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Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sí o per un no. Considerate se questa è una donna, Senza capelli e senza nome Senza piú forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi
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A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, piú o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo piú questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.
ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato.
L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci.
Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conclusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, cosí vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case.
Tutti scoprono, piú o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito.
Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, cosí distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza.
Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini cap...
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Soffrivamo per la sete e il freddo: a tutte le fermate chiedevamo acqua a gran voce, o almeno un pugno di neve, ma raramente fummo uditi;
barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli.
Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottí, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di piú di cinquecento, non uno era vivo due giorni piú tardi.

