Csaba Dalla Zorza's Blog, page 1450
July 18, 2021
Khaby Lame, shopping e sorrisi a Milano (senza social network)
Il contatore dei follower su Instagram, in questo momento, ha quasi raggiunto quota 30 milioni, che fanno di lui l’italiano più seguito al mondo. Quello su TikTok ha superato addirittura i 90 milioni, ciò significa che lì, il profilo di Khaby Lame, è il secondo nella classifica globale di popolarità, dietro soltanto alla ballerina Charli D’Amelio. Un fenomeno di simpatia, che mostra il suo sorriso anche lontano dai social network.
Il giovanissima idolo del web, infatti, è stato paparazzato in centro a Milano insieme ad un gruppo di amici, all’uscita da una nota osteria su Corso Garibaldi: camicia celeste a maniche corte, un jeans morbido e un paio di sneakers, Khaby ha salutato i fotografi e si è concesso per alcuni selfie, anche con Sabina Negri, ex compagna del leghista Roberto Calderoli. Poi un po’ di shopping, un ghiacciolo e via rapidamente verso casa.
Pensare che Lame, 21enne di origine senegalese e residente in provincia di Torino, aveva iniziato in sordina, con clip da poche centinaia di visualizzazioni. A marzo 2020, in pieno lockdown, l’inizio della scalata grazie ad un video in cui si disinfetta le mani. La sua carta vincente? Rispondere a video che propongono rimedi complessi ed impensabili a problemi semplici, mostrando come la soluzione sia tutt’altro che complicata.
Senza dire una parola, utilizzando l’universale linguaggio dei gesti: seppur stiano crescendo le collaborazioni con personaggi famosi, realizza quasi tutte le clip in casa propria, in quel quartiere popolare di Chivasso al quale è tutt’ora molto legato: «Tra quei palazzi ho imparato tutto, in primis l’educazione», ha raccontato al Corriere della Sera. «Quella situazione, inoltre, mi ha permesso di coltivare legami profondi».
Legami che, come si vede dalle foto a Milano, continua a coltivare. Con il sorriso, lontano dai social.
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Il #MeToo del mondo della pubblicità, centinaia di donne raccontano gli abusi
Dopo il cinema, il settore pubblicitario. Centinaia di donne che ci lavorano hanno raccontato di essere state violentate, molestate e discriminate, dopo che il blog «Mad Man, Furious Women», di Zoe Scaman, fondatrice dell’agenzia di marketing e pubblicità Bodacious, ha aperto il dibattito, lanciando una sorta di #MeToo della pubblicità. Scaman ha rivelato di essere stata inondata di e-mail da donne di tutto il mondo che parlavano di commenti sessisti nelle riunioni, vere e proprie aggressioni sessuali e violenze. Nel suo blog ha riportato il contenuto di alcune di quelle mail, omettendo nomi e dettagli che avrebbero permesso di identificare le vittime.
Una donna afferma di essere stata aggredita sessualmente, quando aveva 24 anni, dal suo capo, che l’ha seguita in bagno, per poi suggerire di «dimenticare», come se quello che è accaduto fosse stato «consensuale o reciproco». «Non era né una cosa, né l’altra», ha scritto. Un’altra ha scoperto di essere pagata 20 mila sterline in meno rispetto a un collega uomo di pari anzianità ed esperienza, mentre un’altra ancora, che aveva un ruolo di alto livello, ha spiegato di essere stata licenziata quando era incinta di sei mesi. Tantissime donne, poi, hanno riferito di avere subito avance sessuali molto esplicite da parte di clienti.
Ma anche se le donne che avevano contattato Scarman erano furiose, molte non volevano che le loro storie fossero pubblicate online: «Sono assolutamente terrorizzate dalle conseguenze della verità sugli abusi che hanno subito», ha spiegato. «Sanno di rischiare di venire cacciate o messe a tacere con gli accordi di non divulgazione. Mentre gli uomini violenti continuano ad avere successo, continuano ad essere a capo di queste agenzie».
Scaman ha deciso di aprire il blog dopo aver incontrato un’altra pubblicitaria, che si era appena trasferita a Londra. «Entrambe abbiamo alle spalle delle storie orribili», ha detto. «E non si tratta degli anni ’80 e ’90: queste cose stanno accadendo ora».
Secondo la pubblicitaria, anche se misoginia e discriminazione si insinuano in ogni settore, la natura «anticonformista» della pubblicità la rende un ambito ancora più difficile e pericoloso per le donne. «L’idea della “vita al di fuori delle regole della società” fa sì che i comportamenti illeciti siano liquidati come cattivo comportamento, “proprio quello che succede nelle pubblicità”».
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Milano, la prima statua dedicata a una donna ritrarrà Margherita Hack
La prima statua dedicata a una donna sul suolo pubblico della città di Milano raffigurerà la «signora delle stelle», l’astrofisica Margherita Hack. Sarà inaugurata nella primavera del 2022, in occasione dei cento anni dalla sua nascita, il 15 luglio 1922. È un’iniziativa sostenuta dal Comune di Milano, ideata e promossa da Fondazione Deloitte, in coprogettazione con Casa degli Artisti.
È stata scelta Hack, accademica e brillante divulgatrice scientifica, proprio perché pioniera nel proprio campo, simbolo di riscatto in grado di ispirare intere generazioni e allo stesso tempo portatrice di valori universali e libera pensatrice anche al di fuori del campo delle materie Stem.
Il progetto di realizzazione è già partito. Casa degli Artisti sta invitando una selezionata rosa di artiste italiane e internazionali a partecipare al concorso di idee: il progetto vincitore sarà selezionato da una giuria di esperti nel corso del prossimo autunno. La scultura sarà donata al Comune di Milano e la Fondazione Deloitte si occuperà della sua manutenzione nei prossimi anni.
«La prima scultura sul suolo pubblico di Milano, nel nome di una figura femminile di straordinario rilievo, rappresenta un traguardo, ma allo stesso tempo anche un punto di partenza», dice Paolo Gibello, presidente di Fondazione Deloitte. «Con l’auspicio che sia la prima di una lunga serie di opere destinate a colmare finalmente una lacuna nei confronti delle donne, Stem in particolare, poco o quasi mai rappresentate in monumenti di questo genere. Non solo a Milano, ma anche in Italia così come in tutto il mondo».
Già a luglio 2020, il primo Osservatorio della Fondazione Deloitte aveva messo in risalto il fatto che solo un quarto degli iscritti a facoltà Stem è donna. «La testimonianza e il riscatto di vita di Margherita Hack devono essere un modello per tutte le donne Stem del futuro perché bisogna spingere sempre di più per attrarre e formare talenti femminili e farne un pilastro della nostra crescita».
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Neil Agius, nuotata da record: «Le mie 52 ore in mare (per provare a salvarlo)»
Cinquantadue ore e dieci minuti. Neil Agius, atleta maltese classe 1986, ha fermato il cronometro dopo oltre due giorni in acqua: ha percorso 125,7 chilometri, da Linosa all’Isola di Gozo, battendo il record per la più lunga nuotata continua, non assistita e con corrente neutra lungo un singolo segmento. Un primato raggiunto anche grazie ad uno staff di 32 membri, dislocati su due gommoni e cinque barche: «Il mio obiettivo? Sensibilizzare alla tutela del mare», ci racconta Agius, che con il suo movimento Wave of Change sta promuovendo la raccolta di sei pezzi di plastica ciascuno. «Anche durante la traversata ho trovato tanta plastica e neanche un pesce».
Partiamo dall’inizio: quando ha pensato di poter compiere una simile impresa?
«Lo scorso anno e l’idea originaria era raggiungere la Sicilia partendo dalla Tunisia. Poi, causa maltempo, abbiamo dovuto trovare un’altra soluzione, che mi permettesse comunque di superare il precedente record di 124,4 chilometri. E ci siamo riusciti».
Quali sono le difficoltà pratiche che ha incontrato? Immagino che alimentarsi non sia stato semplice.
«Abbiamo trovato mare agitato e persino un temporale di una ventina di minuti. Per quanto riguarda la nutrizione, mi preparo dei frullati che contengono alcuni “super alimenti” e sono ricchi di calorie (ha un minuto di pausa ogni 29, ndr). Mangio anche la pasta, perché i carboidrati ti danno l’energia per andare avanti».
A livello fisico, invece, qual è la preparazione? E le capita di ascoltare musica durante gli allenamenti?
«Cerco di accumulare più ore possibile in mare: ad esempio, la sessione più lunga prima della traversata è stata 3×40 chilometri in tre giorni. Per quanto riguarda la musica, invece, la risposta è no: in certi momenti cerco di tenere la testa sgombra».
Considerata anche la sua proposta di matrimonio prima della partenza, non ha avuto pensieri particolari neppure durante le 52 ore in mare?
«Per quanto possibile ho provato a non farne, perché così il tempo passa più velocemente. Ho cercato di fissare in testa il mio arrivo a Malta, così da darmi la motivazione e tenermi concentrato».
Anche perché credo proprio che l’aspetto mentale sia fondamentale.
«Per me, in una sfida così lunga, il contributo è 30% fisico e 70% psicologico. Infatti faccio tanta meditazione, che probabilmente è l’allenamento più importante. Quando medito ascolto anche delle preghiere cantate, che la mia squadra riproduce quando sto nuotando: mi aiuta a sentirmi a mio agio».
Ci sono stati momenti in cui ha avuto paura?
«In realtà, quando passi così tanto tempo in acqua, crei con il mare un legame particolare. Come se sentissi uno spirito che mi protegge e mi tiene al sicuro. Certo, la notte resta comunque il momento più difficile perché hai pochissima visibilità e puoi iniziare a pensare a grandi pesci, squali e meduse».
Eppure, di pesci mi ha detto che non ne ha visti.
«Proprio così. Sembra incredibile, ma ho passato 52 ore con la testa nell’acqua e non ho visto neanche un pesce. In compenso quando nuoti trovi qualsiasi tipo di rifiuto, anche cose strane: a me è capitato di incrociare lavastoviglie, armadi, cancelli, sedie».
Per continuare la sua campagna di sensibilizzazione, ha già in mente altre sfide?
«Questa nuotata ha messo a dura prova il mio corpo, quindi devo assicurarmi di dargli il tempo per riprendersi correttamente. Ho in programma alcune traversate più corte, prima della fine dell’anno. Poi, nel 2022, cercheremo di battere un record di una categoria diversa. Vedremo cosa inventare».
«Questo è solo l’inizio».
LEGGI ANCHEImparare a nuotare come una sirena? Si può con il mermaidingLEGGI ANCHEFederica Pellegrini, missione OlimpiadiCecilia Rodriguez e Ignazio Moser versione zii: il primo incontro con Luna Marì
Cecilia Rodriguez e Ignazio Moser zii felici. Dopo aver festeggiato il compleanno dello sportivo, la coppia si è messa in macchina direzione Veneto per andare a conoscere la nuova arrivata di casa Rodriguez: Luna Marì, seconda figlia di Belén Rodriguez, la prima con il compagno Antonino Spinalbese.
«Un angelo, il mio», le parole della showgirl argentina che ha dato il benvenuto alla secondogenita lo scorso 11 luglio, nella stessa notte in cui l’Italia ha vinto gli Europei. E ora, nelle stories Instagram di Moser, è Cecilia, zia orgogliosa, a tenere in braccio per la prima volta la nipotina, la seconda per lei dopo Santiago, primogenito di Belén e di Stefano De Martino.
Fiocco rosa, non senza polemiche per un cartello apparso in ospedale nei giorni del parto della showgirl, a Padova e poi ritorno a casa, non a Milano, non ancora, ma in un’abitazione presa in affitto sull‘isola di Albarella, a Rovigo, per trascorrere lì le prime settimane da famiglia di quattro.
Moser, 29 anni appena compiuti, e Cecilia, 31, sono ormai coppia consolidata, legati dai tempi del Gf Vip del 2017, tanto da fare progetti di famiglia. E ora per un figlio, dicono i ben informati, potrebbe essere arrivato il momento giusto.
LEGGI ANCHELuna Marí, la seconda figlia di Belén Rodriguez: «Una felicità incredibile»LEGGI ANCHEBelén Rodriguez di nuovo mamma: è nata Luna MaríCamilla di Cornovaglia festeggia 74 anni (50 vissuti amando Carlo)
Chissà se oggi che compie 74 anni Camilla Shand, duchessa di Cornovaglia, ripenserà al primo approccio con Carlo d’Inghilterra, l’uomo che ha sempre amato e che alla fine è riuscita ad avere al suo fianco come marito. Era il 1971, il principe era tutto sudato dopo una partita di polo disputata nel parco di Windsor. E lei, faccia impertinente da spigliata ragazza di campagna, si presentò così al cospetto di sua altezza: «Lo sa che la mia bisnonna era l’amante del suo bisnonno, Edoardo VII?».
C’era già il destino della coppia in quella frase, pronunciata dall’allora ventiquattrenne Camilla per attirare l’attenzione dell’erede al trono britannico. Perché i due, come ben sappiamo, saranno amanti, e amanti adulteri, per 32 anni, fino alle nozze celebrate il 9 aprile 2005, che hanno chiuso il cerchio dimostrando la più grande qualità di Camilla: la resilienza.
Lei che per molti anni è stata la più detestata dal popolo britannico perché ricopriva il ruolo della guastafeste reale. La rivale di Lady Diana, più bella, aggraziata ed empatica di lei. Lei che, quando nel tragico incidente a Parigi Lady D perse la vita, divenne per molti la vera responsabile (morale, s’intende) di quella tragedia. «Non potevo uscire, ero prigioniera in casa mia. Non augurerei quello che ho passato nemmeno al mio peggior nemico», dirà Camilla qualche anno dopo.
Eppure la Shand ha saputo affrontare tutto quell’odio, ha aspettato il suo momento e alla fine s’è presa l’uomo che aveva sempre desiderato. Ma il percorso per arrivare fin qui non è stato affatto semplice. Due anni dopo quel primo incontro con Carlo, quando la passione tra i due era ormai scoppiata, nel 1973 sposò il fidanzato ufficiale, luogotenente della cavalleria reale Andrew Parker-Bowles. D’altronde, come riportano le cronache, la regina Elisabetta II aveva stroncato la relazione del figlio con Camilla con un giudizio definitivo: «Una ragazza infrequentabile». Carlo, almeno all’apparenza, obbedì alla madre. Nel 1981 sposò Diana ma – con rari periodi di pausa – continuò a frequentare Camilla (peraltro presente in chiesa alle nozze reali).
A conquistare il Principe di Galles sono stati il temperamento focoso e allegro, oltre alla grande capacità di ascolto della sua seconda futura moglie. Ma tra loro c’è stata anche un’incredibile affinità di sensi, quella che portò il principe a dire, in una delle sue famose telefonate del 1989 (registrate) all’amante, «la sola cosa che voglio è stare con te, tutt’intorno a te, sopra e sotto dentro e fuori, soprattutto dentro e fuori…».
Negli ultimi anni Camilla ha lavorato molto sulla sua immagine, ha cercato in tutti i modi apparire rassicurante, di farsi amare dal popolo britannico che a lungo l’ha considerata «colei che aveva fatto soffrire la principessa Diana». Ma gli sforzi non hanno potuto cancellare del tutto il passato. Secondo un recente sondaggio del Daily Express, infatti, oltre sessanta intervistati su cento hanno dichiarato che «Camilla non deve essere regina».
LEGGI ANCHEQuando lady Diana e Camilla Parker Bowles erano amicheLEGGI ANCHEQuel braccialetto che prima delle nozze svelò a Diana l'amore di Carlo per CamillaLEGGI ANCHEQuando il principe Carlo fu interrogato (in gran segreto) sulla morte di DianaMeghan e Harry vogliono battezzare Lilibet a Windsor (davanti alla regina Elisabetta)
Harry e Meghan Markle sul battesimo di Lilibet Diana, loro seconda figlia, la prima nata in America, hanno le idee chiare: vogliono che sia battezzata a Windsor davanti alla regina Elisabetta, di cui porta il nome più intimo. Nonostante le critiche degli ultimi mesi, le accuse per niente velate di razzismo e di far crescere i propri membri circondati da «dolore e sofferenza genetici», i Sussex vorrebbero battezzare la sorella come è già stato per il primogenito Archie, venuto al mondo a Londra nel 2019, prima della Megxit. L’esperto di reali Richard Eden ne è convinto. «Vogliono una cerimonia reale», le parole di una fonte vicina alla coppia.
Secondo questa ricostruzione, Harry avrebbe annunciato le sue intenzioni e quelle della moglie durante l’ultima visita londinese per l’inaugurazione della statua della principessa Diana lo scorso primo luglio. «Harry l’ha detto a diverse persone che vogliono far battezzare Lili a Windsor, proprio come suo fratello», ha rivelato l’insider al Daily Mail, «Sono felici di aspettare che le circostanze lo permettano».
Intanto dopo la nascita della secondogenita, Harry e Meghan si sono ufficialmente presi un break dal lavoro: «Mentre il duca e la duchessa sono in congedo parentale, Archewell continuerà il suo importante lavoro e porterà avanti i suoi progetti», si legge sul sito della Fondazione. Secondo People, i Sussex avranno a disposizione 20 settimane, in linea con la policy di Archewell. Ma, salvo sorprese dell’ultimo minuto (e considerate le restrizioni anti-coronavirus ancora in vigore), la coppia e i due figli piccoli, Archie e Lilibet Diana, non si sposteranno da Los Angeles: «Potranno stare insieme», si legge. «È probabile che passeranno molto tempo all’aria aperta in zona Montecito».
La visita a Londra sarebbe quindi rimandata, magari al prossimo settembre. Secondo il Sun, l’intera famiglia avrebbe intenzione di far tappa nel Regno Unito anche per un omaggio alla compianta principessa Diana. Stando a quanto rivelato dal Sun, infatti, il principe Harry avrebbe in programma di tornare in Inghilterra tra circa due mesi per un altro evento in memoria dell’adorata mamma, dopo la recente cerimonia privata per l’inaugurazione della statua. E potrebbe essere l’occasione giusta anche per battezzare Lilibet.
Per Meghan sarebbe la prima visita a Londra da quando lei e Harry hanno abbandonato i ruoli ufficiali da reali senior. L’ultimo impegno insieme da reali è stato il 9 marzo 2020, per il Commonwealth Day Service presso Westminster Abbey prima di tornare alla loro nuova vita. L’ex attrice poi è sempre rimasta a Santa Barbara.
Gli esperti reali, intanto, fanno notare che sei settimane dopo la nascita di Lili, non le è ancora stato assegnato – sul sito ufficiale di Buckingham Palace – l’ottavo posto nella linea di successione al trono che le spetta. È probabile che l’elenco verrà aggiornato dopo il battesimo. Lili così farà scivolare il principe Andrea, figlio di Elisabetta e Filippo, al nono posto.
LEGGI ANCHELa grande gaffe di Meghan MarkleLEGGI ANCHEHarry a settembre torna a Londra, forse pure con MeghanCannes 2021, Tenderstories e il dinner esclusivo in onore di Marco Bellocchio
Una serata speciale per il Maestro. Si è tenuta a Cannes l’esclusiva cena organizzata da Tenderstories in onore del grande cineasta Marco Bellocchio, che ha presentato in anteprima mondiale il suo nuovo film Marx può aspettare.
L’evento si è svolto sulla spiaggia della Croisette, da Bfire , dove gli ospiti hanno gustati le pietanze del tre stelle Michelin Mauro Colagreco. Presenti alla cena oltre a Marco Bellocchio e a Francesca Calvelli, il presidente di Tendercapital Moreno Zani e Stefania Cuzzeri, l’amministratore delegato di Tenderstories Malcom Pagani, l’amministratore delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco, Simone Gattoni, Valeria Golino, Mia Maestro, Paolo Sorrentino e la moglie Daniela d’Antonio, Mathilde Pinault e Pierre-Henri Morin.
Il 17 luglio, all’interno della cerimonia di premiazione della 74^ edizione del Festival di Cannes, Marco Bellocchio riceverà la Palma d’oro d’onore per la sua straordinaria opera.
Foto: Matteo Carassale
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Nato asfittico e cresciuto con il latte artificiale. Battezzato tre volte per una madre ossessionata dall’inferno. Insicuro, confuso e incapace di chiedere aiuto ai fratelli. Camillo è l’angelo di famiglia e il fantasma con cui Marco Bellocchio ha fatto i conti tutta la vita. Ora finisce al centro di una grande seduta psicanalitica che vede il regista presente anche nella veste di fratello e burattinaio a muovere i fili dello spazio e del tempo.
Marco Bellocchio è il fiore all’occhiello di questa settantaquattresima edizione del Festival di Cannes, e a stabilirlo non è solo il toccante Marx può aspettare, nelle sale italiane in contemporanea con l’anteprima mondiale come proiezione speciale sulla Croisette. Da vero mattatore, in tre giorni il regista ha inanellato anche una masterclass durata due ore e mezza (invece dei sessanta minuti previsti) e oggi riceverà da Thierry Fremaux un riconoscimento prestigioso come la Palma d’Oro d’onore, prima di lui assegnata solo a Clint Eastwood, Manuel De Oliveira, Francis Ford Coppola e Bernardo Bertolucci.
Significativo che arrivi con questo sorprendente j’accuse di famiglia, questa rivisitazione della storia con la esse maiuscola intrecciata alla storia della piccola comunità dei Bellocchio. Una portentosa spallata al perbenismo e all’immagine perfetta, con la scoperta di un rigore che è pari solo alla fatica di vivere di tutti i suoi membri. Soprattutto di Camillo, il gemello di Marco che si è tolto la vita il 27 dicembre del 1968. Un uomo chiuso nella propria tristezza, nel confronto con i fratelli – che rispetto a lui ce l’avevano fatta – e con l’amore per una donna che non si capisce se lo rendeva felice o contribuiva a farlo sprofondare nell’abisso della distanza. Si aggiungono all’affresco anche padre Virgilio Fantuzzi, gesuita e critico cinematografico scomparso nel 2019, e lo psichiatra Luigi Cancrini, a rappresentanza dei due binari della vita di Marco: la pazzia e la formazione cattolica, entrambi qualcosa da cui cerca, da sempre, di allontanarsi.
Un gesto coraggioso, quello di mettere in scena tutti i superstiti e conoscere le loro ragioni.
«Ho capito che se non si svelavano certe cose nel profondo, la mia salute mentale e la guarigione sarebbero state una chimera. Questo film è una lunga seduta con me stesso, in cui ho capito più profondamente l’essenza della storia di mio fratello della nostra famiglia».
Dopo cinquant’anni cosa l’ha spinta verso un’indagine cinematografica così personale e potente?
«Non è stata l’idea di una mattina, ma un processo lungo cinque anni. Il primo passo è stato un pranzo a Piacenza al Circolo dell’Unione fondato da mio padre, scelto per festeggiare vari compleanni».
È la scena d’apertura del film
«A un certo punto mio nipote, Francesco, parla di suo padre e di Camillo, definendolo un “angelo”. Ho capito che sarebbe stata l’ultima occasione per scavare, scoprire, riconoscere qualcosa che non è stata solo una tragedia di un uomo sfortunato».
Ma un’insensibilità collettiva
«Collettiva ma in modi diversi, come eravamo diversi noi fratelli, Tonino, Alberto, Giorgio ed io. Includo anche mia madre, mentre tengo fuori le mie sorelle, che credo siano delle vittime».
Nel suo L’Ora di religione fa dire a Castellitto “perché mia madre è stupida”.
«Oggi non lo direi, ha avuto una vita terribile in cui si è affaticata, non ha mai vissuto una gioia vera pur essendo sempre vissuta nella comodità. Questo annullamento, questo non vedere e soprattutto non capire…».
Capire sembra una fissazione per lei: con questo film ha fatto esperienza della differenza che c’è fra capire e sentire?
«Per questo film uso la parola capire intendendo sentire. La sofferenza e gli abissi interiori di Camillo sono stati molto sottovalutati, di lui si è detto “è insegnante di educazione fisica, ha il posto fisso, ce l’ha fatta”. Nessuno lo ha capito, né sentito in profondità».
Le cose non sono semplici, in questi casi.
«Basta pensare a cosa si sente dire in tv davanti ai pluriassassini, “era una persona normale…”. La normalità è difficile da stabilire, un giovane che accoltella una ragazza spesso è un fulmine a ciel sereno».
È stata scomoda la parte del fratello invidiato?
«Sì, ma ho sempre messo in conto la mia vita, che non era assolutamente felice nonostante avessi risultati rilevanti sul piano dell’identità personale. E poi Camillo era un ragazzo capriccioso, si lamentava, e ammetto di aver sempre pensato che quella fine fosse troppo grande, o grandiosa, per uno come lui. Poi ci ripenso, e il suo rapporto con le donne aveva delle ombre. Nel biglietto lasciato prima di suicidarsi ha scritto “ho fallito anche in amore”».
Una lettera che un altro fratello ha distrutto perché, sotto processo per tutt’altri motivi, era spaventato che potesse nuocergli in qualche modo. I suoi figli, Pier Giorgio ed Elena, guardano allibiti questa verità…
«Mi hanno fatto capire la gravità di quel gesto, quel non conservare tracce. Ricordavo solo una frase, quella che citavo prima sulle donne e quella con cui Camillo chiede di portargli un fiore, quando si passa dal cimitero di Bobbio. Elena continuava a ripetere, “ma come avete fatto”?, mio fratello cerca di giustificarsi ma non è possibile».
Voi fratelli eravate tutti troppo impegnati con voi stessi per “vedere” Camillo: cosa l’ha resa una persona infelice? «
(abbassa il volume della voce, ndr) «Il non saper vivere, una modestia nei rapporti con gli altri. C’è qualcosa che manca, su cui non voglio dare giudizi morali. Il terribile personaggio di I pugni in tasca, che poi è stato definito una specie di rivoluzionario, era uno che voleva stare nella sua casa, voleva comandare eliminando le persone inutili. Una specie di criptonazista».
La ricostruzione di queste vicende è una specie di percorso emotivo che rende evidente un altro aspetto: i suoi film sono sempre stati il suo modo di dirci “vi rendete conto di quello che sto vivendo”?
«Questa è la traccia di una bella conversazione con un analista».
Ha definito questo film “libero”.
«Di solito anche nelle cose più riuscite mi rimprovero un limite di libertà. È come se tutto tendesse a chiudersi, a rappresentarsi in modo classico».
Nonostante lei abbia lasciato la provincia, Piacenza, per Roma?
«Sì, anche se nella mia storia hanno contato molte tappe di rottura con il passato, come la politica, e poi l’introspezione analitica. Ho fatto una scelta radicale che non rinnego».
Spieghi.
«Volevo uno scossone, non mi bastava sdraiarmi su un lettino. Cercavo qualcosa di più forte e in un certo senso l’ho avuto, prendendomi dei rischi. La mia carriera è stata segnata, ho dissipato tutto per motivi politici. A un certo punto ho detto a mio fratello “devo rinnovarmi, rifiuto la mia identità borghese”».
Credeva in queste parole?
«Sul momento sì, poi ho capito che era sbagliato cancellare una mia identità che andava invece rielaborata. Se vai per poco tempo con i maoisti loro ti dicono che servire il popolo significa che devi spazzar via la tua cultura, e che devi andare alla scuola del popolo e del partito che lo rappresenta. Essere stonati con la propria storia passata ha una sua logica, però poco alla volta ho capito che erano parole. Non era come la rivoluzione culturale, eravamo in Italia e io ho sempre cercato di traccheggiare. Ricordo che per quel poco tempo in cui son stato nell’Unione dei comunisti marxisti leninisti dovevo donare i miei beni materiali al popolo. Ho dato parte dei miei stipendi, ma c’era chi ha venduto la propria casa. Per fortuna occorreva molto tempo per la burocrazia, e i danni materiali sono stati contenuti».
Oggi consiglierebbe l’analisi a un giovane che soffre?
«Per un po’ ho seguito quella freudiana, non dico che non faccia nulla però per me manca qualcosa. Quando ho cavalcato la grande esperienza dell’analisi collettiva, lasciando quella individuale, ho trovato risposte più profonde sulla mia vita, attraverso l’interpretazione dei sogni e l’esperienza eretica dell’analista di cui ero amico e con cui c’è stato un momento di lavoro insieme. È stato visto come un danneggiamento irreparabile, ma non lo è stato».
Danneggiamento?
«Dicevano che inculcarmi una serie di immagini che non erano mie rovinava la mia identità. Può essere accettabile su certi passaggi, ma poco alla volta ho ripreso la mia esperienza».
Questa religiosità pesante e incombente è stata solo un mezzo per cercare di aiutare vostra madre?
«Ho avuto la fede e ho praticato per un tempo piuttosto limitato. Ma la mentalità che la religione ha formato è ancora dentro di me. Anche quel modo delicato, discreto di trattare gli altri, di compatirli, di sentirsi più fortunati».
Gli aspetti negativi?
«Da bambino la peste dei Promessi Sposi mi terrorizzava più del normale, l’idea che quella morte potesse arrivare anche a noi».
Non sarà questa educazione a rappresentare quel senso di chiusura degli orizzonti a cui accennava prima e che la perseguita?
«Mi sono chiesto da dove nascesse la bestemmia di L’ora di religione, compatita dal fratello più fortunato. È una furia, una rabbia contro l’ipocrisia, qualcosa che ci è stato inculcato e che non era vero».
In Marx può aspettare sua sorella Letizia dice che vorrebbe vedere i parenti radunati, non dio.
«È piuttosto pagana. E per la prima volta, a novant’anni e sordomuta, ha voluto parlare. Una novità assoluta, ha anche detto cose spiritose e profonde».
Lei chi vorrebbe rivedere, potendo?
«Mi piacerebbe rivedere mio fratello, e la fine del film lo indica. È l’unica finzione, quell’attore che indossa la stessa tuta che indossava Camillo».
Cosa gli direbbe, se potesse rincontrarlo?
«Qui entriamo nella dimensione poetica, come quando Pascoli immagina di incontrare sua madre. Per ora sono arrivato fino a qui, adesso vediamo dove andrò».
A che punto sono le riprese di Esterno Notte?
«Stiamo per concludere questa serie sul rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, in qualche modo il contro campo di Buongiorno notte, tutto ambientato all’esterno della tragedia. Per me è una prima esperienza, poi vedremo, ci sono in ballo dei film che però…».
Però?
«Credo anche se si ha una certa età non si deve avere fretta. Ho colleghi che si buttano perché sentono la vita che sfugge, io preferisco fare quello che posso e farlo bene».
July 16, 2021
Raccolta differenziata, 6 etichette su 10 non dicono la verità
Si fa presto a dire: «Occhio all’etichetta». Se questa però non dice la verità come si fa? EconomiaCircolare.com e l’app Junker hanno fatto un esperimento per verificare quanto siano chiare le informazioni su composizione e riciclabilità che si trovano nelle etichette dei prodotti. Ne è venuto fuori che c’è ancora molta confusione e che non è sempre facile capire se un materiale va nella plastica, fra la carta oppure è indifferenziato. Secondo la ricerca in 6 casi su 10 quello che dicono le etichette non è corretto.
Questo il risultato sulle 90 etichette esaminate secondo quanto si legge su EconomiaCircolare.com: «10 sono risultate non corrette, 37 incomplete, 7 non riportano alcuna indicazione e 36 sono corrette. Solo il 40% delle indicazioni, quindi, può considerarsi pienamente efficace e facilmente comprensibile dagli utenti».
A creare confusione sono le etichette: ce ne sono di diverse per lo stesso prodotto, per esempio la carta, ce ne sono con una grafica che non è chiara. I tecnici di Junker lo hanno rilevato su diversi dei prodotti analizzati. Non c’è nemmeno una uniformità in base ai colori indicati dalla Ue per i diversi prodotti. Non dappertutto la carta è blu e la plastica gialla nella codifica di differenziazione.
Per molti consumatori non è chiaro il codice che identifica il materiale. Per la carta è facile comprende un disegno con la scritta. Molto meno semplice identificare il triangolo composto di tre frecce con gli angoli curvi, un numero e una sigla. Non sempre poi un codice che indica la carta abbia via di riciclo come tutte le altre: la carta forno, per esempio, non è riciclabile come quella da giornale.
Troppo generica, secondo chi ha fatto l’indagine, la richiesta che è su molti imballaggi, quella che dice di rivolgersi al proprio comune per la modalità di smaltimento. Di regione in regione poi spesso cambiano le forme di differenziazione: in alcuni comuni il tubetto del dentifricio non va nella plastica perché ha dei residui, in altri invece sì. Esiste un decreto legislativo del 2020 che recepisce le direttive europee sui rifiuti. Per ora è obbligatorio indicare la tipologia dei materiali con i codici che li identificano. L’obbligo di riportare le indicazioni per il consumatore finale è sospeso fino al 2022, ma da gennaio arriverà.
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