel 2004 – da poco ripubblicato dalla Frassinelli in concomitanza con l’uscita in Italia (il 13 gennaio prossimo) del colossal di Lana e Andy Wachowski (Matrix e V per Vendetta) insieme a Tom Tykwer (Lola corre e Profumo).
La struttura de L’Atlante delle nuvole sembra ricalcare quella di un “sestetto per solisti che si sovrappongono, per pianoforte, clarinetto, violoncello, flauto, oboe e violino, ognuno nella sua chiave, dimensione e colore (p.522)” in modo da svilupparsi in una modalità piramidale A-B-C-D-E-F-E-D-C-B-A ovvero un romanzo matryoshka. Infatti “nella prima sezione, ogni assolo è interrotto da quello che segue, nella seconda ogni interruzione viene ripresa, in ordine (p.522)” aprendo e chiudendo le vicende dei protagonisti. Inoltre le varie voci narranti, oltre a essere separate in senso geografico – si va dalle isole di Chatham nel Pacifico, al castello di Zedelghem nei pressi di Bruges in Belgio, da Buena Yerbas in California all’Inghilterra odierna, fino a toccare la futuristica città di Nea So Corps in Corea e una ancora più remota e post-apocalittica isola delle Hawaii – si svolgono rispettivamente nel 1849, nel 1931, nel 1975, nel 2012 e in due futuri – uno più prossimo e un altro più distante nel tempo. Va da sé che una tale complessità rappresenta una vera e propria sfida, impegnativa e al tempo stesso affascinante, sia per quanto riguarda la scrittura che la lettura del romanzo.
La trama de L’Atlante delle nuvole abbraccia numerose vicende: il ritorno a casa di un giovane avvocato testimone delle terribili condizioni degli schiavi nelle piantagioni del Pacifico sotto la dominazione inglese, la tragica storia d’amore tra un compositore tormentato dalla stesura del suo capolavoro (il fatidico sestetto L’Atlante delle Nuvole appunto, che dà il titolo al romanzo) e uno studente di fisica il quale, diventato un vecchio scienziato, contribuisce a smascherare il tentativo di insabbiare i problemi di sicurezza di un impianto nucleare, fornendo a una giornalista il materiale per far esplodere uno scandalo; e poi ancora la fuga di un vecchio editore, internato contro il suo stesso volere da una casa di riposo per anziani, finendo con lo sfruttamento di esseri umani “clonati” allo scopo di servire e onorare i consumatori concepiti in maniera naturale e il ritorno di una piccola comunità di persone “tecnologicamente evolute”, i Prescienti, in un’isola primitiva post-apocalittica.
Se questo non bastasse già a complicare le cose, David Mitchell compie anche l’esperimento più rischioso quando decide di raccontare ogni vicenda ricorrendo a stili differenti, mescolando i generi letterari e i canoni stilistici: si parte così dalla prosa affettata, tipica del romanzo storico ottocentesco nella vicenda di Adam Ewing, si prosegue con la forma epistolare che intercorre tra gli amanti Frobisher e Sixsmith, e poi con la spy-story anni ’70, tutta suspense a stelle e strisce, di Luisa Rey, passando per la commedia contemporanea in chiave ironica di Tim Cavendish e la terrificante distopia post-cyberpunk di Somni-451 per finire con l’avventura post-apocalittica descritta in una sorta di “neolingua” che richiama alla mente il nadsat di Anthony Burgess in Arancia Meccanica, piena di ibridazioni gergali e sgrammaticazioni linguistiche.
Da questo punto di vista il libro potrebbe passare per un ottimo esperimento di meta-narrazione, una specie di “ventriloquismo” letterario volto a dimostrare più l’abilità dell’autore di passare da un registro all’altro che non l’intenzione di costruire un romanzo di senso compiuto – come sottolineato da David Robson del “Telegraph”.
In realtà è lo stesso David Mitchell a svelare come l’idea di una narrazione polifonica (all’inizio erano previste addirittura tre voci nel passato, tre voci nel presente e tre voci nel futuro, poi ridotte a due-due-due per motivi di lunghezza) derivi direttamente dal romanzo di Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore[1].
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Seppure si trattasse di un esercizio di ventriloquismo letterario, il risultato finale ne giustificherebbe in pieno il ricorso.
Personalmente ho sempre sposato l’idea della verosimiglianza narrativa, inclusa quella linguistica. Tanto che, così come mi parrebbe strano leggere un romanzo storico in una lingua attualizzata, allo stesso modo troverei incoerente un romanzo di fantascienza scritto senza tenere nella dovuta considerazione l’aspetto evolutivo della lingua, la sua abilità plastica ed elastica di aderire alle modificazioni sociali, la sua versatilità semantica a modellarsi lungo i contorni dei cambiamenti tecnologici e delle innovazioni scientifiche.
Tuttavia la lettura de L’Atlante delle Nuvole non è assolutamente un viaggio di esplorazione storico-geografica, né un attraversamento socio-politico che abbraccia tre, quattro secoli di vita umana. Perché un viaggio porterebbe il lettore/viaggiatore da qualche parte, mentre invece, così come i cicloni e gli anticicloni, i fronti caldi e i fronti freddi vanno e vengono, movimentando l’atmosfera della Terra senza fine, né scopo apparente, allo stesso modo le vicende dei personaggi sembrano rimandare l’una all’altra, influenzandosi reciprocamente in una maniera che, se definire mistica sarebbe forse troppo forte, limitarsi a chiamare quantistica – come la fisica teorica ha dimostrato mediante esperimenti di “entanglement” – sarebbe più appropriato.
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David Mitchell vuole dimostrare una tesi in apparenza semplice, a tratti banale: che le nostre azioni – buone o cattive – si propagano come onde nel futuro, che il futuro è legato al presente, che il presente è il prodotto del passato e che – per quanto ciò possa sembrare incoerente – l’ineluttabilità del destino si scontra con il libero arbitrio. È questa sottile trama, dalle venature spirituali, questo legame invisibile e sotteso alle esistenze di ciascuno dei personaggi, a rendere L’Atlante delle nuvole un’opera dal sapore “olistico”, il cui equilibrio precario si gioca sul campo delle azioni umane, venendo di continuo minacciato e ripristinato da quelle forze del Bene e del Male che – come nel bassorilievo del serpente Naga, simbolo del futuro – tirano da una parte all’altra il grande ceppo del karma.
Sonmi-451 (il cui nome è un chiaro riferimento a un celebre romanzo di Bradbury) dice che: “Il tempo è ciò che impedisce alla storia di verificarsi tutta insieme; il tempo è la velocità con cui scompare il passato.” Ne L’Atlante delle nuvole si ha quindi la netta sensazione che una legge cosmica sia all’opera, una forza trascendente secondo cui il comportamento di ogni singola persona si dilati fino al punto di coinvolgere, nelle sue conseguenze dirette o indirette, ogni altro essere senziente, vincolando ciascuno di noi al samsāra, al ciclo delle rinascite eterne, sotto altri nomi, della stessa forma.
Ciò è reso chiaro dall’autore nel ricorso a un espediente narrativo, il famoso “Macguffin” di hitchcockiana memoria: il “Diario dal Pacifico di Adam Ewing” diventa il libro che Frobisher legge durante il soggiorno in Belgio mentre le sue “Lettere da Zedelghem” vengono ritrovate da Luisa del Rey, il cui manoscritto “Mezze Vite” arriva nelle mani di Tim Cavendish, la cui vita si trasforma a sua volta nella sceneggiatura del film “La tremenda ordalia di Tim Cavendish”, visto da Somni-451 e preso successivamente come testo base di una nuova religione detta “Il verbo di Sonmi”, professata dalla tribù moriori di Zachry, protagonista del capitolo centrale del romanzo, “Sloosha Crossing e tutto il resto”.
Ma questi elementi di connessione rappresentano davvero un Macguffin? Ovvero sono il libro, le lettere, il manoscritto, il film e il “verbo” a produrre davvero i loro effetti oppure sono le azioni compiute dai personaggi a pesare di più?
Così come è impossibile mappare le nuvole, lo stesso avviene per le anime. Nonostante ciò, scrutare il cielo e intercettarne i segnali che ci manda, può aiutarci a capire non solo il mondo che ci circonda – il passato come il futuro – ma anche noi stessi. E questo forse è il messaggio più complesso da decifrare.
Le nuvole che si fondono, si scontrano, si attraggono e respingono, le nuvole che si allineano, si fronteggiano e si separano altro non sono che un’allegoria dei comportamenti umani, del potere che ciascuno di noi mantiene sugli altri come pure delle responsabilità che ci legano ai nostri simili e di conseguenza al mondo intero.
Finché resteremo al di sotto di questo cielo, L’Atlante delle nuvole sarà uno strumento prezioso di orientamento, un mezzo utile a comprendere di che cosa diffidare e in che cosa riconoscerci. Aprirlo significa perdersi per ritrovarsi.
[1] David Mitchell sul Guardian (http://www.guardian.co.uk/books/2010/jun/12/book-club-mitchell-cloud-atlas)
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December 5, 2012
Narrativa di evasione
Entrare in carcere lascia disorientati. Se poi uno va a Regina Coeli, un edificio panottico, per parlare di narrativa ai detenuti, l’esperienza è quasi labirintica. E non perché ci si perda, ma perché qui si è “perduti”. Perduti nel senso di rimossi dal contesto quotidiano e calati in uno costruito allo scopo di “controllare e trattenere”.
Misa Chiavari, l’operatrice dell’associazione “A Roma, insieme” che mi ha proposto – su suggerimento di Mariangela Mincione della libreria Nero su Bianco – di partecipare all’incontro “Leggere e conversare in carcere”, mi accompagna al deposito degli oggetti all’ingresso. Misa è una signora schietta e cordiale, impegnata da anni a portare una parola di conforto, oltre che la sua allegra presenza, a chi sta dentro, in attesa di giudizio. In mano, tiene una busta piena di matite, temperini e quaderni. Mi chiede di tenerla per lei, perché dice di scordarsi sempre tutto.
Sul muro, sopra le cassette di sicurezza, c’è una scritta:
La direzione non risponde
di eventuali oggetti
lasciati incustoditi
In carcere. Dove uno, da ingenuo, sarebbe portato a credere che la sicurezza sia la priorità.
Superato il metal detector, un brigadiere ci prende in consegna. Un altro cartello, sul vetro della porta scorrevole, recita:
Vietato introdurre armi
Da dentro ci aprono. Altri operatori e inservienti stanno svolgendo le loro mansioni quotidiane. E poi avvocati, suore, secondini e visitatori. In carcere c’è un gran viavai di gente.
In fondo al corridoio, si apre un altro pesante portone, stavolta in ferro. La guardia mi fa notare che non porto il tesserino appuntato sul giubbotto. Sì, è la prima volta.
Raggiungiamo il centro della struttura. Mi fermo un attimo a osservare e Misa è già davanti a me di alcuni passi, sotto una volta alta almeno dieci, forse quindici metri. C’è una targa a ricordo di una visita papale, un dipinto di Gesù Cristo e un grande crocefisso. Dal centro dello spazio, si aprono tre, quattro ampi corridoi. Non faccio in tempo a contarli e proseguo verso quello di fronte. Le finestre sono aperte. Fuori qualcuno gioca a pallone.
Scendiamo una rampa di scale seguendo l’indicazione biblioteca. La sala lettura è curata, pulita, ci sono tanti tavoli vuoti e altrettante librerie piene. Aspettiamo i detenuti, fumando una sigaretta. Poi arrivano alla snocciolata, saranno una ventina, divisi tra bianchi e neri. Tutti salutano Misa e poi le chiedono che cosa abbia portato, come bimbi in attesa dei regali. Le passo la busta che lei svuota sul tavolo. Corsa alle matite, corsa ai quaderni, ma soprattutto corsa ai temperini.
Una matita a testa, intima lei.
Quando ci accomodiamo, il gruppo di ragazzi di colore si mette in fondo e si fa i fatti suoi. Problemi di lingua, problemi di interesse. Fatto sta che non prendono parte all’incontro.
Misa mi presenta, e tutti vanno di “ohh”. Ci tengo a precisare che non scrivo “letteratura”, che sono un artigiano della narrativa, racconto storie, mica sono un accademico. Non ne ho lo spessore, né tanto meno l’ambizione. Per far capire il concetto giro intorno al tavolo e mi ci siedo sopra, a due metri di distanza da loro. Per vederli uno a uno.
Sono venuto per “chiudere una distanza”. E allo stesso tempo, per aprire una porta sulla fantasia.
I superstiti, dopo l’abbondono della sala da parte dei neri, sono una decina, disposti su due file da cinque sedie. Riconosco il dialetto toscano, quello napoletano, quello romano.
Non so da quanto tempo stiano rinchiusi qui in attesa di giudizio, né per quale motivo li hanno carcerati. La cosa potrebbe essere importante, invece non conta, perché loro si sentono innocenti. Un amministratore sanitario, messo dentro per droga, giura e spergiura che la valigetta all’aeroporto non era la sua. Che si è trattato di uno scambio di persona. E che seppure fosse stata la sua, la condanna tra quanto avrebbe commesso e quanto dovrebbe scontare, è esagerata. Sono trentatré mesi che ha denunciato il giudice e ancora aspetta. Questo è il profondo convincimento che accomuna tutti i presenti.
Mi gioco l’argomento migliore all’inizio. Attacco a raccontare di BloodBusters, delle tasse “ematoriali”, di come Anissa Malesano, donatrice compulsiva dell’organizzazione clandestina dei Robin Blood, finisca proprio a Regina Coeli, in una sezione speciale che nella realtà non esiste, dedicata agli evasori “ematoriali”. E poi di come Alan Costa, funzionario dell’Agenzia dei Prelievi, innamoratosi di lei, riesca a farla uscire grazie a un espediente di natura tributaria.
Allora vogliono parlare del carcere. Soprattutto uno, il più loquace – Andrea Furbini, autore di “Cor core in pace” una raccolta di sonetti in dialetto romanesco edita per Rupe Mutevole – perché è stato a Sollicciano, a Firenze, dove esistono sezioni separate per uomini e donne. Lì la situazione è più “movimentata”. Si trasmettono messaggi con i panni stesi, si comunica mediante gli accendini. Un po’ come dal Faro del Gianicolo, dove, a certe ore, si possono ascoltare le conversazioni gridate tra i detenuti e i loro cari.
È l’allontanamento coatto dalle famiglie e dagli amici a rappresentare il dolore più grande per i detenuti. Insieme alla paura che, invece di diminuire, cresce al trascorrere del tempo. Dicono che un veterano lo riconosci da questo: perché ha coscienza dei pericoli mentre uno appena entrato non sapendo quello che gli potrà succedere, è l’arrogante e si comporta da spaccone. Poi si accende una discussione sul rispetto delle regole, sulle lotte tra i diversi campanili regionali, e poi tra etnie, razze e colori. Infine non resta che prendersela con le tasse, i soliti politici corrotti e la lentezza della giustizia.
Ripreso il discorso, dopo BloodBusters racconto di e-Doll, una storia di bambole sintetiche utilizzate a scopo sessuale. Anche qui, le loro domande si fanno incalzanti: questi androidi hanno davvero una coscienza? Hanno paura come noi? Provano dei sentimenti? E dove stanno, nel cuore o nel cervello? Forse sono come gli animali? Forse sono come i bambini della foresta vergine?
Parlo di programmazione cognitiva, di emulazione dei processi cerebrali, di come la coscienza possa non essere una prerogativa esclusiva della specie umana, di come tutti i computer connessi in Rete possano costituire una griglia neurale capace di far emergere la consapevolezza del pianeta Terra oppure un’intelligenza artificiale del tutto nuova. Loro ascoltano, intervengono, dibattono tra loro e per due ore sono rapiti da questa specie di “narrativa di evasione”. Evasione sì, nel senso più alto del termine.
A un certo punto, quello che sembra il più anziano, capelli bianchi su volto rubizzo, l’accento meridionale e una stampella sotto il braccio, decreta che il tempo a nostra disposizione è come “volato via”. A turno i detenuti mi sfilano davanti, la mano tesa, lo sguardo sorridente. Persino un ragazzo massiccio, in tuta da ginnastica e cranio rasato che per tutto il tempo mi ha squadrato in maniera diffidente senza dire una parola accenna un’occhiata complice. Un altro, rimasto in disparte, vuole che gli rammenti il mio nome. Francesco, dico; come me, risponde.
Più o meno apertamente, mi chiedono di tornare a trovarli. Mi chiedono se in biblioteca ci sono i miei libri. Rispondo di sì, che ho lasciato alcune copie. E accetto volentieri l’invito: è raro trovare platee così partecipi.
Il brigadiere si riaffaccia in biblioteca. Misa e io ripercorriamo la strada di prima al contrario. Il corridoio gelato, il centro panottico affollato di gente, il portone in ferro, la porta scorrevole, il metal detector, sono tutte barriere da superare per tornare al nostro mondo. Un mondo che è anche loro, benché temporaneamente interdetto.
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November 2, 2012
Bruce Sterling alla NeXT-Fest dei Connettivisti a Roma
Da venerdì 26 a domenica 28 ottobre, presso il centro culturale Elsa Morante a Roma, si è tenuta la NeXT-Fest, la prima convention romana del movimento connettivista, una corrente letteraria fantascientifica che, nel corso degli ultimi otto anni, si è imposta all’attenzione del pubblico di genere non senza suscitare curiosità da una parte e scetticismo dall’altra. Per una disamina più approfondita di che cosa sia stato e continui a essere ancora oggi il connettivismo rimando a questa utile “guida galattica per non connettivisti” in quattro puntate redatta da Giovanni de Matteo, uno dei padri fondatori del movimento.
Personalmente mi sono accostato al movimento circa tre anni fa. Avendo sempre scritto in solitudine, non ero mai venuto a conoscenza di gruppi, community o altri circoli che si interessassero di fantastico e fantascienza. In Italia la nozione stessa di fantasia viene spesso ingiustamente associata all’immaturità e al desiderio di evasione, mentre per me rappresenta l’unica vera modalità di rappresentazione narrativa del reale. Senza il ricorso all’immaginazione unita alla speculazione non avremmo accesso a nessun tipo di creatività (un po’ come quei servizi televisivi privi di commento, così crudi e reali da non lasciare spazio alle interpretazioni), e allo stesso modo senza la scintilla della fantasia ci limiteremmo a scrivere di cronaca o al massimo di giornalismo, utili quanto volete, ma profondamente diversi da ciò che la narrativa si propone di fare. La narrativa, pure quando non tocca le punte più alte della letteratura, resta la migliore lente di ingrandimento a nostra disposizione per comprendere la realtà, passata, presente o futura che sia. Quindi è stato logico iniziare a simpatizzare per loro, per i connettivisti, vessati a più riprese per motivi a volte sensati ma più spesso futili e pretestuosi.
Il connettivismo è l’ennesima avanguardia letteraria oppure rappresenta una semplice corrente di narrativa fantascientifica? Secondo me è una questione di poco conto o almeno di secondaria importanza rispetto all’immobilismo che affligge la narrativa del nostro paese.
Mi limito alla constatazione del fatto che se oggi in Italia si parla di fantascienza come se ne parla nel resto del mondo, è dal movimento connettivista che arrivano questi discorsi, come è dal movimento connettivista che emergono autori e proposte di rinnovamento. E questo è un fatto.
Questo per dire che, nel corso degli ultimi tre anni, alcuni miei romanzi sono stati accostati al movimento connettivista. Una cosa di cui non ero pienamente cosciente. Una cosa di cui né mi risento, né mi compiaccio. Antidoti umani e e-Doll – Il Fabbricante di Sorrisi possono essere considerati romanzi connettivisti? Io non lo so. Alcuni di quelli che li hanno letti dicono di sì, altri di no. Io ho scelto di fare lo scrittore e in quanto tale lascio agli altri questo genere di interpretazioni e conseguenti catalogazioni.
Resta il fatto che alle convention di fantascienza si parla poco di libri (ma chi ha il tempo di leggerli?), non si dibatte quasi mai di idee (ah, io non ci capisco niente…) mentre spesso ci si accanisce sulla difesa preventiva o l’attacco ideologico di questa o quella particolare questione (ma tu allora sei quello che… ; ho capito dove vuoi andare a parare). Tutti discorsi pressoché irrilevanti e men che mai di qualche interesse per il pubblico che vorrebbe capire, appassionarsi e partecipare.
Senza voler interpretare il suo pensiero, credo che anche Dario Tonani, presente alla NeXT-Fest per raccontare del suo ultimo lavoro, il ciclo completo di racconti steampunk intitolato “Mondo9” edito per Delos Books, la pensi in parte come me: nel suo intervento infatti ha richiamato tutti quanti – scrittori, giornalisti, critici e fan – al dialogo piuttosto che alla critica, alla collaborazione invece che alla solita e spesso sterile puntualizzazione. Se davvero si vuole cambiare qualche cosa nella percezione della narrativa di genere in Italia (sedimentata tra il dubbio della sua morte e la certezza della sua agonia), è arrivato il tempo di credere, di aiutarsi l’un l’altro, di vedere il buono invece che criticare, polemizzare, mettere di continuo i puntini sulle i e voler spaccare in due il capello. Perché poi quando si tirano le somme, si finisce con il restare con i puntini sulle i e mezzo capello in mano. E mentre nel resto del mondo fantascientifico ci si interroga e si scrive di questioni che investono la trasformazione della natura umana, il potenziamento del corpo e della mente biologica, l’impatto dell’accelerazione tecnologica sulla vita quotidiana e l’esplorazione spaziale (sì, siamo arrivati anche su Marte!), da noi ci si accapiglia su che cosa sia il connettivismo, se sia cioè troppo fantascientifico o se al contrario non lo sia abbastanza, se abbia troppi padri illustri o se non abbia nessuno, se cioè a forza di ibridare a destra e a manca, sia colpevolmente e promiscuamente bastardo.
Io ho letto testi di autori connettivisti. Alcune cose mi sono piaciute, altre no. In ogni movimento letterario esistono fuori-classe di cui ci si riempie la bocca, interpreti mediocri che ci mettono l’impegno e oscuri scarpari presto dimenticati, il punto non è questo. Il punto è partecipare a qualche cosa di interessante e di unico in un panorama letterario italico afflitto da “nanismo” tematico e provincialismo salottiero; il punto è desiderare di esserci nel momento in cui si può lasciare una traccia del proprio passaggio in questo ambiente.
E le tracce rimangono. Sulla collana Avatar della Kipple Officina Libraria, che dirigo da un paio d’anni insieme a Sandro Battisti, un altro dei padri del connettivismo, ospitiamo voci provenienti dal movimento, le digitalizziamo e le diffondiamo in ebook sul mercato italiano ed estero. Il mio intervento durante la NeXT-Fest è stato proprio volto a raccontare quello che è successo su Amazon e sugli altri portali. La rapida trasformazione dell’editoria – dalla sua forma tradizionale cartacea a quella digitale – avanza spedita tanto più che in meno di 11 mesi abbiamo venduto più di 3000 ebook, abbiamo restituito dignità alla forma narrativa del racconto che in Italia non è quasi mai esistita e soprattutto abbiamo pagato royalties agli autori, anche se non esorbitanti, in un mercato digitale che rappresenta ancora lo 0,2 – 0,3% del totale dell’editoria nazionale. E questo è un altro fatto.
Bruce Sterling e la realtà aumentata – parte 1
In tutto ciò il connettivismo attrae e incuriosisce. Nel corso degli anni in molti si sono accostati al movimento e altrettanti sono tutt’ora i suoi simpatizzanti. La presenza seppure remota di Sergio “Alan D” Altieri – sostenitore di lungo corso – e di Bruce Sterling con il suo intervento sul concetto di Realtà Aumentata e gli attuali sviluppi applicativi presso aziende start-up come l’olandese Layar, a cui, grazie a Luigi Milani, ho avuto modo di partecipare in prima persona (e di cui sono disponibili alcuni estratti cliccando sulle immagini di sotto), stanno a testimoniare una vitalità e un entusiasmo che altrove purtroppo latita. E lo dico a ragion veduta, dopo aver partecipato a numerose convention di fantascienza, spesso autoreferenziali, paludate e soporifere sia nei temi che nell’organizzazione.
Bruce Sterling e la Realtà Aumentata – parte 2
La NeXT-Fest è stata una goccia, inutile negarlo, eppure una goccia ben distillata. E questo, il terzo, è un altro fatto.
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October 22, 2012
Fantascienza alla Biblioteca di Corviale a Roma
La fantascienza torna in Biblioteca con un ciclo di tre presentazioni e altrettante proiezioni di film.
Inizierermo lunedì prossimo, 29 ottobre dalle ore 19 (è previsto un aperitivo) con il film “Inception” di Cristopher Nolan.
Su invito del direttore della Biblioteca Arvalia di Corviale di Roma, Antonio Trimarco e alla presenza del direttore del circuito delle Biblioteche di Roma Alessandro Massimo Voglino, vi introdurrò all’idea che guiderà questi incontri per poi passare a presentare brevemente il film in oggetto. Al termine di ogni film, terremo una tavola rotonda sui temi che emergeranno dalla visione della proiezione.
In questa prima serata parleremo di “Fantascienza e Sogni” insieme al saggista e critico cinematografico Pierluigi Manieri, mentre il 26 novembre sarà la volta di “Gattaca” del regista Andrew Niccol per discutere di “Fantascienza e Manipolazione/Ibridazione” insieme a un altro critico cinematografico, Stefano Coccia, di CineClandestino.
Infine l’ultimo lunedì di dicembre proietteremo “Dark City” di Alex Proyas per parlare del rapporto tra “Fantascienza e Architettura” insieme a Emmanuele Pilia e Massimiliano Ercolani dell’Associazione Laboratorio di Transarchitettura A.L.T.A in un luogo come Corviale che si presta bene allo sviluppo del tema.
Vi aspetto quindi lunedì prossimo in via Marino Mazzacurati 76 e, se potete, passate parola girando il link a questa pagina a chiunque possa essere interessato.
Francesco
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October 16, 2012
Un “sogno” sulla fantascienza

Illustrazione a firma di Lorenzo Nuti
Sul numero 148 di Delos Magazine, dedicato ai 60 anni della fantascienza in Italia, a cura del direttore Carmine Treanni, è uscito un mio racconto “Sogno di un futuro di mezza estate” (che si può leggere e scaricare gratis) in una versione “linguisticamente normalizzata”. La storia è la stessa del racconto pubblicato l’anno scorso per Kipple Officina Libraria con il medesimo titolo, ma in quel caso la narrazione veniva portata avanti in una maniera che definirei “linguisticamente aumentata“. Questo perché una delle cose che vado sostenendo (e non sono certo né il primo né l’ultimo a farlo) è che la lingua, così come altre manifestazioni della conoscenza umana, si evolve. Non considerare l’aspetto linguistico nella stesura di un testo di fantascienza (e quindi non curarsi di eventuali neologismi, di ibridazioni semantiche e quant’altro), è come vedere i cari vecchi amici di Star Trek solcare l’infinità del cosmo, a bordo della loro Entreprise, arredata di tutto punto in bello stile anni ’60-’70. Non che ci sia nulla di male, va da sé, eppure mi pare sempre che manchi qualcosa. E quel qualcosa è la credibilità. Pensiamo a come parlavano i nostri nonni, solo per fare un esempio, senza andare troppo indietro nel tempo. Pensiamo a quanto la tecnologia modifichi profondamente sia le espressioni linguistiche che quelle gergali, creando dei veri e propri sottolinguaggi. La cosa può non piacere ai puristi (o forse ai pigroni), ma quando la ricerca è fatta bene, quando la scrittura intercetta queste possibili evoluzioni verbali ecco spuntare fuori dei testi come “Arancia Meccanica” di Anthony Burgess e il suo stupefacente “nadsat“, a cui “Sogno di un futuro di mezza estate” rende un doveroso, seppur indegno, omaggio.
A voi la scelta.
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September 14, 2012
Un nuovo “e-Doll”
Sono passati tre anni da quando e-Doll ha vinto il premio Urania Mondadori, cambiando in modo radicale la mia vita.
Devo a questo romanzo – scritto tra il 2004 e il 2007 – tutto ciò che di bello o di brutto ho scritto e scriverò in seguito. La sensazione con cui ho approcciato l’editing del testo in questa nuova versione pubblicata per la Kipple Officina Libraria, è stata di riconoscenza. Tuttavia, non ho esitato a tagliare circa 30 pagine e riscrivere intere parti che risentivano di una certa immaturità letteraria, della smania, spesso narcisistica, di sopperire con parole roboanti alle idee.
Per quelli che non hanno avuto modo di leggere e-Doll nella versione pubblicata nella collana Urania della Mondadori, il tema del romanzo è il seguente:
Sul mercato del sesso circolano dei replicanti che vengono usati per ogni perversione, inclusa la morte, pur di soddisfare i clienti. Sono gli e-Doll, esseri a metà tra bambole sintetiche e nuovi idoli dell’eros. Il sesso avviene in gran parte mediante gli e-Doll per paura di malattie e distrazioni che distolgano dal lavoro. Gli e-Doll vengono impiegati dal Ministero dell’Interno russo in accordo con la Silitron per combattere i reati a sfondo sessuale (violenze carnali, stupri di gruppo, ricatti sessuali e omicidi passionali). Ma l’idea della Silitron è anche di immettere nel corpo degli utenti una sostanza capace di renderli più sani e longevi, con risultati sorprendenti.
La storia segue le vicende di Maya, irrequieta adolescente moscovita che si finge un e-Doll e conduce una doppia vita. Se da una parte indossa i panni di una studentessa svogliata, dall’altra si vende per sentirsi amata. L’altro protagonista è Angel, un e-Doll ermafrodito esperto nell’ars amandi, il quale medita su come poter diventare un essere umano. I due si incontreranno un giorno in una sessoteca e lì si scambieranno qualche cosa che li avvicinerà alla realizzazione di se stessi.
La copertina di e-Doll è a firma di Carolina Ricciulli, mentre l’illustrazione interna è di Lorena Assisi. Ragazze, avete fatto un lavoro splendido!
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