E se tra loro ci fosse Sandro Pertini?

 


Protagonista di fughe rocambolesche, su motoscafi o per i monti, aiutato dai passeurs, dai contrabbandieri. Clandestino. Entrato illegalmente con un falso passaporto. Non era eritreo. Non era siriano. Eppure da Ventimiglia era passato. Si chiamava Sandro Pertini, e prima di essere presidente della Repubblica italiana si era fatto il carcere, il confino, l’esilio. Era stato detenuto – tra gli altri – nel carcere di Regina Coeli e in quello di Turi (dov’era imprigionato Antonio Gramsci). Era stato al confino a Ponza, e in esilio in Svizzera e in Francia. I tribunali fascisti lo avevano condannato anche all’ergastolo.


Se si fosse presentato a Lampedusa, in uno dei tanti sbarchi di questi anni e decenni, lo avrebbero considerato un delinquente. Era stato, invece, un prigioniero politico. Ed è per i tanti casi come quello di Sandro Pertini che i padri costituenti – tra i quali molti resistenti – erano stati così precisi nella protezione dello straniero, e nel caso specifico del rifugiato per motivi politici. L’articolo 10 della Costituzione lo si può comprendere a pieno solo se lo si inserisce in un percorso storico che ha visto la nostra Repubblica postbellica fondarsi su una classe dirigente formata dal dissenso, dall’opposizione, dall’esilio e dalla conseguente accoglienza fornita da paesi come Francia, Svizzera, Gran Bretagna, Stati Uniti e, pochi lo sanno, anche paesi come la Turchia.


Dice l’articolo 10:


“L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.


La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.


Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.


Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici”.


ventimiglia


L’immagine iconica degli scogli di Ventimiglia ricorda, alla mia generazione, il nostro legame con una storia di fuga. Non solo il nostro indissolubile legame con una storia di emigrazione. I due corni non sono scindibili, nel nostro dna. Né è scindibile, nel nostro percorso sociale e culturale collettivo, l’insieme dei modelli che ci hanno formato. Siamo stati educati, certo, a cantare Il Piave mormorava, a recitare Carducci e Pascoli, ma anche a leggere Primo Levi, grazie a una meravigliosa generazione di maestri della scuola pubblica. Immagini come quelle delle persone migranti piaggiate sugli scogli di Ventimiglia, che suscitano meno tenerezza di un balenottero piaggiato, sono per noi punizione e amarezza. Come se stessimo perdendo noi stessi. Ci siamo già persi. Li abbiamo già persi. L’ignavia e la codardia, l’ignoranza e la stupidità hanno già segnato in maniera indelebile il nostro futuro di europei. Attraverso questa e le tante altre istantanee della nostra discesa negli inferi. L’Uomo non lo riconosciamo più. Non siamo più gli stessi.


 


A salvarci, a noi sommersi dall’ignavia, ci sono ancora – nonostante tutto – le donne  e gli uomini di buona volontà che accorrono nelle stazioni, a Milano e a Roma, a portare accoglienza, cibo e assorbenti ai migranti. I cittadini, europei, italiani e francesi, che aiutano i migranti a Ventimiglia, a Nizza, in Sicilia, ovunque.


Non solo la buona volontà, però, ci salverà, se accanto all’accoglienza non riusciremo a recuperare la trasmissione dei modelli culturali ed etici tra le generazioni. Se nessuno più riuscirà a far tracciare subito, in automatico, ai propri figli il filo invisibile che lega i ragazzi eritrei in fuga dalla dittatura e da un servizio militare a tempo indeterminato a Sandro Pertini e ai suoi compagni. La Ventimiglia di oggi e quella di 70 anni fa. Il passaggio del confine, il viaggio della speranza, la fuga verso le libertà e lontano dalla morte. A Ventimiglia sono sicura c’è stato o ci passerà un Pertini, un Rosselli, Nenni o Saragat, Gramsci o Calamandrei, Matteotti, Tina Anselmi. Non li riconosciamo, ma magari sono lì sotto le coperte argentee, frutto dei nostri viaggi sulla Luna. C’è mio padre che venne a Roma dalla Calabria perché aveva fame. Ci sono i nostri minatori di Marcinelle.


La storia, le storie, la Storia sono la nostra ciambella di salvataggio. Sempre che qualcuno accorra a salvarci, nonostante le nostre colpe, la nostra strategia economica in Africa, i nostri affari con i dittatori, i nostri nasi turati.

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Published on June 15, 2015 09:20
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