Marco Manicardi's Blog, page 4

April 19, 2024

22 aprile: Nottambula

E il 22 aprile, cioè lunedì, dalle 20:30 molto precise in Piazzale Re Astolfo, succede una cosa bellissima in giro per le vie del centro di Carpi: si chiama Nottambula, succede tutti gli anni, e questa è la sesta edizione. Ci sarà il Coro dei Violenti Piovaschi, che organizza il tutto con infinita cura e sospensione (*), una Banda di Quartiere, un corteo festante, delle letture, delle poesie, un concerto, e ci sarò anche io a declamare delle cose a voce altissima accompagnato da Daniele Rossi con l’organetto e Enrico Pasini con la tromba.

Qui c’è il programma completo:

E questo è l’evento fb su cui cliccare Mi interessa o, ancor meglio, Parteciperò.

Sarà un bel lavoro.

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Published on April 19, 2024 00:50

April 11, 2024

Service Unavailable (da nove anni)

Con un giorno di ritardo, perché sto invecchiando e le cose della vita sono complicate e ho anche i muratori che smartellano tutto il giorno fuori dalla finestra, pubblico una cosa che pubblico tutti gli anni e quest’anno, incosciente come sono diventato, l’ho letta tutta a voce alta. Si ascolta qui (e si legge sotto):

Qualche tempo fa avevo ritrovato su gmail una sottocartellina annidata tra quelle dove un tempo raccoglievo i messaggi per le cose di Barabba, e questa sottocartellina si chiamava “GIAOH“. Dentro c’erano un po’ di link sulla morte del FriendFeed, raccolti al volo in quella due giorni pazza pazza pazza del 9 e 10 aprile di nove anni fa.
Alcuni di quei link oggi sono morti, altri sono diventati privati. Quelli ancora in vita (e sono già meno dell’anno scorso, visto che questa è una cosa che posto tutti gli anni) sono qui di seguito (se cliccate, e poi proseguite con la lettura, sembra una specie di funerale in differita):

FriendFeed sarà chiuso il prossimo 9 aprile  (il Post, 9 marzo 2015) Fifì  (di Cratete) Giao FriendFeed  (di Mix) That’s all Folks  (di nandina) Morte di un social network  (di Galatea) Ode to FriendFeed, or what we want from social media  (di Mkz) FriendFeed chiude i battenti  (di Bigodino) e niente  (L’Albero di maggio) Piccola bibliografia essenziale sul socialino #Friendfeed e la sua chiusura  (di Paz83) [25] friendfeed – parte seconda  (di virus) Friendfeed era il mio gatto  (di Batchiara)La notte che perdemmo FrienFeed (di Fabrizio Casu) FriendFeed chiude  (di .mau.) Giao Angelo! In morte di FriendFeed, la comunità che diventò l’ONU delle cricche  (di Suzukimaruti) Friendfeed: la mano sinistra di dio  (di mantellini) Quindi l’han chiuso sul serio, #frienfeed  (di Giuliana Dea) è stato a una roba radical chic che manco immaginate.  (di Miki Fossati) Ti ho amato, socialino dell’odio! 😉  (di Gwendalyne)

E c’erano anche:

Uno screenshot di una cosa scritta dell’elena in una stanzetta privata: Poi una cosa dal feed di eio che diceva così:

Friendfeed era l’unica cosa bella di internet 🙁

Una mail intera di Ubikindred:

Vi ho amato quando fuori c’erano mille gradi e io sudavo come una bestia preistorica e voi vi lamentavate del freddo
Vi ho amato quando a -7 cantavate le gioie del teaminverno
Vi ho amato quando suonavate la chitarrina con le canzoni di De André
Vi ho amato anche di più quando vi scappavano in home cazzi deformi, felici per un istante, della loro teratogena libertà
Vi ho amato quando “quelli che lavano le scale è perché se lo sono meritati”
Vi ho amato quando se metti la cipolla nell’amatriciana devi morire gonfio, ma è cosa buona e giusta stirare gli stronzi che vanno in bicicletta solo per dare fastidio ai nostri SUV
Vi ho amato quando abbiamo litigato per un migliaio di commenti partendo dalla frase “uh, nuvoloso quest’oggi, nevvero?”
Vi ho amato quando i Led Zeppelin fanno cacare.
Vi ho amato tutti, grandiosissime teste di cazzo.


Va detto che però ho amato ancora di più le puppe


😀
GIAO


Un post dal facebook di Azael:

“Friendfeed è morto davvero. L’unico social network che abbia mai avuto un senso, un posto in cui essere Vip non serviva a un cazzo, in cui uno scemo era semplicemente uno scemo e un coglione un coglione. Un posto in cui le opinioni non avevano tutte lo stesso valore, perché le opinioni-opinioni si separavano automaticamente, come per una misteriosa forma di mitosi, dalle opinioni-cazzate. Su Friendfeed nessuno avrebbe mai potuto pensare di pubblicare un articolo complottista, una bufala, una scemenza, senza prendersi un vaffanculo didattico, né di riportare una tesi approssimativa senza sorbirsi quatrocentottanta commenti in grado di fare la punta al cazzo pure al secondo principio della termodinamica. Friendfeed è stato un posto, un luogo, non un social network. Un social network è questa merda di Facebook, o quell’aborto di Twitter, sono strumenti in grado di appiattire tutto, di far sentire l’imbecille una persona normale e la persona normale un imbecille. Questi social network sono come la vita, non aggiungono niente e non tolgono niente; ci trovi dentro quello che crede alle scie chimiche e quello che posta il buongiorno sette volte al giorno; e non c’è modo di uscirne diversi. Su Friendfeed le idee entravano in un modo e uscivano in un altro. Friendfeed era un ambiente difficile, tutto era iperbolico, ciò che era leggero diventava pesantissimo, ciò che era pesante diventava una sciocchezza da bar. Si scherzava sulla morte e si litigava per il colore di un divano. Su Friendfeed ho conosciuto fenomeni veri, artisti, persone realmente geniali e persone di una bontà non umana. Anche gli scemi su Friendfeed erano estremi. Uno scemo su Facebook si limita a scrivere cazzate, su Friendfeed uno scemo era in grado di costruire una storia finta, di sostenerla, di cambiarsi la vita per giustificarla e poi di scomparire nel nulla per non “perdere il flame”. Probabilmente Friendfeed era solo un filtro che desaturava la realtà e la mostrava per quello che era, con lo sguardo cinico e disilluso di un cane vecchio che ti piscia sul mocassino di pelle di cane. Friendfeed ha segnato un’epoca, almeno la mia, sette anni di risate, di discussioni, di persone conosciute, di persone incontrate, di amicizie e di smadonnamenti roboanti, di condivisione di una certa idea di realtà. Ora è finita e spiegare Friendfeed a chi non c’era, spiegarlo qui su Facebook tra l’altro, è inutile e paradossale. Quanto a chi c’era, beh, ci troviamo in giro, su questi social imperfetti o nella vita di tutti i giorni, e ci riconosceremo perché saremo sempre quelli seduti scomodi, a trattenere bestemmie, giudizi universali e benaltrismi non euclidei. Grazie di tutto socialino dell’odio, sei stato la cosa più bella di Internet, la cosa più divertente di questi anni, una delle cose più belle di qualsiasi cosa.”

Un mio commento, salvato e mai postato, chissà per chi:

Visto che c’è la replica della replica della replica della polemica, visto che stiamo chiudendo dico la mia. È innegabile che certe dinamiche ci siano state su friendfeed. Però uno si sceglie non solo le persone che gli stanno intorno, ma anche il tono della conversazione cui partecipare. I flame li ho visti passare e li ho evitati con serenità. So che ci sono, ma nel mio feed ci sono stati anche un matrimonio, alcuni bambini, bellissimi dj set, cose buffe e interessanti, e notevoli affetti

Il pezzo di un post che avevo scritto anche qui, si intitolava  FriendFu  e diceva così:

Forse dovrei raccontare di come sono finito su FriendFeed, nella tarda primavera del 2009, ma non mi ricordo più il perché. Forse dovrei dire che senza il FriendFeed il mio parco amici sarebbe molto ma molto più ridotto, adesso come adesso, e che ci sono persone che ho conosciuto nel 2010 ma che reputo amici d’infanzia per tutte le cose che abbiamo fatto, detto, letto, condiviso, eccetera negli anni, ma sono cose personali. Forse dovrei parlare di come grazie al FriendFeed mi sia capitato di ritrovarmi a leggere racconti ad alta voce in pubblico, una cosa che non avevo mai nemmeno pensato di poter pensare di fare, prima del Friendfeed, ma l’avrò già detto millemila volte.


Mi ricordo la prima discussione cui partecipai in quella tarda primavera del 2009, appena decisi username, password e avatar, e dopo aver cliccato sulla Home dove stavano le discussioni di tutti gli altri. Era un thread di un utente di nome bloggo, si parlava dell’opportunità o meno di fare la pipì nella doccia, nella propria e in quelle altrui.
Era esattamente il posto nel mondo in cui volevo stare.


Qualche anno fa avevo letto un libro che si chiama Prima l’italiano. Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure, del 2019, dove Vera Gheno nei ringraziamenti dava:

un abbraccio alla mia tribù virtuale di Friendfeed: l’avranno pure chiuso, il nostro socialino, ma once a friendfeeder, always a friendfeeder.

E infine, c’era anche un tumblr che si chiama #salutifinali, che se uno ci clicca e comincia a sfogliarlo gli viene il magone (siete avvertiti):  ffsalutifinali.tumblr.com

E questa, come dicevo all’inizio, è una cosa che posto tutti gli anni, il 10 di aprile, e ormai, dato che mi ero iscritto a FriendFeed nella primavera del 2009 e che FriendFeed è stato chiuso il 10 aprile del 2015, è più il tempo che sono stato senza FriendFeed di quello che ho passato su Friendfeed.
Una cosa abbastanza incredibile. Ma eravamo più giovani e si vede che il tempo ci sembrava infinito.

E, insomma, così va la vita.

Giaoh.

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Published on April 11, 2024 07:41

March 31, 2024

Lagerkvist

E in un libro che si chiama Barabba, del 1951, Pär Fabian Lagerkvist dice che:

Una delle donne aveva incominciato a discorrere di quello che era stato crocifisso al posto di Barabba; essa lo aveva veduto una volta, mentre passava, e la gente aveva detto che era un dottore il quale andava intorno e profetizzava e faceva miracoli. In questo non c’era nulla di male, perché tanti altri facevano lo stesso; perciò, da quel che si poteva capire, il motivo per il quale era stato crocifisso doveva essere un altro. Era un tipo magro; tutto ciò che ricordava di lui era soltanto questo. Un’altra disse che lei non lo aveva mai visto, ma aveva udito che egli avrebbe predetto che il Tempio sarebbe crollato, che Gerusalemme sarebbe stata distrutta da un terremoto e che poi il cielo e la terra si sarebbero incendiati. Cose non da senno, e non c’era da stupire che per questo fosse stato crocifisso. Ma la terza donna disse che quell’uomo frequentava specialmente i poveri e soleva promettere loro che sarebbero entrati nel regno di Dio, e financo alle prostitute lo aveva promesso. All’udire questo tutti risero molto, ma trovarono che se fosse davvero andata così, sarebbe stato molto bello.

(E anche questa è una cosa che posto tutti gli anni)

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Published on March 31, 2024 03:00

March 23, 2024

Così va la vita (con un sottofondo in Re minore)

E qualche anno fa, un bel po’, in verità, ero in macchina che andavo a lavorare e ascoltavo la radio, ed era cominciato il Preludio n. 24 in Re minore, dai Preludi Op. 28 di Chopin, e il pianoforte che si sentiva era suonato da Maurizio Pollini.

Ed era stato uno di quei momenti, che sono anche abbastanza rari, in cui ti fermi un attimo di pensare le cose che stavi pensando perché quello che stai ascoltando diventa improvvisamente importantissimo e si accaparra di colpo tutti e cinque i sensi; e quindi non stavo più davvero guardando la strada e i paeselli e la gente che attraversavo tutti i giorni, due volte al giorno, per abitudine e per noia, ma ero lì concentrato sul suono del pianoforte che usciva dall’autoradio e respiravo pochissimo e forse non deglutivo neanche. Era stato in quel momento lì che avevo capito che il suono del Re minore è la musica delle macerie, del momento subito dopo un disastro, come dopo uno scoppio, o due aerei che si schiantano contro un grattacielo, ma non è il momento del frastuono, e quello subito dopo, quando la polvere comincia a cadere ed a appoggiarsi e apri gli occhi e cerchi di riprendere contatto con la realtà che è una realtà distrutta, franata, e segna il passaggio dall’inconcepibile al comprensibile e, insomma, il Re minore è il suono che rappresenta la distruzione.
Dopo quel momento in macchina, col Preludio n. 24 in Re minore, dai Preludi Op. 28 di Chopin, suonato al pianoforte da Maurizio Pollini, tutte le volte che un musicista mi accompagnava o mi accompagna durante una lettura dal vivo io gli chiedo sempre, se possibile, di suonare una cosa in Re minore.
Mi ricordo che Grushenka mi aveva anche regalato il disco dei Preludi Op. 28 di Chopin suonati al pianoforte da Maurizio Pollini e io l’avevo messo in macchina perché le macchine avevano ancora i lettori CD incorporati, e mi ricordo anche che poi quando quella macchina l’avevo dovuta rottamare mi ero dimenticato di toglierlo e quindi presumo che sia stato frantumato e accartocciato da un demolitore e me ne sono ricordato come aprendo gli occhi e cercando di riprendere contatto con la realtà che ormai era una realtà distrutta, franata, e segnando il passaggio dall’inconcepibile al fatto comprensibile che ormai era troppo tardi. Con un sottofondo in Re minore.

Così va la vita.

***

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Published on March 23, 2024 07:16

March 21, 2024

Catalano

E in una poesia intitolata il mare visto da un poeta, dentro a un libro che si chiama Motosega, del 2007, poi ristampato nel 2014, Guido Catalano, poeta vivente, dice che 

poi i poeti
un’altra cosa che mi dà noia
è che difficilmente
se gli chiedi di controllarti l’olio
o le pasticche dei freni
sono capaci

(E anche questa è una cosa che posto tutti gli anni, nella Giornata Mondiale della Poesia)

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Published on March 21, 2024 03:56

March 19, 2024

Il nome del padre

C’è una cosa che avevo scritto su Barabba, ormai quattordici anni fa. Magari cambio qualche virgola o una frase o un tempo verbale, perché sono fatto così, ma tutti gli anni la ripubblico il 19 di marzo, quando mi ricordo, per la festa del papà. Quest’anno, come sto facendo da un po’, l’ho letta a voce alta e, se vuoi, tu, chiunque tu sia, che passi di qui per caso o per forza, la puoi ascoltare:

Mio padre si chiama Iules, ma non si è sempre chiamato così. Prima era Jules, con la J.
Fino ai quarant’anni, o poco più, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che a pensarci mi gira un po’ la testa, su alcuni dei suoi documenti c’era la I e su altri c’era la J. All’anagrafe dicevano che c’era la I, ma poi si grattavano la nuca e rispondevano che boh, non erano tanto sicuri neanche loro, perché una volta le schede venivano compilate a mano e proprio lì, sotto la I di Iules, c’era una specie di sbavo. Non si capiva se fosse inchiostro sputato dalla penna o uno sbavo intenzionale: nel 1953 la J non era una lettera molto in voga, c’era anche della gente che non la conosceva e forse l’impiegato dell’epoca, nel dubbio, o per timidezza, aveva sbavato apposta.

Mia nonna Ada, sua madre, gli aveva messo nome Jules perché era una grandissima appassionata dei fotoromanzi di Grandhotel, e nei fotoromanzi di Grandhotel c’era un personaggio di nome Jules che, da quello che avevo capito quando aveva provato a spiegarmelo, era un gran bel figaccione. Allora m’immagino che mio nonno, quando era corso all’anagrafe per registrare suo figlio, avesse scritto Jules su un bigliettino, copiandolo da un numero di Grandhotel con la calligrafia tremolante per l’emozione e per la scarsa abitudine allo scrivere, e non s’immaginava, forse, che Jules si dovesse leggere alla francese. All’impiegato dell’anagrafe aveva detto «iules», così, leggendolo com’era scritto, poi gli aveva fatto vedere il bigliettino e l’impiegato, nel dubbio, doveva aver compilato la scheda, forse apposta, con quello sbavo sulla I per farla sembrare una J.

Mi ricordo che mio padre fino ai quarant’anni, o poco più, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che è una cosa abbastanza incredibile, si firmava con una I che sembrava una J, ed era contento e a posto così. Faceva anche un più bel ricciolo, sotto la I, una cosa quasi artistica, una specie di manifestazione di felicità ogni volta che doveva firmare un assegno o un voto sul mio diario o una giustificazione per la scuola. E io lo guardavo sempre con ammirazione, quando firmava, e gli dicevo: «Papà ma che bella firma, ma che bel nome» .

Solo che poi, un giorno, gli era arrivata una lettera dallo Stato o da quella cosa che adesso si chiama Agenzia delle Entrate e una volta si chiamava in un altro modo. Dentro c’era scritto che bisognava prendere una decisione per chiudere la questione, perché lassù, negli uffici misteriosi della burocrazia statale, non erano mica tanto sicuri che fossero arrivate tutte le bollette e che fossero state pagate tutte le tasse.
Con quella lettera gli dicevano più o meno che: Gentilissimo Sig. Iules, oppure Jules, si decida, Le mandiamo un modulo da compilare e Lei, entro e non oltre la tal data, deve scegliere il nome con cui vuoLe essere identificato una volta per tutte; in seguito Le invieremo tutti i documenti nuovi di zecca e aggiorneremo tutte Le sue pratiche; però si decida, perché qua non ci capiamo niente. Fiduciosi nella Sua pronta collaborazione, le porgiamo i nostri più Cordiali Saluti. Firmato: Lo Stato.

E mio padre, me lo ricordo proprio così, è stato una settimana col mento appoggiato sul pugno, seduto al tavolo della cucina, a decidere come chiamarsi da lì in poi.

Poi una mattina, senza dir niente a nessuno, si era alzato presto, si era vestito bene ed era andato alle Poste a imbucare il modulo compilato. Quando era tornato a casa si era fatto un caffè, e quando ci eravamo svegliati tutti, mia mamma, mia sorella e io, ci aveva chiamati in cucina e ci aveva detto: «Ragazzi, ho una notizia da darvi: mi chiamo Iules con la I.»

(Mio papà, Iules, con la I, un paio di settimane fa, mentre imbottigliavamo del Lambrusco di Sorbara)

***

Ho sempre pensato che decidere il proprio nome a quarant’anni, o poco più, sia una cosa giusta e dignitosa. Lo penso anche adesso, che ho poco più di quarant’anni anch’io, anche se faccio ancora fatica a rendermene conto.
Fosse per me, scriverei, voterei e approverei una legge per la quale ognuno, a quarant’anni, o poco più, o anche prima, se vuole, può scrivere una lettera allo Stato dove gli dice che nel pieno delle facoltà mentali ha preso la decisione, fortemente ragionata, ponderata e magari anche discussa approfonditamente con la famiglia, di cambiare nome. Anche il cognome, se vuole.  Poi, ovviamente, se a uno piace il nome che porta, cioè quello che gli hanno dato alla nascita, può tenerselo senza problemi. Non ci sarebbero obblighi, solo libertà e prese di coscienza. Sarebbe una specie battesimo laico, una cosa matura per una persona e, mi viene da pensare, anche per uno Stato.
Io, per esempio, non avrei dubbi.
Io, lo so per certo, se potessi, da domani mi chiamerei John Laser.

Una cosa cui devo dare atto a mio papà, Iules Manicardi con la I, è che, a differenza di tutto il resto del parentado vivente, non si è ancora mai creato un profilo su facebook e neanche su Instagram.
Bravo papà, auguri.

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Published on March 19, 2024 12:01

March 8, 2024

Tolstaja

E di solito l’8 marzo posto sempre una cosa che Sòf’ja Andrèevna Bers, detta Sonja, diventata poi Sof’ja Tolstaja, moglie di Lev Nikolàevič Tolstoj, scriveva l’8 marzo del 1898 su una pagina del diario. Quest’anno, invece di ripostarla, ho chiesto a Grushenka se aveva voglia di leggerla a voce alta e lei l’ha letta. Si ascolta qui:

“Nella mia anima sta avvenendo una battaglia fra il desiderio ardente di andare a Pietroburgo a sentire Wagner e altri concerti e il timore di dare un dispiacere a Lev Nikolaevič e di sentirmi questo suo dispiacere sulla coscienza. Stanotte ho pianto a causa di questa pesante sensazione di mancanza di libertà che grava sempre più su di me. Di fatto, naturalmente, sono libera. Ho soldi, cavalli, vestiti, tutto: potrei fare le valigie, salire in carrozza e andare. Sono libera di leggere le bozze, di comprare le mele per L. N., di cucire i vestiti per Saša e le camicie per il marito, di fotografarlo in tutte le pose, di ordinare il pranzo, di sbrigare le faccende di tutta la famiglia; sono libera di mangiare, di dormire, di tacere e di rassegnarmi. Ma non sono libera di pensare a modo mio, di amare quello e quelli che scelgo io stessa, di andare dove mi interessa e dove mi sento spiritualmente a mio agio; non sono libera di occuparmi di musica, non sono libera di cacciar fuori dalla mia casa quelle innumerevoli persone inutili, noiose e spesso molto cattive e di ricevere persone buone, piene di talento, intelligenti e interessanti. In casa nostra non si ha bisogno di persone simili: con cui bisogna misurarsi e porsi su un piano di parità, mentre qui si ama stare in posizione di superiorità e insegnare… E per me la vita è poco allegra, difficile… Ma non ho usato la parola giusta: «allegria». Non ho bisogno di questo. Ho bisogno di vivere una vita ricca di contenuto, tranquilla, e invece vivo nervosamente, con difficoltà e in modo vuoto.”

(È una cosa che posto tutti gli anni, quando mi ricordo)

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Published on March 08, 2024 08:17

February 14, 2024

Una rosa è una rosa è una rosa?

Grushenka, che ci amiamo tanto, davvero, mi dice sempre che «San Valentino è quel giorno dove so che tu parli di un’altra.» E quindi, anche se tutti gli anni questa storia la ripubblico, magari modificata di un pochino, una parola, un tempo verbale, un segno di punteggiatura, quest’anno l’ho registrata e si ascolta cliccando qui sotto. Buon San Valentino anche a voi.

Avrò avuto quattro o cinque anni, ero al secondo o al terzo anno di scuola materna, dalle suore di Novi di Modena, e quando mia mamma mi aveva chiesto una di quelle cose che chiedono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far ridere gli altri adulti lì intorno, e cioè «Ce l’hai una morosina?», io avevo risposto deciso: «Sì che ce l’ho!»
«Chi è? Una tua compagna di classe?»
«Sì,» avevo risposto fiero, «si chiama Marcella.»

Non che fossimo davvero morosi, a quattro o cinque anni, io e la Marcella, figuratevi, ma c’era la prassi di dire che una bambina era la tua morosa solo perché ti piaceva, e perché dovevi per forza incasellarti in uno stile di vita che ti imponevano gli adulti: eri un maschio di quattro o cinque anni, eri in salute, ti dovevano per forza piacere le femmine.
Il caso aveva voluto che mi piacessero le femmine, e c’era una bambina in classe con me che si chiamava Marcella, io dicevo che era la mia morosa e anche Michele diceva che la Marcella era la sua morosa. Entrambi lo sapevamo e ci andava benissimo così, perché il mondo che vivevamo al secondo o al terzo anno della scuola materna, dalle suore di Novi di Modena, era un mondo abbastanza libero. E anche le suore, incredibilmente, accettavano senza battere ciglio quell’abbozzo di intenzione alla poligamia infantile.
Ma comunque, inevitabilmente, anche al secondo o al terzo anno della scuola materna delle suore di Novi di Modena, era arrivato il giorno di San Valentino.

Cosa volete che gliene freghi a un bimbo di quattro o cinque anni di San Valentino? Niente?
Invece qualcosa gliene frega. Gliene frega perché gli adulti, a cominciare dai genitori, cominciano a dire delle cose, di quelle che dicono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far ridere gli altri adulti lì intorno, tipo: «Allora glielo fai un regalo alla tua morosina, domani, che è San Valentino?»
Sarà seguita, immagino, qualche spiegazione sul significato popolare della ricorrenza, o magari me l’avevano già spiegato prima, non lo so, ma alla fine, va bene, facciamo il regalo alla Marcella, devo aver deciso tra me e me, e avevo portato mia mamma in un negozio di giocattoli, uno dei due che c’erano a Novi di Modena all’inizio degli anni 80. Eravamo entrati, avevo scelto un regalo, l’avevo fatto impacchettare dal negoziante e, devo dire, se adesso chiudo gli occhi e ripenso a quel momento preciso della mia vita e faccio uno sforzo per tornare alle sensazioni del me stesso bambino che comprava un regalo di San Valentino per la Marcella, la mia morosina, mia e di Michele, beh, mi sento abbastanza soddisfatto.

E lo ero ancora il giorno dopo, quando ero arrivato con mia mamma davanti alla scuola. Mia mamma era una che si svegliava anche presto, la mattina, ma poi andava a finire che si perdeva a fare dei lavori in giro per casa e mi portava sempre a scuola per ultimo; e quel giorno lì, il giorno di San Valentino di quando avevo quattro o cinque anni, quando ero entrato a scuola c’erano già dentro tutti i miei compagni di classe ammassati in cerchio nel salone centrale tra le sezioni.
Dentro al cerchio c’era la Marcella.
E davanti alla Marcella, me lo ricordo bene come se fosse adesso, ho proprio la fotografia davanti agli occhi, davanti alla Marcella c’era Michele col braccio teso verso di lei e una rosa rossa in mano.

Ora, a me viene naturale, in questo momento, chiedermi delle cose. Delle cose da adulto, intendiamoci. Delle cose tipo: ma come può darsi che a un bambino di quattro o cinque anni gli venga in mente di regalare una rosa a una bambina per San Valentino?
Qual è il processo mentale precocissimo che porta il romanticismo a vette così adulte che fa dire a un bambino di quattro o cinque anni: «Mamma devo comprare una rosa rossa per la Marcella che domani è San Valentino»?
Com’è possibile una cosa del genere?
Una rosa? A quattro o cinque anni?
Non saranno mica stati i genitori, invece, a inculcargli una di quelle cose che dicono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far ridere gli altri adulti lì intorno, tipo «Michele, gliela compriamo una rosa rossa alla tua morosina per San Valentino?»
Una rosa?
Dai, su.
UNA ROSA!?

Allora io, ecco, mi ricordo che avevo preso il pacchettino che avevo in mano, che era dentro a una sportina colorata, mi ero girato verso mia mamma, che era lì che guardava Michele dare la sua rosa rossa alla Marcella e sorrideva compiaciuta della scena, e magari, sempre mia mamma, nella sua testa avrà pensato che cosa divertente e buffa questi due bambini che fingono di fare gli adulti.
Intanto io la tiravo per la giacca per ridarle il mio pacchettino.
Deve forse avermi detto, mia mamma: «Non glielo dai il tuo regalo alla Marcella?»
«No, fa lo stesso,» devo aver risposto io.
E le avevo ridato la sportina con dentro il mio regalo ancora impacchettato.
Una rosa, pensavo.
Una rosa.

Una fottutissima rosa rossa, penso ancora adesso.
Come potevo anche solo immaginare di competere, io, piccolo stoltarello di quattro o cinque anni al secondo o al terzo anno della scuola materna dalle suore di Novi di Modena, come potevo pensare di affrontare Michele e la sua rosa rossa davanti alla Marcella, io, ingenuo, piccolo e stupido, col mio sciocco, anche se non banalissimo, è vero, ma comunque sciocco, sciocchissimo cubo di Rubik?

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Published on February 14, 2024 02:29

February 12, 2024

Così va la vita (assolutamente no)

Questo pezzo l’avevo scritto dieci anni fa su Barabba, adesso che son passati dieci anni lo rimetto qui sotto ricicciandolo un pochino e leggendolo a voce alta perché quest’anno va un po’ così:

La prima volta che ho visto Freak Antoni (io lo pronuncio Frìk Antòni, scusate se è sbagliato, ma a me vien fiori così), la prima volta che ho visto Freak Antoni, dicevo, lui era insieme a Dandy Bestia, voce e chitarra, al Parco della Resistenza di Novi di Modena. Era il millenovecentonovanta-e-qualcosa, avrò avuto quattordici o quindici anni, non di più. In qualche modo quel concerto, uno dei primi che vedevo, aveva cambiato o iniziato a cambiare il mio modo di ascoltare le cose.
Avevo poi visto gli Skiantos due o tre volte, nella vita, l’ultima era stata alla Festa del PD di Carpi, tipo nel 2004. A volte mi eran piaciuti, altre meno, dipende da cosa mi passava per la testa o da chi mi credevo di essere in quel momento.
Freak Antoni capitava spesso di vederlo tra il pubblico di qualche concerto, a fine anni ’90, inizio anni zero, soprattutto se c’era una reunion di gruppi vecchi e scassoni.
Non ho neanche un disco degli Skiantos, in casa. Era tutto su cassettine perse nei traslochi o stipate in qualche scatolone in qualche soffitta. Ho solo un CD di Freak Antoni che legge delle poesie e canta delle cose. L’avevo preso l’ultima volta che l’avevo visto, nel 2012 o giù di lì, credo, alla Salumeria del Rock di Arceto di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, dove recitava le sue poesie e canticchiava le sue canzoni accompagnato da una pianista che, mi aveva detto poi chi ne sapeva più di me, suonava musica contemporanea anche abbastanza cazzuta. Io e la mia morosa eravamo arrivati presto, c’erano solo altre due o tre persone in sala, ci eravamo messi a un tavolino e avevamo ordinato due hamburger e della birra. Freak Antoni e la pianista avevano finito di sistemare i microfoni e le cose, e poi, nella sala semivuota, erano venuti al nostro tavolo. «Possiamo sederci a mangiare con voi?» ci aveva chiesto Freak Antoni. E così avevamo chiacchierato amabilmente per una mezz’ora. Dopo si erano alzati ed erano andati a prepararsi per lo spettacolo. Lui era magrissimo, smuntissimo, esausto, ma faceva morir dal ridere, a tavola e sul palco.

All’inaugurazione del Bonvi Parken, a Modena, un pomeriggio di giugno del 2011, se mi ricordo bene, ero in fila dietro di lui al gazebo della Protezione Civilen per accaparrarmi un hot dog. La mia morosa mi aveva raggiunto, gliel’avevo indicato, lei l’aveva visto e aveva detto a voce alta: «Freak Antoni!»
Lui si era girato, serissimo, era stato zitto due secondi, ci guardava, e poi aveva risposto: «Assolutamente no.»

Così va la vita.

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Published on February 12, 2024 03:55

February 7, 2024

Svegliandosi una mattina da sogni agitati

Marco Manicardi si trovò trasformato, nel suo letto, in un vecchio quarantacinquenne.

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Published on February 07, 2024 02:43