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originario mestiere di marinaio.
viaggio compiuto da Conrad, nel 1890, nel cuore dellʼAfrica, risalendo il fiume Congo a bordo del vaporetto Roi de Belges. Gran parte dei personaggi che si incroceranno nel testo sono i ritratti quasi letterali di uomini incontrati in quel viaggio.
Guardammo quel venerabile fiume, non nel vivido rigoglio di una breve giornata che arriva e scompare per sempre, ma nella luce augusta di memorie persistenti.
In effetti, per un uomo che ha, se vogliamo usare una frase fatta, “dedicato la vita al mare”, con devozione e con affetto, non cʼè niente di più naturale che evocare su questi ultimi tratti del Tamigi il grande spirito del passato. La corrente di marea fluisce e rifluisce in unʼattività incessante, affollata dei ricordi degli uomini e delle navi che ha riportato al riposo del paese natio o alle battaglie del mare.
Era un marinaio, ma era anche un girovago, mentre i marinai in genere conducono, se così si può dire, una vita sedentaria. Hanno una mentalità casalinga, e la casa - la nave - se la portano sempre dietro; e con essa il loro paese - il mare. Ogni nave assomiglia moltissimo a tutte le altre e il mare è sempre lo stesso. Nellʼimmutabilità del loro ambiente, le terre straniere, le facce straniere, lʼimmensità mutevole della vita, scivolano via, velate non da un senso di mistero ma da unʼignoranza un poʼ sprezzante; perché per un marinaio non cʼè niente che sia misterioso tranne il mare, che è
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Per il resto, dopo lʼorario di lavoro, una passeggiata o un poʼ di bisboccia a terra ogni tanto bastano a svelargli il segreto di tutto un continente, e sʼaccorge in genere che quel segreto non valeva la pena conoscerlo. I racconti dei marinai hanno una semplicità diretta, il loro significato sta tutto nel guscio di una noce schiacciata.
Ma Marlow non era tipico (se non nella tendenza a spararle grosse) e per lui il significato di un episodio non era dentro, come un gheriglio, ma fuori, e avviluppava il racconto che lo rivelava come la luce rivela una foschia, come accade per quegli aloni b...
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Erano abbastanza uomini per affrontare le tenebre.
tutta quella vita misteriosa che si agita nella foresta, nelle giungle, nel cuore dei primitivi. Non esiste iniziazione a questi misteri. È costretto a vivere nel cuore dellʼincomprensibile, che è anche detestabile. E ha un fascino, che comincia ad agire su di lui. Il fascino dellʼorrore, capite – e immaginate i rimpianti sempre più intensi, il desiderio di fuggire, il disgusto impotente, la resa, lʼodio.”
la forza è solo un accidente derivato dalla debolezza di altri.
“Certo a questo punto non era più uno spazio vuoto. Si era riempito, dopo la mia adolescenza, di fiumi e laghi e nomi. Aveva cessato di essere uno spazio squisitamente misterioso – una macchia bianca su cui un ragazzo poteva sognare la gloria. Era divenuto un luogo di tenebra. Cʼera però un fiume soprattutto, un fiume grande e possente, simile a un immenso rettile, con la testa nel mare, il corpo a riposo che si curva lontano in una campagna sterminata e la coda sperduta nelle profondità del paese.
Mi guardò da sopra le lenti. La placidità sbrigativa e distaccata di quellʼocchiata mi turbò.
Spesso laggiù ripensai alle due donne che montavano la guardia alla porta delle Tenebre, lavorando la lana nera come per farne un caldo drappo funebre, lʼuna facendo entrare, facendo continuamente entrare, nellʼignoto, lʼaltra scrutando i volti gai e stupidi con i suoi vecchi occhi disinteressati. Ave! vecchia sferruzzatrice di lana nera. Morituri te salutant. Non molti di quelli che lei guardò la rividero – meno della metà, molto meno.
per un secondo o due, mi sentii come se, anziché andare al centro di un continente, mi accingessi a partire per il centro della terra.
guardare da una nave la costa che scivola via è come riflettere su un enigma. Se ne sta lì davanti a voi – sorridente, accigliata, invitante, grandiosa, squallida, insipida o selvaggia, ma sempre muta e con lʼaria di sussurrare: ʽVieni a scoprirmiʼ.
La mia vita oziosa di passeggero, il mio isolamento fra tutti quegli uomini con cui non avevo alcun punto in comune, il mare oleoso e languido, la tetraggine uniforme della costa, sembravano tenermi lontano dalla realtà delle cose, prigioniero di una lugubre e dissennata illusione.
Gridavano e cantavano; i loro corpi grondavano sudore; avevano visi simili a maschere grottesche – questi uomini; ma avevano ossa, muscoli, una vitalità selvaggia, unʼintensa dinamica energia, autentica e naturale come la risacca lungo la loro costa. Non avevano bisogno di un pretesto per essere lì. Ed era un gran conforto guardarli.
In quella vuota immensità di terra, cielo e acqua, se ne stava lì, incomprensibile, a sparare su un continente.
Facemmo scalo in altri luoghi con nomi farseschi, dove la gaia danza della morte e del commercio proseguiva in unʼatmosfera immota e terrosa, come quella di una catacomba surriscaldata;
dentro e fuori dei fiumi, correnti di morte nella vita, le cui sponde marcivano nel fango, le cui acque condensate in melma invadevano le contorte mangrovie, che parevano dibattersi davanti a noi in un parossismo di impotente disperazione.
la sensazione generale di un vago e opprimente stupore diventava per me sempre più forte. Era come un faticoso pellegrinaggio fra tracce di incubi.
ci voleva una bella fantasia per chiamare nemici questi uomini. Li avevano definiti criminali e la legge oltraggiata, come le granate esplosive, era piombata loro addosso, mistero incomprensibile venuto dal mare.
Ho visto il demone della violenza e il demone dellʼavidità e il demone del desiderio ardente; ma, per tutte le stelle! quelli erano demoni forti, gagliardi, con gli occhi infocati, che dominavano e guidavano uomini – uomini, vi dico. Ma sul pendio di quella collina intuii che nel sole accecante di questo paese avrei conosciuto il demone flaccido, pretenzioso e miope di una follia rapace e spietata.
Era mia intenzione passeggiare per un poʼ allʼombra; ma appena lì mi parve di aver messo piede nel cerchio tenebroso di qualche inferno. Le rapide erano vicine, e un rumore ininterrotto, monotono, precipitoso, veemente, riempiva di un suono misterioso la lugubre quiete del boschetto, dove non alitavano brezze né si muovevano foglie – come se improvvisamente fosse diventata udibile la tremenda velocità della terra lanciata nello spazio.
“Stavano morendo adagio adagio – era chiarissimo. Non erano nemici, non erano criminali, non erano più niente di terrestre – soltanto ombre nere di malattia e di fame, che giacevano alla rinfusa in quella penombra verdastra.
Sissignori: rispettavo i suoi colletti, i suoi grandi polsini, i suoi capelli spazzolati. Aveva sicuramente lʼaria di un manichino da parrucchiere; ma nel grande avvilimento di quella regione continuava a tenere al proprio aspetto. Ciò significa avere spina dorsale. I colletti inamidati e i rigidi sparati delle camicie erano dimostrazioni di carattere.
ʽQuando uno deve fare delle registrazioni corrette, finisce per odiarli questi selvaggi – per odiarli a morteʼ.
una solitudine, una solitudine, non una persona, non una capanna. La popolazione se nʼera andata da tempo. Beʼ, se una masnada di negri misteriosi muniti di armi letali dʼogni genere si mettesse improvvisamente a percorrere la strada tra Deal e Gravesend, impadronendosi dei contadini e costringendoli a portare per loro pesanti fardelli, ho lʼimpressione che anche da quelle parti fattorie e villini si svuoterebbero molto in fretta.
Cʼè qualcosa di pateticamente infantile nei ruderi di muri dʼerba.
cʼera soltanto una vaga indefinibile espressione delle labbra, qualcosa di furtivo – un sorriso – no, non un sorriso – lo ricordo, ma non so spiegarlo. Era un sorriso inconsapevole e, dopo che lui aveva detto qualcosa, sʼintensificava per un attimo. Compariva al termine di ogni suo discorso come un sigillo che rendeva assolutamente impenetrabile il significato della più comune delle frasi.
ʽGli uomini che vengono quaggiù non dovrebbero avere viscereʼ. E sigillò questa dichiarazione con quel suo sorriso, come una porta che si apriva su un buio affidato alla sua custodia. Ti pareva di aver visto delle cose – ma il sigillo era stato impresso.
osservavo la stazione e gli uomini che vagavano senza meta nel cortile assolato. Mi chiedevo che cosa significasse tutto questo. Vagavano qua e là con quegli assurdi bastoni lunghi in mano, come un gruppo di pellegrini infedeli bloccati da qualche malia entro uno steccato in putrefazione. La parola ʽavorioʼ risonava nellʼaria, la sussurravano, la sospiravano. Si poteva credere che la stessero pregando. Soffiava su tutto un tanfo di cupidigia imbecille, come una zaffata proveniente da un cadavere. Per Giove! Non avevo mai visto niente di così irreale in vita mia. E fuori, la foresta silenziosa
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questo giovane aristocratico aveva non soltanto un nécessaire da viaggio in argento, ma anche una candela tutta per sé. E in quel periodo, ufficialmente soltanto il direttore aveva diritto alle candele.
Cʼera in quella stazione un clima di congiura, che naturalmente non portava a nulla. Era irreale come tutto il resto – come le pretese filantropiche dellʼintera operazione, come i loro discorsi, come il loro governo, come il loro far finta di lavorare. Lʼunico sentimento reale era il desiderio di farsi affidare una base commerciale dove ci fosse lʼavorio e dove fosse possibile intascare provvigioni. Intrigavano, e si calunniavano e si odiavano a vicenda soltanto per questo – ma in quanto ad alzare anche soltanto un dito – oh, no!
attraverso quel vago trambusto, attraverso i fievoli suoni dello sciagurato cortile, il silenzio della terra ti arrivava al cuore – il suo mistero, la sua grandezza, la stupefacente realtà della sua vita segreta.
Mi domandai se la quiete sul volto dellʼimmensità che ci stava guardando volesse essere un appello o una minaccia. Cosʼeravamo noi che eravamo finiti lì? Avremmo saputo maneggiare quella cosa muta, o sarebbe stata lei a manipolarci?
Cʼè nelle bugie un tocco di morte, un sapore di mortalità – che è esattamente ciò che odio e detesto al mondo – ciò che voglio dimenticare. Mi deprime e mi nausea, come se addentassi qualcosa di marcio.
Per me era soltanto una parola. Non vedevo nel suo nome quellʼuomo più di quanto lo vediate voi. E voi lo vedete? Vedete la sua storia? Vedete qualcosa? Mi sento come se cercassi di raccontarvi un sogno, e sarebbe un tentativo inutile perché nessun resoconto di un sogno può trasmettere la sensazione che nel sogno si prova, quella mescolanza di assurdità, di sorpresa e di smarrimento, in un fremito di spasmodica rivolta, quellʼimpressione di essere prigionieri dellʼincredibile che è lʼessenza stessa dei sogni...”
Rimase un attimo in silenzio. ”... No, è impossibile; è impossibile trasmettere la sensazione di vita di una qualsiasi epoca della propria esistenza – ciò che ne costituisce la verità, il significato – lʼessenza sottile e penetrante. È impossibile. Viviamo come in sogno... soli...”
Ascoltavo. Ascoltavo attento a non lasciarmi sfuggire la frase, la parola, che mi avrebbe permesso di capire il vago disagio prodotto da quella narrazione che pareva prender forma senza labbra umane nella pesante aria notturna del fiume.
No, non mi piace lavorare. Avrei preferito poltrire e pensare a tutte le belle cose che si possono fare. Non mi piace lavorare – non piace a nessuno – ma mi piace ciò che nel lavoro è insito – la possibilità di trovare te stesso. La tua realtà – per te, non per gli altri – ciò che nessun altro uomo potrà mai sapere. Loro vedono soltanto lʼapparenza e non sono mai in grado di capire che cosa realmente significhi.
Ci fermammo e il silenzio, scacciato dal pestare dei nostri piedi, rifluì dai recessi del paesaggio. La grande muraglia della vegetazione, una massa esuberante e ingarbugliata di tronchi, rami, foglie, frasche, festoni, immobile al chiaro di luna, era come una tumultuosa invasione di vita senza suono, unʼondata travolgente di piante che sʼaccumulava e si sollevava, pronta a rovesciarsi sullʼinsenatura e a spazzar via ognuno di noi, piccoli uomini, dalla nostra piccola esistenza. Ma non si muoveva.
“Risalire quel fiume era come viaggiare indietro nel tempo sino ai più lontani albori del mondo, quando la vegetazione cresceva sfrenata sulla terra e i grandi alberi erano re. Un corso dʼacqua deserto, un grande silenzio e una foresta impenetrabile. Lʼaria era calda, densa, opprimente, stagnante. Non cʼera gioia nello splendore del sole.
su quel fiume perdevi lʼorientamento come in un deserto e incappavi per giornate intere nei bassifondi, alla ricerca del canale, finché non arrivavi a crederti stregato e tagliato fuori da tutto ciò che un tempo avevi conosciuto – da qualche parte – molto lontano – forse in unʼaltra esistenza. Cʼerano momenti in cui ti tornava in mente il passato, come succede a volte quando non hai un attimo libero da dedicare a te stesso; ma assumeva la forma di un sogno irrequieto e rumoroso, ricordato con stupore tra le realtà soffocanti di quello strano mondo di piante e acqua e silenzio. Ma questa
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quando dovete badare a cose di questo genere, ai piccoli incidenti che avvengono alla superficie, la realtà – la realtà, vi dico – si affievolisce. La verità interna si nasconde – per fortuna, per fortuna. Ma io la sentivo ugualmente; sentivo spesso la sua quiete misteriosa che guardava intenta i miei trucchetti,
abbrancato agli argini per difendersi dal fiume, quel sudicio battello si trascinava come un pigro scarafaggio che striscia sul pavimento di un nobile porticato. Ti sentivi piccolissimo e totalmente smarrito, eppure non era solo una sensazione sconfortante. Dopo tutto, anche se noi eravamo piccoli, quel lurido scarafaggio continuava a strisciare – ed era esattamente ciò che volevamo che facesse.
Stavamo vagando su una terra preistorica, su una terra che aveva ancora lʼaspetto di un pianeta sconosciuto. Potevamo immaginare di essere i primi uomini che prendevano possesso di unʼesecranda eredità, da soggiogare al prezzo di un tormento profondo e di fatiche eccessive.
Non potevamo capire, perché eravamo troppo lontani e non ricordavamo più nulla, perché stavamo viaggiando nella notte dei primi tempi, di quei tempi che sono scomparsi, e hanno lasciato ben pochi segni – e nessun ricordo.
ciò che ti faceva rabbrividire era proprio il pensiero che appartenessero allʼumanità – come voi – il pensiero di una tua remota parentela con questo frastuono selvaggio e appassionato. Brutto. Sì, era parecchio brutto; ma, se eri abbastanza uomo, dovevi confessare a te stesso che la sincerità spaventosa di quel rumore procurava in te un seppur vaghissimo riscontro, un confuso sospetto che racchiudesse un significato che tu – così lontano dalla notte dei tempi – potevi comprendere. E perché no? La mente dellʼuomo è capace di tutto – perché contiene tutto, il passato come il futuro.
Cosa cʼera lì, in fin dei conti? Gioia, paura, dolore, devozione, valore, collera – chi può dirlo? – ma anche verità - verità spogliata del manto del tempo.