Alberto Prunetti's Blog, page 4
July 24, 2012
Sentenza Eternit
Segnalo un interessante articolo di Luca Baiada sulla sentenza Eternit, pubblicato su Carmilla:
Quando i crimini sono enormi, si pongono problemi di misura. I colpevoli sono quasi sempre persone piccine, che solo il sangue rende visibili. Oscuri burocrati, mediocri militari, figli di papà invecchiati. Nei crimini nazifascisti si sfogano aggressività messe in divisa dal peggio del Novecento, al servizio del tornaconto. Nell’Eternit gli autori più visibili sono i massimi beneficiari dell’arricchimento, possessori di fortune continentali: soprattutto lo svizzero Stephan Schmidheiny e il belga Louis De Cartier. Le vittime sono folla, che la storia e la giustizia faticano a individuare, col rischio di farne un mucchio senza nome.
(Continua a leggere l’articolo su questo link: http://www.carmillaonline.com/archive...)
July 7, 2012
Reddito minimo garantito
Una proposta di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito (in forme diverse esiste in quasi tutti i paesi europei, a parte Italia e Grecia):
June 20, 2012
Un articolo su Futbologia
Futbologia, blog di critica radicale applicata al calcio, ha pubblicato un mio articolo autobiografico sul calcio operaio che incollo di seguito:
Ho cominciato a dar calci al pallone per non cadere sull’asfalto di un campo da gioco operaio. Per rimanerci in piedi, anche se ero solo un bambino, in quel “campo”. Un campo senza erba o terra, un campo d’asfalto. Cadere significava rovinarsi. Io sono riuscito a cadere una sola volta e mi sono guadagnato una frattura guarita in novanta giorni tra gesso e fasciatura stretta. Aggiungo solo che il bastardo che mi ha falciato non era un avversario ma un compagno di squadra a cui non avevo passato la palla. Ancora oggi è uno dei miei migliori amici. Questo campo d’asfalto, che produceva vittime quotidiane, era proprio all’interno di una fabbrica dismessa, l’ex-Ilva di Follonica. Forse giocare in una ferreria era un modo per abituarsi da piccoli agli infortuni sul lavoro.
Continua a leggere l’articolo qui:
June 17, 2012
Una nuova traduzione
Invisibilità dei traduttori: una mia traduzione su Repubblica (un anticipo di “Debito” di David Graeber, edito da Il Saggiatore) in cui ovviamente non siamo citati né io, né il secondo traduttore. Poi però scrivono “Riproduzione riservata”. Ovviamente ho ceduto all’editore i diritti, però sarebbe buon costume citare i nomi dei traduttori nelle pagine di cultura e di costume (io su Carmilla lo faccio sempre)….
May 18, 2011
Ernesto Sabato, la classe media e la dittatura
Riporto un mio intervento sulla figura dello scrittore argentino Ernesto Sabato, pubblicato su Nazione indiana:
In seguito alla recente scomparsa dello scrittore argentino Ernesto Sabato – lo scrivo senza accento sulla prima "a", come d'uso in Argentina – molti blog letterari italiani, a cominciare da Nazione Indiana, hanno pubblicato articoli che commentano la vita e l'opera di questo scrittore. Sul valore dell'opera di Sabato non ho niente di aggiungere a quanto ho letto, perché sono consapevole della qualità della sua narrativa. Ho trovato invece gli articoli italiani lacunosi nella descrizione del profilo politico-biografico di Sabato. Mentre in Argentina alcune scelte di Sabato durante la dittatura di Videla sono state estremamente criticate, in Italia l'autore de Il Tunnel viene ricordato solo per i suoi meriti letterari o per la sua introduzione al rapporto Nunca más, che ne farebbe ipso facto un campione dei diritti umani. Ma era davvero così "earnest" il nostro Ernesto?
Assieme ai suoi meriti come romanziere, molti commentatori argentini (certo non sulle pagine di «La Nación» o del «Clarín») hanno parlato di un uomo con un percorso tutt'altro che lineare, pieno di ambiguità e compromessi rispetto alla dittatura. L'immagine di Sabato è associata a quella di Borges, un altro grande della letteratura e per un certo periodo suo compagno di antiperonismo, che però non brillava di lungimiranza politica appena usciva dai labirinti di carta. L'accusa è nota, e sono note anche le repliche difensive di Sabato e Borges in merito al famoso invito a pranzo che il dittatore Videla estese ai due letterati. È nota la fotografia triste che li immortala accanto al sanguinario dittatore e le mille scuse e giustificazioni che rimbalzarono per anni in Argentina su quell'episodio.
La difesa di Pio Laghi
I dubbi sulla condotta di Sabato durante la dittatura, a lungo coltivati dalla diaspora di scrittori argentini in esilio, esplosero negli anni del ritorno alla democrazia quando il Conadep – organismo creato per eseguire una prima indagine sulle nefandezze della dittatura, presieduto dallo stesso Sabato – pubblicò una lista di repressori responsabili di crimini commessi durante la dittatura di Videla. Personaggi illustri e compromessi non a livello morale, ma a livello penale, ovvero considerati responsabili o corresponsabili di gravi reati. Tra questi c'era monsignor Pio Laghi, uomo del Vaticano a Baires, noto come "il tennista" per le sue partite a tennis col dittatore Videla. A difendere questo indifendibile pelato si alzò in Argentina la voce di Ernesto Sabato, che con l'autorità della presidenza del Conadep interveniva per spezzare una lancia a favore di Laghi.
A pranzo col dittatore
Quando l'autore di Sopra eroi e tombe prese le difese del messo vaticano Pio Laghi un altro scrittore, Osvaldo Bayer, lo accusò sulle pagine del giornale delle Madres in un articolo intitolato La verdad a medias no (de Pio Laghi a Ernesto Sabato), comparso nel numero di gennaio 1985 del «Periódico Madres de Plaza de Mayo». Bayer in Italia non è molto conosciuto. Basti per ora sapere che al contrario di Sabato, che pubblicava anche sui giornali della dittatura, Bayer è stato condannato a morte da un gruppo clandestino armato e costretto all'esilio per aver scritto un paio di libri, poi bruciati nelle pubbliche piazze. L'accusa di Bayer entra nel merito della posizione che Sabato avrebbe tenuto rispetto alla dittatura: un comodo specchietto per le allodole, una sorta di utile pseudo-difensore dei diritti umani, tenuto in un limbo letterario per dimostrare al mondo che in Argentina c'era libertà d'espressione per chi aveva idee non conservatrici (mentre si torturava e uccideva un'intera generazione di avversari politici). In particolare a Sabato non viene rinfacciato tanto o solo il famoso pranzo a fianco di Borges col dittatore ma questa dichiarazione comparsa sui giornali argentini successivamente all'invito di Videla: "Il generale Videla mi ha fatto un'eccellente impressione. Si tratta di un uomo colto, modesto e intelligente. Mi hanno impressionato la vastità di giudizio e la cultura del Presidente" (la frase è riportata alla stessa maniera sui principali quotidiani argentini del 20 maggio 1976). Il numero successivo della rivista delle Madres, pubblicato nel marzo del 1985, contiene una breve e laconica risposta di Sabato e la controreplica di Bayer. Cominciamo con la risposta di Sabato, che dichiara di avere accettato la proposta oscena di un incontro col dittatore solo come "scrittore di una sinistra democratica" che "assicurava la rappresentatività totale degli uomini di cultura non compromessi col terrorismo". Aggiungeva poi Sabato – senza essere troppo persuasivo – che "era idea generalizzata in quei primi tempi che Videla incarnasse la parte moderata del golpe militare". In seguito quell'incontro sarà giustificato con argomentazioni che ricordano le giustificazioni del Vaticano sulla comparsa di Wojtyla sul balcone accanto a Pinochet e che non spiegano perché gli scrittori, gli intellettuali o i militanti che non avevano commesso reati e tantomeno erano implicati nella lotta armata, fossero comunque sequestrati e assassinati. Ma lasciamo replicare Bayer, aggiungendo che in altri contesti Sabato dirà, senza riscontri, di aver incontrato Videla per mettere una parola a favore dello scrittore Haroldo Conti, già desaparecido, su mandato dei familiari di Conti. La replica di Bayer è lunga è gonfia di indignazione. Lo scrittore, esule per molti anni in Germania, sostiene che le posizioni tenute in quegli anni da Sabato "hanno prodotto su noi esuli un danno profondo". Un danno che non può essere cancellato con un colpo di cimosa solo dal rapporto Conadep. Il Nunca más infatti, spesso elogiato come un nobile atto di difesa dei diritti umani, è stato un classico prodotto dell'era della presidenza Alfonsín, ovvero un atto di transizione elaborato in un momento in cui si raccoglieva una documentazione fondamentale mentre tanti si rifacevano una verginità democratica. Senza negare l'importanza storica del Conadep e la capacità che ebbe di produrre documenti sugli anni della dittatura, Bayer critica i criteri di selezioni di certi esponenti di questa organizzazione. Nella commissione di Sabato, secondo Bayer, c'erano limpidi difensori dei diritti umani e altri che erano complici e avevano un passato torbido di collaborazionismo con la dittatura (non stupirebbe allora il rifiuto del Premio Nobel Pérez Esquivel di far parte della Commissione Sabato). Altro punto di critica è l'atteggiamento di condiscendenza che Sabato ha tenuto rispetto al regime. Sabato dopo l'incontro con Videla non si dilunga sui contenuti della conversazione col repressore ma rilascia questa dichiarazione, riportata dal «Clarín» del 20 maggio 1976: "Credo, per ragioni di cortesia, che debba essere la Segreteria di Pubblica Informazione a dare notizia di quello che abbiamo discusso". Confermato da Prensa: "[...] per ragioni di cortesia, l'informazione deve essere fornita dalla Segreteria di Pubblica Informazione della Presidenza della Nazione". Erano quindi i sicari della Comunicazione della dittatura a far sapere al popolo che cosa si erano detti Sabato e Videla. Pertanto proprio alla Segreteria di Videla, cioè a un'agenzia di disinformazione sistematica, Sabato riconosceva il diritto di fornire un'informazione obiettiva. Ovviamente la notizia circolò anche all'estero e fu interpretata come un puntello di una fantasmatica politica democratica dei golpisti, che mentre discutevano con celebri letterati di "temi spirituali e storici" – come riportato poi da Sabato – nei giorni precedenti avevano già realizzato il sequestro e l'assassinio di cinquantuno colleghi dell'autore di Sopra eroi e tombe: scrittori, giornalisti, artisti, uomini di cinema e di teatro. Il senso dell'operazione – ne fosse o meno consapevole Sabato, e questo dipende appunto dalla sua perspicacia politica – era quello di una legalizzazione (rivolta più verso gli ambienti della stampa e della cultura esteri, per l'interno bastavano le pistole e la picana) del regime. E Sabato non si fece attendere e si prestò a legalizzare con la propria presenza – e lo stesso fece Borges – il generale golpista e repressore, chiamandolo "Presidente della Nazione". Sabato dirà in seguito che era andato solo per chiedere informazioni sul desaparecido Huroldo Conti. Gli esuli replicano: poteva andarci in privato, chiedendo un incontro, senza prestarsi a una cerimonia di puntellamento del dittatore. E poi, siamo davvero sicuri che Sabato si sia esposto a parlare di questo con Videla? O rimase in silenzio, come rimase in silenzio quando – sempre durante la dittatura militare – viaggiò in Spagna e in Francia? Quale migliore occasione per denunciare la sorte di Huroldo Conti e delle altre migliaia di desaparecidos, magari sconosciuti militanti che non erano né scrittori né guerriglieri? E invece, Ernesto se calló. Tacque. O anzi, in Francia e Spagna parlò. Ma della purezza della lingua e del suo amore per la Francia. Negli anni l'episodio del pranzo con Videla verrà giustificato in molti modi sia da Sabato che da Borges. Per Sabato addirittura sembra che l'evento venga quasi rimosso e poi trasformato in un'invenzione dei suoi nemici di sempre (gli esuli di sinistra), che a suo dire lo attaccavano perché non gli avrebbero perdonato il suo antistalinismo o il suo antiperonismo. Intervistato per il giornale «La Maga» nel 1995, alla domanda della giornalista che gli chiede "Che cosa può dirmi della sua visita a Videla?" Sabato perde le staffe e risponde: "Vedo che ripete ancora le frasi calunniose che si sono lanciate e che si continuano a lanciare dall'estrema sinistra". Un evento storico è ormai diventato una calunnia della sinistra (curioso meccanismo paranoide di sostituzione della realtà che funziona anche ai nostri giorni in Italia).
L'eroe della classe media
Si poteva chiedere di più a Sabato? Se lo domanda anche Bayer. E la sua risposta è: onestamente no. Cito Bayer: "Sabato è il rappresentante legittimo della nostra classe media. […] Che in lui si vede pienamente riflessa: i suoi fantasmi, le sue paure, i suoi successi, la sua necessità di vedersi premiata, la sua assenza di contrizione, la sua incapacità di provare rimorso. Passa allegramente, senza alcun problema, dalla più tragica delle dittature a un paese con libertà civili, senza sacrificare neanche una lacrima." Insomma, Sabato sarebbe un grande letterato con tutti i vizi della classe media argentina, ansioso di esprimersi su tutto e su tutti, di non perdere il treno delle opportunità, di non rimanere a terra. Funzionario della dittatura di Aramburu, poi del governo di Frondizi, quando annusa il ritorno di Perón dice che "L'argentina necessita un De Gaulle." Vorrebbe essere il Malraux di Perón e aspira a dirigere la Biblioteca Nazionale, ma il Vecchio non lo considera e lui ne parlerà – da morto – come di "un sinistro demagogo". Poi il sostegno – da "scrittore democratico di sinistra", come dice lui – alla dittatura, e quando il regime vacilla il salto sul carrozzone della pseudo democrazia alfonsiniana.
Operazioni di vernice durante i mondiali della vergogna
Ma facciamo un passo indietro. All'infausto mondiale della vergogna, quello del '78. Ormai sappiamo chiaramente che gli uffici stampa della dittatura arrivarono a far uso finanche dei detenuti clandestini per orchestrare piani di comunicazione finalizzati a lavare l'immagine dei golpisti all'estero. L'apice di questa strategia fu raggiunto nel corso dei mondiali del '78, quando tutti i riflettori erano puntati sull'Argentina. Osvaldo Bayer, esule in Germania, ricorda di aver sfogliato nei giorni del mondiale la rivista tedesca «Geo-Magazin» – una di quelle pubblicazioni che si sfogliano dal barbiere o nella sala d'attesa del dentista – e di averci trovato un articolo di Ernesto Sabato. In quest'articolo il lettore tedesco medio trovava il modo di vedere sfatate tutte quelle lamentele degli esuli argentini, che lamentavano continuamente torture e assassinii crudeli. Il golpe di Videla veniva spiegato come una necessità dovuta al caos della Presidenza di Isabelita Perón, un modo per riportare l'ordine nel conflitto tra estremismi di destra e di sinistra (un'asserzione che contiene in nuce la teoria sabatiana "dei due demoni", cioè la narrazione giustificatoria post-hoc, propagandata da Sabato, che i desaparecidos argentini altro non sarebbero che il risultato del confronto tra terrorismo di destra e quello di sinistra). Citiamo testualmente le parole di Sabato: "L'immensa maggioranza degli argentini chiedeva quasi per favore che le forze armate prendessero il potere. Tutti noi desideravamo che terminasse quel vergognoso governo di mafiosi (quello di Isabelita, ndt)." E di seguito: "Disgraziatamente accadde che il disordine generale, la criminalità e la crisi economica fossero così grandi da non permettere ai nuovi governanti di risolvere questi problemi con i mezzi di uno stato di diritto. Perché nel frattempo ai crimini dell'estrema sinistra rispondeva l'estrema destra con selvaggi attentati di rappresaglia. Gli estremisti di sinistra hanno portato a termine i più infami sequestri e i crimini più mostruosi e ripugnanti". Dimenticandosi che l'estrema destra non era altro che il poliziotto che si toglieva la divisa e rimuoveva la targa della sua Falcon verde, con la protezione del governo golpista, il futuro presidente del Conadep aggiungeva: "Senza alcun dubbio, negli ultimi mesi le cose sono migliorate nel nostro paese e le bande terroriste armate sono state messe per larga parte sotto controllo". La stessa documentazione Conadep dimostra che le cose si fecero ancora più barbare nei giorni del mondiale e in quelli successivi all'orgia di calcio. Che l'autore di queste righe dovesse diventare un vessillo dei diritti umani è cosa alquanto sorprendente, o forse è una particolarità di quello strano paese che è l'Argentina. Ma non è finita qui. Non contento, Sabato esigeva più durezza: "La democrazia deve apprendere la sua lezione dalla storia e deve sapere che coi vecchi metodi liberali, ereditati da tempi meno problematici, non si possono dominare i deliri del presente". Niente male per uno che si definisce "scrittore della sinistra democratica". L'ambasciata argentina in Germania fotocopiò l'articolo in migliaia di copie. Con quell'articolo, afferma Bayer, "noi esuli in Germania subimmo una dura sconfitta".
Prima le Malvinas e poi Nunca más
La storia infame della dittatura continua e in certo modo termina con la guerra delle Malvinas del 1982. Poteva il Nostro perdersi questo treno? Certamente no. Le Malvinas sono una "causa sagrada", una santa causa per cui vale la pena mandare al macello ragazzini di 18 anni. Il 14 giugno del 1982 Sabato dichiarerà alla rivista spagnola «CAMBIO 16»: "Molta gente è morta sotto due metri quadrati di un telo. Ma è un errore credere che due metri quadrati di telo siano solo questo. Trasformati in bandiere sono il simbolo di una ideologia, di una nazione, di una sacra causa. Pertanto sono convinto che sì, in questo caso, vale la pena". Vale la pena morire per i dittatori a diciott'anni. Infine il ritorno della democrazia, arrivato quasi per caso, in un paese demoralizzato. Sabato diventa il difensore dei diritti umani, il prefatore del Nunca más. "Sono per la giustizia non per la vendetta", preciserà subito Sabato. La giustizia argentina è ancora in marcia, e arriva tardi, ma questa non è colpa di Ernesto Sabato. Che se ne va con la sua strategia del colpo al cerchio e uno alla botte, e sempre nel giusto medio, senza mai giocarsela troppo. In fondo sono stati indulgenti anche i commentatori di «Pagina/12». Se le rassegna stampa del «Clarín» o de «La Nación» non brillano per criticità, il giornale che ha ridato voce agli esuli argentini, «Pagina/12» (fondato tra altri anche da Osvaldo Soriano, e famoso per gli articoli di Horacio Verbitsky) si limita a ricordare episodi già noti senza girare troppo il dito nella piaga. Juan Sasturain si limita ad annotare che il vecchio scrittore ormai si era "collocato – senza pudore né dubbi – al di là del bene e del male, sopra le contraddizioni occasionali, in un terreno di naturale impunità che gli permetteva, notoriamente, prima di partecipare a un incontro con Videla e poi di presiedere la Conadep" (Juan Sasturain, La importancia de llamarce Ernesto, in «Pagina/12», 2 maggio 2011). Come riportato da Silvina Friera nello stesso numero di «Pagina/12», forse l'ultima parola l'ha messa davvero Elvira, l'ultima compagna, al momento dell'interramento della bara. "Anche attraverso i suoi errori, si impegnava in quello che pensava, per quanto si sbagliasse. Dopo, poi, chiedeva scusa".
March 11, 2011
Cronache del rum su Finzioni
Le mie "Cronache del rum", arrivate direttamente da Cuba, sono in corso di pubblicazione su Finzioni, il blog letterario che è apparso sulla scena letteraria italiana come the Next Big Thing. Ecco alcuni link:
_Catch a Cuba: http://www.finzionimagazine.it/extra/cronache-del-rum/cronache-del-rum-un-incontro-di-catch-a-cuba/
_Daniel Chavarria, contrabbandiere, cercatore d'oro e scrittore: http://www.finzionimagazine.it/extra/cronache-del-rum/daniel-chavarria-scrittore-giramondo-contrabbandiere/
_Baby William, tipografo e pugile di piombo: http://www.finzionimagazine.it/extra/cronache-del-rum/baby-william-tipografo-e-pugile-di-piombo/
February 1, 2011
Arthur Cravan, pugile e poeta brutale
Su Finzioni Magazine un mio articolo su Arthur Cravan che ripropongo di seguito:
Pubblichiamo un articolo dello scrittore Alberto Prunetti, autore tra le altre cose di Potassa e Il fioraio di Perón, e
uno dei due membri dell'Arthur Cravan Italian Heritage Committee.
Geniale cercatore di storie sepolte, vero conoscitore di personaggi della letteratura e dell'arte assolutamente originali, Alberto ci regala un vero e proprio dagherrotipo narrativo, una storia che puzza di cloruro d'argento e che restituisce tutte le tonalità di personaggi, luoghi e tempi che vale la pena conoscere. Il primo fotogramma di una pellicola appena cominciata…
Un bruto, uno che non capisce le leggi. Per Vaneigem, il campione del mondo di nichilismo dada. Uno che ha dato corpo alla sfida di Arthur Rimbaud contro la civiltà. Ma che corpo, signori, che carcassa: 105 chili su due metri e cinque. Tutti di muscoli. Intestati a Arthur Cravan, pronipote di Oscar Wilde, sedicente campione dei pesi massimi in Canada e guastatore del dadaismo internazionale. Lo avvistano, agli inizi del Novecento, a Losanna, Parigi, Madrid e New York. Disertore professionista, durante la Grande Guerra cambia continuamente cittadinanza e identità per disertare di nuovo, e alla recidiva aggiunge il cambio di genere: riesce a passare una frontiera travestito da donna, anzi: da donnone. E lo vedono in mille altri posti. Conferenziere farneticante, invece di declamare versi si spoglia e offre dimostrazioni di pugilato. Poi spara con la sua rivoltella sopra la testa del pubblico e se ne va per fondare una rivista di critica brutale, Maintenant, che vende lui stesso su un carro da verduraio davanti agli altari delle avanguardie europee. Insulta letteralmente tutti i poeti dell'epoca e tra i prosatori copre di merda il povero Gide, che non ha il coraggio di dirgli assolutamente niente. E c'è da capirlo, poveretto.
Giunto per vie fortunose a Madrid, il pittore e scrittore Picabia lo inserisce nel jet set: con una camicia di seta strabordante di muscoli balla il tango e va in giro accompagnato da un paio di meretrici. Poi conosce Jack Johnson, il campione del mondo scappato dagli Stati Uniti perché inseguito dall'odio dei suprematisti bianchi. I due pugili decidono di applicare il dadaismo alla noble art e inscenano la grande truffa dei pesi massimi. Allestiscono in Spagna un incontro che dovrebbe essere il match del secolo. Jack Johnson all'epoca è un mito, il più grande pugile prima di Muhammad Alì. Si accordano per una borsa enorme anche per chi perderà. Il palazzo dello sport non riesce a contenere le migliaia di spettatori: suona il gong, dopo un paio di jab telefonati, Cravan si mette in ginocchio e toccando i piedi di Jonson lo supplica: «Non picchiarmi, mammina, ti voglio bene!» Il pubblico non la prende bene e cerca di linciare i due pugili. Loro scappano e si sbronzano in periferia.
A quel punto Cravan fa perdere le sue tracce. Ricompare in America. A New York vive nei parchi, nel nord del Canada si dedica alla pesca dei merluzzi. In Messico vive di espedienti, poi gestisce una palestra di lotta libera e prepara una conferenza sull'arte egizia. Conosce la poetessa inglese Mina Loy, si innamora perdutamente e la sposa, nonostante fosse già sposato con un'altra. Non capisce le leggi e si chiede incuriosito perché lo accusino di bigamia. Alla fine Mina scappa a Buenos Aires, lui gli scrive lettere colme di poesia. Secondo André Breton, che lo inserisce nella Antologia dello humour nero, Cravan una notte si ubriaca come un pazzo in una spiaggia messicana, ruba una barchetta e prende il largo a remi, fiducioso delle proprie braccia e convinto di poter ricongiungersi col suo amore a Buenos Aires. Scompare nell'oceano
Mina lo aspetta per un po', poi torna in Inghilterra. Lo cerca per tutte le carceri e i bordelli e le palestre degli Stati Uniti. Poi si arrende. Lo dichiarano scomparso nel 1918, quando aveva 31 anni. Sulla sua morte ci sono altre ipotesi: secondo Blaise Cendrars finì accoltellato in una bettola. Secondo altri la sua scomparsa sarebbe un trucco per fottere i creditori: arrivò a Buenos Aires, cambiò identità e divenne un maestro di tango. Visse mille vite, morì mille morti.
January 24, 2011
Fuoco ai libri (e agli scrittori): Rodolfo Walsh, l’uomo che rovinò i piani alla Cia
Visto cosa rischia inVeneto (e forse presto in Italia) chi scrive con l’idea di “dare testimonianza nei momenti difficili”, ripropongo un mio articolo pubblicato il 7 luglio 2005 su Il Manifesto dedicato a Rodolfo Walsh, scrittore desaparecido i cui libri furono bruciati nelle piazze da una soldataglia rispettosa di “patria, famiglia e onore”.
Il fumo si alza lento e bianco dalle pagine di quei libri ancora imballati. Ne arrivano a camion interi e li scaricano a terra prima di ricoprirli di benzina. Sono i fondi delle case editrici che dopo il torchio della tipografia conoscono il fuoco della censura della dittatura militare. La cellulosa diventa cenere in un campo della periferia di Buenos Aires, ma prima di essere divorata dalle fiamme la copertina di un libro riesce per un attimo a farsi beffa degli inquisitori: la carta da pacchi si consuma e lascia intravedere un disegno ispirato alla fucilazione dei patrioti spagnoli di Goya. Sopra il disegno della fucilazione, un titolo pesante quanto un ultimo insulto ai repressori: Operazione massacro. L’autore di quel libro si chiama Rodolfo Walsh, e i militari argentini hanno bruciato i suoi libri nel 1978, un anno dopo aver bruciato il suo cadavere.
Il codice segreto della Cia
La «tigre» Astiz lo voleva vivo per interrogarlo sul tavolo della tortura, ma lui sapeva come rovinare i piani dei militari. Lo aveva già fatto una volta con gli americani, quando a Cuba all’inizio degli anni `60 trovò un rotolo cifrato stampato da una telescrivente dell’agenzia Prensa Latina. I nordamericani progettavano l’invasione dell’isola utilizzando una base segreta guatemalteca e lui riuscì a decifrare il piano in codice della Cia con un semplice manuale di crittografia comprato in una libreria dell’Avana. Il piano della Cia naufragò per colpa di questo argentino, che Gabriel Garcia Marquez ricorda come «lo scrittore che arriva prima della Cia». L’autore di Cent’anni di solitudine racconta che Walsh avrebbe anche pensato per un attimo di travestirsi da prete e utilizzare il suo ottimo inglese – privilegio degli anni d’infanzia trascorsi in un collegio religioso irlandese – per penetrare nella base segreta guatematelca.
C’è un fucilato che vive
Già una volta aveva rotto i piani dei militari. Nel giugno 1956 lui è un oscuro traduttore di racconti gialli che a volte pubblica qualche articolo sui giornali argentini. Una sera se ne va in un bar, ammazza il caldo con una birra Quilmes ghiacciata e gioca a scacchi. È una notte afosa, in cui sembra che niente possa accadere. Ma proprio quella notte un gruppo di peronisti ha provato a sollevarsi e la repressione di stato si fa strada fino ad una discarica della provincia di Buenos Aires, dove si procede alla fucilazione di un gruppo di persone, accusate di essere responsabili dei disordini. Nessuno doveva saperne niente, ma qualche tempo dopo un tizio rivela questo episodio proprio a Walsh. Una fonte attendibile? Certo, l’uomo è un «fucilato che vive», che si è salvato fingendosi morto. Walsh non perde tempo. Affitta una casa in un’isola appartata del delta del Tigre con il falso nome di Francisco Freyre, si porta dietro solo un revolver e una macchina da scrivere, e in qualche settimana scrive una serie di articoli che metteranno il governo argentino con le spalle al muro. Pubblicati nella rivista “Mayoría”, gli articoli saranno poi raccolti nel libro Operazione massacro, in cui elabora l’indagine giornalistica con lo stile dell’hard boiled americano.
Con Operazione massacro Walsh ha ormai consolidato la propria vocazione di scrittore. Ma non c’è niente di mistico in questo officio, è un officio violento, terreno, che lo porta in più di una occasione a scrivere sotto falso nome, ad andare in giro portandosi una pistola in tasca. I militari si ricordano di lui negli anni `70, e la Triple A, l’Alleanza Anticomunista Argentina, non gli perdona la sua capacità di mettere i bastoni tra le ruote del potere. Nel frattempo lui è entrato nel gruppo dei montoneros, il gruppo della sinistra peronista che ha fatto la scelta della guerriglia e della clandestinità. Non teme la violenza, la violenza ha sempre circondato la vita di questo uomo magro, dall’aria mite, con occhiali da miope e la calvizie incipiente. In fondo di morte violenta era morto suo padre, che lavorava in una fattoria della Patagonia: era cascato da cavallo e lui dovette farsi carico di trasportare il quadrupede fino al terreno di un parente, un viaggio di 200 km, prima di abbandonare la campagna. Di morte violenta muore pure sua figlia Vicky. La sua casa venne circondata da centocinquanta militari all’alba di un giorno di settembre del 1976. Anche Vicky pensava che occorresse rispondere colpo su colpo ai sequestri e agli assassini dei militari. Vicky resistette all’assedio dei militari e prima di suicidarsi urlò ai sequestratori: «Voi non ci ammazzate, siamo noi che scegliamo di morire». La morte di Vicky è un colpo duro per Rodolfo. Va a vivere in una bidonville, dove ha aperto una scuola di giornalismo che produce il “Semanario villero”, il giornale degli emarginati. Adesso non dà troppa importanza al fatto di essere uno scrittore, eppure continua a scrivere per necessità. «Se pensate che si possa vivere senza scrivere, non dovete scrivere». Così riassume il suo «violento officio», la sua missione laica di scrittore. I militari risolvono a modo loro questo strana equazione tra morte e scrittura. Oltre a lui, si portano via il poeta Francisco «Paco» Urundo, il romanziere Uroldo Conti, e la saggista Susana «Piri» Lugones, che in passato era stata legata sentimentalmente a Walsh. Susana, per triste ironia della sorte, era figlia del commissario di polizia Polo Lugones, torturatore di chiara fama e inventore negli anni `30 della picana elettrica, la scatola con elettrodi da applicare ai genitali dei dissidenti politici. Lei stessa proverà sulla propria carne tutto l’acume dell’inventiva paterna.
La carta ai militari
Ormai Rodolfo sente che il percorso dei montoneros è un vicolo chiuso. Entra in polemica con i vertici dell’organizzazione guerrigliera, cerca di farsi sentire ma rimane inascoltato. Allora decide di abbandonare Buenos Aires, compra sotto falso nome una casa in provincia, a San Vicente: adesso è un professore di inglese in pensione, inizia a ripulire l’orto, pensa di ricominciare a scrivere. Riesce a stare tranquillo per poco, ma il suo violento officio non gli permette di starsene con una penna in mano a costruire innocui castelli tra le nuvole. La notte del 31 dicembre del 1976 interrompe i festeggiamenti e si siede alla macchina da scrivere. Quando scoppiano i fuochi d’artificio dell’anno nuovo si alza e abbraccia la sua compagna: «Così volevo cominciare quest’anno – dice – scrivendo contro questi hijos de puta». La lettera che si tiene in corpo riesce a firmarla il 24 di marzo del 1977, nell’anniversario del primo anno di dittatura militare. Scrive una lettera sconvolgente e la invia proprio all’indirizzo della giunta militare, siglandola «Rodolfo Walsh, scrittore». È un atto d’accusa stupendo, di una lucidità esemplare, che inchioda per una volta ancora i militari alle loro responsabilità: «Queste sono le riflessioni che nel primo anniversario del suo infausto governo ho voluto far pervenire ai membri della giunta, senza la speranza di essere ascoltato e con la certezza di essere perseguitato, ma fedele all’impegno assunto tempo addietro di prestare testimonianza nei momenti difficili».
I cavalli di Walsh
Pensava spesso ai cavalli della sua infanzia patagonica. Voleva scrivere le sue memorie, e un capitolo doveva essere dedicato ai cavalli. Nello stesso giorno in cui firma la lettera ai militari, inizia anche un racconto, Juan se iba por el rio. Le acque del fiume si prosciugano e il protagonista del racconto monta a cavallo e comincia a fuggire verso le case bianche del sud, dove finalmente sarà al sicuro. Ma l’acqua ritorna troppo velocemente e cavallo e cavaliere affondano nella melma gialla del fiume.
Il sequestrato numero 26.001
La melma viene a sommergerlo il giorno dopo aver inviato la lettera alla giunta militare. Il 25 di marzo, tra le 13,30 e le 16, Rodolfo viene sequestrato da un gruppo operativo della Esma, la Escuela de Mecánica de la Armada. È il sequestrato numero 26.001. Lo vogliono vivo per poterlo torturare, ma lui riesce per l’ultima volta a rovinare i loro piani. Tiene nascosta una piccola pistola Walther Ppk calibro 22. Con questa si sbarazza di uno dei sequestratori, e termina il suo violento officio. «Voi non ci ammazzate, siamo noi che scegliamo di morire».
Fuoco ai libri (e agli scrittori): Rodolfo Walsh, l'uomo che rovinò i piani alla Cia
Visto cosa rischia inVeneto (e forse presto in Italia) chi scrive con l'idea di "dare testimonianza nei momenti difficili", ripropongo un mio articolo pubblicato il 7 luglio 2005 su Il Manifesto dedicato a Rodolfo Walsh, scrittore desaparecido i cui libri furono bruciati nelle piazze da una soldataglia rispettosa di "patria, famiglia e onore".
Il fumo si alza lento e bianco dalle pagine di quei libri ancora imballati. Ne arrivano a camion interi e li scaricano a terra prima di ricoprirli di benzina. Sono i fondi delle case editrici che dopo il torchio della tipografia conoscono il fuoco della censura della dittatura militare. La cellulosa diventa cenere in un campo della periferia di Buenos Aires, ma prima di essere divorata dalle fiamme la copertina di un libro riesce per un attimo a farsi beffa degli inquisitori: la carta da pacchi si consuma e lascia intravedere un disegno ispirato alla fucilazione dei patrioti spagnoli di Goya. Sopra il disegno della fucilazione, un titolo pesante quanto un ultimo insulto ai repressori: Operazione massacro. L'autore di quel libro si chiama Rodolfo Walsh, e i militari argentini hanno bruciato i suoi libri nel 1978, un anno dopo aver bruciato il suo cadavere.
Il codice segreto della Cia
La «tigre» Astiz lo voleva vivo per interrogarlo sul tavolo della tortura, ma lui sapeva come rovinare i piani dei militari. Lo aveva già fatto una volta con gli americani, quando a Cuba all'inizio degli anni `60 trovò un rotolo cifrato stampato da una telescrivente dell'agenzia Prensa Latina. I nordamericani progettavano l'invasione dell'isola utilizzando una base segreta guatemalteca e lui riuscì a decifrare il piano in codice della Cia con un semplice manuale di crittografia comprato in una libreria dell'Avana. Il piano della Cia naufragò per colpa di questo argentino, che Gabriel Garcia Marquez ricorda come «lo scrittore che arriva prima della Cia». L'autore di Cent'anni di solitudine racconta che Walsh avrebbe anche pensato per un attimo di travestirsi da prete e utilizzare il suo ottimo inglese – privilegio degli anni d'infanzia trascorsi in un collegio religioso irlandese – per penetrare nella base segreta guatematelca.
C'è un fucilato che vive
Già una volta aveva rotto i piani dei militari. Nel giugno 1956 lui è un oscuro traduttore di racconti gialli che a volte pubblica qualche articolo sui giornali argentini. Una sera se ne va in un bar, ammazza il caldo con una birra Quilmes ghiacciata e gioca a scacchi. È una notte afosa, in cui sembra che niente possa accadere. Ma proprio quella notte un gruppo di peronisti ha provato a sollevarsi e la repressione di stato si fa strada fino ad una discarica della provincia di Buenos Aires, dove si procede alla fucilazione di un gruppo di persone, accusate di essere responsabili dei disordini. Nessuno doveva saperne niente, ma qualche tempo dopo un tizio rivela questo episodio proprio a Walsh. Una fonte attendibile? Certo, l'uomo è un «fucilato che vive», che si è salvato fingendosi morto. Walsh non perde tempo. Affitta una casa in un'isola appartata del delta del Tigre con il falso nome di Francisco Freyre, si porta dietro solo un revolver e una macchina da scrivere, e in qualche settimana scrive una serie di articoli che metteranno il governo argentino con le spalle al muro. Pubblicati nella rivista "Mayoría", gli articoli saranno poi raccolti nel libro Operazione massacro, in cui elabora l'indagine giornalistica con lo stile dell'hard boiled americano.
Con Operazione massacro Walsh ha ormai consolidato la propria vocazione di scrittore. Ma non c'è niente di mistico in questo officio, è un officio violento, terreno, che lo porta in più di una occasione a scrivere sotto falso nome, ad andare in giro portandosi una pistola in tasca. I militari si ricordano di lui negli anni `70, e la Triple A, l'Alleanza Anticomunista Argentina, non gli perdona la sua capacità di mettere i bastoni tra le ruote del potere. Nel frattempo lui è entrato nel gruppo dei montoneros, il gruppo della sinistra peronista che ha fatto la scelta della guerriglia e della clandestinità. Non teme la violenza, la violenza ha sempre circondato la vita di questo uomo magro, dall'aria mite, con occhiali da miope e la calvizie incipiente. In fondo di morte violenta era morto suo padre, che lavorava in una fattoria della Patagonia: era cascato da cavallo e lui dovette farsi carico di trasportare il quadrupede fino al terreno di un parente, un viaggio di 200 km, prima di abbandonare la campagna. Di morte violenta muore pure sua figlia Vicky. La sua casa venne circondata da centocinquanta militari all'alba di un giorno di settembre del 1976. Anche Vicky pensava che occorresse rispondere colpo su colpo ai sequestri e agli assassini dei militari. Vicky resistette all'assedio dei militari e prima di suicidarsi urlò ai sequestratori: «Voi non ci ammazzate, siamo noi che scegliamo di morire». La morte di Vicky è un colpo duro per Rodolfo. Va a vivere in una bidonville, dove ha aperto una scuola di giornalismo che produce il "Semanario villero", il giornale degli emarginati. Adesso non dà troppa importanza al fatto di essere uno scrittore, eppure continua a scrivere per necessità. «Se pensate che si possa vivere senza scrivere, non dovete scrivere». Così riassume il suo «violento officio», la sua missione laica di scrittore. I militari risolvono a modo loro questo strana equazione tra morte e scrittura. Oltre a lui, si portano via il poeta Francisco «Paco» Urundo, il romanziere Uroldo Conti, e la saggista Susana «Piri» Lugones, che in passato era stata legata sentimentalmente a Walsh. Susana, per triste ironia della sorte, era figlia del commissario di polizia Polo Lugones, torturatore di chiara fama e inventore negli anni `30 della picana elettrica, la scatola con elettrodi da applicare ai genitali dei dissidenti politici. Lei stessa proverà sulla propria carne tutto l'acume dell'inventiva paterna.
La carta ai militari
Ormai Rodolfo sente che il percorso dei montoneros è un vicolo chiuso. Entra in polemica con i vertici dell'organizzazione guerrigliera, cerca di farsi sentire ma rimane inascoltato. Allora decide di abbandonare Buenos Aires, compra sotto falso nome una casa in provincia, a San Vicente: adesso è un professore di inglese in pensione, inizia a ripulire l'orto, pensa di ricominciare a scrivere. Riesce a stare tranquillo per poco, ma il suo violento officio non gli permette di starsene con una penna in mano a costruire innocui castelli tra le nuvole. La notte del 31 dicembre del 1976 interrompe i festeggiamenti e si siede alla macchina da scrivere. Quando scoppiano i fuochi d'artificio dell'anno nuovo si alza e abbraccia la sua compagna: «Così volevo cominciare quest'anno – dice – scrivendo contro questi hijos de puta». La lettera che si tiene in corpo riesce a firmarla il 24 di marzo del 1977, nell'anniversario del primo anno di dittatura militare. Scrive una lettera sconvolgente e la invia proprio all'indirizzo della giunta militare, siglandola «Rodolfo Walsh, scrittore». È un atto d'accusa stupendo, di una lucidità esemplare, che inchioda per una volta ancora i militari alle loro responsabilità: «Queste sono le riflessioni che nel primo anniversario del suo infausto governo ho voluto far pervenire ai membri della giunta, senza la speranza di essere ascoltato e con la certezza di essere perseguitato, ma fedele all'impegno assunto tempo addietro di prestare testimonianza nei momenti difficili».
I cavalli di Walsh
Pensava spesso ai cavalli della sua infanzia patagonica. Voleva scrivere le sue memorie, e un capitolo doveva essere dedicato ai cavalli. Nello stesso giorno in cui firma la lettera ai militari, inizia anche un racconto, Juan se iba por el rio. Le acque del fiume si prosciugano e il protagonista del racconto monta a cavallo e comincia a fuggire verso le case bianche del sud, dove finalmente sarà al sicuro. Ma l'acqua ritorna troppo velocemente e cavallo e cavaliere affondano nella melma gialla del fiume.
Il sequestrato numero 26.001
La melma viene a sommergerlo il giorno dopo aver inviato la lettera alla giunta militare. Il 25 di marzo, tra le 13,30 e le 16, Rodolfo viene sequestrato da un gruppo operativo della Esma, la Escuela de Mecánica de la Armada. È il sequestrato numero 26.001. Lo vogliono vivo per poterlo torturare, ma lui riesce per l'ultima volta a rovinare i loro piani. Tiene nascosta una piccola pistola Walther Ppk calibro 22. Con questa si sbarazza di uno dei sequestratori, e termina il suo violento officio. «Voi non ci ammazzate, siamo noi che scegliamo di morire».
January 21, 2011
Non era spritz, è Cuba libre quello che si beve Speranzon…
Uno spassoso scambio di mail tra me e l'assessore Speranzon, al seguito del quale mi vedo obbligato a una rettifica: avevo accusato l'assessore di eccesso di spritz, lui mi corregge: è Cuba libre.
A questo punto il caso potrebbe essere considerato chiuso: l'assessore non era pienamente cosciente al momento delle sue dichiarazioni, come appare evidente dalla sua ultima mail.
Eppure, nonostante i cocktail, l'assessore è stato comunque perspicace quando mi ha mandato "a fare in Cuba". In effetti sono colpevole due volte e mi autodenuncio ancora: le mie pessime frequentazioni mi porteranno nel giro di poche settimane a visitare la fiera del libro della Habana e la Casa de las Americas, luogo di barbarie e ignobile mecca della peggiore feccia latinoamericana. Fossi stato un liberale avrei approfittato del viaggio per esportare Democrazia e Libertà made in Italy a qualche vedova della Habana Vieja o alla di lei nipote, minorenne ma consensuale.
Incollo di seguito, consigliando di leggere dal basso verso l'alto. Non ho risposto per non continuare un epistolario abbastanza farneticante . Mi veniva solo da dirgli che i suoi colleghi di partito ex P2 sono corresponsabili moralmente di quello che Massimo Carlotto, nell'introduzione del mio "Il fioraio di Perón", ha definito "il più grande genocidio di italiani dopo la Seconda guerra Mondiale" : non sto parlando delle foibe, che assieme a Cuba sono i due capitoletti di storia imparati a memoria da chi in casa tiene solo i bignami liberal-nazi di Libero.
Mi riferisco alla strage di una generazione di argentini, molti dei quali con cittadinanza italiana.
Ecco le mail:
Speranzon:
Non mi risulta alcuna censura promossa in provincia di Venezia. lei è male informato. La censura come lei ben sa c'è a Cuba e c'era in Argentina negli anni 80. Cuba Libre
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—– Messaggio originale —–
Da: Alberto Prunetti
Inviato: venerdì 21 gennaio 2011 14.30
A: Speranzon Raffaele
Oggetto: Re: R: Re: R: autodenuncia
Compagno, non le rimane che dimettersi e lottare assieme a noi contro
la censura promossa da Raffaele Speranzon.
Alberto Prunetti
Il 21-01-2011 14:31, Speranzon Raffaele ha scritto:
> > Provo disprezzo per qualsiasi forma di dittatura. Compresa quella cubana. Lei da quanto leggo, no. E me ne dispiaccio.
> >
> > Sent from my Sony Ericsson XPERIA™ X1.
> >
> > —– Messaggio originale —–
> > Da: Alberto Prunetti
> > Inviato: venerdì 21 gennaio 2011 14.09
> > A: Speranzon Raffaele
> > Oggetto: Re: R: autodenuncia
> >
> > In effetti a febbraio partirò per Cuba, dove si terrà il Festival del
> > libro e il premio Casa de las Americas, che a quanto mi risulta è
> > secondo solo al Cervantes.
> >
> > Non le nascondo che conosco bene le alternative libertarie al socialismo
> > Cubano e disprezzo quelle finanziate dalla Cia nei loro uffici di Miami.
> >
> > Il libro di Bayer invece glielo consiglio, perché l'autore fu minacciato
> > e condannato a morte dalla Tripla A, organizzazione paramilitare
> > responsabile di molti omicidi fondata da Lopez Rega, membro argentino
> > della loggia P2. A onore del "barbaro regime comunista", bisogna
> > aggiungere che mentre l'ambasciata Cubana accoglieva i prigionieri in
> > fuga nella propria sede diplomatica, ben diversamente andarono le cose
> > nel nostro consolato, come documentato dal libro di Enrico Calamai
> > "Niente asilo politico". Forse il fatto che la P2 fosse in contatto
> > diretto col presidente Massera, lui stesso tesserato, ha dato un corso
> > diverso a certe pretese abitudini di ospitalità italiana. Di fatto
> > potrebbe consigliare il libro di Bayer a quei colleghi del suo
> > schieramento politico che nei primi anni ottanta tenevano nel
> > portafoglio la tessera P2, che in Argentina è sporca del sangue di tanti
> > desaparecidos. Sono fatti documentati in molto libri, disponibili in
> > spagnolo e in italiano.
> > Alberto Prunetti
> >
> >
> >
> > Il 21-01-2011 13:45, Speranzon Raffaele ha scritto:
>> >> Vada a tradurre in spagnolo anche i libri pubblicati in Italia dagli esuli cubani messi al rogo dalle bilioteche castriste dal barbaro regime comunista dell'Havana.
>> >>
>> >>
>> >>
>> >>
>> >> Sent from my Sony Ericsson XPERIA™ X1.
>> >>
>> >> —– Messaggio originale —–
>> >> Da: Alberto Prunetti
>> >> Inviato: mercoledì 19 gennaio 2011 13.57
>> >> A: info@speranzon.it; raffaele.speranzon@provincia.venezia.it
>> >> Oggetto: autodenuncia
>> >>
>> >> Sono Alberto Prunetti, traduttore in italiano di un libro argentino, la
>> >> "Patagonia rebelde", che negli anni dell'ignobile golpe militare
>> >> argentino del 1976 è stato ritirato da ogni biblioteca e libreria e
>> >> bruciato nelle pubbliche piazze da una soldataglia rispettosa di
>> >> "patria, onore e famiglia". Come traduttore e scrittore, deve farmi
>> >> difetto la fantasia, perché non ero arrivato a pensare che anche le
>> >> opere che ho curato e scritto potessero correre un giorno rischi simili,
>> >> oggi e in Italia.
>> >> La informo che come curatore de "L'arte della fuga" (Stampa Alternativa,
>> >> 2005) – una antologia contenente ampi inediti in italiano di un'opera di
>> >> Cesare Battisti – e in quanto autore de "Il fioraio di Perón" (Stampa
>> >> Alternativa, 2009) – introdotto da Massimo Carlotto, da lei inserito in
>> >> una lista nera di scrittori – mi considero complice di tutto quanto ai
>> >> suoi occhi possa contribuire a qualificarmi "persona sgradita". Mai suo,
>> >> Alberto Prunetti
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